UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea
CRISI ED INSOLVENZA NELLA PROSPETTIVA DI
RIFORMA DELLE PROCEDURE CONCORSUALI
Relatore:
Chiar.mo Prof. Bartalena Andrea
Candidato:
Fracanzino Fabiana
A.A. 2016 / 2017
INDICE
CAPITOLO I - L’EVOLUZIONE DELLA LEGGE FALLIMENTARE: VERSO L’AFFERMAZIONE DEL CONCETTO DI CONTINUITÀ AZIENDALE ... 4 1. Premessa: l’evoluzione storica dei presupposti delle procedure concorsuali. Esigenze di riforma ... 4 2. Lo stato di insolvenza: dalla cessazione dei pagamenti allo “status” economico-patrimoniale del debitore ... 7 2.1. Le manifestazioni dell’insolvenza: l’inadempimento ... 14 2.2.1. (segue): La regolarità dell’adempimento ... 16 2.3. “Gli altri fatti esteriori” ... 18 3. La stagione della Riforma 2005 - 2007 ... 20 3.1. La preservazione dei complessi produttivi: l’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa. ... 23 3.2. (segue): L’affitto d’azienda ... 27 4. Lo “stato di crisi” come presupposto oggettivo del concordato preventivo ... 29 4.1. Origini e natura del concordato preventivo ... 33 5. Verso la salvaguardia della continuità aziendale: la Riforma 2012 - 2013 ... 38 5.1. La continuità aziendale: tra disciplina di bilancio e procedure concorsuali ... 41 6. Recenti sviluppi: breve sunto delle principali novità ... 44 7. Il controllo dell’impresa in crisi: il processo di Turnaround ... 46 CAPITOLO II - LINEAMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE, EUROPEO E COMPARATO ... 50 1. Panorama d’insieme ... 50 2. Lineamenti di diritto internazionale: la Model Law on Cross-Border Insolvency ... 51 3. Lineamenti di diritto europeo: il Regolamento(CE) n. 848/2015 ... 56 3.1. (segue): la Raccomandazione 2014/135/UE e potenziali riforme: la Proposta di Direttiva 22 novembre 2016 ... 60 4. L’ordinamento francese: l’evoluzione della concezione della crisi d’impresa ... 654.1. Le procedure di allerta: un confronto tra la riforma italiana e la disciplina francese ... 68 5. L’ordinamento americano: il Chapter 11 ... 71 CAPITOLO III - CRISI ED INSOLVENZA ALLA LUCE DELLA RIFORMA ORGANICA DELLE PROCEDURE CONCORSUALI ... 75 1. L’iter di riforma nella legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 ... 75 2. Principi generali e criteri direttivi della delega legislativa ... 80 3. La definizione del concetto di “stato di crisi” ... 84 4. Procedura di allerta e composizione assistita della crisi ... 92 4.1. (segue): L’organismo di composizione della crisi. ... 100 5. Il favor per la continuità aziendale nel “nuovo” concordato preventivo ... 102 6. La liquidazione giudiziale ... 108 7. Le modifiche al codice civile ... 114 BIBLIOGRAFIA ... 124 MATERIALI ... 137 INDICE DELLE PRONUNCE ... 140
CAPITOLO I
L’EVOLUZIONE DELLA LEGGE
FALLIMENTARE: VERSO L’AFFERMAZIONE
DEL CONCETTO DI CONTINUITÀ AZIENDALE
SOMMARIO: 1. Premessa: l’evoluzione storica dei presupposti delle procedure concorsuali. Esigenze di riforma. – 2. Lo stato di insolvenza: dalla cessazione dei pagamenti allo “status” economico-patrimoniale del debitore. – 2.1. Le manifestazioni dell’insolvenza: l’inadempimento. – 2.2.1. (segue): La regolarità dell’adempimento. – 2.3. “Gli altri fatti esteriori”. 3. La stagione della Riforma 2005 – 2007. – 3.1. La preservazione dei complessi produttivi: l’esercizio provvisorio dell’attività. – 3.2 (segue): L’affitto d’azienda. – 4. Lo “stato di crisi” come presupposto oggettivo del concordato preventivo. – 4.1. Origini e natura del concordato preventivo. – 5. Verso la salvaguarda della continuità aziendale: la Riforma 2012 – 2013. – 5.1. La continuità aziendale: tra disciplina di bilancio e procedure concorsuali. – 6. Recenti sviluppi: breve sunto delle principali novità. – 7. Il controllo dell’impresa in crisi: il processo di Turnaround.
1. Premessa: l’evoluzione storica dei presupposti
delle procedure concorsuali. Esigenze di riforma
La legge fallimentare del 1942 era fortemente impregnata dal carattere sanzionatorio che tradizionalmente caratterizzava il fallimento; il particolare rigore proprio del procedimento concorsuale contro il debitore insolvente, il cui fallimento recava con sé l’infamia, oltre a sanzioni penali, discendeva dallo ius
Il fallito veniva considerato come «male infettivo da circoscrivere
(…) e distruggere secondo un interesse supremo e statuale alla tutela dell’economia e del credito»1.
Fin dalle origini il fallimento è stato percepito e regolato nella prospettiva del favor creditoris, quale derivato di un sistema che ha come centro propulsore una visione privatistica del fallimento: la procedura concorsuale era il luogo del conflitto tra debitore insolvente e creditore delusi; all’impresa si attribuiva una connotazione spiccatamente privatistica e patrimonialistica, cioè come puro cespite del patrimonio del debitore2. Il primo mutamento di prospettiva nella disciplina fallimentare va rintracciato nel testo Costituzionale agli artt. 41, co. 2º, 35 e 36 che prevedono un’espressa indicazione a favore della salvaguardia dei complessi produttivi3: la crisi comincia ad essere inquadrata come
elemento fisiologico della vita dell’impresa costituzionalmente tutelata dall’art. 41, che giustifica un intervento pubblico nella sfera di libertà economica solo in presenza di una previsione di legge4.
A partire dagli anni ’70, con l’istituto dell’amministrazione controllata ha fatto ingresso il concetto di “reversibilità” dell’insolvenza, per cui ad un certo punto non bastava più l’incapacità di far fronte con regolarità alle proprie obbligazioni per determinare la dichiarazione di insolvenza, ma si dava spazio 1 C. D’AVACK, La natura giuridica del fallimento, Padova, CEDAM, 1940, p. 25 2 R. VIVALDI, Soluzioni stragiudiziali ed intervento del giudice, in Fall., 9, 2003, p. 933.
3 Così I. L. NOCERA, Autonomia privata e insolvenza: evoluzione delle
soluzioni negoziali dai codici ottocenteschi al contratto sulla crisi d’impresa, in Dir. Fall., 3-4, 2014, p. 413.
4 Cfr. D. GALLETTI, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto
all’opportunità di risanare l’impresa a fronte di “comprovate possibilità” di recupero5.
