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Il Dodecaneso nella politica estera italiana.Dall'occupazione giolittiana al trattato di Parigi del 1947.

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Introduzione

Il Dodecaneso rappresenta un capitolo di storia coloniale italiana poco trattato dagli studiosi perché d’impatto assai minore per la nostra storia nazionale rispet-to all’impero africano (Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia). Le isole dell’Egeo

rap-presentarono tuttavia una periferica ma al contempo vasta parentesi della

politi-ca nazionale e internazionale, del colonialismo e della storia d’Italia. L’arco temporale della nostra occupazione (1912-1943) coincise infatti con importanti avvenimenti storici: dall’iniziale colonialismo italiano alla guerra italo-turca e ai mutamenti degli assetti statali conseguenti alla Grande Guerra; dal periodo in-terbellico all’avvento dei totalitarismi e alla seconda guerra mondiale.

E’ proprio sulle vicende intercorse nell’arcipelago in questo lasso di tempo, sulle sue ombre ma anche sulle sue luci, che il mio modesto lavoro incentra l’attenzione.

Il Dodecaneso consisteva in un piccolo arcipelago di isole dirimpettaie alla costa anatolica, la maggiore delle quali è Rodi, che già nel periodo classico rappresen-tò il centro culturale, artistico e commerciale di tutto il Medio Oriente.

L’Italia di Giolitti volle l’occupazione delle isole per indebolire l’impero otto-mano nel corso della guerra per la Libia.

Quando arrivarono gli italiani, le isole del Dodecaneso si presentavano in condi-zioni economiche di arretratezza e povertà. L’arcipelago languiva in una grave condizione di isolamento e desolazione a causa della scarsa attenzione che la Turchia aveva mostrato negli ultimi secoli di dominio.

Divenute per più di trent’anni possedimento italiano, tornarono all’antico splen-dore grazie ad un’amministrazione accorta e lungimirante per merito soprattutto del governatore Mario Lago, inviato in Egeo da un regime che si stava

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mac-chiando in Italia di crimini contro le libertà democratiche, ma che tuttavia lasciò per tredici anni (1923-1936) al suo rappresentante una notevole autonomia poli-tica, amministrativa ed economica.

Il governatore aveva la facoltà di emanare decreti legge non sottoposti all'appro-vazione di nessun organo di controllo, locale o centrale, mentre poteva decidere se e a quali condizioni estendere al possedimento le leggi emanate in Italia. Lago comprese che per mantenere la pace sociale era necessario rispettare la pe-culiarità multietnica e religiosa del Dodecaneso; concesse quindi significativi, anche se mai determinanti, spazi di autonomia alle popolazioni isolane. I tradi-zionali governi locali (demarchie) rimasero in vita presso la maggior parte delle comunità rurali e in gran parte delle città, seppur sottoposti ad interferenze da parte dell'amministrazione italiana, a partire dalla nomina dei vertici, che spetta-va al governatore.

Inoltre, sebbene fin dal 1926 Lago avesse introdotto una serie di misure che sot-toponevano tutti gli istituti scolastici alle autorità coloniali (con l'imposizione dell'italiano come materia obbligatoria d'insegnamento), venne tuttavia preserva-ta l'autonomia delle scuole private dipendenti dalle demarchie.

Il Dodecaneso fu nel Novecento l’unico caso di colonialismo sul suolo europeo. Colonialismo di bianchi su bianchi, esso ebbe carattere soprattutto culturale. L’occupazione delle isole non implicò drammatiche repressioni, come in Cire-naica ed Etiopia, né costrinse gli italiani ad una estenuante controguerriglia co-me quella attuata nei Balcani durante la seconda guerra mondiale.

Il fascismo mantenne quel dominio d’oltremare ereditato dall’Italia liberale, ap-profondì la già molto avviata opera di italianizzazione e quindi snazionalizza-zione delle popolazioni e puntò a farne una “vetrina” italiana in Oriente, un’oasi moderna in un contesto di arretratezza levantina.

Nel 1935-36, in concomitanza con la guerra d’Etiopia, rafforzò il carattere stra-tegico del possedimento, rimilitarizzandolo come base per la Regia Aeronautica

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e per la sua guerra mediterranea.

Con la proclamazione dell'impero e il progressivo avvicinamento al Terzo Reich, ci fu un mutamento della politica estera italiana in senso antifrancese e antibritannico. L'Italia reclamava adesso anche un nuovo ruolo nel Mediterraneo e il Dodecaneso assumeva un importante valore strategico.

In questa ottica imperialistica, il duce giudicò necessario sostituire il governato-re Lago con Cesagovernato-re Maria De Vecchi, quadrumviro della marcia su Roma e già governatore della Somalia. Il personaggio era di fanfarona arroganza; intolleran-te al punto che - appena insediato - voleva radere al suolo tutti i minareti di Rodi in quanto testimonianza della cultura orientale e così stravagante nelle ordinanze da imporre quella per cui chiunque, al passaggio della sua automobile, doveva fermarsi e fare il saluto romano.

De Vecchi mise in opera una politica di radicale cancellazione di tutte le tradi-zionali consuetudini educative e istitutradi-zionali delle comunità locali, politica che si rivelò del tutto sgradita alla maggioranza degli abitanti greco-ortodossi.

Il Dodecaneso fu inoltre il retroterra delle mire italiane nel Mediterraneo orien-tale culminate nella campagna di Grecia dell’ottobre 1940 (nei piani fascisti le Cicladi e le Sporadi avrebbero dovuto essere integrate nei "Possedimenti dell'E-geo" che era il nome ufficiale del Dodecaneso). Il perché questo pezzo di storia italiana sia finito nell'oblio - come sottolinea Luca Pignataro - risiedeva nel fatto che l'Italia aveva rovinosamente perso la guerra e quindi bisognava far dimenti-care queste attitudini da grande potenza e cerdimenti-care di ristabilire buoni rapporti con i paesi vicini, Grecia in primis.

Involontariamente, poi, si ricollegava il Dodecaneso Italiano con l'attacco alla Grecia, una pagina nera della nostra storia. E tutto quello che poteva essere d'o-stacolo ai buoni rapporti italo-ellenici doveva essere dimenticato. La cessione al-la Grecia dell'arcipeal-lago era ritenuta al-la giusta punizione storica. A ciò andava

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aggiunto la limitatezza del contesto geografico e la sua perifericità.

Per la compilazione della tesi mi sono avvalso dei pochi testi pubblicati sull’argomento, tra i quali figurano i lavori di Nicholas Doumanis “Una faccia una razza. Le colonie italiane dell’Egeo”; Maria Grazia Pasqualini “L’esercito italiano nel Dodecaneso 1912-1943. Speranze e realtà”; e Massimo Peri “La po-litica culturale del fascismo nel Dodecaneso”.

La tesi risulta così suddivisa:

 Il primo capitolo è un necessario inquadramento del contesto geografico, storico ed etnico delle isole in questione. Ho esplorato poi le motivazioni che portarono il Dodecaneso ad essere, dal 1912, al centro delle attenzioni nella politica estera italiana. Particolare rilevanza è stata data alle opera-zioni belliche per la conquista dell’arcipelago ma anche alle vicende lega-te al periodo inlega-tercorrenlega-te tra la stipulazione del Patto di Londra (aprile 1915) e la firma del trattato di Versailles (giugno 1919), durante il quale le isole furono al centro di intense trattative diplomatiche per decidere la loro sorte. Nel 1920, con gli accordi Tittoni-Venizelos, sembrò che solo Rodi e Castelrosso sarebbero rimaste all'Italia e le restanti cedute alla Grecia. Nel 1922, tuttavia, la catastrofe greca in Asia Minore e l'avvento al governo di Mussolini segnarono il punto di svolta per un radicale cam-bio di strategia.

 Il secondo capitolo tratta invece degli effetti del trattato di Losanna (luglio 1923), con il quale l’Italia trasformava da provvisorio in definitivo il pos-sesso dell’arcipelago e delle successive vicende del Dodecaneso negli an-ni tra le due guerre, prestando particolare attenzione ai governatorati di Lago (che coincise con il periodo d’oro del possedimento ed era di orien-tamento paternalistico più che autoritario) e De Vecchi (con il quale l’italianizzazione delle isole si fece più persuasiva e la repressione si

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in-tensificò).

 Il terzo capitolo analizza gli eventi accaduti in Egeo negli anni del secon-do conflitto mondiale. Nello stesso capitolo ho cercato di esporre sinteti-camente anche la Campagna di Grecia; una delle più tragiche avventure militari italiane di tutti i tempi che ebbe ripercussioni traumatiche per l'immagine del Paese e del regime che lo governava. Le nostre divisioni mossero contro la Grecia senza il vantaggio della sorpresa, con un arma-mento vecchio, sotto la guida di generali divisi da rivalità e beghe carrie-ristiche, per la decisione di Mussolini di regolare il conto che fin dal 1923 aveva con la nazione ellenica (i componenti della missione italiana guida-ta dal generale Tellini erano sguida-tati massacrati durante i lavori per la delimi-tazione dei confini meridionali albanesi, probabilmente per mano di ban-diti greci; il duce per rappresaglia aveva fatto sbarcare truppe a Corfù, riti-rate dopo un mese per le pressioni britanniche). I rovesci sul fronte greco-albanese fecero definitivamente tramontare le ambizioni di Mussolini di condurre una guerra parallela in piena autonomia dall'alleato tedesco; da quel momento in poi l'Italia proseguì le sorti del conflitto solo come satel-lite della Germania.

