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Dopo la ratifica del trattato di Losanna, gli italiani ritennero di poter ormai igno- rare l’iniziale promessa con cui il generale Ameglio si era impegnato con gli iso- lani a mostrare il “massimo rispetto per la vostra religione, i vostri usi, le vostre tradizioni”.

I leader locali, infuriati, reagirono inviando altre petizioni, nella speranza che il loro desiderio di unificazione potesse far cambiare idea ai governanti italiani e a quelli delle grandi potenze, ma inutilmente.

Il fenomeno dell’irredentismo comunque non era molto diffuso nell’arcipelago. L’annessione alla Grecia era auspicata soprattutto dalla borghesia commerciale e intellettuale, non dalle classi più povere che temevano l’aumento delle tasse e la coscrizione obbligatoria.

I “grandi patrioti” appartenevano ai ceti più elevati della società del Dodecane- so. Erano spesso possidenti terrieri e imprenditori, che avevano tratto i massimi vantaggi dall’espansione economica nei decenni fino alla prima guerra mondia- le. Erano spesso laureati, e avevano studiato francese, la lingua della diplomazia. Fare azioni di lobbying presso le grandi potenze dava a questi personaggi la sen- sazione di essere parte della grande politica. Tale ruolo si addiceva al loro status sociale, come mostrano i numerosi ritratti fotografici in cui i “grandi patrioti” si atteggiano in pose aristocratiche degne di uomini di stato. Questa presunzione appariva anche nell’abbigliamento: fini camicie di seta, abiti, cravatte, gemelli da polso e guanti di velluto, marsine e soprabiti.

Questo stile era più adatto ai saloni europei che a luoghi defilati come Lero e Scarpanto, ma tutto questo serviva ad accentuare la loro superiorità sociale. Solo uomini di tale prestigio sociale sapevano redigere lettere indirizzate a stati-

sti stranieri. Quando si aveva a che fare con l’Europa, il Dodecaneso aveva bi- sogno di rappresentanti che avessero familiarità con la superiore cultura europea e che dessero al nazionalismo greco un volto rispettabile.

Il trattato di Losanna, però, autorizzò di fatto gli italiani a sopprimere ogni e-

spressione di patriottismo. La maggior parte di questa élite colta si ritirò nella sfera privata, ben sapendo di avere molto da perdere se avesse continuato a dar mostra di sentimenti filoellenici.(68)

Note

(1) Renzo Sertoli Salis, Le Isole Italiane dell’Egeo dall’occupazione alla sovranità, Vittoriano, Roma, 1930, pag. 9. (2) Renzo Sertoli Salis, op. cit., pag. 273.

(3) La concessione territoriale di Tien Tsin era una zona di 458.000 m2, costituita da un terreno lungo la riva sinistra del fiu- me Hai-Ho ricco di saline, con un villaggio ed un’ampia area paludosa. Il primo console italiano fu, dall’aprile 1901, Cesare Poma. La colonia era amministrata da un consiglio presieduto dal regio console e formato dai residenti, con membri nazionali di maggioranza e rappresentanza degli stranieri e dei cinesi. Dopo la fine della prima guerra mondiale la concessione austria- ca nella stessa città fu inglobata in quella italiana. Nel 1925 fu inviato per la difesa della colonia un battaglione di fanteria di marina.

Nel corso dei decenni la concessione si trasformò radicalmente grazie alla bonifica e alla pianificazione urbanistica, con una viabilità razionale, impianti di illuminazione e servizi igienici. Nel 1930 aveva 17 strade e due piazze, con ospedale, cattedra- le, caserma, centrale telefonica, scuola italiana e cinese, mercato coperto, giardino pubblico e due campi sportivi.

Durante la seconda guerra mondiale la concessione territoriale di Tien Tsin fu l’unica a non essere occupata dai giapponesi, in quanto nostri alleati, mentre il restante territorio internazionale della città fu invaso dall’esercito nipponico.

L’8 settembre 1943, poco dopo l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli anglo-americani, le truppe giapponesi irruppero nella concessione. I marinai del reggimento S. Marco furono deportati nei campi di concentramento in Corea. I termini della concessione vennero ridiscussi, e la stessa concessione venne di fatto sospesa, a seguito di un accordo intervenuto il 27 luglio 1944 tra la repubblica sociale italiana e il governo dello stato fantoccio filo giapponese della repubblica di Nanchino. Alla fine della guerra la concessione di Tien Tsin, così come i quartieri commerciali italiani a Shangai, Hankow e Pechino, furono formalmente soppressi e assegnati alla Cina, il 10 febbraio 1947, con il trattato di Parigi.

