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Studio retrospettivo su profilassi e trattamento anticoagulante della trombosi venosa profonda nei pazienti neoplastici: dall'eparina agli anticoagulanti orali diretti.

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di medicina clinica e sperimentale

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA

IN MEDICINA E CHIRURGIA

Tesi di laurea

“Studio retrospettivo su profilassi e trattamento anticoagulante

della trombosi venosa profonda nei pazienti neoplastici:

dall’eparina agli anticoagulanti orali diretti”

RELATORE

Prof. Lorenzo Ghiadoni

TUTOR

Dott.ssa Cecilia Bartalena

CANDIDATO

Matteo La Vella

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(3)

Ai miei genitori,

perché nonostante tutto, hanno sempre creduto in me. A mia sorella,

il più bel regalo che la vita potesse farmi. A Venanzio e Adua,

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(5)

Riassunto analitico

Il tromboembolismo venoso ha un’incidenza di 900000 casi/anno, con elevata mortalità. Ad oggi, non sono completamente noti i fattori di rischio responsabili del fenotipo protrombotico.

È ampiamente riconosciuto che i pazienti affetti da cancro sono quelli con più elevato rischio, poiché il tumore induce un cambiamento nell’equilibrio emostatico del paziente, con attivazione di uno stato di ipercoagulabilità. Nei pazienti tumorali, il tromboembolismo rappresenta la prima causa di morte, dopo la neoplasia stessa. Ad oggi, la scelta di intraprendere o meno una profilassi anticoagulante primaria nei pazienti con fattori di rischio per tromboembolismo venoso è solo a discrezione del clinico.

Lo scopo primario di questo studio è stato quello di valutare i pazienti con diagnosi di trombosi venosa profonda (TVP), in particolare quelli affetti da patologia neoplastica, al fine di individuare i casi in cui l’evento acuto potesse essere evitato con un’adeguata terapia profilattica. Lo scopo secondario è stato quello di valutare se l’utilizzo dei risk score attualmente a disposizione avrebbe consentito un’adeguata definizione del rapporto rischio trombotico/rischio emorragico del paziente e l’impostazione di una terapia individualizzata.

Sono stati pertanto analizzati retrospettivamente 47 pazienti ammessi all’U.O. di Medicina d’Urgenza Universitaria dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana tra gennaio 2016 e agosto 2017 (20 mesi), con diagnosi principale o secondaria di trombosi venosa profonda (TVP). Per ogni paziente sono stati valutati i fattori di rischio, con particolare attenzione alla presenza di patologia tumorale, la terapia (domiciliare, acuta e alla dimissione) e le caratteristiche di presentazione clinica e di laboratorio.

In tutti i pazienti sono stati valutati il rischio trombotico e quello emorragico, tramite gli score attualmente a disposizione, quali IMPROVE-VTE e IMPROVE BLEED. Nei pazienti tumorali, è stato calcolato il punteggio dello score di Khorana, sulla base dei fattori di rischio cancro-specifici.

Nel nostro studio solo ¼ dei pazienti, sia di quelli con fattori di rischio noti (il 26%) che dei pazienti neoplastici (il 24%), effettuava una terapia profilattica domiciliare.

Questo risultato lascia supporre che gran parte degli eventi trombotici poteva essere prevenuta impostando un adeguato trattamento profilattico.

Il 75% delle embolie polmonari si è sviluppato in pazienti non in profilassi. Tra quelli in profilassi, tutti gli eventi embolici, tranne uno, si sono realizzati in pazienti tumorali. I pazienti con cancro, in accordo con la letteratura, presentavano manifestazioni cliniche peculiari. Infatti l’81% delle trombosi in distretti inusuali era presente in pazienti tumorali.

Solo 6 pazienti (l’11%) presentavano all’ingresso un D-dimero < 0,3 mg/dl e, di questi 4 erano in profilassi. Viceversa, solo 1/3 dei pazienti in profilassi aveva un D-dimero negativo all’ingresso. Alla dimissione, solo 5 pazienti (l’11%) aveva un dimero inferiore al cut-off, nonostante la terapia anticoagulante. Il trend del D-dimero dal ricovero alla dimissione, sebbene mediamente in diminuzione, ha mostrato una riduzione meno marcata nei pazienti tumorali.

Tra i pazienti non tumorali, in 12 (il 55%) avevano un punteggio IMPROVE-VTE superiore a quello IMPROVE-bleed e in 14 (il 64%) risultavano a rischio trombotico elevato (punteggio IMPROVE-VTE ≥ 4). In questi pazienti non tumorali, gli score IMPROVE hanno mostrato un andamento tendenzialmente parallelo senza discostarsi eccessivamente tra loro, sia per punteggi bassi che per quelli medio-alti, mentre questo

(6)

comportamento non è stato osservato nei pazienti neoplastici.

I pazienti neoplastici avevano un punteggio negli score IMPROVE superiore a quello dei non tumorali. Il 64% dei pazienti tumorali aveva un rischio trombotico intermedio, mentre solo il 16% di essi aveva un rischio elevato, secondo lo score di Khorana.

Tutti i pazienti sono stati trattati con terapia antitrombotica, sia in acuto che alla dimissione. Complessivamente, circa il 90% degli eventi acuti è stato trattato con ENF (Eparina Non Frazionata) o EBPM (Eparina a Basso Peso Molecolare). Tutti i pazienti neoplastici sono stati trattati con ENF o EBPM sia in acuto che alla dimissione, tranne 2, di cui uno dimesso con un NAO (Nuovo Anticoagulante Orale). Nei pazienti non tumorali, i NAO sono risultati i farmaci prescritti più frequentemente (nel 55% dei pazienti).

Tra i pazienti non tumorali, in 12 erano candidabili al trattamento con un NAO in dimissione. Di questi, solo in 5 sono stati poi dimessi con uno di questi farmaci, mentre per gli altri 7 pazienti è stata impostata una terapia con EBPM. È probabile che, per questi 7 pazienti, il giudizio clinico abbia indotto a scegliere la terapia eparinica, sulla base delle condizioni generali e dell’assetto coagulativo durante il periodo di ricovero. Un’analisi a posteriori dei 12 pazienti non tumorali candidabili al NAO, ha rivelato che i 7 pazienti trattati in dimissione con EBPM avevano un punteggio mediamente più elevato nello score IMPROVE-bleed, rispetto a quelli dimessi con un NAO. Per le loro caratteristiche, questi 7 pazienti potrebbero comunque beneficiare di una terapia con un anticoagulante orale diretto.

I risultati di queste analisi suggeriscono che l’assenza di sistemi di scoring specifici per la stratificazione del rischio trombotico ed emorragico in soggetti non ospedalizzati, in base ai fattori di rischio noti, è probabilmente una delle principali cause della scarsa applicazione di una profilassi anticoagulante primaria in comunità. Nei pazienti non tumorali, lo IMPROVE-VTE e lo IMPROVE-bleed potrebbero rappresentare uno strumento potenzialmente utile nella valutazione del rischio trombotico e di quello emorragico, sebbene non siano stati validati per questo scopo.

Questa criticità trova la sua massima espressione nei pazienti neoplastici, nei quali l’eterogeneità del fenotipo trombotico si rende responsabile di numerosi bias di selezione, complicando ulteriormente il corretto l’utilizzo della profilassi primaria. In questa categoria di pazienti, l’utilizzo routinario più esteso di risk score quali il Khorana e il Khorana modificato secondo Pabinger, permetterebbe una migliore stratificazione dei pazienti, consentendo almeno di individuare quelli con il rischio trombotico più elevato, data l’assenza di un analogo sistema per la valutazione del rischio emorragico. I pazienti così individuati sono quelli che potrebbero beneficiare maggiormente di una profilassi anticoagulante primaria.