 Il quarto infine prende in considerazione i combattimenti successivi all’armistizio. L’azione coraggiosa dell’ammiraglio Luigi Mascherpa, non aiutata dal comportamento incerto del governatore Inigo Campioni e dal ritardo del contingente britannico, condusse alla resa ai tedeschi, nono-stante le nostre truppe avessero la supremazia numerica e territoriale in questo scacchiere. Un pesante tributo di sangue venne pagato dai soldati italiani nei combattimenti contro gli ex alleati: 1500 caduti e più di 250 fucilati. Una sorte ancora più tragica fu riservata ai nostri militari deporta-ti verso i campi di concentramento tedeschi; sdeporta-tivadeporta-ti a migliaia nei mercan-tili, 13.000 di loro morirono affogati per effetto degli attacchi inglesi. Viene descritto anche il duro periodo dell’occupazione nazista del

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Dode-caneso, che seppur ancora sottoposto all’autorità della repubblica sociale italiana, era di fatto amministrato in toto dai tedeschi fino alla sua perdita definitiva nel 1945, sancita formalmente con il trattato di pace del 1947.

                                                 

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Capitolo I - La conquista e l'occupazione

ita-liana

1.1 Le premesse storiche dell’occupazione

Il Dodecaneso è un arcipelago (27.000 chilometri quadrati con circa 150.000 a-bitanti) contiguo al litorale sud-occidentale dell’Anatolia, di fronte al tratto di costa fra Smirne e Adalia. Le isole maggiori sono Rodi (Rodos), che da sola co-stituisce circa il 50% della superficie dell’arcipelago, Scarpanto (Karpathos), Caso (Kasos), Coo (Kos), Calino (Kalymnos), Stampalia (Astypalea), Lero (Le-ros), Piscopi (Tilos), Nisiro (Nisy(Le-ros), Calchi (Halke), Lisso (Leipsoi), Patmo (Patmos), Simi (Syme) e Castelrosso (Kastellorizon). Geograficamente turco, il Dodecaneso era etnicamente greco: i greci rappresentavano circa l’85% della popolazione, i turchi il 10%, mentre il restante 5% era diviso fra gli ebrei sefar-diti e una modesta comunità franca; quest’ultima era costituita dai discendenti degli antichi viaggiatori e commercianti europei - in larga parte italiani - che si erano stanziati sulle isole in epoca medioevale.

La comunità ebraica, invece, era approdata a Rodi nel XVI secolo; discendeva da un gruppo di ebrei spagnoli fuggiti all’Inquisizione e insediatisi nell’isola di Rodi dove furono bene accolti e mai molestati dai cavalieri gerosolimitani e ne-anche dai turchi quando divennero padroni dell’isola.

L’occupazione italiana dell’arcipelago si inserì in un momento denso di avveni-menti a livello internazionale in cui le grandi potenze non avevano rivali nel procedere a conquiste di territori non in grado di offrire una resistenza adeguata. In particolare vi era in gioco la spartizione delle spoglie dell’impero ottomano - che stava perdendo territori su tutti i fronti - a cui anche l’Italia decise di

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parte-cipare.

Durante la guerra italo-turca per la conquista della Libia, nell’aprile 1912, i no-stri soldati sbarcarono su tredici isole del Mar Egeo.

Sporadi Meridionali o Tredici Sporadi, furono le prime improprie denominazio-ni attribuite alle isole occupate, poiché, in realtà, delle Sporadi Meridionali face-vano parte solo alcune delle 13 isole disseminate nella parte sud-orientale del Mar Egeo, fra le Cicladi e le Sporadi Meridionali che dopo il maggio 1912 pre-sero la denominazione ufficiale di Dodecaneso mentre nelle fonti medioevali, ta-le voce, indicava invece ta-le Cicladi.

Etimologicamente,la radice del nome sembrerebbe indicare un gruppo di dodici isole, ed in effetti all’origine il concetto era questo, ma non riferito al possedi-mento italiano dell’Egeo, bensì al gruppo di isole del dominio ottomano che go-devano di particolari privilegi: Ikaria, Patmos, Kalymnos, Astypalea, Nissiros, Tilos, Symi, Chalki, Karpathos, Kassos e Kastellorizo che nel 1909 alcuni gior-nali greci definirono Dodecaneso ottomano. L’uso dell’espressione è quindi dubbio sia che si riferisca al numero delle isole privilegiate occupate dall’Italia che erano 11 (poiché Kastellorizo venne occupata nel 1921), sia che si riferisca a tutte le isole occupate senza distinzione dall’Italia, che erano 13.(1)

Il nome Dodecaneso cadde presto in disusonel lessico burocratico. Negli atti

uf-ficiali le isole occupate dal governo italiano figureranno come Isole Italiane dell’Egeo, come stabilito in un comunicato diffuso dalla presidenza del Consi-glio dei ministri il 21 settembre 1929 e poi sancito da decreto reale nel 1930. Provvedimento reso necessario per unificare le diverse denominazioni in uso fi-no a quel momento - “Isole Egee”, ”Dodecaneso”, ”Sporadi Meridionali” - e per esprimere in maniera inequivocabile l’appartenenza all’Italia.(2)

La conquista dell’arcipelago non rappresentava un esordio per l’Italia nella sua storia coloniale, poichè il primo atto del colonialismo italiano risaliva al 1869, data in cui la società di navigazione Rubattino acquistò la baia di Assab,

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nell’attuale costa eritrea; una striscia di terra costata 30.000 lire e che rimase per lungo tempo priva di seguito, dato che le esigue dimensioni della base commer-ciale ivi stanziata non consentivano alcuna reale apertura per i commerci verso l’oriente. Soltanto nel luglio del 1882 Assab passò da stabilimento privato a pos-sedimento statale. Nel 1884 l’Italia estendeva il suo dominio alla vicina Mas-saua.

Dopo Massaua gli italiani conquistarono Asmara e fondarono la colonia Eritra tra il 1885 e il 1890; occuparono la Somalia (1899-1905); nel 1901, come com-penso per l’intervento a fianco della spedizione internazionale incaricata di sop-primere in Cina la rivolta dei boxer, ottennero la concessione territoriale di Tien Tsin (46 ettari).(3)

Il mito della Grande Italia, dopo essere stato la maggiore forza propulsiva del patriottismo risorgimentale, continuò a esercitare il suo fascino nell’Italia unita. I governanti dello stato nazionale, anche i più realistici e consapevoli delle con-dizioni reali del paese, non si rassegnarono a prefigurare per l’Italia unita un fu-turo simile a quello dello Svizzera. Marco Minghetti, presidente del Consiglio nel 1863-1864 e nel 1873-1876, per esempio, respinse sdegnosamente i consigli di chi additava all’Italia risorta, come modello cui ispirarsi, l’esempio di nazioni neutrali come la Svizzera o il Belgio: “Un gran paese”, aveva replicato, “non può concentrare in questo modo in se stesso la sua attività. Il bisogno di espan-sione della giovinezza, se non gli si aprono talune grandi prospettive, si inacidi-rà, si svolgerà in corruttela e malcontento”. Malgrado la modestia delle sue forze reali, l’Italia liberale rivendicò un ruolo da grande potenza nel concerto europeo.

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Con il ministero di Francesco Crispi, venne intrapresa un’ambiziosa opera di penetrazione italiana in Africa Orientale.

Il possesso della Somalia e dell’Eritrea doveva servire come trampolino di lan-cio per la conquista dell’Etiopia,considerata dallo statista siciliano una terra ca-pace di accogliere le masse meridionali indigenti.

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A questo proposito, nel 1889 venne stipulato tra il regno d’Italia e l’impero d’Etiopia un trattato internazionale detto di Uccialli dalla località in cui fu con-cluso.(5)

Il trattato obbligava il governo etiope a servirsi della diplomazia italiana per in-trattenere rapporti con le altre nazioni europee, rendendo di fatto l’Abissinia un protettorato italiano.

Apposite monete d’argento, con re Umberto I cinto di una gigantesca corona imperiale etiopica, erano state coniate dalla zecca di Roma, per mettere in con-dizione i futuri sudditi africani di conoscere l’effigie della nuova dinastia.

Tuttavia la versione etiope del trattato prevedeva solo la facoltà per l’Etiopia di servirsi della diplomazia italiana per intrattenere relazioni estere, rifiutando però qualsiasi forma d’ingerenza .

La controversia sul trattato di Ucciali fu la causa della prima guerra d’Abissinia (1895-1896).

Il primo marzo 1896 le forze italiane, comandate dal generale Oreste Baratieri, vennero rovinosamente sconfitte ad Adua.(6)

Nell’ottobre, dopo lunghi negoziati si giunse alla firma del trattato di pace di Addis Abeba, con il quale il negus riconobbe il protettorato italiano sull’Eritrea, ma in cambio il governo italiano fu costretto a rinunciare a qualsiasi ingerenza nella politica del governo etiope.

Crispi uscì definitivamente dalla scena politica nazionale.

Il disastro di Adua arrestò per molti anni le nostre ambizioni coloniali in Africa Orientale

Tuttavia, già con il governo Giolitti, ci fu una progressiva ripresa della nostra politica espansionistica nel Mediterraneo.