Si parla in questa fase di un “uso alternativo delle procedure concorsuali”, e cioè la deviazione dell’amministrazione controllata e del concordato preventivo dai loro scopi tipici6.
Tra gli altri provvedimenti volti a far fronte alla recessione economica il legislatore ha posto in essere interventi esplicitamente indirizzati alla conservazione dell’attività d’impresa in crisi: l. n. 184/1971 che istituiva la finanza pubblica GEPI (Società per le gestioni e partecipazioni industriali) con il compito di entrare temporaneamente nel capitale delle aziende private in crisi e di agevolarne la ristrutturazione; la legge n. 391 del 1978, che ha modificato l’art. 187 legge fallimentare sull’amministrazione controllata; e la n. 95 del 1979 c.d. «legge Prodi» relativa alla regolamentazione della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi7.
Si tratta di uno sforzo interpretativo notevole, che cerca di servirsi degli istituti concorsuali anche per operare un tentativo di salvataggio dell’impresa, conservandone determinati valori, quali le tecnologie acquisite, l’avviamento e l’occupazione8
In tale contesto il fallimento ed il concordato preventivo avevano un comune presupposto oggettivo: lo stato d’insolvenza.
Dunque, per il fallimento l’art. 5 della legge fallimentare prevedeva che è soggetto al fallimento “l’imprenditore che si trova
5 L. ROVELLI, L’evoluzione del diritto concorsuale italiano nel quadro
europeo in Contratto e Impresa, 1, 2017, p. 23
6 L. LANFRANCHI, Uso «alternativo» delle procedure concorsuali,
amministrazione controllata e prededucibilita` dei crediti, in Riv. dir. civ.,
1985, 1, p. 133; M. ARATO, Amministrazione controllata: risanamento
dell’impresa e tutela dei creditori, in Fall., 9, 1996, p. 900.
7 I. L. NOCERA, Autonomia privata e insolvenza, cit., p. 413 – 414.
8 G. LO CASCIO, Risanamento dell’impresa in crisi ed evoluzione normativa
in stato d’insolvenza”, prevendo al secondo comma che tale stato si manifesta con “inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
Secondo l’originaria formulazione dell’art. 160 l. fall. anche la procedura di concordato preventivo era ancorata al medesimo presupposto oggettivo del fallimento: lo stato di insolvenza9.
2. Lo stato di insolvenza: dalla cessazione dei
pagamenti allo “status” economico-patrimoniale del
debitore
Lo “stato di insolvenza” trova il suo precedente storico in quello di “cessazione dei pagamenti” di cui all’art. 683 del Codice del commercio del 1882 10.
Il mutamento concettuale non è di poco conto, ma rappresenta un’importante novità: si passa dalla valorizzazione di un “fatto-evento” all’analisi di un “fatto-situazione”11; in tal senso,
l’insolvenza diventa una situazione, intesa come status dell’imprenditore che deve essere valutato in fieri e non più come un fatto collocato in uno spazio temporale preciso, quale può essere l’evento-inadempimento.
9 Originariamente il primo comma dell’art. 160 recitava: «l’imprenditore
che si trova in stato d’insolvenza, fino a che il suo fallimento non è dichiarato, può proporre ai creditori un concordato preventivo».
10 La norma prevedeva: “Il commerciante che cessa di fare i suoi
pagamenti per obbligazioni commerciali è in stato di fallimento”.
11 G. TERRANOVA, Insolvenza stato di crisi sovraindebitamento, Torino,
La dottrina, all’indomani dell’entrata in vigore della norma, ha ricostruito il concetto di insolvenza in maniera non univoca, nota è al riguardo la summa divisio tra le tesi patrimonialistiche e tesi personalistiche.
Secondo il primo filone (c.d. tesi patrimonialistiche)12 ad avere un
ruolo emblematico nella valutazione dell’insolvenza è il dato patrimoniale: si guarda alla capacità patrimoniale del debitore, che non dipende da una sua condotta bensì dal suo patrimonio. L’imprenditore può dirsi insolvente nel momento in cui non goda, all’attivo, dei mezzi sufficienti per soddisfare l’insieme dei creditori.13
Diversamente, i fautori delle tesi c.d. personalistiche14 hanno
posto la condotta del debitore alla base del giudizio sull’integrazione dello stato d’insolvenza.
In tal modo gli inadempimenti svolgono un ruolo nel giudizio di insolvenza, non in sé ma in quanto sintomatici dello stato di dissesto del debitore, inteso come una irreversibile incapacità dell’imprenditore a fronteggiare le obbligazioni assunte.
Critiche sono state mosse ad ambe le posizioni.
12 Tra i principali fautori delle tesi patrimonialistiche si veda: F.
FERRARA, Il fallimento, Milano, 1966, p. 128 ss.; S. SATTA, Istituzioni di
diritto fallimentare, Roma, 1957 p. 44 ss. .
13 La corrente patrimonialistica prevede al suo interno un’ulteriore
specificazione: da un lato vi sono autori che riferiscono l’insolvenza alle caratteristiche funzionali dell’impresa; dall’altro vi sono autori che accertano l’insolvenza sulla base di una valutazione complessiva della situazione patrimoniale del debitore, verificando se il totale possa soddisfare l’ammontare dei debiti. Si veda G. TERRANOVA, Lo stato di
insolvenza. Per una concezione formale del presupposto oggettivo del fallimento, in Giur. Comm., 1, 1996, pp. 82 ss.
14 Fra i principali esponenti R. PROVINCIALI, Manuale di diritto
fallimentare, I, Milano, 1962, p.207 ss.; G. ROSSI, Equivoci sul concetto di insolvenza, 1,1954, in Dir. Fall. p. 200 ss..
Con riferimento alla corrente personalistica si obietta che l’inadempimento da solo e di per sé considerato non può porsi a fondamento della dichiarazione di insolvenza, rappresentando invero solo una manifestazione, un sintomo, di tale status15.
Le critiche mosse alla dottrina patrimonialistica fanno leva sul fatto che il patrimonio potrebbe anche essere capiente ma nonostante ciò il debitore potrebbe non riuscire in prospettiva a far fronte con regolarità alle obbligazioni; d’altra parte, il puntuale pagamento dei debiti scaduti può non essere rilevante, se esso avviene con mezzi anormali o condizioni rovinose 16.
Se le teorie patrimonialistiche hanno avuto il merito di imporre canoni oggettivi per la valutazione dell’inadempimento, le teorie personalistiche hanno messo in luce la necessità di adattare lo stato di insolvenza alla mutevolezza delle situazioni concrete che di volta in volta vengono in gioco.
Nella prassi si osserva che non è possibile tracciare una netta demarcazione fra le due correnti di pensiero, sottolineando a riguardo come le stesse presentino invece sfere di sovrapponibilità e complementarietà.
