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L’insegnamento e l’esperienza nell’acquisizione della phronesis

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 145-152)

IV. Phronesis ed esperienza

2. L’insegnamento e l’esperienza nell’acquisizione della phronesis

Nicomachea, in cui vengono specificamente trattati i modi in cui la saggezza, nelle sue diverse forme può essere acquisita.

In apertura del capitolo Aristotele riassume il percorso che ha fino a quel momento compiuto, confermando il carattere necessariamente approssimativo della sua trattazione, dipendente dalla natura pratica dell’indagine etica su cui ha insistito già all’inizio del trattato75.

In conclusione, dal momento che abbiamo detto abbastanza, per grandi linee (tois typois), sia su questi temi sia sulle virtù, nonché riguardo ad amicizia e piacere, dobbiamo credere che il nostro intento sia giunto alla sua realizzazione? Oppure, come si suol dire, nel campo dell’agire le realizzazione non consiste nel conoscere teoricamente ogni aspetto, ma piuttosto nel metterlo in pratica? E quindi, riguardo alle virtù, non è sufficiente conoscerle, ma dobbiamo sforzarci di possederle e di farne uso, o

75 «ci si deve accontentare se, trattando di tali argomenti e a partire da tali prem esse,

la verità viene mostrata solo approssimativamente e a grandi linee » EN I 1, 1094b16- 20.

di sapere se in qualche altro modo possiamo diventare buoni. (EN X 10, 1179a33-1179b4)

Qui Aristotele ribadisce anche che lo scopo principale della riflessione etica non è realizzare una conoscenza teorica, ma imparare ad agire virtuosamente, come aveva annunciato pure nel primo capitolo del trattato, e spesso poi ripetuto: «infatti il nostro fine non è la conoscenza (gnosis), ma l’agire (praxis)» (I 1, 1095a5-6).

L’obiettivo si conferma dunque come quello di realizzare le virtù, e per farlo non basta conoscerle, ma occorre anche sforzarci (peirateon) di possederle e soprattutto di «farne uso» (chresthai).

Ora, considerato che la saggezza si sviluppa grazie all’esperienza, Aristotele riflette sull’utilità e l’efficienza che i discorsi (logoi) possano avere nel processo dell’acquisizione della virtù, osservando che a tal proposito le cose stanno diversamente per la massa e per coloro che sono naturalmente predisposti alla virtù. Se, cioè, per chi è già buono per indole i discorsi risultano più che utili perché «rafforzano» e «incoraggiano» tale predisposizione, per la massa sono insufficienti e del tutto inutili.

Ora, se i discorsi fossero sufficienti a renderci persone per bene «farebbero di certo affari d’oro» come dice Teognide, e dovremmo procurarceli; in realtà è chiaro che i discorsi conducono i giovani di animo generoso a rafforzare la propria disposizione, e li incoraggiano, rendono un carattere nobile e

veramente amante del bello adatto ad ospitare la virtù, ma non hanno la capacità di condurre la massa all’eccellenza morale. (X 10, 1179b4-10)

La ragione di tale diversità sta nel fatto che i più non agiscono in base a una buona disposizione, ma sono spinti dalle passioni: essi non sono educati, come lo è lo spoudaios, a provare piacere per ciò che è nobile e vergogna per ciò che è turpe76, ma agiscono solo in base alla paura che le pene previste dalle leggi (nomoi) provocano in loro. I discorsi di natura etica da soli, dunque, non basterebbero a rendere tali uomini virtuosi, i quali non sono educati alla virtù.

La natura della massa non la porta a ubbidire alla vergogna, ma alla paura, e a tenersi lontana dalle azioni malvagie non perché siano turpi, ma per non essere punita. La gente vivendo sotto il dominio della passione, persegue i propri piaceri e i mezzi che li realizzano, sfugge i dolori contrapposti, ma non ha una vera nozione del bello e del vero piacere, dato che non è capace di gustarli. E quindi, quale discorso potrebbe convertire mai gente simile? Non è possibile, o almeno non è facile, modificare abitudini che il carattere ha assunto da lungo tempo, solo con i discorsi. (X 10, 1179b 10-17)

Ci sono dunque molti modi in cui si può diventare virtuosi, ma è necessario in ogni caso avere una predisposizione a provare piacere in modo corretto, che sia dato da un’indole naturale o dall’abitudine al ripetuto esercizio virtuoso.

Si ritiene che la gente diventi buona, chi per natura, chi per carattere, chi per insegnamento; ora, è chiaro che non dipende da noi che ci appartengano le doti naturali, esse derivano da qualche causa divina per coloro che sono davvero privilegiati. (1179b20-23)

Della predisposizione data «per natura» (physei) ad essere virtuosi che non dipende da noi, Aristotele tratta a lungo nell’Etica Eudemia là dove affronta il tema delle qualità naturali in relazione all’essere fortunati. In tale sede viene sottolineato, addirittura, che coloro che si trovano ad avere una certa indole naturale virtuosa agiscono in modo irrazionale e non per saggezza: essi non sono, infatti, in grado di spiegare per quali motivi hanno agito in un determinato modo.

Oggi infatti si pensa che alcuni siano [fortunati] per natura: ora, la natura dà certe qualità determinate e gli uomini differiscono subito fin dalla nascita, proprio come alcuni hanno gli occhi chiari, altri scuri, perché devono avere una certa qualità <per il fatto di avere una certa natura>; così anche i fortunati e gli sfortunati.