A ciò contribuì anche la fondazione, nel 1910, dell’Associazione Nazionalista Italiana ad opera di Enrico Corradini. L’ideologia nazionalista combatteva l’umanitarismo, l’internazionalismo, il pacifismo, il socialismo ma soprattutto sollecitava la ripresa dell’espansionismo coloniale, invocando una guerra, una

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qualsiasi, per rinnovare l’Italia condannata alla più bassa esistenza tra la miseria materiale dei suoi emigranti e la miseria morale dei suoi politicanti.

Per i nazionalisti Adua aveva messo a nudo non tanto l’impreparazione dell’esercito quanto la fragilità della coscienza nazionale.

Il nazionalismo imperialista voleva promuovere l’adozione di una politica estera energica, sostenuta dal potenziamento delle forze produttive e dell’apparato mi-litare, essendo convinto che l’Italia, per mancanza di un’ambiziosa e aggressiva politica estera e coloniale,sarebbe stata tagliata fuori dalla competizione impe-rialista, e degradata dal rango di grande potenza.(7)

Nel 1911 l’Italia intraprese la conquista dei territori ottomani della Tripolitania e della Cirenaica.

Come per l’acquisto di Assab, anche nell’occupazione della Libia, la scelta dell’Italia non fu motivata da caratteristiche particolarmenteappetibili in termini

di risorse naturali o di spazi per la colonizzazione demografica, ma piuttosto

perché si credeva che il controllo italiano della Libia avrebbe migliorato la posi-zione navale e strategica nel Mediterraneo centrale.

Inizialmente il principale obbiettivo nordafricano della nostra politica estera era stato la colonizzazione della Tunisia, cui ambiva anche la potente Francia.

Questa nazione dal 1574 entrò a far parte dell’impero ottomano. A capo della provincia tunisina i turchi avevano posto un governatore, il bey. Quando nella seconda metà del XIX secolo l’influenza europea cominciò ad intensificarsi, la Tunisia era in pratica uno stato autonomo.

Il bey aveva un proprio esercito e una propria flotta, una propria zecca, dichiara-va guerra e stipuladichiara-va trattati di pace, intrattenedichiara-va relazioni diplomatiche e sotto-scriveva convenzioni. La Tunisia aveva anche una propria bandiera. D’altro can-to il bey rivestiva la carica di governacan-tore dell’impero otcan-tomano; ogni nuovo bey, infatti, nell’assumere l’incarico doveva chiedere il riconoscimento da parte del sultano.

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quella proveniente dalla Sicilia.

Nel corso del XIX secolo il peso numerico e socio-economico degli italiani in Tunisia aumentò costantemente.

Di pari passo si assisteva ad una progressiva affermazione della lingua italiana, il cui utilizzo era già diffuso a partire dal XVII secolo, all’interno di ogni strato sociale, sia come veicolo degli scambi commerciali, sia come lingua degli atti ufficiali. Gli italiani iniziarono a darsi una propria organizzazione sul territorio, fino ad acquisire la fisionomia di una vera e propria collettività.

Negli anni 1870 il numero dei nostri connazionali presenti in Tunisia si attestava sulle 25.000 unità.

Non soltanto era la più numerosa fra le comunità straniere, ma deteneva un asso-luto primato negli affari commerciali, bancari, marittimi, professionali, senza contare il peso rilevante nell’agricoltura e nell’industria.

Ma a Tunisi l’Italia post-unitaria guardava anche per motivi strategici, per com-pletare la difesa della penisola.

La Tunisia era considerata come una provincia virtualmente italiana, destinata a diventare tale non appena le circostanze lo avessero permesso.

L’Italia confidava anche nella possibile opposizione della Gran Bretagna all’allargamento della sfera d’influenza francese in Africa del nord.(8)

Le ambizioni italiane, che divennero sempre più esplicite, rappresentarono la svolta decisiva sul processo decisionale della Francia in merito all’intervento. Nel 1881 la Francia occupò la Tunisia: l’atto militare fu considerato un oltraggio alla corona italiana e i rapporti con la potenza transalpina si compromisero. La conquista di Tunisi sembrava preludere all’asservimento italiano alla Francia e l’unico rimedio per scongiurare questa ipotesi era rappresentato da un’alleanza con gli Imperi Centrali.

L’Italia umbertina si risolse a stipulare, il 20 maggio 1882, il Trattato della Tri-plice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria.

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fosse attaccata dalla Francia; soccorso da parte delle altre due nel caso una delle contraenti fosse attaccata da due o più potenze nemiche; l’assicurazione di neu-tralità benevola da parte delle altre due nel caso una delle potenze firmatarie, minacciata, si fosse vista costretta a scatenare una guerra.

Nella stipulazione del trattato, l’Italia ottenne l’inserimento di un accordo ag-giuntivo che vincolava le potenze firmatarie a non rivolgere le norme del trattato contro la Gran Bretagna. Ciò a causa della potenza navale inglese nel Mediter-raneo.

Il governo italiano dovette però rinunciare ad ogni rivendicazione sulle terre a-driatiche in mano all’Austria, che i gruppi democratici e radicali di estrazione

mazziniana consideravano necessarie al completamento dell’unità nazionale.(9)

L’Italia, dopo l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III, volle riprendere la sua politica estera in difesa dei propri interessi nell’area adriatico-balcanica, pertanto le relazioni con la nazione d’oltralpe migliorarono sensibilmente.

Nel dicembre 1900, uno scambio di note segrete tra il gabinetto francese e quel-lo italiano, definì le sfere di influenza reciproche nel Mediterraneo: il governo d’Italia rinunciava definitivamente ad ogni pretesa sulla Tunisia e dava il suo consenso per la penetrazione francese in Marocco, mentre la Francia assicurava il disinteresse relativamente alla Tripolitania.

1.2 La guerra italo-turca

Su questo poverissimo paese, incolto e improduttivo per il 95%, regnavano dal 1835 i sovrani di Costantinopoli, ormai incapaci di tenere un impero che si stava sgretolando sotto l’urto di mille forze centrifughe. Dalla Libia, essi non riceve-vano che poche tasse, che serviriceve-vano a malapena a mantenere in funzione l’amministrazione turca nei due vilayet di Tripoli e Bengasi, e non certo allo svi-luppo del paese.(10)

La diplomazia italiana aveva scelto inizialmente la via della penetrazione pacifi-ca. S’era valsa a tal fine d’una banca cattolica - il Banco di Roma - installatasi in

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Tripolitania nel 1907 con un ambizioso programma finanziario e industriale: comprare terre, aprire imprese agricole e industriali, creare una clientela favore-vole agli italiani con una accorta politica di prestiti.

La rivolta dei Giovani Turchi nel 1908 aveva tuttavia impresso un carattere di-namico e nazionalista al governo dell’impero. Di conseguenza, l’opera di pene-trazione finanziaria e commerciale fatta dall’Italia in Libia veniva seriamente in-tralciata ed ostacolata dalla Turchia, col chiaro scopo di limitare l’influenza ita-liana.

A ciò andava aggiunto il timore di un’azione in Libia della Germania guglielmi-na per impadronirsene economicamente.

La Germania, infatti, stava diventando il protettore internazionale della Turchia dove le sue aziende avevano conquistato posizioni importanti. I suoi generali addestravano l’esercito turco. Inoltre il governo del reich progettava la costru-zione di una grande ferrovia da Berlino a Baghdad. L’alleato italiano rischiava di rendere ancora più traballante, con le sue ambizioni mediterranee, il perico-lante edificio dell’impero ottomano.

Il 24 settembre Giolitti ottenne da Vittorio Emanuele III il consenso per l’invio di un ultimatum alla Turchia, col quale si chiedeva al governo turco di permette-re l’occupazione italiana della Tripolitania e della Cipermette-renaica, motivando la ri-chiesta con le continue ostilità manifestate dalla Turchia verso le iniziative ita-liane in Libia.

L’ultimatum naturalmente venne respinto.

Da ciò il governo Giolitti prese la decisione di dichiarare guerra alla Turchia il 29 settembre e di apprestarsi ad invadere la Cirenaica e la Tripolitania.

Un’intensa campagna per l’intervento in suolo libico divenne incalzante anche per anche sulla spinta del settimanale “L’Idea Nazionale” di Enrico Corradini, che diede nuovo slancio alla propaganda colonialista, riabilitando la figura di Crispi come primo pioniere ed eroe dell’espansione italiana oltremare.

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lava-cro della nazione nel sangue sacrificale, per consacrare la sua ascesa al rango di grande potenza. L’impresa coloniale fu salutata come una nuova resurrezione dell’Italia, che, attraverso il sacrificio dei suoi figli, riscattava l’onta di Adua e la mediocre prova d’armi data dall’Italia unita in altre campagne militari. I soldati italiani che combattevano nel deserto libico apparvero trasfigurati come eredi dei legionari romani, campioni della rinascita della stirpe, modello vivente e non più vagheggiato dell’ “italiano nuovo”.

A giustificazione della guerra coloniale, venne rilanciato il mito della missione civilizzatrice, che incombeva come dovere storico sull’Italia, erede di Roma e sede eletta della cristianità. A questo mito si aggiunse il mito di recente conio della “nazione proletaria”, spinta all’espansione e alla conquista di colonie dalla prorompente vitalità demografica della stirpe, per non dover più disperdere nel mondo il proprio sangue, le proprie energie produttive, con le centinaia di mi-gliaia di italiani che emigravano ogni anno.(11)

Per i nazionalisti l’emigrazione era una vergogna, datoché non era tollerabile che un paese abbandonasse tanti suoi figli in mani straniere e ostili; essi erano energia di cui l’Italia si privava a vantaggio di altri.