Ad oggi tali teorie sono affiancate da correnti c.d. miste, oltre ad aver ricevuto notevoli apporti dalla scienza aziendalistica per il calcolo di indici rilevatori di uno stato di crisi.
La norma, prescindendo dal mero dato letterale, ha mantenuto tutt’oggi l’impostazione data dal Bonelli, nel senso di valutare l’insolvenza come uno “status” economico patrimoniale del debitore che rende impossibile far fronte alle obbligazioni
15 L’impostazione rimane fedele alla nozione di “cessazione dei
pagamenti”, incapace di fronteggiare un’economia industrializzata avanzata, che impone un giudizio dinamico sulle condizioni dell’impresa.
16Per maggiori approfondimenti G. TERRANOVA, Insolvenza stato di crisi
assunte, ed è questo l'impianto che la legge fallimentare ha conservato nel corso degli anni ritenendo che gli inadempimenti siano solo uno dei segnali di una possibile insolvenza17.
La giurisprudenza, a differenza di quanto accade in dottrina, pone al centro dell’esame circa l’integrazione della fattispecie disciplinata all’art. 5 l. fall., la condotta del debitore sulla base della distinzione testuale fra “insolvenza” e “stato di insolvenza”18.
La differenza terminologica non è di poco conto; mentre “l’insolvenza” fa riferimento ad un evento, che è il non pagare, lo “stato di insolvenza” fa richiamo ad una condizione di impossibilità patrimoniale ad adempiere «caratterizzata dalla
definitività e dalla irreversibilità, escludendo per tal via, dal novero della norma le ipotesi di carenza temporanea di liquidità»19. 17 G. TERRANOVA, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, cit. p.51 ss. Critica le tesi che collegano l’insolvenza all’inadempimento su almeno quattro punti: a) il fallimento non può essere considerato alla stregua di una semplice esecuzione collettiva dal momento che distruggere produttività e ricchezza al solo fine di soddisfare l’intera massa dei creditori comporta danni anche alla collettività; b) l’argomento letterale sul termine “insolvenza” è debole; c) è la stessa legge a qualificare l’inadempimento come un sintomo della più ampia condizione d’insolvenza; d) la “cessazione materiale” e quella “virtuale” dei pagamenti sono manifestazioni distinte dello stato d’insolvenza, non dando luogo ad un effetto di sommatoria il quale renderebbe più rigido il regime per la dichiarazione del fallimento.
18 Una delle più importanti definizioni giurisprudenziali dell’insolvenza si trova nella pronuncia della Suprema Corte di Cassazione 26 febbraio 1990, n. 1439, la quale afferma che lo stato d’insolvenza consiste nello
«squilibrio finanziario non superabile con mezzi ordinari nei termini ragguagliati all’ordinaria scadenza dei debiti». Il dato patrimoniale
continua ad essere rilevante, ma la valutazione “personalistica” dell’imprenditore diventa centrale nel giudizio sull’integrazione dello stato di insolvenza.
19 P. PANNELLA, La nuova frontiera dell’insolvenza, articolo web
Vengono tralasciate le cause che hanno determinato l’insolvenza, infatti «ai fini della dichiarazione di fallimento l’accertamento dello
stato di insolvenza prescinde dalle cause che lo hanno determinato»20.
L’articolo 5 l. fall. non contiene una definizione di insolvenza, limitandosi a descrivere in quali circostanze tale status venga integrato («inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni»), mentre ulteriori specificazioni sul significato dello stato di insolvenza si possono ritrovare nelle pronunce della Corte di Cassazione: ad esempio, in una recente pronuncia si dice che «lo stato di insolvenza sottende un giudizio di
inidoneità solutoria strutturale del debitore»21.
Valga per tutti il principio consolidato in Cass., SS. UU., 13.3.2001, n. 11522 , secondo cui «lo stato di insolvenza dell’imprenditore
commerciale quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione di impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività, mentre resta in proposito irrilevante ogni indagine sull’imputabilità o meno dell’imprenditore».
Nella definizione della nozione di insolvenza è ormai consolidata, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, la distinzione tra insolvenza e insufficienza patrimoniale: «lo stato di insolvenza si
20 Così Cass. 14.01.2016 n.441, in www.iusexplorer.it .
21 Così di recente Cass. 06.10.2017, n. 23437, in www.iusexplorer.it,
riprendendo le formulazioni della giurisprudenza degli anni precedenti: Cass. 28.1.2008, n. 1760, ivi; Cass. 4.3.2005, n.4789, ivi; Cass. 14.4.1992, n. 4550, ivi; Cass. 28.6.1985, n.3877. In queste sentenze si parla di «una
situazione d’impotenza, strutturale e non soltanto transitoria».
risolve nell’incapacità del debitore di adempiere con regolarità e tempestività le proprie obbligazioni, […] in tale prospettiva non è ostativa alla dichiarazione di fallimento né la consistenza del patrimonio immobiliare riconducibile al debitore di non immediata liquidabilità, né analogamente la sussistenza di crediti verso terzi non di pronta e certa realizzazione»23.
Sulla distinzione tra incapienza patrimoniale e stato di insolvenza si snoda la differenza tra insolvenza in sede civilistica24 e
insolvenza fallimentare: quest’ultima viene valutata tenendo conto che all’impresa corrisponde una situazione patrimoniale soggetta a continui mutamenti, riprendendosi e marcandosi quella distinzione tra “cessazione dei pagamenti” e “stato di insolvenza”25.
Attribuendosi all’impresa un carattere dinamico, diventa allora irrilevante il solo dato patrimoniale ma sarà necessario trovare indicatori in grado di misurare tale dinamismo, ad esempio la situazione finanziaria dell’impresa26.
Se il solo dato patrimoniale è irrilevante allora l’imprenditore può essere insolvente anche laddove le attività eccedono le passività e
23 Così di Trib. Trani 18.07.2013, www.iusexplorer.it; ma vedi anche
Cass. 20.05.1993 n. 5736, ivi; Cass. 16.07.1992, n. 8656, ivi.
24 Nel codice civile l’insolvenza è regolata agli artt. 1186 e 1299.
L’insolvenza civile è un fenomeno assolutamente statico che si concretizza quando le attività non sono in grado di far fronte alle passività.
25 Cfr. G. LO CASCIO, Codice Commentato del Fallimento: Diritto Europeo,
Normativa Transfrontaliera, Normativa Tributaria, Amministrazione Straordinaria, Sovraindebitamento. Wolters Kluwer, 2017. p. 77.
26 G. BRUGGER, La nozione di insolvenza: un concetto che muta. Crisi
finanziaria, crisi strutturale ed insolvenza d’impresa: economia e diritto a confronto, in Fallimento, 9, 1988, p. 899.
di contro, l’impresa può trovarsi a fronteggiare uno sbilancio patrimoniale negativo senza perciò potersi dire insolvente27.