Se i trial clinici attualmente in corso dovessero dimostrare la non inferiorità dei NAO rispetto alle EBPM nella profilassi e/o nel trattamento del tromboembolismo venoso nei pazienti neoplastici, avremo a disposizione una nuova opzione terapeutica. Per le loro caratteristiche (mono-somministrazione giornaliera per os, breve emivita di azione), gli anticoagulanti diretti potrebbero migliorare la compliance al trattamento in questa categoria di pazienti. Allo stato attuale però, le EBPM restano gli anticoagulanti di prima scelta nei pazienti con cancro. In ogni caso, l’assenza di interazioni farmacologiche, le intrinseche proprietà anti-tumorali e quasi un secolo di utilizzo in clinica, fanno sì che le eparine continuino ad essere un efficace strumento terapeutico anche nell’era dei nuovi farmaci anticoagulanti. Queste molecole risultano infatti ancora ampiamente utilizzate nel setting

(7)

SOMMARIO

Capitolo 1. Introduzione alla coagulazione

10

1.1 Storia evolutiva del sistema coagulativo

10

1.2 Fisiologia della coagulazione

17

• 1.2.1 La cascata coagulativa 17

1.2.2 Controllo della coagulazione 19

Capitolo 2. Tromboembolismo venoso

21

2.1 Introduzione al tromboembolismo venoso

21

2.2 Fattori di rischio

25

• 2.2.1 Fattori di rischio acquisiti 25

• 2.2.2 Fattori di rischio ereditari 34

o Ruolo dei test di screening per le trombofilie ereditarie 41

2.3 Caratteristiche cliniche

42

2.3.1 Trombosi venosa profonda degli arti inferiori 42 • 2.3.2 Trombosi venosa profonda in altri distretti 44

2.4 Diagnosi di trombosi venosa profonda

47

• 2.4.1 Definizione della probabilità clinica 47

• 2.4.2 Esami diagnostici 48

• 2.4.3 Strategie diagnostiche 52

2.5 Terapia della trombosi venosa profonda

55

• 2.5.1 Farmaci anticoagulanti 55

o Anticoagulanti parenterali 55

(8)

• 2.5.2 Profilassi 69

o Profilassi primaria 69

o Nuove prospettive nella profilassi primaria 70 del paziente ospedalizzato non chirurgico

• 2.5.3 Approccio terapeutico 74

o Terapia dell’evento acuto e profilassi secondaria 74 o Gestione delle recidive tromboemboliche nei pazienti 79

in terapia anticoagulante

Capitolo 3. Trombosi e cancro

80

3.1 Generalità ed epidemiologia

80

3.2 Patogenesi dell’ipercoagulabilità cancro-specifica

82

3.3 Ruolo del sistema coagulativo nella progressione tumorale

85

3.4 Stratificazione del rischio

87

3.5 Trattamento della trombosi venosa profonda

91

nel paziente neoplastico

• 3.5.1 Terapia raccomandata 91

• 3.5.2 Strategie terapeutiche 92

o Profilassi primaria 92

o Terapia dell’evento acuto e profilassi secondaria 94

3.6 Gli effetti non anticoagulanti dell’eparina

98

• Effetto anti-infiammatorio dell’eparina 98

• Effetto anti-neoplastico dell’eparina 99

Capitolo 4. Scopo dello studio

102

(9)

Capitolo 6. Risultati

106

Capitolo 7. Discussione e conclusioni

118

(10)

- 10 -

1. INTRODUZIONE ALLA COAGULAZIONE

1.1 Storia evolutiva del sistema coagulativo

Considerazioni generali

Nei vertebrati il sistema coagulativo si basa su un’attività enzimatica a cascata, che prevede l’attivazione progressiva di fattori coagulativi plasmatici. Lo scopo finale è la generazione di trombina che, a sua volta, promuove la trasformazione del fibrinogeno in fibrina, la quale è responsabile della stabilizzazione del coagulo piastrinico. Un sistema a cascata offre dei vantaggi rispetto ad una reazione enzimatica in cui un singolo fattore coagulativo va ad attivare direttamente la formazione di fibrina, quali l’amplificazione e la rapidità. Ciascun fattore coagulativo va infatti ad attivare più molecole del fattore coinvolto nello step enzimatico successivo e l’entità di tale amplificazione risulterà proporzionale al numero degli step enzimatici che caratterizzano il sistema in questione. L’amplificazione del segnale iniziale permette poi una rapida generazione di fibrina, rispetto ad un sistema a singola reazione.

Filogenesi

(1)

Una serie di studi hanno dimostrato che il processo di conversione del fibrinogeno in fibrina catalizzato dalla trombina è presente in tutti i vertebrati, dai ciclostomi (jaw-less vertebrates) ai mammiferi. Al contrario, sembra essere assente negli invertebrati. Inoltre, allo stato attuale, non sono noti vertebrati provvisti di un sistema coagulativo più rudimentale di quello dei ciclostomi. Queste evidenze lasciano ipotizzare che la cascata coagulativa si sia evoluta in un periodo compreso tra 500 e 600 milioni di anni fa, in concomitanza con la comparsa dei vertebrati ancestrali, evento conseguente alla differenziazione evolutiva incorsa nel phylum dei cordati in protocordati ed emicefalocordati (o vertebrati). Nel sub-phylum dei vertebrati si distinguono ciclostomi e gnatostomi. Dagli gnatostomi (jawed vertebrates) derivano corditti (pesci cartilaginei), osteitti (pesci ossei), anfibi, rettili, uccelli e mammiferi (Figura 1).

(11)

- 11 -

Meccanismi molecolari

(1)

Alla base dello sviluppo della cascata coagulativa c’è un insieme di processi quali multiple duplicazioni dell’intero genoma (WDG - Whole Genome Duplication), exon-shuffling e mutazioni a carico dei singoli geni codificanti per i fattori di coagulazione. Questi eventi sono stati responsabili di specializzazioni funzionali in grado di garantire un vantaggio evolutivo al sub-phylum dei vertebrata.

Whole-Genome Duplication (WDG)

L’intero genoma dei vertebrati (gnatostomi) sembra essere andato incontro a due eventi duplicativi (WDG) (Figura 2): il primo, a carico del vertebrato ancestrale comune a ciclostomi e gnatostomi; il secondo, a carico del progenitore degli gnatostomi. Sono state infatti evidenziate multiple duplicazioni geniche nei vertebrati, che corrispondono a singoli geni negli invertebrati. Tutto ciò sembra confermare l’idea che il genoma dei vertebrati sia andato incontro ad eventi duplicativi a partire da un set di geni ancestrali comuni

(2).

Altri eventi molecolari

Successivi fenomeni molecolari a carico delle singole copie geniche hanno poi indotto modificazioni funzionali nelle proteine da esse codificate.

Nel complesso, questo fenomeno è noto come “paralogia” una condizione per cui, a partire dalla duplicazione di un gene ancestrale comune, originano due geni che poi, a causa di eventi diversi (mutazioni, traslocazioni, delezioni, exon-shuffling), sviluppano differenze sequenziali e quindi funzionali (la differenziazione cioè, fa seguito alla duplicazione).

Figura 2: Rappresentazione dei fenomeni di Whole Genome Duplication

(WDG) incorsi durante l'evoluzione dei vertebrati.

[Tratta da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

(12)

- 12 -

Ruolo dell’exon-shuffling

L’exon-shuffling è il principale meccanismo molecolare responsabile della formazione di nuovi geni ed ha svolto un ruolo critico nell’evoluzione dei vertebrati.

Si tratta di un processo attraverso il quale uno o più esoni, localizzati su loci genici diversi, vanno ad inserirsi in un locus ectopico, modificando le caratteristiche strutturali e funzionali del polipeptide da esso codificato (Figura 3).

Questa particolare mutazione è evidenziabile in proteine della coagulazione, i cui domini catalitici e regolatori vengono codificati da esoni diversi dello stesso gene.

Alcuni esempi sono i domini GLA (gamma-carboxy glutamic acid) e discoidina, che hanno la funzione di ancorare la proteina alle piastrine nel sito di danno vascolare e i domini kringle, EGF-like (Epidermal Growth Factor-like) e PAN (Plasminogen-Apple-Nematode), che sono coinvolti nell’interazione proteina-proteina, il cui ordine è fondamentale per la corretta progressione della cascata coagulativa. Tutti questi domini regolatori sarebbero in realtà unità geneticamente autonome e distinte, successivamente andate incontro a fenomeni di fusione con geni codificanti per proteasi (cioè per il dominio catalitico della proteina).

Sviluppo della cascata coagulativa

Negli invertebrati ancestrali, provvisti di un sistema circolatorio a bassa pressione e basso volume, il fenomeno della coagulazione era molto rudimentale e prevedeva il clivaggio delle proteine plasmatiche da parte di proteasi tissutali, a livello del sito di discontinuità vascolare. Tra i frammenti peptidici così prodotti, alcuni avevano una bassa solubilità ed andavano quindi incontro a precipitazione ed aggregazione, formando un coagulo.