Corradini scrisse nel 1911:

“Il socialismo dice: la politica di conquista coloniale è contraria all’utile del proletariato! Noi diciamo: contraria all’utile del proletariato è l’emigrazione.”(12)

La Tripolitania veniva descritta come una terra promessa: ricca di misteriose, i-nesplorate ricchezze; adatta alla colonizzazione italiana; in grado di aprire gran-di sbocchi alle nostre esportazioni:

“Con una terra così fertile e le ricchezze minerarie che nasconde, la Libia può diventare per l’Italia, tanto una colonia di popolamento che di sfruttamento, ma la ragione prima e massima della conquista è mediterranea e in-ternazionale. Gli olivi e le oasi debbono attirarci, e metterli a frutto sarà opera nostra di questo secolo. Ma il pas-sare il mare pas-sarebbe per noi un dovere, anche se dovesse essere un sacrificio. Dall’impresa tutti ne trarranno van-taggi: la borghesia, il proletariato, il governo, lo stesso Meridione, perché risolvere la questione del Meridione e occupare Tripolitania, non sono due atti divergenti.”(13)

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Ed ancora:

“Ho veduto gelsi grandi come faggi, ulivi più colossali che le querce. L’erba medica può essere tagliata dodici volte all’anno. Gli alberi da frutta prendono uno sviluppo spettacoloso. Il grano e la meliga danno, negli anni medi, tre o quattro volte il raccolto dei migliori terreni d’Europa coltivati razionalmente. L’orzo è il migliore che si conosca ed è accaparrato dall’Inghilterra per la sua birra. Il bestiame prospera, e anche nello spaventoso ab-bandono odierno, è esportato a centinaia di migliaia di capi per Malta e l’Egitto. La vigna dà grappoli di due o tre chili l’uno. I poponi crescono a grandezze incredibili, a venti e trenta chili per frutto. I datteri sono i più dolci che l’Africa produca.

La sterilità della Tripolitania è una turpe leggenda. La Tripolitania è la soluzione del problema dell’emigrazione e del problema meridionale. Può ospitare milioni di italiani che lavoreranno per sé e per la patria. Sull’altipiano della Cirenaica centinaia di migliaia di coloni potrebbero prosperare su questo territorio di valore incomparabi-le.”(14)

Il corpo di spedizione italiano per la conquista della Libia era costituito da due divisioni di fanteria, due reggimenti di bersaglieri, un reggimento di artiglieria da campagna, due compagnie di artiglieria da fortezza, un battaglione di zappa-tori del genio, due squadroni di cavalleria, una compagnia telegrafisti. In totale circa 34.000 uomini, 6.300 quadrupedi, 48 cannoni da campagna, 24 pezzi da montagna, 4 stazioni radio da campo.

Il comando delle truppe fu affidato al generale Carlo Caneva, che aveva già par-tecipato alla campagna d’Africa del 1896-1897, i cui ricordi nefasti finiranno per incidere fortemente su tutto il suo operato in Libia.

Poiché tale corpo di spedizione non sarebbe stato disponibile prima del 10 otto-bre, tra il 27 settembre e il 1° ottootto-bre, a scaglioni, la flotta italiana si diresse sola verso le coste libiche.

Mentre le divisioni navali del vice-ammiraglio Aubry e del contrammiraglio Presbitero si diressero verso la Cirenaica, per parare un’eventuale minaccia della flotta turca, le divisioni al comando del vice-ammiraglio Luigi Faravelli rag-giunsero le acque di Tripoli. Quest’ultima forza navale comprendeva tra coraz-zate, incrociatori, cacciatorpediniere e naviglio minore, più di venti navi.

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l’ammiraglio Faravelli ordinò il cannoneggiamento di Tripoli per smantellare i forti e le batterie costiere del nemico.

Il 5 ottobre un contingente di 1732 marinai, prelevato dalle varie unità, al co-mando del capitano di vascello Umberto Cagni sbarcò, procedendo all’occupazione della città.

Al momento dello sbarco italiano le forze turche presenti in Libia ammontavano ad una divisione, la 42a, ma non completa, perché quattro battaglioni di fanteria erano stati trasferiti nello Yemen per sedarvi una rivolta. In tutto erano circa 4.000 uomini, di cui 3.000 in Tripolitania e 1.200 in Cirenaica. A queste forze andavano aggiunte quelle della gendarmeria (1.500 uomini) e della milizia indi-gena (3.000 uomini).

Il governo turco faceva anche affidamento sulla Senussia, che era in grado di armare, con vecchi fucili Gras e Martini, dai 25.000 ai 30.000 combattenti, come poi infatti accadrà.

Le truppe regolari turche disponevano anche di una cinquantina di cannoni a tiro rapido Krupp da 75 mm.(15)

Il 6 ottobre venne occupata Tobruk, dove i turchi si ritirarono senza combattere. A Derna, invece, dopo aver respinto l’intimazione di resa, i soldati turchi difese-ro per due intere giornate l’abitato e si ritiradifese-rono soltanto quando la cittadina fu ridotta, dal fuoco delle navi, ad un ammasso di macerie.

La quarta città a cadere fu Homs, ad un centinaio di chilometri ad est di Tripoli. Sottoposta, il 17 e il 20 ottobre, a brevi cannoneggiamenti, essa venne occupata il 21. Homs serbò agli italiani una sgradita sorpresa. Gli arabi infatti combatte-rono al fianco del presidio turco.

Il 19 ottobre venne investita anche Bengasi, città cirenaica di 22.000 abitanti. L’operazione fu diretta dal vice-ammiraglio Aubry, che si presentò dinanzi alla città con 27 unità, tra navi da guerra e da trasporto. Dopo un vano tentativo di ottenere la resa della guarnigione ottomana, cinquemila soldati italiani agli ordi-ni dei generali Briccola e Ameglio sbarcarono sulla spiaggia a sud della città.

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Anche a Bengasi gli arabi combatterono a fianco dei turchi, riuscendo a resiste-re stresiste-renuamente, nonostante fossero molto inferiori di numero agli attaccanti. Per infrangere le difese arabo-turche, le artiglierie navali bombardarono la cit-tà.(16)

L’alto costo dell’impresa, non compensò affatto le aspettative politiche: l’opposizione del notabilato locale e la strenua resistenza turca furono il preludio di un prolungamento imprevedibile e indefinito dello scontro armato. Le previ-sioni di una facile conquista della Libia e di una condotta arrendevole

dell’impero ottomano naufragarono insieme alla speranza di un saldo controllo

della colonia.

Le nazioni europee facevano pressioni sull’Italia per la cessazione delle ostilità, rendendo noto il proprio dissenso nei confronti dell’azione italiana. Soprattutto la Francia temeva la compromissione dei propri commerci mediorientali, dovu-ta, in particolar modo, al crescente controllo esercitato dalla Regia Marina nelle acque del Mediterraneo.

Infatti, il timore di contrabbando di armi e di invio di rinforzi in Libia aveva comportato un inasprimento della vigilanza italiana nel Mediterraneo e causato contestualmente il disappunto francese.

Il 16 gennaio 1912 un postale francese, il “Carthage”, che si sospettava traspor-tasse un aereo destinato alla forze turche in Libia, venne fermato da un azione navale italiana. L’aereo fu effettivamente trovato e la nave convogliata verso Cagliari dove venne sequestrata. Il rilascio fu concesso soltanto dopo dure prote-ste di Parigi, che soprote-steneva che l’aereo andava non in Tripolitania, ma in Tuni-sia. Due giorni dopo anche un altro piroscafo, il “Manouba”, fu fermato. A bor-do c’erano ventinove ufficiali turchi,un fatto che sembrò giustificare l’accusa i-taliana, almeno fintanto che i francesi affermarono che si trattava di funzionari della Mezzaluna Rossa, la versione turca della Croce Rossa. In seguito a questi incidenti le relazioni italo-francesi decaddero ad un livello mai toccato nei dieci anni precedenti. In Italia corsero persino voci che la marina a La Spezia e

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l’esercito lungo le Alpi si preparassero a far fronte ad un attacco francese. Tutta-via gli incidenti del “Carthage” e del “Manouba” furono ben presto conclusi.(17)

Venne aperto un nuovo fronte nel Mar Rosso, dove le unità della Regia Marina svolsero un’intensa attività per proteggere la colonia dell’Eritrea da incursioni turche, bloccare possibili rifornimenti alla Cirenaica attraverso il Mar Rosso ed accendere la guerriglia nel territorio stesso dell’Arabia, che i turchi conservava-no tra molte difficoltà, alleandosi con lo sceicco dell’Assir, El-Idris, che era in-sorto contro le autorità ottomane nel tentativo di impadronirsi dei luoghi santi dell’Islam.(18)

Giolitti si rendeva però conto che non era nel Mar Rosso che si potevano decide-re le sorti del conflitto, e neppudecide-re in Libia, dove la guerra poteva duradecide-re per anni senza indebolire per niente l’impero ottomano.