Diventa in questo modo irrilevante l’incapienza patrimoniale ai fini dell’integrazione dell’art. 5, 2º comma, l. fall., essendo invece opportuno che il debitore disponga dei mezzi per far fronte alle obbligazioni in scadenza e dunque di liquidità.
Per questo motivo nella prospettiva dell’insolvenza assume centrale rilevanza la capacità del debitore di beneficiare del credito28.
Non si è mancato di osservare come nella prassi i due concetti, insolvenza ed incapienza patrimoniale, siano interconnessi, dal momento che è difficile per un’impresa che goda di un attivo capiente non essere in grado di ottenere credito; così come dovrebbe essere segnale attendibile dell’impossibilità di un’impresa di garantire la realizzazione seppur coattiva dei debiti l’incapacità di ottenere nuova finanza.
E` attraverso una lettura dell’art. 5 l. fall. in linea con le finalità che la legge fallimentare persegue che si può cercare di definire il rapporto fra i due concetti29: posto che la procedura fallimentare
27 Ad esempio laddove abbia obbligazioni da adempiere o rimane in
grado di adempiere quelle che hanno scadenza nell’immediato. Cfr. A. JORIO, Fallimento e Concordato Fallimentare. UTET Giuridica, 2016, p.189 ss.
28 G. FERRI jr, Lo stato d’insolvenza in Riv. Dir. Comm., 3, 2010, pp. 774
ss.: secondo l’autore la disponibilità di risorse liquide non sarebbe un elemento che singolarmente considerato garantirebbe un’adeguata e regolare attività solutoria, ma alla disponibilità di liquidità dovrebbe corrispondere una solida organizzazione dell’impresa che destini concretamente alla soddisfazione dei creditori le liquidità di cui dispone. L’insolvenza infatti, secondo l’autore, potrebbe derivare non solo da cause economiche, ma anche e soprattutto da disfunzioni organizzative dell’impresa oggettivamente considerata.
29 A. JORIO, Fallimento e Concordato Fallimentare, cit., pp. 200 ss.,
l’autore osserva che qualora si neghi rilievo alla capienza patrimoniale del debitore, anche le società in liquidazione con un attivo superiore al
è una procedura collettiva, la preclusione ed il conseguente coordinamento delle singole azioni individuali in forma collettiva ha l’obbiettivo di consentire a ciascun creditore di ottenere la massima soddisfazione con il minor sacrificio possibile.
Allora, in tale prospettiva, il giudizio sull’imprenditore fallibile dovrebbe tenere conto sia della capacità di adempimento spontaneo sia della capacità di soddisfazione coattiva del patrimonio.
2.1.
Le
manifestazioni
dell’insolvenza:
l’inadempimento
L’analisi sulle forme di palesamento dello stato d’insolvenza consente una migliore e più precisa comprensione del presupposto oggettivo dell’art. 5, l. fall., pertanto è emblematico il contenuto del suo 2º comma, in cui si dice che «lo stato
d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni».
Si rende allora necessario cercare di comprendere quale sia il ruolo e la funzione che la legge attribuisce agli ‘inadempimenti’ ed agli ‘altri fatti esteriori’ con cui lo stato d’insolvenza ‘si manifesta’ e l’importanza che la ‘regolarità’ ha ai fini dell’integrazione dell’art. 5 legge fallimentare.
passivo dovrebbero essere dichiarate insolventi, laddove non riuscissero a soddisfare in maniera tempestiva i creditori; di contro, se si adotta l’impostazione per cui occorre tener conto anche del profilo patrimoniale, nemmeno una società in attività dovrebbe essere dichiarata insolvente in vista delle azioni esecutive individuali dei creditori.
È ormai generalmente affermato in dottrina che lo stato d’insolvenza non sia coincidente con quello di inadempimento e sulla stessa linea si è mantenuta la giurisprudenza, sostenendo risolutamente che l’inadempimento e lo stato d’insolvenza sono due fenomeni non completamente equivalenti. Pertanto si è sottolineato come vi siano ipotesi in cui la pronuncia di fallimento possa colpire l’imprenditore anche in assenza di una cessazione dei pagamenti: «lo stato di insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell’imprenditore non è escluso dalla circostanza che l’attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili»30. In conformità con l’affermazione per cui inadempimento ed insolvenza siano due realtà distinte, è stato ribadito in alcune pronunce giurisprudenziali che, ai fini dell’integrazione del presupposto oggettivo del fallimento, nemmeno la presenza di inadempimenti sarebbe sufficiente a comprovare tale stato: «il
mero inadempimento di un’obbligazione non può, di per sé, dimostrare lo stato d’insolvenza né il ritardo nel pagamento di alcune cambiali è sufficiente a giustificare la decadenza del debitore dal beneficio del termine, previsto dall’art. 1186 c.c., né, infine il mero inadempimento di un’obbligazione dimostra una situazione di
30 Cass. 27.03.2014, n.7252 in www.iusexplorer.it; si veda anche Cass.
08.08.2013, cit., ed in senso conforme Cass. 28.4.2006, cit., secondo cui:
«ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza dell’imprenditore è configurabile anche in assenza di protesti, pignoramenti e azioni di recupero dei crediti, i quali non costituiscono parametro esclusivo del giudizio sul dissesto, posto che è invece la situazione di incapacità del debitore a fronteggiare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni a realizzare quello stato, secondo la previsione dell’art. 5 l. fall., quali che siano gli “inadempimenti” in cui si concretizza e i “fatti esteriori” con cui si manifesta».
dissesto economico tale da impedire al debitore di far fronte ai propri impegni»31.
La giurisprudenza si basa difatti sull’idea per cui la valutazione sulla situazione dell’impresa debba avere un carattere prognostico: si cerca di far riferimento a strumenti concettuali più elastici, come l’impossibilità di adempimento o la previsione in merito alla futura regolarità del flusso dei pagamenti, per cercare di valutare tutte le esigenze che vengono in gioco32.
È imprescindibile far riferimento alla natura dinamica propria dell’attività d’impresa; solo in tal modo sarà possibile un giudizio sulla situazione dell’impresa, globalmente considerata, che consenta di valutare se un ritardo nell’apertura della procedura concorsuale possa arrecare danni irreparabili ai creditori.
Tale impianto è il portato di quell’impostazione teorica di matrice “bonelliana” che distingue i fatti-evento dai fatti-situazione, collocando l’inadempimento nel primo e l’insolvenza nel secondo.
2.2.1. (segue): La regolarità dell’adempimento
L’avverbio ‘regolarmente’, rappresenta il fulcro dell’art. 5, 2º comma, l. fall., ed è un riferimento connesso alle modalità di svolgimento dell’attività, appare pertanto necessario comprendere qual è il significato che bisogna dare all’avverbio e quando si possa parlare di regolarità ai fini dell’integrazione dello stato d’insolvenza. 31 Cass. 18.11.2011, n. 24330 cit.; più di recente Cass. 15.01.2015, n. 576, cit. 32 Cfr. G. TERRANOVA, Insolvenza stato di crisi sovraindebitamento, cit., p. 61 ss.