Si trattava quindi di un sistema semplice ed aspecifico, in termini di attività e localizzazione.

Per quanto riguarda i vertebrati, è opinione comune che i fattori di coagulazione si siano evoluti a partire da una proteasi tripsino-simile ancestrale costituita da un dominio di legame ed uno catalitico. Studi genetici hanno identificato questa proteasi primitiva con la

Figura 3: Fenomeni di exon-shuffling nell'evoluzione del gene per

l'attivatore tissutale del plasminogeno (tissue Plasminogen Activator - tPA).

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- 13 -

Figura 4: Sistema di fibrinogenesi trombino-mediata ancestrale: la serin-proteasi primitiva viene attivata dal TF e catalizza la conversione del fibrinogeno in fibrina.

protrombina, che quindi sarebbe stata il primo fattore di coagulazione comparso nella filogenesi dei vertebrati, con una sequenza aminoacidica altamente conservata tra i ciclostomi e gli esseri umani. Inoltre, la presenza dei geni codificanti per protrombina e fibrinogeno nei ciclostomi, suggerisce che la via comune della coagulazione (clivaggio del fibrinogeno trombino-mediato) si sia sviluppata e conservata in tutto il sub-phylum evolutivo dei vertebrati.

L’ipotesi evolutiva prevede una prima duplicazione a carico di un gene codificante per una serino-proteasi, verosimilmente di origine pancreatica e basalmente prodotta come zimogeno (forma inattiva). Questo, una volta rilasciato nel circolo ematico, poteva essere attivato se esposto all’azione delle proteasi tissutali nei siti di danno vascolare. L’attività proteolitica dell’enzima andava così a sommarsi a quella delle proteasi tissutali, incrementando il clivaggio delle proteine plasmatiche responsabili della formazione del coagulo. Questo primo evento andò quindi ad aumentare l’efficienza del sistema coagulativo.

Successivamente, per un fenomeno di exon-shuffling, si ritiene che una sequenza di DNA codificante per l’EGF (Epidermal Growth Factor) sia andata a localizzarsi a livello della sequenza genica codificante per la serin-proteasi. In questo modo la protrombina ancestrale ha acquisito un dominio EGF che funge da elemento-segnale per il legame selettivo tra la proteina stessa e i recettori per l’EGF espressi ubiquitariamente dalle cellule sotto-endoteliali, conferendo un’elevata specificità di localizzazione all’attività coagulante. Il recettore dell’EGF si identifica con il fattore tissutale (Tissue Factor - TF) e questo evento giustifica l’ipotesi secondo cui il primo pathway a comparire fu quello estrinseco.

In un periodo più tardivo nell’evoluzione dei vertebrati è comparsa una proteina precursore del fibrinogeno, in grado di legare il complesso protrombina-TF, subendone l’attività proteolitica e dando così origine a frammenti insolubili responsabili della formazione del coagulo. La presenza di geni ancestrali codificanti per le catene α, β e γ del fibrinogeno è stata riscontrata anche nei ciclostomi, rafforzando l’idea che un sistema coagulativo basato sulla proteolisi trombino-dipendente del fibrinogeno sia comune a tutto il sub-phylum evolutivo dei vertebrati.

Un sistema come quello descritto (Figura 4), resta comunque ben lontano dal livello di complessità che caratterizza la coagulazione nei mammiferi.

(14)

- 14 - Nel corso dell’evoluzione però, la serin-proteasi primitiva è andata incontro ad una duplicazione genica, dando luogo inizialmente ad una proteasi identica ad essa per struttura e funzione (Figura 5). Un evento di questo tipo non modifica il sistema coagulativo, ma si limita ad implementare la generazione di fibrina a partire dal fibrinogeno.

Una successiva mutazione a carico del gene precedentemente duplicato, ha comportato una perdita dell’affinità della proteina stessa per il fibrinogeno, a favore della protrombina. In questo modo si è sviluppato un sistema a due livelli (Figura 6), in cui la serin-proteasi mutata ha conservato l’affinità di legame per il TF a livello del sito di danno vascolare

(mantenendo così la specificità di localizzazione del sistema coagulativo) e, al contempo, è divenuta capace di legare e attivare la protrombina, la quale a sua volta può clivare il fibrinogeno in fibrina. Un sistema di questo tipo risulta evoluzionisticamente favorevole, poiché più efficiente e specifico.

Successivi e analoghi eventi duplicativi e mutazionali hanno poi prodotto altre proteasi, dando luogo all’attuale cascata coagulativa (Figura 7).

Figura 6: Evoluzione della fibrinogenesi trombino-mediata

ancestrale: sviluppo di un sistema enzimatico a due livelli.

Figura 7: Aumento della complessità del sistema coagulativo nell'evoluzione dei vertebrati.

[Tratta da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

Figura 5: Evoluzione della fibrinogenesi trombino-mediata

ancestrale: il gene per la serin-proteasi primitiva va incontro a duplicazione.

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- 15 -

Sviluppo dei sistemi anti-coagulativi

L’aumento della complessità della cascata coagulativa ha comportato la necessità di un sistema endogeno in grado di controllare e bilanciare l’attività coagulativa a vari livelli, onde evitare che il vantaggio evoluzionistico ottenuto si traducesse in un eccessivo rischio trombotico.

Anche in questo caso i fattori di anti-coagulazione si sono evoluti attraverso fenomeni progressivi di duplicazione e mutazione a partire da un’anti-proteasi ancestrale, verosimilmente rappresentata dall’anti-tripsina, proteina in grado di legare il sito attivo della primitiva serin-proteasi, impedendone l’azione catalitica. Eventi genetici successivi hanno portato alla genesi dell’anti-trombina, agente antagonista del principale fattore coinvolto nella cascata coagulativa, la trombina.

In maniera analoga, il plasminogeno, agente responsabile della fibrinolisi, deriverebbe da proteasi ancestrali originariamente responsabili della degradazione di quelle proteine insolubili che, nei vertebrati primitivi, andavano a costituire il coagulo in corrispondenza delle lesioni vascolari.

Vantaggi evolutivi

Dal punto di vista evoluzionistico, la cascata coagulativa si è sviluppata con lo scopo principale di generare trombina. Questo ha rappresentato un vantaggio riproduttivo poiché ne è conseguito un minor rischio emorragico, specie al momento del parto. Fisiologicamente infatti, la placenta aderisce all’utero tramite villi coriali che aggettano nello spessore della decidua endometriale e questa connessione si realizza essenzialmente mediante polimeri di fibrina. Per cui, in termini finalistici, si può presumere che lo sviluppo del sistema coagulativo si sia realizzato anche per poter permettere di portare a termine la gravidanza fisiologica. Alcune mutazioni inoltre, come il FV Leiden, sono pervenute a noi in quanto evoluzionisticamente vantaggiose, poiché si configurarono come una sorta di “antidoto” nei confronti del rischio emorragico post-partum, che risultava molto elevato fino a circa 30000 anni fa (3, 4). Allo stesso modo, il FII G20210A potrebbe aver determinato un vantaggio

evolutivo, incrementando l’efficienza dell’impianto embrionale a livello uterino (5).

Oltre ad una maggiore sopravvivenza al parto, le mutazioni responsabili di un’eccessiva generazione di trombina hanno determinato molti vantaggi, quali la resistenza ai traumi maggiori. D’altra parte però hanno anche comportato un maggior rischio trombotico. Oggigiorno infatti la trombosi è la prima causa di morte nel mondo (“Thrombin: can’t live without it; probably die from it” (6)).

(16)

- 16 -

Lo sviluppo della cascata coagulativa ha permesso perciò di ottenere un sistema anti-emorragico più efficiente, in termini di rapidità, intensità e specificità d’azione. In termini meccanicistici, la complessa evoluzione del sistema emostatico-coagulativo nei vertebrati è risultata funzionale al progressivo adattamento di queste forme di vita in ambienti diversi. Infine un sistema a cascata, specifico e controllato, rappresenta un elemento protettivo importante per le specie provviste di un sistema circolatorio ad alta pressione.