Stante l’incertezza, per forzare la Turchia a cedere la Cirenaica e la Tripolitania, il governo italiano decise di portare la guerra presso il territorio metropolitano del nemico, con lo scopo di minacciare da vicino il centro nevralgico della Su-blime Porta e costringerla a cedere le sue regioni nordafricane, rinunciando a qualsiasi forma di resistenza. Tale scelta richiese un’attenta disamina delle pos-sibili opzioni da considerare: non si sarebbero potute occupare né Salonicco, né

Smirne, né Costantinopoli senza danneggiare il commercio internazionale e

pro-vocare dure reazioni da parte delle altre potenze.

Da tempo le alte sfere militari facevano pressione per spostare il centro delle

o-perazioni nell’Egeo, per poter colpire più direttamente la Turchia, sottraendole

le isole del Dodecaneso e andando ad insidiarla nel vitale stretto dei Dardanel-li.(19)

Giolitti, inizialmente, non autorizzò questa estensione del conflitto perché era a conoscenza che l’Austria osteggiava l’apertura di questo nuovo fronte. Per far recedere Vienna dalle sue posizioni intransigenti, Giolitti si appellò alla media-zione dell’imperatore tedesco.

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l’Italia e che a causa di ciò fosse messa in pericolo l’esistenza della Triplice Al-leanza stessa.

Il 7 febbraio 1912 era morto il ministro degli esteri austriaco Aerenthal, sostitui-to dall’ambasciasostitui-tore a Pietroburgo, Berchsostitui-told, giudicasostitui-to da San Giuliano come “persona senza idee proprie ed asservita interamente alla camarilla aulica e mili-tare”.

I rapporti fra Italia e Austria non potevano dirsi propriamente amichevoli.

Anche se l’allontanamento di Conrad dalla carica di capo di stato maggiore dell’esercito, deciso il 30 novembre 1911 dall’imperatore, aveva tolto di mezzo uno dei personaggi più contrari all’Italia, l’Austria non era per nulla intenzionata a consentire alla Regia Marina di affacciarsi nell’Egeo.

Nel marzo 1912, il kaiser Guglielmo II, che teneva molto al rinnovamento della Triplice, incontrò Vittorio Emanuele III a Venezia, impegnandosi a fare pressio-ni sull’Austria-Ungheria per dare via libera all’azione militare italiana nell’Egeo.

Forte di questo appoggio, il ministro degli esteri San Giuliano avvertì Berchtold

che il contrabbando militare turco obbligava l’Italia a bloccare le provenienze

dall’Egeo,impossessandosi temporaneamente di alcune isole. Berchtold resisté a lungo risollevando la questione dell’articolo VII del trattato della Triplice Alle-anza, vietante qualunque occupazione dei territori europei dell’impero ottomano, e sostenendo che tutte le isole dell’Egeo facevano parte della Turchia europea. L’Italia obbiettava che l’articolo VII si riferiva ad occupazioni permanenti e non temporanee, e che il vilayet delle isole del basso Egeo, essendo compreso nei vi-layet dell’Asia non doveva venire considerato europeo. Il definitivo sblocco del-la situazione avvenne il 12 aprile 1912, quando il ministro austro-ungarico Ber-chtold assentì all’iniziativa italiana a condizione però che l’occupazione fosse temporanea e che una volta firmato il trattato di pace le isole fossero restituite alla Turchia.

(21)

l’occupazione delle sole isole di Rodi, Stampalia e Scarpanto.(20)

Vittorio Emanuele III parlò con “franchezza sorprendente”,come riconobbe il

kaiser con compiacimento, ed ebbe l’abilità di persuadere il suo interlocutore

che l’Italia desiderava giungere al più presto possibile alla pace per lasciare in Libia le sole guarnigioni indispensabili e riordinare l’esercito metropolitano,

co-sì da trovarsi in condizioni di assolvere i suoi impegni di alleata della Triplice

Alleanza.

1.3 L’occupazione italiana

A metà aprile vennero iniziate le grandi operazioni che dovevano portare all’occupazione delle Sporadi meridionali. L’apertura di questo terzo fronte era ufficialmente motivata da queste esigenze: troncare il rifornimento di armi dalla Turchia alla Libia; portare la guerra nei luoghi in cui la Turchia era più vulnera-bile; entrare in possesso di un pegno da far valere nelle future trattative di pace. Il 18 aprile le corazzate della squadra navale del duca degli Abruzzi cannoneg-giarono i forti turchi all’ingresso dei Dardanelli, mentre la divisione navale dell’ammiraglio Presbitero compiva un’incursione lungo le coste dell’Anatolia, contro i forti di Smirne e di Cesmè e tagliava i cavi telegrafici delle isole di Chio e di Scarpanto.(21)

Il 28 aprile l’ammiraglio Presbitero occupava l’isola di Stampalia e faceva pri-gioniera la guarnigione turca. Il 4 maggio, il corpo di spedizione del generale Ameglio costituito da 8 mila uomini, sbarcò nella baia di Kalitheas, nell’isola di Rodi, che era difesa da 1500 soldati turchi della guarnigione di Salonicco. Tra il

5 e il 20 maggio vennero occupate senza combattimenti le isole di Lisso, Calino,

Calchi, Piscopi, Lero, Simi, Coo, Scarpanto, Caso, Patmo e Nisiro. I turchi non opposero resistenza che a Rodi, in una battaglia che si svolse il 16 maggio all’interno dell’isola, nella conca sassosa di Psithos, dove si erano ritirati e trin-cerati. La loro resistenza era comunque senza speranza e il mattino del 17

(22)

mag-gio si arresero. Da parte italiana si ebbero soltanto 8 morti e 25 feriti. Da parte turca, 200 tra morti e feriti.(22)

1.4 Storia del Dodecaneso

In Italia, il blitz in Egeo aveva provocato la solita fiumana di retorica della stampa nazionalista che presentava i nostri soldati come restauratori della latini-tà del Dodecaneso, con richiami della presenza a Rodi delle repubbliche marina-re di Venezia e Genova, le quali, oltmarina-re ad avervi tenuto per secoli fondachi e banchine commerciali, avevano anche sostenuto con la loro influenza politica ed economica i governi locali.

Già nel 1082 Venezia aveva stipulato con l’Impero Bizantino un accordo com-merciale che la privilegiava e nel 1204 il governatore, nel dichiararsi indipen-dente dall’imperatore di Bisanzio, poneva l’isola sotto la protezione del Leone di San Marco.

Nel secolo successivo subentrò l’influenza genovese e Rodi divenne il feudo de-gli ammirade-gli Vignolo dei Vignoli e Giovanni del Cavo. Proprio grazie a Geno-va, nel 1306 l’isola passò sotto il governo dei cavalieri gerosolimitani che la tennero fino al 20 dicembre 1522 quando dopo un lungo assedio, venne conqui-stata dall’impero ottomano. Costruite dai gerosolimitani, le mura di Rodi, che ancora oggi cingono l’antica città, erano imprendibili.

Perciò la resa avvenne per fame. Si concluse così il periodo cristiano del Dode-caneso. Le isole entrarono a far parte dell’impero ottomano.

Con i nuovi occupanti, Rodi e il resto dell’arcipelago non subirono grandi

cam-biamenti, almeno fino a quando restarono in vita Solimano e il suo successore Ahmed III. Anzi i musulmani realizzarono numerose opere pubbliche destinate alla popolazione. L’economia delle isole però incominciò a risentire della crisi dei commerci dovuta alla fine dell’influenza occidentale.

(23)

che colpì l’impero ottomano, il cui declino cominciò con la sconfitta del suo e-sercito alle porte di Vienna, avvenuta nel 1683, e la successiva pace di Karlo-witz, che sottrasse ai turchi parte delle provincie europee.

Dopo la rivolta dei Giovani Turchi nel 1908, il nuovo regime formulò un ener-gico piano di riforma e rivitalizzazione dell’impero, che prevedeva la concessio-ne a tutte le minoranze di eguali diritti e stato civile, nonché l’istituzioconcessio-ne di un parlamento che rappresentasse tutti i gruppi etnici dell’impero. Queste riforme

suscitarono l’opposizione dei sudditi di etnia greca del Dodecaneso: la

coscri-zione universale (fino ad allora riservata ai musulmani) sollevava una generale disapprovazione ed erano pochi i greci che condividessero il desiderio dei Gio-vani Turchi di rivitalizzare l’impero. Ciononostante la maggior parte dei notabi-li del Dodecaneso aderirono all’invito del governo greco ad accettare le riforme dei Giovani Turchi, confidando nel fatto che i deputati di etnia greca nel nuovo parlamento imperiale potessero favorire surrettiziamente gli interessi nazionali della Grecia o quanto meno assolvere al loro dovere patriottico svolgendo un ruolo destabilizzante.(23)

Quando gli italiani occuparono le isole, trovarono un territorio bellissimo ma in assoluto abbandono. L’agricoltura e la pastorizia, in una situazione di arretratez-za, venivano praticate solo per il fabbisogno della popolazione locale. Quel poco di commercio che era sopravvissuto, si rivolgeva esclusivamente alla Turchia e subiva la concorrenza degli altri territori dell’impero. Nei primi anni del vente-simo secolo le isole erano ridotte a enormi pietraie prive di vegetazione. Le più piccole erano state abbandonate dai pochi abitanti fuggiti in cerca di fortuna. In altre pochi pastori isolati dal mondo, conducevano una vita primitiva, vestendosi di pelle di capra.