(4) Emilio Gentile, La grande Italia. Mito e declino della Nazione nel XX secolo, Mondadori, Milano, 1997, pag. 46. (5) Città dell’Etiopia settentrionale, situata nella regione dell’Amara.

(6) Gli italiani ebbero circa 6.000 morti (4.000 nazionali, compresi i generali Arimondi e Dabormida, e 2.000 ascari), 1.500 feriti e 3.000 prigionieri (tra cui il generale Albertone). A ciò si aggiungeva la perdita di tutta l’artiglieria e di 11.000 fucili, come pure della maggior parte dei trasporti. Gli ascari catturati, considerati traditori dagli etiopici, ricevettero come punizio- ne l’amputazione della mano destra e del piede sinistro, onde renderli inabili a qualsiasi attività militare

Il generale Baratieri venne imputato da una corte marziale di aver preparato un piano d’attacco ingiustificabile e di aver ab- bandonato le sue truppe sul terreno; fu assolto da queste accuse ma giudicato inadatto per il comando, e la sua carriera milita- re ebbe di fatto fine.

I prigionieri italiani vennero successivamente liberati in cambio di una somma di 4 milioni di lire.

(7) Favorevole ad una politica estera espansionista, nel 1914 trasformò “L’Idea Nazionale” in quotidiano grazie ai finanzia- menti di militari ed armatori. L’Italia doveva avere una sua politica coloniale e cercare attraverso l’imperialismo un “posto al sole”. Il nazionalismo era per Corradini la trasposizione internazionale del socialismo, si doveva mettere in essere una sorta di lotta di classe tra nazioni proletarie e nazioni plutocratiche.

Corradini vedeva un’Europa dove, al di sotto delle due plutocrazie Francia ed Inghilterra, vi erano nazioni proletarie; Italia e Germania non potevano, però, più accettare di essere potenze di seconda schiera.

Il pacifismo era volto esclusivamente alla conservazione dello status quo europeo; in risposta a ciò era necessario esaltare la lotta di classe internazionale.

(8) Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore, Mondadori, Milano, 1993, pp. 6-7.

(9) Latinus, L’azione dell’Italia nei rapporti internazionali dal 1861 ad oggi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano, 1940, pag.168.

(10) Angelo Del Boca, op. cit., pag. 88. (11) Emilio Gentile, op. cit., pag.76.

(12) Enrico Corradini, L’ora di Tripoli, Treves, Milano, 1911, pag.21. (13) Enrico Corradini, op. cit., pag. 51.

(14) Enrico Corradini, op. cit., pag.70. (15) Angelo Del Boca, op.cit., pp. 98-99. (16) Angelo Del Boca, op. cit., pp. 106-107.

(17) R.J. Bosworth, La politica estera dell’Italia Giolittiana, Editori Riuniti, Roma, 1985. (18) Angelo Del Boca, op. cit., pag. 168.

(19) Mario Montanari, Politica e strategia in cento anni di guerre italiane, (volume 4), Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 1999, pag. 443.

(20) Luciano Alberghini Maltoni, Egeo 1912, in “Storia Militare”, n.131, agosto 2004. (21) Mario Montanari, op. cit., pp. 444-445.

(22) Angelo Del Boca, op. cit., pag. 171.

(23) Nicholas Doumanis, Una faccia una razza. Le colonie italiane nell’Egeo, Il Mulino, Bologna, 2003, pag. 51. (24) Renzo Sertoli Salis, op. cit., pag. 19.

Giovanni Ameglio nacque a Palermo nel 1854 da una famiglia aristocratica. Entrò giovanissimo nell’esercito italiano uscen- do dalle scuole di perfezionamento militare nel 1875 con il grado di tenente.

Promosso al grado di capitano, partecipò alla campagna africana dal 1885 al 1897 e comandò il distaccamento italiano a Tien Tsin dal 1902 al 1905.

Maggior generale nel 1910, sebbene non più giovane e con alle spalle, nel complesso, una modesta carriera si distinse nella guerra italo-turca dove diede prova di particolare acume tattico e strategico, dimostrandosi un eccellente comandante colonia- le soprattutto nell’opera di conquista di Bengasi e della Cirenaica.

Nel corso della stessa guerra guidò l’occupazione di Rodi e del Dodecaneso nel maggio 1912. Rivestì quindi la carica di co- mandante delle isole dell’Egeo fino al 14 ottobre 1913.