Determinazione del fenotipo coagulativo

Ogni essere umano nasce con un certo pattern genotipico, in grado di codificare per i fattori della coagulazione e per i suoi inibitori endogeni, la cui normalità sarebbe la completa espressione fenotipica (100% di espressività) degli uni e degli altri. In realtà però l’espressione fenotipica della popolazione generale è distribuita in maniera variabile e può essere rappresentata da una curva gaussiana. Per questo motivo non è necessaria un’espressione genica completa affinché un fenotipo possa essere compreso nel range di “normalità”. Allo stesso modo, un fenotipo può risultare “normale” anche in presenza di alcune di quelle mutazioni acquisite nel corso dei millenni e poi conservate, in quanto, per qualche motivo, rivelatesi evoluzionisticamente vantaggiose. A queste mutazioni poi si vanno ad aggiungere, nella determinazione del fenotipo stesso, i fattori ambientali, responsabili degli stati trombofilici acquisiti.

Nel complesso quindi, il fenotipo coagulativo risulta da un’interazione tra genotipo, espressione genica e fattori ambientali, che ne determinano la “posizione” lungo la curva di distribuzione gaussiana.

(17)

- 17 -

1.2 Fisiologia della coagulazione

1.2.1 La cascata coagulativa

Il processo coagulativo consta di una serie di reazioni enzimatiche “a cascata” il cui scopo è la generazione di trombina, che promuove la formazione di fibrina, responsabile della stabilizzazione del coagulo piastrinico e della conseguente formazione del trombo rosso (o tappo emostatico secondario).

Da un punto di vista concettuale la cascata coagulativa può essere suddivisa in due vie distinte: quella estrinseca (mediata dal TF) e quella intrinseca (mediata da fattori di contatto), che convergono in una via comune, responsabile della generazione di trombina e della successiva formazione di fibrina.

In realtà questa suddivisione risulta puramente accademica, in quanto in vivo i due sistemi sono reciprocamente connessi, sebbene la via mediata dal TF, quindi dal danno vascolare, risulti quella principalmente coinvolta nell’innesco della coagulazione (7).

La via estrinseca è innescata dall’esposizione del TF (o fattore tromboplastico tissutale) da parte dei tessuti sotto-endoteliali a livello dei siti di discontinuità vascolare e dal successivo legame col FVII, determinandone l’attivazione (il FVII è l’unico ad avere un’attività enzimatica basale). Il legame FVIIa-TF permette sia l’innesco della via comune, sia la trans-attivazione della via intrinseca, mediante la conversione del FIX in FIXa.

Viene così a formarsi un complesso, detto TENASICO, costituito da FVIIIa, FIXa e ioni

Figura 8: Rappresentazione schematica della coagulazione nei mammiferi.

[Tratta da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

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Ca2+ che è in grado di promuovere l’attivazione del FX. La sua attività è indice dell’efficienza della via intrinseca e viene monitorata tramite l’aPTT (Tempo di Tromboplastina Parziale attivata).

La via intrinseca viene solitamente innescata dal contatto con superfici estranee cariche negativamente (collagene sotto-endoteliale e superfici piastriniche) in presenza di fattori di contatto quali FXII (fattore di Hageman), pre-callicreina e chininogeno ad alto peso molecolare (High Molecular Weight Kininogen - HMWK). I successivi step sono mediati dall’attivazione del FXII e culminano anch’essi nell’attivazione del FX.

La conversione del FX in FXa rende possibile la formazione del complesso PROTROMBINASICO, costituito da FXa, FVa, fosfolipidi e ioni Ca2+, responsabile dell’innesco della via comune e della conseguente attivazione della protrombina in trombina (FIIa).

La necessità dei fosfolipidi piastrinici testimonia inoltre l’intima connessione tra l’emostasi piastrinica e la cascata coagulativa.

Dal punto di vista funzionale è possibile distinguere tre fasi:

➢ Fase di iniziazione, in cui il complesso TF-FVIIa va ad attivare il FX, consentendo la formazione del complesso protrombinasico e l’iniziale generazione di modeste quantità di trombina.

➢ Fase di amplificazione, in cui la trombina inizialmente prodotta va a stimolare l’attivazione e la degranulazione piastrinica (amplificazione emostasi), l’attivazione del FXI e l’attivazione di FVIII e FV, contribuendo alla formazione rispettivamente dei complessi tenasico e protrombinasico. L’effetto finale è l’aumento esponenziale della generazione della stessa trombina che si realizza attraverso entrambi i pathway coagulativi.

La trombina è inoltre responsabile della modulazione positiva di sistemi anti-coagulanti quali trombomodulina e proteina C. In questo modo auto-regola la sua stessa formazione.

➢ Fase di propagazione e stabilizzazione, in cui i monomeri di fibrina vengono stabilizzati in polimeri insolubili mediante cross-linking col FXIIIa, attivato dalla trombina stessa.

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1.2.2 Controllo della coagulazione

L’attività della cascata coagulativa viene controllata da una serie di meccanismi endogeni quali la rimozione dei fattori attivati da parte del flusso ematico (con successiva clearance a livello del fegato e del sistema reticolo-endoteliale), l’inattivazione delle proteasi attive e la demolizione dei prodotti terminali della cascata coagulativa (fibrinolisi).

Inattivazione delle proteasi attive

Antitrombina (AT)

È una proteina plasmatica di sintesi epatica ed è il principale agente anticoagulante endogeno (FIII). La sua azione inibitoria è rivolta contro i fattori di coagulazione ad attività serin-proteasica, in particolare FIIa e FXa (ma anche FIXa, FXIa e FXIIa). L’azione anticoagulante si manifesta quando queste serin-proteasi clivano uno specifico legame Arginina-Serina (Arg-Ser) a livello del sito attivo dell’AT, cui consegue la formazione di un complesso stabile (1:1) col fattore di coagulazione coinvolto, che viene quindi reso indisponibile per i processi coagulativi.

Proteina C e proteina S

La proteina C e la proteina S sono fattori vit.K-dipendenti di origine epatica. La proteina C è secreta come zimogeno e viene attivata quando il FIIa lega un suo recettore a livello endoteliale, la trombomodulina, ed il complesso FIIa-trombomodulina va poi a clivare la proteina, determinandone l’attivazione (APC – Activated C Protein). La APC va a legare a sua volta la proteina S, suo cofattore, formando con essa un complesso enzimatico responsabile della proteolisi dei fattori Va e VIIIa.

Alla proteina S è stata inoltre attribuita un’ulteriore attività anticoagulante, APC-indipendente, che si realizza mediante un’interazione con il complesso protrombinasico (8).

Altri meccanismi inattivanti sono rappresentati dal cofattore piastrinico II (Platelet Cofactor II – PC II) e dall’inibitore del fattore tissutale (Tissue Factor Pathway Inhibitor - TFPI), responsabile dell’inattivazione del complesso TF-FVIIa.

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- 20 -

Fibrinolisi

La fibrinolisi è il processo che consente la dissoluzione del coagulo di fibrina ed è garantita da un sistema multi-enzimatico a cascata costituito da serin-proteasi basalmente inattive. I componenti del sistema fibrinolitico sono il plasminogeno (proenzima della plasmina in grado di legarsi a fibrinogeno e fibrina, rimanendo così intrappolato nei coaguli), la plasmina (enzima derivante dall’attivazione del plasminogeno ed in grado di degradare il fibrinogeno, la fibrina non stabilizzata e quella stabilizzata dal FXIIIa e dalla cui degradazione origina il D-dimero) e gli attivatori del plasminogeno (attivatore tissutale, attivatore urochinasico, callicreina, FXIa e FXIIa).

Controllo della fibrinolisi

L’attività del sistema fibrinolitico è a sua volta controllata attraverso un meccanismo di inibizione enzimatica, in assenza del quale la fibrinolisi determinerebbe diatesi emorragica. I fattori responsabili del controllo della fibrinolisi sono gli inibitori degli attivatori del plasminogeno (Plasminongen Activator Inhibitor-1 e 2) (PAI-1 e PAI-2) e gli inibitori della plasmina (α2-antiplasmina e α2-macroglobulina).

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- 21 -

Figura 9: Incidenza annuale di TEV per sesso ed età.