Al loro arrivo, gli italiani trovarono anche una struttura sociale pressoché immu-tata nei secoli. I greci, i turchi e gli ebrei avevano conservato le loro peculiarità. I sedimenti che i turchi avevano lasciato attecchire a Rodi erano ben poca cosa rispetto a quelli identitari risalenti ad epoche storiche più antiche. Malgrado

(24)

quindi i quattro secoli di dominio turco conclusisi con il disfacimento di vari set-tori produttivi dell’isola, la sua integrità identitaria non era stata intaccata. La tattica turca di consentire autonomia a interi segmenti delle società sottomesse ebbe a Rodi il risultato di lasciare inalterati i vari gruppi etnico-sociali, che dall’impero ottomano furono lasciati liberi di coltivare le proprie forme caratte-ristiche e tradizionali di organizzazione.

Di fronte a una tale integrità identitaria, per evitare sollevamenti della popola-zione locale principalmente greca, gli italiani presentarono questa occupapopola-zione come una situazione provvisoria causata dallo stato di guerra.

1.5 Il generale Ameglio governatore militare delle isole

Immediatamente dopo l’occupazione degli edifici governativi e pubblici, il ge-nerale Ameglio emanò un proclama che sarebbe stato poi richiamato, nei decen-ni successivi, dal movimento irredentista dodecanesino come prova dell’illegittima dominazione italiana sulle isole. Tale proclama affermava che l’Italia assumeva i poteri civili e militari e che gli italiani avrebbero rispettato i diritti di tutti i pacifici cittadini, ma non veniva formulata alcuna pretesa di so-vranità: l’Italia, formalmente, esercitava una potestà jure bellico occupando temporaneamente un territorio.

L’Italia non aveva proclamato la decadenza del dominio turco. Tuttavia era evi-dente che la popolazione del Dodecaneso sperava nel ricongiungimento alla Grecia.

Nel proclama Ameglio ricordava i legami fra i due popoli e prometteva amicizia e benevolenza in cambio di cooperazione e lealtà:

REGIO GOVERNO ITALIANO COMANDO DELLE REGIE TRUPPE

Abitanti dell’isola di Rodi !

(25)

vostra isola. D’ordine di S.M. il Re, assumo tra voi i sommi poteri civili e militari, dichiarando che l’Italia fa la guerra al governo e all’esercito ottomani, ma considera amica la popolazione pacifica ed inerme di Rodi e ad es-sa intende dare le maggiori prove di benevolenza, assicurando fin d’ora il massimo rispetto alla vostra religione, ai vostri usi, alle vostre tradizioni.

Rodi,5 maggio 1912.(24)

Con un secondo proclama di pochi giorni successivo, il generale Ameglio, dopo aver allontanato definitivamente le truppe turche dall’isola, invitava i roditi a tornare alla normalità:

REGIO GOVERNO ITALIANO COMANDO DELLE REGIE TRUPPE

Abitanti di Rodi !

In pochi giorni il governo del Re d’Italia col decisivo trionfo delle proprie armi a Psitos ha allontanato dall’isola le truppe turche, e, mantenendo prontamente e solennemente la promessa fattavi nel suo primo proclama a voi diretto ha provveduto al regolare funzionamento di tutti i servizi pubblici ed ha scacciato da voi quanti potevano essere elementi perturbatori della vostra pace.

Abitanti di Rodi !

Ritornate ora con calma e serenità ai vostri ordinari lavori, ai commerci, alle coltivazioni dei vostri campi, al pa-scolo dei vostri greggi. Siate fiduciosi nei sentimenti di giustizia e di amore che sono caratteristiche del governo italiano: non temete per la religione, per la famiglia, per la proprietà che saranno scrupolosamente rispettate; rac-coglietevi fidenti e grati sotto la protezione che sempre fu e sempre sarà simbolo di civiltà e di progresso. Rodi,20 maggio 1912.(25)

Il capo di stato maggiore della Regia Marina, viceammiraglio Carlo Rocca Rey, aveva avanzato più di una perplessità sulla convenienza di prendere Rodi. A suo avviso era eccentrica rispetto alla Libia come rispetto ai Dardanelli e a Smirne; era priva di risorse locali e di ancoraggi; sul piano bellico non vedeva quale ef-fetto pratico potesse rivestire per la Turchia; sul piano psicologico l’efef-fetto era nullo, ben sapendo la Sublime Porta che al termine della guerra le sarebbe stata restituita.

Inoltre la vicinanza dell’isola alle coste dell’impero ottomano faceva sì che fosse necessario un notevole dispendio di risorse per sostenerla contro eventuali attac-chi nemici.

(26)

Rocca Rey rilevava che Rodi era a dieci miglia dalla costa turca mentre distava 660 miglia dalla più vicina base italiana, cioè quella di Tobruk; perciò l’isola era

minacciata direttamente flotta turca che durante la guerra per il possesso della

Libia era rimasta inattiva nei Dardanelli, vicino all’arsenale di Costantinopoli, sua principale base di rifornimento, quindi in grado di essere in completo assetto ed in piena efficienza, mentre le navi italiane non avevano la stessa possibilità. L’occupazione di Rodi avrebbe imposto alla Regia Marina il dislocamento nelle sue acque di una decina di navi e di una quarantina di siluranti. Un salasso note-vole.

Ma la scelta di Rodi, l’isola più importante delle Sporadi meridionali, riscuoteva la generale approvazione.(26)

La Grecia, che rivendicava le Sporadi, abitate in prevalenza da greci, protestò vibratamente e chiese al governo italiano delucidazioni sul loro futuro.

La giustificazione accampata dall’Italia fu quella di impedire il rifornimento di

armi che dalla Turchia era diretto allaLibia.

1.6 Le prime proteste nazionaliste

Tutte le isole del Dodecaneso avevano salutato gli italiani come liberatori: il passaggio da un padrone musulmano a un conquistatore cristiano proveniente inoltre da una nazione liberal-democratica, rappresentava certamente una buon progresso, ma il mancato rispetto delle promesse di autonomia da parte dei nuo-vi arrivati era destinato a trasformarsi in un costante motivo di lamentela da par-te delle comunità locali. Inizialmenpar-te, comunque l’umore generale fu estrema-mente positivo ovunque, salvo che a Castelrosso, isola situata 110 chilometri ad est di Rodi, dove i capi locali, lamentando il mancato arrivo degli italiani, chie-sero ad Ameglio di liberare anche la loro isola, che tuttavia per il generale italia-noera troppo appartata rispetto al resto dell’arcipelago.

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condi-zionato alla concessione dell’autonomia, primo passo per una successiva unione dell’arcipelago alla Grecia. Nei mesi seguenti, tuttavia, ci furono ben pochi se-gni della volontà italiana di mantenere le promesse fatte.

Gli isolani si resero conto che dopo essere stati liberati dai turchi, avevano ades-so dei nuovi occupanti. Di conseguenza la disponibilità da parte della popola-zione si ridusse sempre di più: i notabili del Dodecaneso iniziarono a organiz-zarsi e inviarono formali proteste sia ad Ameglio che ai capi delle maggiori po-tenze.

Gli esponenti delle elites isolane si incontrano segretamente a luglio nell’isola di Patmo per discutere la formazione di un autonomo “Stato Egeo”, di cui vennero ipotizzati una bandiera (con croce bianca su fondo blu), un emblema ufficiale (Apollo) e una bozza di codice legislativo.

L’incontro offrì ai leader locali l’occasione per esprimere le proprie inquietudi-ni sull’occupazione; gli italiainquietudi-ni, tuttavia, vennero a conoscenza della cospirazio-ne ed arrestarono i delegati, conducendoli successivamente a Rodi per l’interrogatorio.(27)

Il 29 giugno il capo di stato maggiore, generale Alberto Pollio, inviò a Giolitti un lungo promemoria. Pollio si lamentava dei limiti ingiustificatamente imposti ai progressi dell’Italia nel Mediterraneo orientale. Egli si diceva convinto che la guerra non si poteva vincere semplicemente accumulando vittorie militari in Li-bia. L’impero turco era inevitabilmente destinato a crollare e l’Italia doveva pre-parare un attacco a Smirne. Inoltre per aumentare il caos era necessario anche incoraggiare ed aiutare la ribellione nell’Huran e nel Libano, fornendo armi ai cristiani di Siria. Le parole di Pollio erano anche il segno della crescenteostilità dei militari verso il modo giolittianodi condurre la guerra.(28)

Le alte sfere della Regia Marina non si accontentavano più del Dodecaneso, la

cuioccupazione non aveva inferto alla Turchia il colpo sperato, e facevano

ades-so pressioni sul governo per occupare altre iades-sole dell’Egeo, strategicamente più importanti, come Samos, Chio, Lemnos e Mitilene. Giolitti riuscì a tenere a

(28)

fre-no tanto gli ammiragli che il generale Pollio, ma fre-non fu in grado di impedire, il 18 luglio, proprio mentre sono già in corso segrete trattative di pace con la Tur-chia, il raid di cinque torpediniere nello stretto dei Dardanelli. Il progetto di for-zare lo stretto, fino ad allora considerato inviolabile, venne realizzato dal capita-no di vascello Enrico Millo, con il proposito di silurare il naviglio ottomacapita-no an-corato nella baia di Nagara. L’impresa pur non essendo stata salutata dal suc-cesso a causa della reazione dell’artiglieria nemica, dopo che la flottiglia italiana si era inoltrata nello stretto per 22 chilometri, esercitò nella Turchia un decisivo effettointimidatorio che l’avrebbe portata di lì a poco adintavolare contrattazio-ni per addivecontrattazio-nire alla pace.(29)

Ad influire sui negoziati italo-turchi fu la decisione, il 30 settembre, della Bulga-ria, Grecia, Serbia e Montenegro di mobilitare i loro eserciti per regolare in mo-do definitivo le dispute confinarie con l’impero turco. La coalizione degli stati balcanici contro la Sublime Porta consentì all’Italia di lanciare al governo turco un vero e proprio ultimatum che scadeva improrogabilmente alle 21.30 del 15 ottobre 1912, minacciando, in caso di rifiuto, di attaccare Smirne e di tagliare il nodo ferroviario di Deadeagatch, nella Turchia europea, di vitale importanza, in quanto la sua possibile perdita, avrebbe interrotto tutte le comunicazioni tra

Co-stantinopoli e Salonicco creando gravi disagi all’esercito ottomano nella sua

mobilitazione perfronteggiare l’attacco bulgaro e greco.