Promosso Tenente generale per merito di guerra nel 1912 fu poi governatore della Cirenaica dall’ottobre 1913 all’agosto1918 e governatore della Tripolitania dal 1915 all’agosto 1918.

Fu nominato senatore nel 1920 e comandò la Guardia Regia dal luglio 1920 all’ottobre 1921. Ritiratosi dopo quest’ultimo atto a vita privata, morì nel dicembre di quello stesso anno.

(25) Renzo Sertoli Salis, op. cit., pag. 20. (26) Mario Montanari, op. cit., pag. 448. (27) Nicholas Doumanis, op. cit., pag. 52. (28) R.J. Bosworth, op. cit., pag. 208. (29) Angelo Del Boca, op. cit., pag. 174.

Partito al tramonto del 18 luglio 1912 dalla piccola isola di Strati, nell’Egeo, Millo raggiunse l’imboccatura dello stretto alle 23.30. La flottiglia da lui comandata passò indisturbata tra i forti di Seddul Bahr e di Kum Kalè, procedendo alla velocità di 15 miglia sino a quando, alle 0.40, venne scoperta, inquadrata dai proiettori e fatta segno ai colpi dei più di 200 cannoni che difendevano i Dardanelli. Oltrepassata la strozzatura di Kilid Bahr e Cianak e giunto a sole due miglia dalla flotta turca, che era agli ormeggi nella baia di Nagara, Millo, che si era inoltrato nello stretto per 22 chilometri, decise di invertire la rotta, constatando l’impossibilità di arrivare a silurare il nemico e per evitare la sicura distruzione delle torpediniere al suo coman- do ad opera delle artiglierie costiere turche.

(30) Latinus, op. cit., pp. 121-122.

(31) Marta Petricioli, L’Italia in Asia Minore. Equilibrio mediterraneo e ambizioni imperialiste alla vigilia della Prima guer-

ra mondiale, Sansoni, Firenze, 1983, pag. 221.

(32) Massimo Peri, Michael Herzfeld, Silvia Barberani, La politica culturale del fascismo nel Dodecaneso, Esedra, Padova, 2009, pp. 141-142.

Nel 1927, per iniziativa del governatore Mario Lago e di Alessandro della Seta, direttore della Scuola Archeologica di Atene, fu fondato il FERT (Fortitudo Eius Rhodum Tenuit), un istituto di ricerca preposto agli studi storico-archeologici sulle isole del Dodecaneso e del Vicino Oriente, uno dei cui scopi era di promuovere e coordinare gli studi sulla storia dell’espansione italiana in Levante. L’istituto venne quindi dotato di una cospicua biblioteca e divenne il punto di riferimento per tutti gli stu- diosi che si recavano nelle isole a lavorare, compresi i giovani, per i quali metteva a disposizione diverse borse di studio. (33) Enrico Corradini, Il nazionalismo italiano, Treves, Milano, 1914, pag. 33.

(34) La ferrovia Berlino-Baghdad non venne mai costruita.

(35) Maria Grazia Pasqualini, L’esercito italiano nel Dodecaneso 1912-1943. Speranze e realtà, Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2005, pag. 51.

(36) Luciano Alberghini Maltoni, op. cit., pag. 27. (37) Maria Grazia Pasqualini, op. cit., pag. 78. (38) Maria Grazia Pasqualini, op. cit., pag. 74.

(39) Latinus, op. cit., pag. 151.

Il trattato di Londra fu firmato dal marchese Guglielmo Imperiali, ambasciatore nella capitale inglese in rappresentanza del governo italiano, sir Edward Grey per il Regno Unito, Jules Cambon per la Francia e dal conte Alexander Beckendorff per la Russia. Il trattato fu firmato in tutta segretezza, per incarico del governo Salandra, senza che il parlamento, in maggioranza neutralista, ne fosse informato. Il patto prevedeva che l’Italia entrasse in guerra a fianco dell’Intesa entro un mese, ottenendo in cambio, in caso di vittoria, oltre alla definitiva sovranità sul Dodecaneso, il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia- Giulia, l’intera penisola istriana con l’esclusione di Fiume, una parte della Dalmazia, le province ottomane di Smirne e Ada- lia; ed infine, nel caso in cui Francia e Gran Bretagna avessero aumentato i loro domini coloniali in Africa a spese della Ger- mania, l’Italia avrebbe beneficiato di rettifiche a suo favore alle frontiere della Libia e dei possedimenti in Africa Orientale. (40) Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1998, pag. 136.