[Tratta da: Silverstein M, Heit J, Mohr D, et al. Trends in the incidence of deep vein thrombosis and pulmonary embolism: a 25-year populationbased, cohort study. Arch Intern Med 1998;158:585-593.]

2. TROMBOEMBOLISMO VENOSO

2.1 Introduzione al tromboembolismo venoso

Definizione

Il tromboembolismo venoso è una condizione patologica complessa determinata da un alterato equilibrio emostatico-coagulativo ad eziologia multifattoriale. È caratterizzata dall’occlusione, parziale o totale, del lume di un vaso venoso profondo da parte di un coagulo ematico fisso (trombo), cui si associa uno stato infiammatorio di grado variabile a carico della parete vasale ed un variabile rischio embolico, specie a livello del circolo polmonare.

Epidemiologia

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La malattia tromboembolica venosa è diffusa in tutto il mondo, con tassi di incidenza variabili a seconda delle regioni geografiche considerate. Il tasso di incidenza annuale nelle popolazioni di origine europea è di 104-183 casi/100000 persone/anno. L’incidenza è simile (talora maggiore) negli afro-americani ed è minore negli asiatici e nei nativi americani. A tal proposito, studi epidemiologici hanno evidenziato come l’incidenza non si sia modificata in seguito all’emigrazione e/o all’adozione di dieta e stili di vita occidentali da parte di popolazioni asiatiche.

Il tromboembolismo venoso è una patologia che interessa tipicamente l’età avanzata. Il tasso di incidenza aumenta notevolmente con l’età in entrambi i sessi e risulta maggiore nel sesso maschile (130 casi/100000 persone/anno), con un rapporto M:F = 1,2:1 (Figura 9).

Tuttavia nel sesso femminile è più alto in gravidanza mentre, dopo i 45 anni, risulta generalmente maggiore nei maschi.

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- 22 - La sopravvivenza globale in caso di tromboembolismo venoso è piuttosto alta e si riduce sensibilmente a 1 anno dall’episodio trombotico, mentre risulta molto minore nei casi in cui vi si associ anche embolia polmonare (Tabella 1). In particolare, il rischio di morte precoce è 18 volte maggiore nei pazienti in cui alla trombosi venosa profonda (TVP) si associa embolia polmonare (EP) ed in un quarto dei pazienti la malattia embolica si manifesta con un episodio di morte improvvisa.

Il rischio di una successiva diagnosi di cancro è significativamente maggiore nei primi 6-12 mesi che seguono un episodio trombotico o tromboembolico incidentale.

Fattori prognostici

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L’embolia polmonare è un fattore predittivo indipendente di ridotta sopravvivenza a 3 mesi dall’esordio, mentre dopo 3 mesi la sopravvivenza osservata risulta simile a quella attesa. Altri fattori predittivi indipendenti di ridotta sopravvivenza precoce dopo tromboembolismo venoso includono età avanzata, sesso maschile, basso BMI, ricovero in ospedale o in casa di riposo al momento dell’esordio, insufficienza cardiaca congestizia, malattia polmonare cronica, malattia neurologica grave e neoplasia maligna in fase attiva.

Fattori predittivi di scarsa sopravvivenza precoce dopo embolia polmonare sono sincope e ipotensione arteriosa, mentre l’evidenza clinica, laboratoristica o ecocardiografica di insufficienza cardiaca destra è predittiva di ridotta sopravvivenza per i pazienti normotesi. La malattia tromboembolica venosa ha una forte tendenza a recidivare, infatti il 30% dei pazienti va incontro a recidiva nei 10 anni successivi all’evento primario. Il rischio di recidiva varia col passare del tempo dall’evento incidentale, è maggiore nei primi 6-12 mesi e comunque non si annulla mai completamente.

Fattori indipendenti predittivi di recidiva includono età avanzata, BMI elevato, malattia neurologica con paresi degli arti inferiori e neoplasia maligna in fase attiva. Il sesso maschile sembra essere gravato da un maggior rischio di recidiva. Tuttavia dopo correzione del rischio per fattori sesso-specifici, è stato osservato come in realtà il sesso non

Tabella 1: Tasso di sopravvivenza dopo TVP ed EP. [Tratta e modificata da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

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- 23 - sia un fattore di rischio indipendente di recidiva.

Altri fattori predittivi di recidiva includono TVP idiopatica, stati trombofilici ereditari (deficit di proteina C, proteina S e/o antitrombina), iperomocisteinemia, anticorpi anti-fosfolipidi, MICI (Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali/Inflammatory Bowel Disease – IBD), livelli di D-dimero persistentemente elevati in pazienti con TVP idiopatica ed eventuale persistenza di malattia venosa trombotica.

I dati epidemiologici suggeriscono inoltre che il rischio di recidiva sia maggiore nel caso in cui all’evento trombotico incidentale si associ anche embolia polmonare e che le recidive tendano a manifestarsi in maniera analoga all’evento primario. Essendo il tasso di mortalità per embolia polmonare recidivante maggiore rispetto a quello di una recidiva di TVP isolata (34% vs 4%), risulta importante considerare una profilassi anticoagulante secondaria soprattutto nei pazienti con episodio trombo-embolico incidentale.

È stato inoltre dimostrato come alcuni fattori, pur avendo un ruolo importante nella patogenesi dell’evento trombotico o trombo-embolico acuto, agiscono transitoriamente e non sono quindi sufficienti a determinare malattia ricorrente/recidivante. In particolare, nel sesso femminile, gravidanza e puerperio, contracettivi orali, terapia ormonale sostitutiva e chirurgia ginecologica. Allo stesso modo, una temporanea immobilizzazione, la terapia con tamoxifene e una mancata o errata profilassi primaria non risultano avere effetti significativi sul rischio di recidiva. Interventi chirurgici recenti e traumi possono essere non significativi oppure predittivi di ridotto rischio.

Infine la durata del trattamento dell’evento acuto, a differenza della profilassi secondaria, non influenza il rischio di recidiva, poiché è solo funzionale ad impedire l’estensione del trombo ed una sua eventuale embolizzazione.

Patogenesi

La patogenesi della trombosi è definita dalla “triade di Virchow”, il cui nome deriva dal patologo tedesco Rudolf Ludwig Karl Virchow (Świdwin, 13 ottobre 1821 – Berlino, 5 settembre 1902) che per primo la descrisse, nel 1856.

In realtà Virchow inizialmente non descrisse i tre elementi patogenetici come cause della trombosi, bensì come conseguenze:

“In all cases the blood formed more or less extensive clots around the introduced body … the list of possible consequences of the obstruction could be grouped into three categories; Phenomena due to the irritation of the vessel and its surroundings;

(24)

- 24 - Phenomena due to blood coagulation;

Phenomena due to the interruption of the bloodstream” (R. L. K. Virchow, 1856)(10).

Secondo questo modello patogenetico i fattori che contribuiscono al mantenimento dell’equilibrio emostatico-coagulativo (su entrambi i versanti, arterioso e venoso) sono l’integrità dell’endotelio vascolare, la stabilità emodinamica e la corretta funzionalità del sistema coagulativo.

Questo modello patogenetico implica che qualsiasi noxa, acquisita o congenita, in grado di agire su uno o più dei suddetti elementi, determini la perdita dell’omeostasi coagulativa e rappresenti quindi un fattore di rischio per l’insorgenza di trombosi (Figura 10).

Questi tre cardini patogenetici sono inoltre in relazione fra loro e insieme concorrono alla genesi della trombosi. Infatti l’alterazione indotta da uno specifico fattore eziologico su uno dei tre versanti si ripercuote indirettamente anche sugli altri due e, al contempo, uno stesso fattore eziologico può agire alterando contemporaneamente l’omeostasi su più fronti (es. neoplasia maligna, sepsi).

La malattia trombotica si configura per cui come una patologia multifattoriale.

A sostegno di ciò, una serie di studi ha mostrato come eventi trombotici acuti in soggetti con trombofilia geneticamente determinata, siano scatenati nella metà dei casi dalla temporanea associazione con fattori di rischio acquisiti (11).

Figura 10: Patogenesi della trombosi in base alla “Triade di Virchow”.

[Tratta e modificata da: Kumar, Vinay, Abul K. Abbas, Nelson Fausto, Stanley L. Robbins, and Ramzi S. Cotran. Robbins and Cotran Pathologic Basis of Disease. 7th ed. Philadelphia: Elsevier Saunders, 2005.]