La flotta greca conquistò le isole di Chio, Mitilene e Samos. Tuttavia la presenza italiana nel Dodecaneso bloccò l’espansione ellenica verso questo arcipelago. Vienna, Parigi e soprattutto Londra furono ostili alla nostra occupazione del

Do-decaneso. L’Austria-Ungheria, che quando si era annessa la Bosnia-Erzegovina

non si era nemmeno lontanamente ricordata dell’esistenza di un articolo 7 del

trattato della Triplice Alleanza, non solo scoprì questo articolo, ma lo interpretò in modo inverosimilmente restrittivo. Questo articolo vietava qualsiasi occupa-zione sia pure temporanea e con finalità belliche nei territori europei dell’impero ottomano.

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L’Austria-Ungheria riteneva che le isole dell’Egeo fossero considerate parte del-la Turchia europea; ed essa si decise a dare una mezza adesione aldel-la nostra oc-cupazione temporanea delle isole, soltanto in seguito alle pressioni che le venne-ro dal governo di Berlino. L’Inghilterra e la Francia persistettevenne-ro nella lovenne-ro op-posizione per lungo tempo; la questione rimase aperta anche dopo la fine della Grande Guerra. Il Dodecaneso italiano significava un notevole centro commer-ciale per la nostra espansione economica nel Mediterraneo orientale.

Ma questa possibilità, già sgradevole agli inglesi e ai francesi, era di secondaria importanza in rapporto al valore strategico del Dodecaneso. Da queste isole si possono facilmente controllare le linee di navigazione che passano attraverso l’Egeo e anche quelle che conducono ai porti del Levante. Particolarmente le i-sole di Rodi, di Lero e di Stampalia con i loro porti adeguatamente attrezzati, a-vrebbero costituito eccellenti punti di appoggio per la flotta italiana. Nè all’ammiragliato britannico sfuggivano le future possibilità di Lero nei riguardi dell’aviazione, tanto più che durante la conquista della Tripolitania e della Cire-naica l’aviazione militare italiana aveva fatto le sue prime prove. Queste consi-derazioni furono espresse dal ministro per gli affari esteri britannico, sir Edward Grey, in un discorso tenuto il 12 agosto 1913:

“Riguardo alle isole dell’Egeo,vi è un punto sul quale noi,per la nostra posizione nel Mediterraneo e per consi-derazioni di indole navale,abbiamo interessi particolari,e questo punto è il seguente:che nessuna di tali isole deb-ba essere reclamata o tenuta da alcuna delle grandi potenze.”

E tanto il governo britannico quanto il governo francese insistevano perché l’Italia restituisse il Dodecaneso: ma non alla Turchia, bensì alla Grecia. Era

e-vidente lo scopo della politica anglo-francese di una Grecia ingrandita e

raffor-zata principalmente per arginare un eventuale espansione dell’Italia nel bacino orientale del Mediterraneo, così come l’Italia era stata compressa nel 1881 in quello occidentale col protettorato francese sulla Tunisia.(30)

(30)

zona particolarmente strategica,considerarono l’azione italiana particolarmente “destabilizzante” per gli equilibri nel Levante.

L’Italia rispose alle proteste internazionali facendo sapere che l’occupazione delle isole era soltanto temporanea e che sarebbe durata fino a quando la Turchia non avesse rinunciato alla Libia.

La resa avvenne con la firma del trattato di Losanna del 18 ottobre 1912, con il

quale l’impero ottomano riconobbe la temporanea sovranità italiana sulle Spora-di meriSpora-dionali.

L’obbiettivo dell’Italia non era quello limitato di ottenere il possesso del Dode-caneso ma quello più vasto di conquistare una sfera d’influenza in Asia Minore. Tuttavia in previsione della dissoluzione dell’impero ottomano, era opportuno fare in modo che nelle isole rimanesse, dopo il loro ritorno alla Turchia, qualche stabile vestigio della dominazione italiana.

A questo scopo i ministeri interessati, Guerra, Marina, Istruzione Pubblica,

Commercio, avrebbero dovuto intensificare ogni atto che potesse servire all’affermazione italiana tramite missioni scientifiche, iniziative industriali, sedi di banche.(31)

1.7 Il patrimonio archeologico

del Dodecaneso e il suo utilizzo

propagandistico

In questa logica non stupisce quindi che l’esercito italiano, una volta sbarcato nell’arcipelago, abbia avviato una serie di opere civili con l’intento di migliorare le condizioni del territorio, così come nell’antichità facevano gli eserciti romani in terra di conquista.

Né stupisce che gli italiani si siano presentati come restauratori della latinità del Dodecaneso, proponendosi idealmente come continuatori dell’opera degli Ospi-talieri, avviando, ad esempio, massicce campagne di restauro di tutti gli edifici ritenuti di epoca medioevale, eliminando da essi tutte le tracce risalenti alla

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do-minazione turca e tralasciando tutto ciò che era riconducibile alla sfera bizanti-na.

Questi restauri traducevano nella realtà l’impostazione ideologico-culturale con cui l’Italia aveva deciso di affrontare la questione della dominazione in Egeo, sintetizzabile nella volontà di restituire Rodi e il resto del Dodecaneso all’Occidente.

In questo periodo arrivò l’archeologo Gian Giacomo Porro, inviato dal direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene Luigi Pernier, con l’incarico di compilare un catalogo dei monumenti di epoca greco-romana aventi importanza archeologica per le isole di Rodi, Simi e Cos, nonché di vigilare sull’accrescimento dei musei ivi esistenti e di studiare i siti di interesse archeo-logico. Le campagne di scavo, quindi, si susseguirono con sistematicità grazie all’istituzione di una missione archeologica permanente.

Come si può notare, l’occupazione militare risulta abbinata fin dal primo mo-mento a missioni di carattere culturale, per di più promosse dalle istituzioni poli-tiche e perciò insignite di ufficialità che sembrava renderle non meno importanti, in un quadro complessivo, rispetto alla stessa presenza militare, che si dimostrò peraltro molto disponibile nei confronti degli studiosi, agevolandone in ogni modo le attività di ricerca.

Del resto, il lavoro di questi ultimi aveva un’importante rilevanza politica, poi-ché doveva contribuire a legittimare la stessa presenza militare, fornendo tutti quegli elementi utili a far comprendere all’opinione pubblica - italiana e stranie-ra - come l’occupazione fosse, in realtà, un ritorno nei luoghi storici della lotta della cristianità contro la barbarie musulmana e un recupero delle ancora più an-tiche vestigia della romanità.(32)

1.8 Le spoglie del “Grande malato d’Europa

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occu-pate dalle truppe italiane e poi eventualmente restituite alla Turchia permanesse-ro nell’influenza italiana. D’altpermanesse-ronde era questa una pretesa abbastanza logica vista la corsa alla spartizione dell’impero ottomano in sfere d’influenza che le altre potenze stavano accaparrandosi affannosamente all’inizio del 1913. In quel periodo, infatti, tutte le potenze europee guardavano con avidità al progressivo disfarsi dell’immenso impero ottomano.

Dopo la conclusione del trattato di Santo Stefano, l’Inghilterra aveva dimostrato alla Turchia la necessità di esserle vicina per sostenerla contro la Russia e, me-diante trattative tenute segretissime,aveva ottenuto nel 1878, il consenso turco per l’occupazione di Cipro, qualora la Russia avesse occupato Batum, Ardahan, Kars: poiché tale premessa si verificò l’Inghilterra procedette immediatamente all’occupazione di Cipro.

L’isola, pur rimanendo sotto la teorica sovranità ottomana, era sottoposta all’amministrazione civile e all’occupazione militare provvisorie della Gran Bre-tagna, che vi esercitava di fatto ogni diritto sovrano; nel novembre 1914, come rappresaglia per l’entrata in guerra della Turchia, l’Inghilterra aveva trasformato

l’amministrazionedi Cipro in annessione piena al proprio impero coloniale.

D’altronde la posizione di Cipro, a guardia di una delle zone vitali dell’impero britannico, il canale di Suez, era troppo importante e vantaggiosa.