Gli incrociatori “Goeben” e “Breslau” facevano parte della flotta tedesca del Mediterraneo. Quando scoppiò il conflitto mon- diale le due navi si trovavano nel porto austriaco di Pola, per non finire intrappolate nell’Adriatico, salparono per il Mediter- raneo venendo inseguite da unità anglo-francesi. L’unica loro possibilità di scampo era quella di dirigersi verso Istanbul. I governi tedesco e turco erano in buoni rapporti. I tedeschi usarono così la loro influenza per permettere il passaggio dello Stretto dei Dardanelli alle loro navi, un atto aperto di sfida verso la Russia, le cui principali rotte marittime passavano proprio per i Dardanelli. Tuttavia l’impero ottomano era ancora un paese neutrale e avrebbe dovuto proibire il passaggio dello Stretto alle navi da guerra. Per aggirare questo problema venne deciso che gli incrociatori sarebbero diventati parte della marina tur- ca. Il “Goeben” e il “Breslau” furono ufficialmente aggregati alla flotta ottomana con il nome di “Sultano Yavuz Selim” e “Midilli”. I marinai tedeschi però rimasero l’equipaggio delle due unità.

(41) Renzo Sertoli Salis, op. cit., pag. 219. (42) Maria Grazia Pasqualini, op. cit., pag. 91. (43) Latinus, op. cit. pag. 185.

(44) Luigi Mondini, Prologo al conflitto italo-greco, Treves, Roma, 1945, pp. 63-64.

(45) Federico Curato, La conferenza della pace (1919-1920), Istituto per gli Studi di politica Internazionale, Milano, 1942, (volume 1), pp. 27-28.

(46) Federico Chabod, L’Italia contemporanea 1914-1948, Einaudi, Torino, 1961, pag.23.

Fin dall’8 gennaio 1918 il presidente degli Stati Uniti Wilson tenne a sottolineare la diversità della guerra condotta dal suo paese, e assumendosi già il ruolo di giudice e arbitro fra tutti i contendenti, dettò le condizioni per una pace giusta, articolate in quattordici punti. Anzitutto reclamò la pubblicità dei trattati, la libertà di navigazione su tutti i mari, la soppressione delle barriere economiche, la riduzione degli armamenti e un regolamento delle questioni coloniali. Al sesto punto era prevista l’evacuazione dei territori russi; al settimo la restaurazione dell’indipendenza del Belgio. I punti dall’8 al 13 propugnavano rispettivamente la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, la rettifica dei confini italiani nel rispetto delle nazionalità confinanti, l’autonomia dei popoli dell’impero austro-ungarico, il ripristino dell’indipendenza della Romania, del Montene- gro e della Serbia (con uno sbocco al mare per quest’ultima), infine l’autonomia dei popoli non turchi dell’impero ottomano e l’indipendenza della Polonia.

Il quattordicesimo e ultimo punto postulava la nascita di una Società delle Nazioni in grado di promuovere per tutti gli stati garanzie di indipendenza e di integrità territoriale.

(48) Angelo Del Boca, op.cit., pp. 350-351. (49) Maria Grazia Pasqualini, op. cit., pp. 96-97. (50) Federico Curato, op. cit., (volume 2), pp. 329-330.

(51) Renato Battista La Racine, Anatolia 1918-1922, in “Storia Militare”, n.193, ottobre 2009, pag. 50. (52) Federico Curato, op. cit., (volume 1), pp. 641-642.

(53) Renato Battista La Racine, op. cit., pag. 51. (54) Federico Curato, op. cit., (volume2), pp. 335-336. (55) Federico Curato, op. cit., (volume 2), pp. 339-340. (56) Federico Curato, op. cit., (volume 2), pag. 389.

(57) Luca Pignataro, Il Dodecaneso Italiano 1912-1947 (vol.1), Edizioni Solfanelli, Chieti, 2012, pp. 114-115. (58) Nicholas Doumanis, op.cit., pp. 60-61.

(59) Luca Pignataro, op. cit., pp. 143-144. (60) Federico Curato, op. cit., pag. 469. (61) Luca Pignataro, op. cit., pag. 15.