È stato precisato, già con la relazione del Guardasigilli al testo della legge fallimentare, che «l’avverbio ‘regolarmente’ indica non
solo ‘alle debite scadenze’, ma anche ‘con mezzi normali’ in relazione all’ordinario esercizio dell’impresa». È necessario, allora, che il fallimento sia dichiarato anche quando il debitore pur essendo solvente si procuri le risorse necessarie con mezzi rovinosi o fraudolenti33 (la c.d. cessazione virtuale dei pagamenti) essendo la regolarità un giudizio relativo anche alle modalità di svolgimento dell’attività dell’impresa34. In secondo luogo, l’avverbio impone un giudizio basato non sul singolo atto di adempimento, bensì sull’attività solutoria globalmente considerata: il debitore deve pagare i debiti dimostrando di non aver interrotto il flusso degli adempimenti. In tal senso si osserva come non vi sia coincidenza tra l’esattezza civilistica, disciplinata all’art. 1218 cod. civ.35, suscettibile di una
valutazione precisa e puntuale, e la regolarità dell’art. 5, 2º comma legge fallimentare, che implica un giudizio riferito ad un arco temporale più ampio.
33 Ai fini della retrodatazione della declaratoria fallimentare, l’art. 705
cod. comm. stabiliva che «il fatto materiale di una continuazione dei
pagamenti con mezzi rovinosi o fraudolentemente procurati non impedisce la dichiarazione che il commerciante fosse realmente in stato di cessazione dei pagamenti». Si tratterebbe dunque di una solvibilità solo fittizia che lascia presagire una futura incapacità patrimoniale. 34 Sul punto si veda G. TERRANOVA, Stato di crisi e Stato di insolvenza, Torino, G. Giappichelli, 2007, pp. 68 ss.; A. JORIO Fallimento e Concordato Fallimentare…, cit. p. 26, l’autore specifica che in linea teorica l’uso dei
mezzi rovinosi per la soddisfazione dei creditori non è vietata, ma è necessario che tutti creditori siano soddisfatti, in caso contrario s’integrerebbe lo stato d’insolvenza.
35 «Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto
al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».
2.3. “Gli altri fatti esteriori”
Il 2º comma dell’art. 5, l. fallimentare parla di “altri fatti esteriori” a seguito dei quali può manifestarsi lo stato d’insolvenza.
Dalla formulazione della disposizione ha avuto seguito il dibattito sulla tipicità o atipicità delle forme di manifestazione dell’insolvenza, ma ad oggi risulta quasi unanime la dottrina nel ritenere che il legislatore abbia volutamente lasciato indeterminati tali fatti senza costringerli in un rigido elenco36.
In merito agli “altri fatti esteriori” su cui si fonda il convincimento dell’incapacità del debitore di soddisfare le proprie obbligazioni si fa riferimento ad un gruppo di ipotesi elencate all’art. 7 della fallimentare: si tratta delle ipotesi di fuga, irreperibilità o latitanza dell’imprenditore, chiusura dei locali dell’impresa, trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore.
Concordemente un secondo gruppo di fattispecie è quello individuato art. 67, 1º comma della legge fallimentare, in cui la norma pone in capo al terzo convenuto in revocatoria una presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza: si fa riferimento agli atti a titolo oneroso in cui le prestazioni eseguite 36 Cfr. L. PANZANI, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, UTET, 2000, p. 98 ss. Si veda anche G. TERRANOVA, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, cit. pp. 67 ss. : secondo l’autore laddove si ritenesse la natura costitutiva di tali fatti esteriori ne discenderebbe la loro tipicità grazie alla quale sarebbero agilmente riconoscibili; tuttavia laddove invece tali fatti possano essere sostituiti con altri documenti non potrebbe parlarsi di natura costitutiva. Tenendo conto di ciò se ne deduce che nel momento in cui si è passati ad una concezione di insolvenza come “status” soggetta a valutazioni prognostiche quegli “altri fatti esteriori” non sono altro che semplici indizi e per tanto l’accertamento del giudice non risulta più legato ad alcun tipo di formalismo.
e le obbligazioni assunte dal fallito oltrepassano notevolmente quanto a lui è stato dato o promesso; agli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento; ai pegni, alle anticresi e alle ipoteche giudiziali costituiti per debiti preesistenti non scaduti o per debiti scaduti.
Tra gli “altri fatti esteriori” che possono manifestare lo stato d’insolvenza uno degli elementi presi più di frequente in considerazione dal giudice ai fini della decisione, vi è senza dubbio il rapporto disequilibrato fra attività e passività, infatti secondo una massima consolidata: «nel procedimento di opposizione alla
dichiarazione di fallimento, la sussistenza dello stato di insolvenza può essere correttamente desunta dalle risultanze dello stato passivo»37 .
Sono poi considerati sintomi dell’insolvenza anche il suicidio o il tentativo di suicidio; i fatti di bancarotta; la chiusura di reparti o stabilimenti; il compimento di reati contro il patrimonio; il continuo trasferimento della sede dell’impresa o l’occultamento di essa38.
37 Cass. O4.05.2011, n. 9760 in www.iusexplorer.it; in senso conforme
Cass. 06.09.2006, n.19141, cit.; Cass. 12.12.2005, n.27386, cit.; e più di recente Cass. 06.10.2017, n.23437, cit.
38 Per un maggiore approfondimento si veda L. PANZANI, Il fallimento e
le altre procedure concorsuali, cit., p. 101: l’autore elenca tutta una serie
di segnali sintomatici dell’insolvenza, tenendo conto anche della differente natura dell’ente insolvente: «per le società fiduciarie
l’inadempimento dell’obbligo di consentire ai fiducianti lo smobilizzo del loro investimento secondo le modalità e alle condizioni contrattualmente previste» o ancora «per le società calcistiche, le difficoltà di gestione dell’impresa sportiva conseguenti alla sottoposizione a sequestro conservativo di tutti i beni del socio di maggioranza o risultanti da un’esposizione debitoria verso i propri fornitori, assistita da ingiunzioni di pagamento verso il personale tesserato e nei confronti di un ente pubblico».
Per volgere al termine si osserva come, nei fatti, il numero e le tipologie di segnali riconducibili alla categoria degli “altri fatti
esterni” sono illimitati, dovendosi considerare tali tutti quegli
elementi in grado di manifestare nel mondo esteriore39 lo stato
d’insolvenza e, per tanto, che siano capaci di coadiuvare il giudice nel giudizio presuntivo inerente l’accertamento dello stato d’insolvenza.