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- 25 -

2.2 Fattori di rischio

I fattori di rischio per tromboembolismo venoso possono essere schematicamente suddivisi in acquisiti (Tabella 2) ed ereditari (Tabella 5). Tra i primi si riconoscono fattori temporanei e permanenti, in base alla persistenza o meno dell’effetto pro-trombotico nel tempo.

2.2.1 Fattori di rischio acquisiti

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Tra i soggetti ospedalizzati l’incidenza di eventi tromboembolici acuti è 100 volte maggiore e, nel complesso, gli eventi incidentali incorsi in regime di ricovero ospedaliero e in casa di riposo rappresentano quasi il 60% dei tromboembolismi verificatisi in comunità. Nei pazienti non chirurgici, il rischio trombotico durante il ricovero è legato all’immobilizzazione e alla gravità della malattia di base ed è massimo nei primi 6-14 giorni, con un’incidenza di TVP del 10-26%, di cui la maggior parte sono asintomatiche. Il rischio in questi pazienti persiste anche nel periodo successivo alla dimissione ed è massimo nei primi 45 giorni, durante i quali si verifica la maggioranza degli eventi tromboembolici (≈ 80%), sebbene il rischio possa sussistere fino a 90 giorni dopo. In particolare, nei pazienti non chirurgici, il tasso di TEV sintomatico raddoppia nei primi 21 giorni dopo la dimissione e si associa ad un rischio 5 volte

Tabella 2: Principali fattori di rischio acquisiti per TVP o EP (CI, Confidence Interval).

[Tratta da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

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maggiore di EP fatale nei 30 giorni successivi alla dimissione (12).

Il rischio relativo ai trattamenti chirurgici dipende a sua volta da fattori quali età del paziente, tipo di chirurgia ed eventuale presenza di cancro in fase attiva. In particolare, l’incidenza di tromboembolismo venoso post-operatorio è maggiore nei soggetti con più di 65 anni; gli interventi chirurgici a maggior rischio sono quelli di neurochirurgia, chirurgia ortopedica (specie per interventi agli arti inferiori), chirurgia oncologica (toracica, addominale o pelvica), trapianto di rene e chirurgia cardiovascolare.

Altri fattori di rischio sono rappresentati da età avanzata, storia familiare e/o personale di tromboembolismo venoso, malattia infettiva acuta (es. infezioni delle vie urinarie, polmoniti), bronco-pneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), insufficienza cardiaca congestizia, cateterismo venoso (9% degli eventi tromboembolici acuti in comunità e causa più comune di TVP degli arti superiori), pregressa trombosi venosa superficiale (rischio a distanza di tempo dall’episodio tromboflebitico), malattia varicosa (rischio incerto e dipendente dall’età del paziente).

Nel sesso femminile ulteriori fattori di rischio sono rappresentati dall’utilizzo di contraccettivi orali (rischio maggiore per quelli di prima e terza generazione), terapia ormonale sostitutiva (rischio 2-4 volte maggiore e variabile a seconda del tipo di estrogeno), gravidanza (incidenza complessiva è pari a 200 casi/100000 donne/anno) e puerperio (rischio 5 volte maggiore rispetto alla gravidanza), terapia con modulatori selettivi dei recettori estrogenici (raloxifene) e iper-trigliceridemia post-menopausale (rischio raddoppiato).

Altre condizioni associate a rischio di tromboembolismo venoso includono condizioni disimmunitarie (lupus eritematoso sistemico -LES-, granulomatosi di Wegener, malattia di Behçet, celiachia, trombocitopenia indotta da eparina -HIT-, ipertiroidismo, trombocitopenia immuno-mediata, MICI); patologie del sistema emolinfopoietico (emoglobinuria parossistica notturna, porpora trombotica trombocitopenica, anemia falciforme, coagulazione intravasale disseminata -CID-, disordini mieloproliferativi -specie policitemia vera e trombocitemia essenziale, associate a trombosi in siti inusuali, in particolare a livello splancnico-); malattia renale cronica con grave compromissione della funzione glomerulare e sindrome nefrosica (per perdita urinaria di antitrombina).

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- 27 -

Sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi

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Definizione ed excursus storico

Tra i fattori di rischio acquisiti, menzione a parte merita la sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi (Antiphospholipid Syndrome – APLS), un disordine auto-immune caratterizzato da un insieme eterogeneo di manifestazioni cliniche e laboratoristiche e responsabile di uno stato trombofilico che interessa entrambi i distretti, arterioso e venoso.

Si tratta di una condizione caratterizzata dalla presenza di auto-anticorpi circolanti capaci di interagire con molecole-bersaglio coinvolte a vario livello nella progressione della cascata coagulativa. L’associazione paradossale fra la presenza di inibitori dei processi coagulativi fosfolipidi-dipendenti ed uno stato trombofilico fu riconosciuta per la prima volta in uno studio del 1963 (14) e per questi inibitori circolanti fu coniato il termine di anticoagulante

lupico (Lupus Anticoagulant – LA) perché inizialmente i pazienti sembravano essere affetti da LES. Successivamente, nel 1980, lo sviluppo di test immunoenzimatici per il rilevamento di anticorpi anti-cardiolipina (anti-Cardiolipin Antibody – aCLA) portò alla definizione della “sindrome anti-cardiolipina” (15), poi rinominata, nel 1989, “sindrome anti-fosfolipidi”(16). Epidemiologia

Una significativa quota di pazienti con trombosi venosa presenta elevati livelli di anticorpi anti-fosfolipidi, con una prevalenza stimata del 5-30% per tutti gli auto-anticorpi globalmente considerati, dell’1-16% per i LA e del 4-24% per gli aCLA.

La prevalenza nella popolazione asintomatica è generalmente stimata tra il 3% e il 10% e nello specifico risulta essere del 1-5% sia per i LA che per gli aCLA e del 3% per gli anticorpi anti-β2GPI.

Gli anticorpi anti-fosfolipidi sviluppatisi in seguito ad un processo infettivo (per danno cellulare e conseguente esposizione di epitopi immunogeni) sembrano non essere associati a trombosi. Sono inoltre riscontrabili in un ampio spettro di disordini auto-immuni, soprattutto il LES, nel contesto dei quali concorrono invece allo sviluppo di eventi trombotici.

Bersagli molecolari

Il principale bersaglio molecolare degli anticorpi anti-fosfolipidi è la β2GPI 1, una

glicoproteina che funge da co-fattore essenziale per il riconoscimento dei fosfolipidi da parte degli auto-anticorpi circolanti.

L’effettiva funzione biologica della β2GPI non è stata ancora identificata, tuttavia questa

proteina sembra svolgere attività eterogenee quali legame e clearance delle cellule

1 β

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- 28 -

apoptotiche, legame ed induzione della fagocitosi delle micro-vescicole piastriniche, legame e clearance delle LDL 2.

Gli auto-anticorpi anti-β2GPI sono in grado di riconoscere epitopi diversi della proteina e

sembra che le IgG specifiche per l’epitopo Gly40-Arg43 del dominio I siano maggiormente correlati allo sviluppo di trombosi.

La β2GPI non è l’unico bersaglio degli anticorpi anti-fosfolipidi. Altri antigeni-target sono

rappresentati da protrombina, fattore V, proteina C e proteina S, annessina A2 e A5, eparina, HMWK, fattore VII/VIIa e LDL ossidate.

Patogenesi della trombosi

Nella sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi, gli eventi trombotici (arteriosi e venosi) sono alla base dello sviluppo di un ampio spettro di manifestazioni cliniche.

Sono diversi i meccanismi coinvolti nella patogenesi della trombosi e probabilmente questa sindrome va considerata come un insieme di sottocategorie patogenetiche legate alla specificità dei diversi auto-anticorpi, da cui deriva l’eterogeneità del fenotipo clinico (infatti il pattern anticorpale risulta eterogeneo anche in uno stesso individuo).