(62) Mustafa Kemal nacque a Salonicco nel 1881. Intrapresa la carriera militare fu capitano di stato maggiore nel 1904; ven- ne arrestato per le sue idee liberali e mandato in Siria. A Damasco e poi a Salonicco partecipò ai preparativi rivoluzionari che dovranno poi portare all’insurrezione dei “Giovani Turchi” del 1908. Partecipò quindi alla guerra italo-turca nel settore cire- naico e, promosso colonnello nel 1913, fu addetto militare a Sofia e poi a Vienna. Durante la prima guerra mondiale coman- dò brillantemente la difesa a Gallipoli nel settore di Anafarta, fu inviato poi nel Caucaso e nel 1918 ebbe il comando del gruppo di armate in Palestina. Dopo l’armistizio di Mudros Kemal fu inviato in Anatolia come ispettore generale delle forze ottomane. Colà organizzò subito un governo autonomo di idee nazionaliste, ma limitatamente al popolo turco, con capitale ad Ankara e, non riconoscendo il trattato di pace di Sevres firmato dalla Turchia nel 1920, condusse la guerra contro la Grecia - alla quale era stata assegnata la zona di Smirne - fino alla sua totale espulsione dall’Anatolia nel 1922.

Sconfiggendo i greci, ristabilì l’unità e l’indipendenza della Turchia, quindi depose il sultano Maometto VI (1922), fondò la repubblica (1923) e diede vita ad una serie di riforme fondamentali dell’ordinamento nazionale, sulla base di un’ideologia di chiaro stampo occidentalista. Abolì il califfato, laicizzò lo stato, riconobbe la parità tra i sessi, istituì il suffragio universale, adottò l’alfabeto latino, il calendario gregoriano e il sistema metrico decimale.

Al fine di garantire la stabilità e la sicurezza dello stato, istituì un sistema autoritario fondato sul partito unico.

Ataturk (“padre dei turchi”) fu il cognome - assegnato esclusivamente a lui con apposito decreto - che nel 1934 il parlamento della repubblica attribuì a Mustafa Kemal quando egli impose l’adozione di regolari cognomi di famiglia come era in uso nel mondo occidentale.

Morì ad Istambul nel 1938 e fu sepolto ad Ankara. (63) Luca Pignataro, op. cit., pp. 228-229.

(64) L’isola di Castelrosso misura 10 kmq e dista 69 miglia da Rodi e meno di due dalla costa turca.

E’ prevalentemente calcarea e priva di sorgenti d’acqua dolce. Vi sono poche alture che culminano nel monte Vigla (m. 271). Sul lato settentrionale dell’isola,due penisolette racchiudono un porto naturale sul quale si distende la cittadina di Castelrosso. Caratteristici sono i costumi e le tradizioni che risentono dell’influenza turca.

Castelrosso nel 1306 fu conquistata dai cavalieri gerosolimitani, ma nel 1440 fu devastata dal sultano d’Egitto, che nel 1444 la occupò. Passò poi agli Aragonesi di Napoli che la tennero sino alla caduta di Rodi (1522) ed insieme a questa fu conquista- ta da Solimano. Fu in seguito occupata dai veneziani che la tennero dal 1570 al 1659, anno in cui tornò sotto il dominio tur- co. L’isola appartenne alla Grecia dal 1828 al 1833 tornando poi nuovamente sotto il dominio della Sublime Porta. Nel 1912 votò l’annessione all’Italia, richiesta ignorata dalle nostre autorità militari che reputavano l’isola indifendibile in caso di at- tacco ottomano.

(65) Luca Pignataro, op. cit., pag. 169.

(66) Giorgio Rumi, Alle origini della politica estera fascista 1918-1923, Laterza, Bari, 1968, pag. 299.

Il bombardamento fu considerato un atto terroristico dall’opinione pubblica internazionale, infatti i forti di Corfù erano stati smilitarizzati ed erano utilizzati come campo profughi per alcune migliaia di greci sfollati dalle aree dell’Asia Minore e dal Ponto. Un numero elevato di civili rimase così coinvolto, ed ucciso, nel cannoneggiamento navale.

(67) L’ammiraglio Thaon di Revel, duca del Mare e ministro della Marina, scrisse un promemoria a Mussolini in cui oltre ad evidenziare le deficienze di preparazione dell’armata navale italiana, si metteva in guardia il capo del Governo dall’insistere in atteggiamenti di sfida nei confronti del governo di Sua Maestà, in quanto lo stato inadeguato delle nostre difese costiere nel settore tirrenico rendeva del tutto sconsigliabile uno scontro con la Gran Bretagna.

(68) Nicholas Doumanis, op. cit., pp. 135-136.