Infatti è evidente che la loro riuscita non dipende dalla saggezza; la saggezza non è infatti irrazionale, ma sa dar ragione del perché agisce nel tal modo, mentre costoro non saprebbero dire per qual motivo riescono bene (questa sarebbe infatti conoscenza tecnica); inoltre è manifesto che son o privi di discernimento, non però in altri campi […], ma sono privi di giudizio proprio nelle cose in cui riescono bene. (EE VIII, 1247a9-21)

In ogni caso, nel quadro dell’ultimo capitolo dell’Etica Nicomachea, coloro che non godono di questa qualità naturale, devono acquisire le virtù tramite il ragionamento e l’insegnamento, anche se si ammette che non sempre questo è sufficiente.

Il ragionamento, poi, e l’insegnamento probabilmente non hanno effetto in tutti i casi, ma l’anima del discepolo deve essere esercitata attraverso i propri costumi a provare godimento e disgusto in modo corretto, come fa la terra fecondata dal seme. Chi vive secondo la passione non ascolterà, e non comprenderà nemmeno, un discorso tendente a distoglierlo: e chi vive in questo modo come potrà mai essere in grado di migliorarsi? In generale la passione non si lascia domare dal ragionamento, ma dalla forza. Quindi deve già essere presente un carattere in qualche modo predisposto alla virtù, che ama il bello e disprezza il turpe. (1179b20-31)

Qui Aristotele torna a sottolineare l’importanza della formazione virtuosa di cui aveva trattato nel II libro, ripetendo che non solo i giovani non possono essere saggi, ma anche gli immaturi di carattere (1095a4ss.)77, ecco perché anche qui afferma che si deve fin dall’infanzia acquisire l’abitudine a compiere atti virtuosi, ed essere educati a provare piacere per il fatto di compierli. (II 1, 1103b10-17; II 2, 1104b11-13).

77 Cfr. Il problema relativo all’impossibilità per i giovani e gli immaturi di essere

Già in tale sede inoltre Aristotele aggiunge la precisazione che un tale tipo di formazione deve essere comunque affiancato e sostenuto da leggi (nomoi) che lo favoriscano: «infatti i legislatori rendono buoni i cittadini facendo contrarre loro buone abitudini, ed è questa l’intenzione di ogni legislatore» (II 1, 1103b3-6). Anche tale questione del resto viene riproposta nell’ultimo capitolo del X libro, in cui si afferma che tali leggi sono necessarie per tutto il corso della vita affinché si mantenga lo stato abituale virtuoso.

Per questo l’educazione e le attività dei giovani devono essere stabilite dalle leggi, infatti, diventando abituali, non risulteranno dolorose. Forse non basta che quando si è giovani si riceva un’educazione, e vi sia chi si prende cura di noi in modo corretto, ma, siccome anche da adulti si devono compiere in modo abituale quelle attività, avremo bisogno di leggi anche per questo, e quindi, più in generale, per l’intero ambito della nostra vita. (X 10, 1179b34 - 1180a4)

Le leggi, dunque, hanno grande influenza sullo sviluppo del carattere dei cittadini, tra i quali coloro che saranno stati ben educati potranno godere dei discorsi, mentre vi saranno pene e punizioni per quelli che, o non educati o inadatti per indole, non ascoltano (1180a8- 13).

Ora, una caratteristica fondamentale che solo le leggi possiedono, sulla quale Aristotele insiste particolarmente, è la «capacità coercitiva (dynamin anankastiken), ed è un discorso che deriva da un

certo tipo di saggezza e di ragione» (1180a20-21). È compito dunque del buon legislatore sfruttare tale capacità imponendo attività e modalità d’azione che rendano gli uomini virtuosi, come si legge anche nel I libro: «Pare inoltre che il vero politico compia ogni sforzo in vista della virtù, infatti vuole rendere i cittadini buoni e osservanti delle leggi» (I 13, 1102a7-10).

Quando, invece, la legge non interviene in questo senso, si vive in modo anarchico, per la tendenza di imporre le proprie norme senza guardare agli altri: «ciascuno vive come vuole, impartendo autonomamente, al modo dei selvaggi, norme per ‘pargoli e spose’» (1180a28-29).

La figura del legislatore risulta dunque di grande importanza, poiché avendo in carica le redazione di buone leggi per la città si occupa di migliorare i cittadini. Del resto già all’inizio del trattato Aristotele aveva individuato come «migliore e più divino» il compito di prendersi cura della comunità.

Difatti, anche se è lo stesso per il singolo e per la città, è evidente che cogliere e preservare il bene della città è cosa migliore e più perfetta; ci si potrebbe anche accontentare di coglierlo e preservarlo per il singolo, ma è migliore e più divino farlo per un popolo o per le città. (I 1, 1094b8-11)

La formazione di una tale figura è quindi fondamentale per la riflessione etica, per cui è il caso ora prendere in esame il modo in cui si diventa buoni legislatori.

Sulla base di quanto si è detto, parrebbe che uno possa fare ciò, principalmente se diviene esperto in legislazione, dato che è chiaro che ciò di cui ci si prende cura a livello pubblico viene fatto per mezzo di leggi, e le attività più corrette si fanno sulla base di leggi eccellenti. (1180a33 -35)

Nel documento Virtù e saggezza nell'Etica Nicomachea (pagine 145-152)