3. La stagione della Riforma 2005 - 2007
L’esigenza di una riforma globale della disciplina della crisi delle imprese inizia ad essere avvertita con forza sempre maggiore alla luce di una economia di mercato globale, risultando per tanto necessario ai fini dell’equilibrio del mercato stesso e, per altro verso, come un fattore di concorrenza sul piano internazionale40. Una modernizzazione delle procedure concorsuali era necessaria anche alla luce di importanti scandali finanziari che hanno segnato l’inizio degli anni 200041. Lo scopo della riforma 2005 – 2007 è consistito nella volontà di recuperare l’impresa in crisi, con principi ispiratori nuovi rispetto 39 G. FERRI jr, Lo stato d’insolvenza, cit. pp. 787 ss. secondo l’autore ilpresupposto oggettivo del fallimento è rappresentato dallo “stato di insolvenza manifesta”, nel senso di insolvenza che viene percepita dal mercato e dunque fuori dalla sfera dell’imprenditore e dell’impresa. Ne deriva dunque che l’insolvenza “occultata” e non “esteriorizzata” non vale di per sé ad integrare il presupposto del fallimento.
40 Cfr. A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto Della Crisi Delle Imprese: Le
Procedure Concorsuali. Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 30 ss; L.
STANGHELLINI, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure
di insolvenza, il Mulino, Bologna, 2007, pp. 337 ss.
al passato ed ha risposto ad un’esigenza di omogeneità con le normative vigenti negli altri Paesi dell’Unione Europea42.
Obiettivo cardine è stato quello di dare continuità all’attività d’impresa, valorizzando l’autonomia negoziale e gli accordi tra privati sul presupposto che gli attori della crisi d’impresa sono i migliori arbitri e tutori dei loro interessi43.
L’impresa non è più considerata come un bene dell’imprenditore ma come un fenomeno di carattere sociale in cui confluiscono gli interessi della collettività44; a mutare è anche la concezione
dell’imprenditore fallito e si fa strada nel nostro ordinamento il concetto di imprenditore onesto ma sfortunato45.
Nella Relazione illustrativa46 al D.L. n. 35/2005 viene affermato
che le procedure concorsuali non devono intendersi «in termini
meramente liquidatori o sanzionatori, ma piuttosto come destinate ad un risultato di conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza, ove possibile di questa e, negli altri casi, procurando alla collettività, in primo luogo agli stessi creditori, una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali»: si tratta di una “rivoluzione copernicana” che pone
l’oggetto-impresa al centro della disciplina del nuovo diritto della 42 I. L. NOCERA, Autonomia privata e insolvenza, cit., p. 416 43 G. MINUTOLI, L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra giustizia contrattuale e controllo di merito (o di meritevolezza), in Fall., 9, 2008, p. 1047ss. 44 L. GUGLIELMUCCI, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005 45 Per un’analisi dei principi della Riforma 2005 – 2007, si veda anche G.
LO CASCIO, I principi della legge delega della riforma fallimentare, in
Fallimento, 9, 2005, p. 985.
46 Consultabile al sito:
http://www.ilsole24ore.com/SoleOnLine4/Speciali/2006/guida_profe ssionisti/22giugno2006/Relazione_DLGS_5_2006.pdf?cmd%3Dart
crisi d’impresa, viene preservato il valore dell’impresa ed il fallimento relegato ad un ruolo di secondo piano47.
Il legislatore è intervenuto massicciamente sul concordato preventivo48, ridimensionando il controllo giurisdizionale con la
conseguente valorizzazione del ruolo dei creditori: è palese dunque la volontà del legislatore di creare uno strumento volto alla riallocazione dei complessi aziendali in financial distress sul mercato, in una prospettiva profondamente liberista e degiurisdizionalizzata49.
Vengono aboliti i requisiti di meritevolezza per l’accesso alla procedura e le percentuali minime di soddisfacimento dei creditori e fa ingresso nella normativa fallimentare il concetto di “stato di crisi” quale presupposto oggettivo del concordato preventivo.
Questa trasformazione ha avuto come conseguenza una sorta di declino normativo del concetto di insolvenza legata al patrimonio inteso in senso statico; infatti il concetto di «crisi», che diventa il nuovo presupposto del concordato preventivo e che contiene in sé anche quello di insolvenza, appare come una nozione aperta capace di cogliere dinamicamente la tendenza della situazione economica dell’impresa, consentendo di anticipare il tentativo di salvataggio ben prima di raggiungere uno stato di irreversibilità50. Altra importante novità è data dall’introduzione dello strumento degli accordi di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182- 47 I. L. NOCERA, Autonomia privata e insolvenza, cit., p. 417. 48 Il concordato può avere una finalità liquidatoria e conservativa, ma nonostante gli obiettivi della riforma del 2005 l’istituto in questione ha mantenuta finalità essenzialmente liquidatoria, costituendo un’alternativa alla procedura fallimentare.
49 D. GALLETTI, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto
fallimentare tra diritto ed economia, il Mulino, Bologna, 2006, p. 30.
bis, l. fall., e dei piani attestati di risanamento di cui all’art. 67, co. 3. Lett. d), l. fall., i primi considerati come accordi stragiudiziali ibridi, essendo prevista l’omologa dell’accordo, ed i secondi come una soluzione stragiudiziale pura51.
Si crea, in questo modo, una disciplina per la composizione negoziale della crisi d’impresa caratterizzato da un graduale ridursi della componente procedurale e del ruolo dell’autorità giudiziaria con il conseguente ampliamento dell’autonomia privata52 .
Ulteriori interventi legislativi riguardano l’abolizione dell’istituto dell’amministrazione controllata, il ridimensionamento dell’azione revocatoria53 e la previsione dell’esercizio provvisorio
e dell’affitto di azienda.
La riforma, nonostante le numerose critiche54, vanta il pregio di
aver realizzato all’interno della Legge Fallimentare un cambiamento all’insegna della salvaguardia della continuità aziendale.
3.1. La preservazione dei complessi produttivi:
l’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa.
La legge fallimentare riformata mostra un atteggiamento di particolare favore verso tutte le soluzioni volte a consentire la
51 Cfr. P. MANGANELLI, Gestione delle crisi di impresa in Italia e negli Stati
Uniti: due sistemi fallimentari a confronto, in Fallimento, 2, 2011, pp. 129
ss.
52 I. L. NOCERA, Autonomia privata e insolvenza, cit., p. 423.
53 Cfr. M. FABIANI, L’alfabeto della nuova revocatoria fallimentare, in
Fall., 5, 2005, p. 573.
54 G. LO CASCIO, Lineamenti generali della riforma societaria e
prosecuzione dell’attività d’impresa e assicurare il mantenimento dei complessi produttivi 55.