La presenza di fattori circolanti che agiscono contro proteine implicate nel processo coagulativo, lascerebbe supporre lo sviluppo di un fenotipo emorragico. In realtà l’azione degli anticorpi anti-fosfolipidi si traduce in un’inibizione dei sistemi anticoagulanti e fibrinolitici (inibizione della proteina C, del TFPI, del t-PA e dell’attività eparinica) e in un potenziamento dei sistemi coagulativi (incremento della generazione di trombina, aumentata espressione di TF e molecole di adesione su cellule endoteliali e monociti e stimolazione dell’attivazione e dell’aggregazione piastrinica). Questi fenomeni giustificano l’evidenza, paradossale e contro-intuitiva, per cui la presenza di auto-anticorpi circolanti si renda responsabile di un fenotipo trombotico e non emorragico.

➢ Inibizione dei sistemi anticoagulanti e della fibrinolisi

• Distruzione del rivestimento anti-coagulante dell’annessina A5: la distruzione anticorpo-mediata di questa proteina comporta l’esposizione della superficie anionica dei fosfolipidi ed il conseguente innesco dei processi coagulativi.

• Inibizione dell’attività della proteina C: legame diretto con le proteine C ed S (elevati livelli di IgM anti-proteina C correlano infatti con un aumentato rischio di trombosi venosa), interazione con la proteina C attiva (con sviluppo di resistenza acquisita alla APC); interferenza nel legame della proteina C al suo recettore

(29)

- 29 -

endoteliale; legame degli auto-anticorpi alla trombomodulina, impedendo l’attivazione della proteina C trombino-mediata; anticorpi anti-protrombina determinano riduzione dei livelli di trombina e quindi dei complessi trombina-trombomodulina (con conseguente ridotta attivazione della proteina C).

• Interferenza con la generazione di trombina: anticorpi anti-protrombina possono determinare un cross-linking tra molecole di FII, incrementandone così la densità e la conseguente generazione di trombina sulla superficie delle cellule endoteliali. Possono anche interferire con il processo di inattivazione della trombina mediato dall’antitrombina.

• Inibizione degli eparinoidi, del TFPI ed inattivazione del FIXa: gli anticorpi anti-fosfolipidi cross-reagiscono con molecole epariniche ed eparinoidi (inibendo così l’incremento dell’attività anti-trombinica eparino-indotta); possono legare il TFPI, riducendone l’attività inibitoria e possono interagire con il FIX, compromettendone l’inattivazione mediata dall’anti-trombina.

• Interferenza con la fibrinolisi: gli auto-anticorpi possono interferire con il legame del plasminogeno e del suo attivatore tissutale al proprio recettore sulle cellule endoteliali, riducendo così la formazione di plasmina e quindi l’attività fibrinolitica; anticorpi anti-β2GPI (cofattore per il processo di attivazione del

plasminogeno mediato dall’attivatore tissutale), possono interferire con la generazione di plasmina.

➢ Attivazione piastrinica

• Incremento anticorpo-mediato della sensibilità piastrinica agli agonisti dell’aggregazione.

• Ostacolo all’effetto inibitorio della proteina β2GPI sull’interazione tra piastrine e

vWF, con conseguente promozione dell’adesione piastrinica.

➢ Danno e attivazione delle cellule endoteliali e dei monociti

• Complessi anticorpi anti-β2GPI-β2GPI inducono l’espressione di TF e molecole di

adesione da parte delle cellule endoteliali e dei monociti.

➢ Attivazione del sistema del complemento.

• Le proteine del complemento sembrano essere in grado di indurre l’espressione di TF da parte delle cellule mieloidi.

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- 30 -

Caratteristiche cliniche

La sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi è caratterizzata dallo sviluppo di manifestazioni cliniche sistemiche ed eterogenee che riconoscono un’origine comune nei fenomeni trombotici e che coinvolgono cuore e vasi, apparato riproduttore, sistema respiratorio, fegato e apparato gastro-intestinale, sistema nervoso centrale, reni, cute e retina (Tabella 3).

Sistema cardio-vascolare

TVP degli arti inferiori e dei distretti toracico, addominale e pelvico; EP; maggior rischio di malattia coronarica e occlusione coronarica non-aterosclerotica, infarto del miocardio, aterosclerosi precoce, malattia vascolare periferica, difetti valvolari (35% dei soggetti con APLS primaria) (stenosi, insufficienza e vegetazioni trombotiche, soprattutto a carico della valvola mitrale).

Apparato riproduttivo

La prevalenza di anticorpi anti-fosfolipidi nella popolazioni ostetriche è ≤5% e la maggior parte delle donne siero-positive sono asintomatiche .

Perdite fetali ricorrenti (≥ 3) (16-38% delle pazienti ha elevati livelli di anticorpi anti-fosfolipidi), pre-eclampsia, distacco di placenta, prematurità, IUGR 3, TVP in gravidanza e puerperio (specie in donne

con positività a più test di laboratorio); possibile associazione con infertilità e con alterazioni della differenziazione trofoblastica e dell’impianto.

Sistema nervoso

Stroke o TIA 4 (frequente manifestazione d’esordio ed importante causa

di morte; l’associazione con una APLS va sospettata soprattutto quando sono colpiti soggetti giovani ed in assenza di fattori di rischio tipici), demenza (per infarti cerebrali multipli), convulsioni (per alterazioni ischemiche); altre manifestazioni non-trombotiche (sindrome di Guillain-Barrè, amnesia globale transitoria).

Apparato respiratorio

Ipertensione polmonare (da occlusone vascolare trombotica), danno alveolare diffuso ed emorragia intra-alveolare (per trombosi micro-vascolare o per un processo vasculitico).

3 IUGR, Intrauterine Growth Restriction 4 TIA, Transient Ischemic Attack

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- 31 - Fegato e

apparato G-I

Occlusione trombotica dei vasi epatici e biliari, ischemia ed infarto intestinale (per occlusione venosa porto-mesenterica), necrosi e perforazione esofagea, pancreatite, cirrosi biliare primitiva.

Cute

Livedo reticularis (24% dei casi, talora in forma necrotizzante), ulcerazioni e necrosi cutanee (per trombosi micro-vascolare), vasculite necrotizzante, porpora ed ecchimosi.

Sistema emuntorio

Trombosi dei vasi renali (arteria e vena renale) e infarti renali, nefropatia da anticorpi anti-fosfolipidi (microangiopatia trombotica dei vasi intra-renali, atrofia corticale focale); manifestazioni non-trombotiche (glomerulonefriti).

Retina

Retinopatia da anticorpi anti-fosfolipidi: vaso-occlusione retinica arteriosa e venosa (positività agli auto-anticorpi nel 5-33% dei casi), neo-vascolarizzazione, neuropatia ottica.

Tabella 3: Manifestazioni cliniche associate alla sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi.

[Tratta e modificata da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

Dal punto di vista del sistema vascolare, la sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi si caratterizza per lo sviluppo di trombosi che possono realizzarsi virtualmente in qualsiasi distretto, ma che tendono a manifestarsi soprattutto con episodi tromboembolici venosi. La TVP degli arti inferiori è il reperto clinico più comune ed interessa circa la metà dei pazienti. Altre manifestazioni includono embolia polmonare, trombosi del distretto cavale superiore e trombosi dei distretti addominale e pelvico.

In questi pazienti gli episodi trombotici possono insorgere spontaneamente o in presenza di altri fattori di rischio, acquisiti e/o ereditari ed il fattore predittivo più importante per lo sviluppo di un evento acuto in questi pazienti è l’avere una storia clinica positiva per eventi tromboembolici.

Il rischio di recidiva aumenta di circa il 30% nei pazienti con un primo episodio tromboembolico ed il concomitante riscontro di anticorpi anti-cardiolipina durante i 4 anni successivi all’evento acuto. Il rischio di recidiva e di morte è maggiore nei pazienti con aumentati livelli di auto-anticorpi circolanti ed in presenza di LA.

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- 32 -

Tabella 4: Criteri di Sydney per la diagnosi di sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi.

[Tratta da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

Una manifestazione clinica rara, ma estremamente grave è la “sindrome catastrofica da anticorpi anti-fosfolipidi” (Catastrophic Anti-Phospholipid Syndrome – CAPS), caratterizzata da estesi fenomeni di trombosi vascolare cui si associa ischemia/infarto multi-organo, con elevata mortalità. I pazienti presentano episodi tromboembolici venosi massivi, insufficienza respiratoria secondaria a ARDS 5, stroke, alterazione degli enzimi epatici e della funzione

renale, insufficienza cortico-surrenale ed infarti cutanei.