La Germania era un’altra nazione che aveva mostrato fin dall’inizio del XX se-colo un grande interesse per le provincie dell’impero ottomano, in special modo per l’Iraq. Nel 1903 aveva ottenuto dalla Sublime Porta l’autorizzazione a co-struire una ferrovia da Berlino a Baghdad. Il pretesto ufficiale fu quello di favo-rire il trasporto dei pellegrini, in realtà il Reich ne avrebbe approfittato per la sua penetrazione all’interno dei territori dell’impero ottomano. Una delle clausole dell’accordo prevedeva la concessione di diritti minerari territorialmente limitati ad una fascia di 20 km su entrambi i lati dell’asse ferroviario.

L’Inghilterra - resasi conto del valore strategico delle linee ferrate - chiedeva di poter partecipare al progetto, riuscendo però ad ottenere soltanto un’appendice

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periferica: la tratta Baghdad-Bassora.

Nello stesso modo la Francia aveva ottenuto una concessione per la tratta

Alep-po-Damasco-Gerusalemme, mentre la Russia aveva riconfermata una concessio-ne concessio-nell’Armenia ottomana, ai confini con l’Armenia russa.

La lotta per le concessioni ferroviarie fu molto forte in quel periodo, perché era evidente che la costruzione e la gestione di una linea ferroviaria comportava lo stabilimento di una forte zona di influenza per lo stato che la costruiva e ne ot-teneva l’amministrazione.

Nascevano così ai margini della presenza tedesca sul territorio turco metropoli-tano, tre zone di interessi economici delle altre potenze, zone che - negli anni successivi - assumeranno presto la valenza di zone d’influenza politica: la Me-sopotamia per la Gran Bretagna, la Siria per la Francia, l’Armenia per la Russia.

Enrico Corradini esaltava l’azione tedesca, che con così grande pervicacia

per-seguiva il suo obbiettivo ditrasformare la Germania in una potenza egemonica:

“La Germania s’è piantata con la sua influenza nel cuore dell’impero turco, a Costantinopoli, ed ha lanciato la proposta della ferrovia di Bagdad, grande ponte da Costantinopoli al Golfo Persico per l’Asia Minore. Avendo trovato la Russia ostile è riuscita a conciliarsela e tutte e due insieme proseguono il grande disegno. In quanto all’Inghilterra, la Germania sboccando con la sua ferrovia nel Golfo Persico, la ferirà di fianco nel suo impero delle Indie. Così la Germania continua la sua marcia conquistatrice verso l’Oriente.

La ferrovia di Bagdad sarà la via della sua nuova espansione commerciale. Passeranno per quella i suoi commes-si viaggiatori ed invaderanno l’Oriente; passeranno i suoi prodotti ed invaderanno l’Oriente. E un’incalcolabile ricchezza per quella via farà il cammino inverso, dall’Oriente alla Germania; un’incalcolabile ricchezza di cui godranno gli individui, tutte le classi, anche le proletarie,dell’impero germanico. Così uno stato, un impero, un imperatore fanno una politica veramente nazionale.”(33)

L’Italia però, in un primo momento, rimaneva quasi del tutto tagliata fuori dalla corsa per ottenere le briciole del bottino tedesco.

Rimaneva libero dalle zone d’influenza altrui soltanto il territorio turco di Ada-lia nell’AnatoAda-lia meridionale.

L’Italia firmava con l’impero turco un accordo che l’autorizzava alla costruzione di una ferrovia che andasse dal porto di Adalia, zona di forte interesse perché

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ricca di miniere di carbone, all’interno dell’Anatolia.(34)

Nel frattempo, la nostra occupazione del Dodecaneso veniva sostanzialmente tollerata dalle autoritàottomane.

Durante il primo periodo di occupazione bellica, oltre ai proclami, furono ema-nati numerosi decreti governatoriali, destiema-nati ad assicurare il regolare funzio-namento di tutti i servizi pubblici già esistenti ed in generale a tutelare in ogni modo la vita locale.

I principali provvedimenti emanati dal comando del corpo di spedizione nell’Egeo nel primo periodo dimostrano una costante volontà di derogare il me-no possibile alle me-norme vigenti prima dell’occupazione e di rispettare la sovrani-tà ottomana. Dei provvedimenti emanati in questo periodo molti avevano carat-tere transitorio; requisizioni, disarmi, competenza del tribunale di guerra, divieti di esportazione.

Alcuni riguardavano la materia di ordinaria amministrazione (elezioni, espro-priazioni, servizi pubblici), l’ordinamento giudiziario e l’ordinamento tributario. A Rodi, gli italiani si limitarono, apparentemente, a sostituire l’amministrazione ottomana in fatto di riscossione dei tributi e di mantenimento dell’ordine.

Tra i più caratteristici, la notificazione del 19 maggio 1912 n.8 la quale stabilì che le tasse e le imposte governative e municipali dovevano essere corrisposte come per il passato e la notificazione del 27 luglio 1912 n.55, che al paragrafo 10, autorizzò le navi appartenenti alle isole occupate dall’Italia ad inalberare la bandiera italiana, solo per il traffico tra le isole di nostra occupazione mentre sotto tutti i rapporti esse dovevano considerarsi di bandiera ottomana.

I primi proclami non ebbero quindi alcuna valenza giuridica ma solo politica. Questo perché, secondo le istruzioni ricevute per l’organizzazione del governo civile fin dall’inizio dal generale Ameglio si doveva regolare l’occupazione in modo da escludere atti che implicassero, almeno per il momento, l’intenzione di annettere il territorio o non restituirlo alla fine della guerra.(35)

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impedire che queste cadessero in mano della Grecia. Non trovarono quindi mez-zo migliore per impedirlo che mantenere in Libia piccole aliquote di truppe in modo da ottenere senza sforzo un duplice risultato, cioè di continuare le difficol-tà frapposte alla affermazione italiana nelle nuove colonie e di affidare all’Italia la salvezza di Rodi e delle altre isole.

A gennaio 1913, la resistenza turca in Tripolitania sembrava cessata, ma non

co-sì in Cirenaica dove c’erano ancora soldati turchi, circa 500, a fronte di 100.000

soldati italiani. Formalmente l’Italia non era tenuta ad abbandonare le isole e molte voci in Grecia sostennero che vi fosse un’intesa segreta tra Italia e Turchia per eludere l’impegno italiano di sgomberare le isole.(36)

1.9 I disordini del 1913 a Rodi

Particolare rilevanza ebbe l’episodio avvenuto durante la festa dell’Epifania del 1913.

Il 6 gennaio la Demarchìa di Rodi città cercò di trasformare una tradizionale so-lennità religiosa in una dimostrazione patriottica: l’occasione fu data dalla cele-brazione annuale della decapitazione di san Giovanni Battista, che prevedeva una processione da una delle principali chiese fino al porto di Mandraki. Gli ita-liani ebbero sentore del progetto e circondarono in forze la chiesa.

La dimostrazione fu evitata ma questa azione italiana irritò fortemente la popo-lazione rodiota, alimentando una crescente opposizione contro gli occupanti. Ameglio scriverà a Giolitti il 21 gennaio una relazione riguardo gli incidenti in occasione dell’Epifania greca, cercando di minimizzare l’accaduto e definendo i ribelli un “esile gruppo di spostati”.

Il 27 febbraio 1913 il generale Ameglio destituì dalla carica di sindaco di Rodi, il greco Paulidis, e nominò al suo posto l’italiano Attilio Brizi. Le motivazioni di tale sostituzione erano indicate nel decreto di destituzione:

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“Ritenuto che il sig. Paulidis, sindaco di Rodi, di fronte al sobillamento e alla tentata organizzazione di una ribel-lione dei villaggi dell’isola contro l’attuale stato di cose, anziché compiere lealmente il proprio dovere di funzio-nario stipendiato, si associava proditoriamente ai dirigenti della su accennataorganizzazione.”(37)

Qualche giorno prima della destituzione del sindaco di Rodi, Ameglio aveva nella sua qualità di comandante della 6a divisione speciale e governatore delle isole occupate dell’Egeo, decretato che erano proibiti gli assembramenti e le riu-nioni politiche in luoghi aperti al pubblico e le manifestazioni politiche di qual-siasi genere che avessero potuto perturbare l’ordine pubblico.(38)

Era stato comunque un errore clamoroso da parte degli italiani colpire uno degli aspetti identitari dell’isola poiché il senso di appartenenza degli abitanti coinci-deva con l’appartenenzaa specifiche confessioni religiose.

1.10 Gli anni della Grande Guerra

Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale che vide l’impero ottomano alleato alla Germania e all’Austria-Ungheria, mentre l’Italia l’anno successivo si schie-rò con la Francia e la Gran Bretagna. Le due potenze dell’Intesa riconobbero, col patto segreto di Londra del 26 aprile 1915, le ragioni avanzate dall’Italia in merito al Dodecaneso.

L’articolo 8 del trattato che aveva determinato l’intervento italiano così recitava:

“L’Italia avrà la completa sovranità sulle isole del Dodecaneso, da lei ora occupate.”(39)

L’entrata in guerra della Turchia era stata del tutto casuale.

Il 29 ottobre 1914 gli incrociatori tedeschi ”Goeben” e “Breslau”, che si trova-vano al largo di Costantinopoli da metà agosto, bombardarono i forti russi di Ni-kolajev e Odessa e minarono le rotte mercantili russe.

Le due navi cannoneggiarono anche Sebastopoli, Feodosija e Novorossijsk, in-cendiando una cinquantina fra depositi di petrolio e silos di grano. Poiché le due

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