Un esempio di tale impostazione di fondo è rappresentato dalle modifiche che hanno riguardato la procedura fallimentare in particolare con riguardo alla disciplina prevista per l’esercizio provvisorio e l’affitto di azienda (artt. 104 e 104-bis, l. fall.). Entrambi gli istituti costituiscono tecniche che condividono il medesimo obiettivo: la preservazione dell’integrità e funzionalità dei complessi produttivi in vista della loro cessione a terzi, per consentire la riallocazione di risorse potenzialmente produttrici di ricchezza e la conservazione dei livelli occupazionali56.
L’esercizio provvisorio era regolato nella legge del 1942 all’art. 90 l. fall., nel Capo relativo alla custodia e all’amministrazione delle attività fallimentari: si trattava di un istituto disciplinato alla stregua di una misura-tampone volta a favorire la liquidazione dei beni aziendali piuttosto che dell’azienda, era in linea con una visione del patrimonio dell’impresa come sostanzialmente assimilabile alla tradizionale visione del patrimonio tout court, trascurandone la visione dinamica57.
La nuova disciplina, che l’art. 104 l. fall. riserva all’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa, prevede, a differenza di quanto avveniva nel passato, che il Tribunale possa disporre l’esercizio dell’impresa per l’azienda nel suo complesso o per rami
55 F. BARACHINI, La nuova disciplina dell’esercizio provvisorio:
continuità dell’impresa in crisi nel (e fuori dal) fallimento, in AA. VV., Società, Banche e Crisi d’Impresa, UTET GIURIDICA, 2014, III, p. 2863
56 A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto Della Crisi Delle Imprese: Le
Procedure Concorsuali, cit., p. 232
57 CNDCEC, L’esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento (art. 104 L.
specifici della stessa già con la sentenza dichiarativa di fallimento58.
Secondo l’attuale formulazione prevista dell’art. 104 l. fall. la disciplina si sviluppa in due fasi procedimentali, tanto da far ritenere che abbia perso il suo carattere unitario, essendo previste, in realtà forme di esercizio provvisorio59.
Una prima ipotesi è quella contenuta all’art. 104, 1º co., l. fall. secondo cui «Con la sentenza dichiarativa del fallimento, il
tribunale può disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, se dalla interruzione può derivare un danno grave, purché non arrechi pregiudizio ai creditori».
Con la riforma è stato stabilito che il danno “grave” non è più riferito ai creditori, ma va valutato in relazione all’impresa, in quanto organismo produttivo destinato alla riallocazione nel mercato (Trib. Chieti 10 agosto 2010). Questa è l’ipotesi c.d. “urgente” che può essere disposta immediatamente dal tribunale con sentenza dichiarativa di fallimento.
La seconda ipotesi è quella previsa al 2º co. art. 104 l. fall. ai sensi del quale «successivamente, su proposta del curatore, il giudice
delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, la continuazione temporanea
58 Nella versione ante-riforma l’esercizio provvisorio dell’attività
d’impresa poteva essere disposto dal tribunale successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento, ossia una volta intervenuto il decreto che aveva dichiarato esecutivo lo stato del passivo, il comitato dei creditori era chiamato a pronunciarsi sull’opportunità dell’avvio o della continuazione dell’esercizio provvisorio. Il parere negativo del comitato dei creditori impediva l’inizio o la prosecuzione dell’esercizio d’impresa. Cfr. M. SANDULLI, La crisi dell’impresa, in Manuale di diritto
commerciale, Giappichelli, Torino, 2006, p. 40.
59 F. BARACHINI, La nuova disciplina dell’esercizio provvisorio: continuità
dell’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami d’azienda, fissandone la durata».
Nel 2º comma manca il riferimento al danno grave ed al pregiudizio dei creditori, ragion per cui si ritiene che si tratti di una opzione di convenienza per i creditori e dunque, superata la fase di urgenza, la prosecuzione è ammessa solo a fronte di un migliore soddisfacimento delle loro ragioni60.
Fra l’interesse dei creditori e le istanze legate alla prosecuzione dell’impresa non vi è necessariamente né coincidenza né contrapposizione e tuttavia non si è mancato di sottolineare come la tutela dei creditori rappresenti la “stella polare” delle procedure d’insolvenza61.
L’esercizio provvisorio presenta tuttavia alcune controindicazioni, poiché vengono utilizzate risorse finanziarie, che a seguito dell’apertura del concorso non vengono immediatamente restituite o remunerate, ma sottostanno al rischio della aleatorietà della gestione62.
Un’ulteriore controindicazione è quella per cui l’esercizio provvisorio può in talune situazioni risolversi in un “accanimento terapeutico” su un’impresa che il mercato ha bocciato,
60 F. BARACHINI, La nuova disciplina dell’esercizio provvisorio: continuità
dell’impresa in crisi nel (e fuori dal) fallimento, cit., p. 2870
61 L. STANGHELLINI, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, le
procedure di insolvenza, cit., p. 94.: «Dalla finalità generale di tutelare i creditori derivano, come corollari, due finalità specifiche delle procedure d’insolvenza: 1. La finalità di ridurre al minimo la perdita minacciata della crisi del debitore, valorizzando al meglio il patrimonio del debitore; 2. La finalità di allocare la perdita che, pur con tutti gli sforzi, non è stato possibile evitare».
62 B. MEOLI, La continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa, in
ingenerando l’equivoco per cui le procedure concorsuali debbano servire da ammortizzatori sociali63.
Una volta disposta la continuazione dell’impresa, la norma prevede nei successivi commi, tutta una serie di cautele volte ad evitare un aggravio della procedura64.
La prosecuzione dell’attività d’impresa nella fase iniziale consente di cristallizzare la situazione esistente al momento della dichiarazione di fallimento: in tal senso da un lato evita il prodursi di effetti rovinosi, come quelli derivanti dall’eventuale scioglimento dei rapporti contrattuali ex. art. 72 ss. l. fall.; dall’altro rinvia ogni decisione sulla prosecuzione o meno dell’attività ad un momento successivo, dando la possibilità agli organi della procedura di effettuare una scelta consapevole65
In questa prospettiva può sembrare opportuno all’apertura di ogni procedura di insolvenza mantenere l’impresa in attività, per valutare se il suo valore di going concern sia superiore al suo valore di liquidazione66.
3.2. (segue): L’affitto d’azienda
Il medesimo obiettivo di conservare il valore dell’impresa in crisi può essere perseguito mediante la previsione contenuta all’art. 104-bis l. fall., che disciplina l’affitto di azienda.
63 F. D’ALESSANDRO, La crisi dell’impresa tra diagnosi precoci e
accanimenti terapeutici, in Giur. Comm., 1, 2001, p. 411.
64 Si tratta di obblighi informativi disciplinati all’interno dell’articolo
140, co. 3; co. 4; co. 5; co. 6, l. fall. .
65 F. BARACHINI, La nuova disciplina dell’esercizio provvisorio: continuità
dell’impresa in crisi nel (e fuori dal) fallimento, cit., p. 2872.