Nonostante l’elevata mortalità, i pazienti ricoverati per CAPS e sopravvissuti, vanno raramente incontro a recidiva.

Diagnosi

Per la diagnosi di sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi ci si avvale di criteri clinici e laboratoristici. I criteri diagnostici di riferimento sono quelli Sydney (17) (Tabella 4), che

comunque non sono vincolanti in maniera assoluta, poiché non considerano né l’ampio ed eterogeneo spettro di manifestazioni cliniche che caratterizzano la sindrome, né i casi di sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi siero-negativa (alcuni pazienti hanno manifestazioni cliniche tipiche, ma sono negativi ai test di laboratorio per il rilevamento degli auto-anticorpi).

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- 33 -

La diagnosi di laboratorio si avvale di prove di coagulazione, in cui i LA vengono rilevati attraverso l’inibizione che inducono a carico dei processi coagulativi fosfolipidi-dipendenti e di saggi immuno-enzimatici, in cui gli anticorpi anti-fosfolipidi e anti-cofattori proteici (es. anti-β2GPI) vengono rilevati tramite test ELISA 6.

I test basati sul rilevamento di IgG e IgM anti-cardiolipina sono i più sensibili e i meno specifici; quelli basati sull’identificazione di IgG e IgM anti-β2IGP sono più specifici, ma

meno sensibili; i test basati sull’anticoagulante lupico (LA) sono i meno sensibili, ma i più specifici.

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Tabella 5: Principali fattori responsabili di trombofilia ereditaria e rischio tromboembolico ad essi associato.

[Tratta da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

2.2.2 Fattori di rischio ereditari

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Gli stati trombofilici ereditari sono associati ad elevato rischio di trombosi soprattutto venosa, mentre resta dubbio il loro ruolo nelle trombosi arteriose.

Dal punto di vista genetico le mutazioni responsabili di trombofilia sono generalmente di tipo autosomico dominante e determinano deficit qualitativi o quantitativi a carico di inibitori della coagulazione oppure un guadagno funzionale a carico dei fattori di coagulazione.

Deficit di antitrombina

Il deficit di antitrombina si associa ad aumentato rischio di tromboembolismo venoso (1%/anno) ed è responsabile di un maggior rischio trombotico rispetto agli altri stati trombofilici ereditari (rischio 50 volte maggiore). La prevalenza nella popolazione generale è stimata tra 1:500 e 1:5000 ed è diagnosticato nello 0.5-4.9% dei pazienti dopo un primo episodio trombotico incidentale.

Si distinguono due tipi di deficit ereditario di AT: il tipo I (deficit quantitativo, più frequente) ed il tipo II (deficit funzionale). Lo stato di omozigosi si associa in particolare a morte intrauterina o a gravi episodi trombotici, talora fatali, nel periodo peri-natale.

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Deficit di Proteina C e Proteina S

Il deficit di proteina C e proteina S si associa ad un rischio trombotico e ad un fenotipo clinico variabili, a seconda che l’individuo affetto sia omozigote o eterozigote per il fattore mutato. In uno studio prospettico su soggetti asintomatici in famiglie portatrici del difetto genetico, l’incidenza di tromboembolismo venoso è risultata approssimativamente dello 0,5%/pazienti/anno nel caso di deficit di proteina C e dello 0,5-1.65%/pazienti/anno nei portatori di un deficit della proteina S. Il deficit di proteina C ha una prevalenza dello 0.2-0.3% nella popolazione Europea e viene diagnosticato nel 3% dei pazienti che sviluppano un episodio tromboembolico incidentale. Per il deficit di proteina S la prevalenza stimata in Europa è dello 0.5% e viene identificato nel 2-12% dei soggetti con trombosi incidentale. Gli individui eterozigoti hanno un 50% di probabilità di sviluppare trombosi entro i 45 anni di età e sono a rischio di eventi tromboembolici ricorrenti in età adulta. La condizione di omozigosi è più rara e si associa a manifestazioni cliniche gravi, precoci (anche alla nascita) e talora fatali, fra cui la porpora fulminans 7.

Si distinguono due tipi di deficit di proteina C (tipo I -quantitativo- e tipo II -qualitativo-), mentre se ne riconoscono tre per il deficit di proteina S, in base a parametri quali livello di proteina S totale e proteina S libera e grado di attività della proteina.

FV Leiden

Il FV Leiden è una variante patologica del FV dovuta ad una mutazione puntiforme (Arg506Gln) del gene codificante per la proteina. Questa mutazione conferisce al FVa una resistenza parziale all’inattivazione da parte del complesso proteina C attivata-proteina S ed è la causa più frequente di resistenza alla proteina C attiva (APCR – Active Protein C Resistance). Cause di resistenza acquisita alla APC sono gravidanza, uso di contraccettivi orali, sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi ed elevati livelli di FVIII.

Il FV Leiden è presente nel 5% della popolazione caucasica ed è 3-7 volte più comune nei pazienti affetti da tromboembolismo venoso. L’eterozigosi comporta un rischio trombotico 5 volte maggiore rispetto ai soggetti sani e la probabilità di sviluppare un evento trombotico nel corso della vita è del 5-10%, mentre negli omozigoti il rischio è maggiore di 30-140 volte. In ogni caso il FV Leiden, indipendentemente dal genotipo, è responsabile di un rischio

7 La porpora fulminans è una rara e grave condizione patologica, talora letale, caratterizzata da fenomeni di trombosi

intravascolare e necrosi emorragica a carico della cute, specie a livello delle natiche e delle estremità, a cui si accompagna lo sviluppo di coagulazione intravasale disseminata (CID). Interessa soprattutto lattanti e bambini e può essere secondaria ad infezioni batteriche acute, specie sepsi meningococciche (porpora fulminans acuta infettiva – forma più comune) o dovuta a deficit ereditario di proteina C e proteina S in omozigosi (porpora fulminans neonatale) oppure successiva ad un iniziale stato di malessere febbrile (di origine batterica o virale) di solito in individui con deficit di proteina S (porpora fulminans

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trombotico minore e di un fenotipo clinico meno aggressivo rispetto ad altri stati trombofilici ereditari (specie il deficit di antitrombina, ma anche quello a carico di proteina C e proteina S).

Inoltre il rischio di trombosi recidivante nei soggetti portatori della mutazione è aumentato, ma resta comunque piuttosto basso (sia in omozigosi che in eterozigosi) e lo stesso si è visto per gli individui con simultanea eterozigosi per il FV Leiden e per il FII G20210A (questi ultimi hanno però un rischio 20 volte maggiore di sviluppare un evento tromboembolico primario). Per questo motivo, nei soggetti eterozigoti non è raccomandata una profilassi anticoagulante secondaria dopo il primo episodio trombotico.

Questa mutazione è inoltre maggiormente associata a TVP che ad embolia polmonare, probabilmente perché determina la formazione di trombi più stabili e maggiormente adesi alla parete vasale (fenomeno noto come “paradosso del FV Leiden”).

FII G20210A

Si tratta di una mutazione puntiforme a carico del gene della protrombina che ne determina un aumento dei livelli plasmatici, con conseguente aumento della generazione di trombina. La frequenza di questa mutazione nella popolazione caucasica è stimata tra l’1% e il 6% ed il rischio di tromboembolismo ad essa associato è 3-4 volte maggiore nei soggetti eterozigoti rispetto agli individui sani, mentre l’omozigosi è di raro riscontro e determina solo un moderato incremento del rischio, spesso associato alla concomitante presenza di altri fattori di rischio, congeniti o acquisiti.

Come per il FV Leiden, anche in questo caso il rischio di eventi recidivanti è tale da non giustificare una profilassi anticoagulante secondaria dopo il primo episodio trombotico.

Defict di MTHFR e iperomocisteinemia

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Il 5, 10-metilene-tetraidrofolato reduttasi (Methylene Tetrahydrofolate Reductase - MTHFR) è un enzima che catalizza la conversione del 5,10-metilen-tetraidrofolato in 5-metil-tetraidrofolato. Il 5-metil-THF, principale forma circolante dei folati, è a sua volta co-substrato dell’enzima metionina-sintasi, responsabile della sintesi di metionina per ri-metilazione dell’omocisteina.

Il deficit di MTHFR rientra in un ampio ed eterogeneo gruppo di disturbi metabolici noti come “disordini della ri-metilazione”.

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