Fra l’istituto dell’esercizio provvisorio e quello dell’affitto d’azienda vi è una differenza di fondo relativa al differente atteggiarsi del rischio d’impresa: mentre l’affitto sposta il rischio all’esterno, interessando un soggetto terzo, nel caso dell’esercizio provvisorio l’alea del rischio rimane all’interno della procedura, con riflessi diretti sui creditori.
Il fallimento diventa un’opportunità di mercato dell’impresa in crisi che non comporta la necessaria disgregazione dell’impresa ma anche il suo rilancio sul mercato in virtù di nuovi finanziamenti.
Anche l’affitto di azienda può essere concepito non solo come misura conservativa del valore di avviamento dell’impresa, ma quale opportunità di finanziamento volto alla riallocazione competitiva dell’impresa sul mercato67.
Presenta, inoltre, indubbi vantaggi per l’affittuario con riguardo al profilo del trasferimento dei lavoratori prevendo un regime agevolato a seconda delle dimensioni aziendali, in deroga all’art. 2112 cod. civ. nella preminente assicurazione della finalità generale della salvaguardia dell’occupazione sull’interesse alla continuità dei singoli rapporti di lavoro68.
Altro aspetto agevolativo è rappresentata dalla deroga all’art. 2560 cod. civ. “debiti relativi all’azienda ceduta” per cui i debiti sorti in costanza dell’affitto, non sono imputabili alla procedura all’atto della retrocessione dell’azienda: eccezione che, del resto, vale anche per la vendita dell’azienda in sede fallimentare (art. 105, 8º comma, l. fall.). 67 A. PATTI, Affitto d’azienda e finanziamento dell’impresa fallita, in Fall., 1, 2009, p. 79. 68 A. PATTI, L’affitto dell’azienda, in Fall., 9, 2007, p. 1094.
4. Lo “stato di crisi” come presupposto oggettivo del
concordato preventivo
L’originaria formulazione dell’art. 160 ancorava la procedura di concordato preventivo al medesimo presupposto oggettivo del fallimento: lo stato di insolvenza69.
L’incipit della norma è stato riscritto con la l. 80/2005 prevendendosi che: «l’imprenditore che si trova in stato di crisi può
proporre ai creditori un concordato preventivo…»; lo “stato di crisi”
rappresenta il nuovo presupposto oggettivo attraverso cui attivare la procedura di concordato preventivo disciplinata agli artt. 160 ss. della l. fall., sostituendo così lo stato d’insolvenza. Invero, se l’art. 5 della legge fallimentare è rimasto formalmente invariato a seguito delle riforme che hanno riguardato la normativa concorsuale, lo stesso non può certamente dirsi con riguardo al concordato preventivo.
Con la sostituzione della nozione di crisi a quella di insolvenza, si è aperto un dibattito sulla natura e sul significato dello stato di crisi: se nel vecchio concordato l’insolvenza, come presupposto oggettivo della procedura, essendo ancorata ad un indice di rilevazione esterna di carattere finanziario, consentiva di verificare lo stato di decozione dell’imprenditore a prescindere dalle cause che l’avevano determinato, nella nuova formulazione del presupposto del concordato preventivo il legislatore fa
69 Originariamente il primo comma dell’art. 160 recitava:
«l’imprenditore che si trova in stato d’insolvenza, fino a che il suo fallimento non è dichiarato, può proporre ai creditori un concordato preventivo».
riferimento ad una situazione molto più variegata e complessa che prescinde dalle cause che l’hanno determinata70. In particolare si discuteva se vi fosse una concreta differenza tra stato di insolvenza e stato di crisi, ed inoltre, fra i fautori della tesi della diversità dei due concetti non vi era concordia sul significato da attribuire al termine «crisi»71.
Le difficoltà definitorie appaiono peraltro maggiori a seguito dell’intervento del legislatore mediante una disposizione di interpretazione autentica, con la L. 51/2006 è stato aggiunto un ultimo comma all’art. 160, ai sensi del quale «ai fini di cui al primo
comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza».
Il disposto esclude chiaramente che i due stati possano dirsi coincidenti e che ogni stato di crisi sia necessariamente insolvenza72.
Nella definizione dei confini tra crisi ed insolvenza la risposta andrebbe cercata sul piano funzionale, ossia guardando alla ratio del concordato: mentre lo stato d’insolvenza consente ad una pluralità di soggetti di chiedere la dichiarazione di fallimento, lo stato di crisi consente solo e soltanto al debitore di cogliere per primo i segnali della difficoltà e chiedere l’accesso alla procedura di concordato73. 70 G. BOZZA, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, in Il Fallimento, 8, 2005, p. 954.
71 A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto Della Crisi Delle Imprese: Le
Procedure Concorsuali, cit., p. 353.
72 Cfr. G. PRESTI, Rigore è quando arbitro fischia, cit., p. 26; ma anche A.
NIGRO, D. VATTERMOLI, A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto Della Crisi
Delle Imprese: Le Procedure Concorsuali, cit., p. 353; A. JORIO, M.
FABIANI, Il nuovo diritto fallimentare: commento al r. d. 16 marzo 1942,
n. 267 (aggiornato al d. l. 35/2005 e al d. lgs. 5/2006), Zanichelli, 2006, p.
2301.
73G. PRESTI, Rigore è quando arbitro fischia?, cit., p. 26: Per la verità
anche in passato, quando il requisito era lo stato d’insolvenza, il
Nel tentativo di precisare la nozione “stato di crisi” la mancanza di una qualsiasi definizione ha lasciato intendere che il legislatore si sia rifatto al concetto di crisi accolto negli altri ordinamenti e di aver ripreso quello elaborato nel disegno di legge formulato dalla commissione Trevisanato74, laddove la crisi è definita come «la
situazione patrimoniale, economica o finanziaria in cui si trova l’impresa, tale da determinare il rischio di insolvenza»75,
richiamando, come già detto, il rischio o il pericolo di insolvenza di altri ordinamenti.
Si tratta, dunque, di tutte quelle situazioni in cui il debitore pur essendo capace di fronteggiare le proprie obbligazioni, vede prospettarsi difficoltà suscettibili di essere superate mediante accordo con i creditori76.
Gli economisti invece definiscono la crisi come «quel processo
degenerativo che rende la gestione aziendale non più in grado di seguire condizioni di economicità a causa di fenomeni di squilibrio
debitore di comprendere i segnali interni di uno squilibrio e non dal manifestarsi di segnali esteriori. Oggi, il privilegio è anche in diritto, perché davanti al presupposto dato dallo “stato di crisi” è solo il debitore che può attivare la procedura, mentre gli altri soggetti dovranno attendere l’integrarsi del presupposto del fallimento: lo stato di insolvenza.
74 Nel 2001 venne istituita, presso il Ministero della Giustizia, la
Commissione per la riforma della disciplina concorsuale (c.d. commissione Trevisanato), che avrebbe dovuto elaborare un progetto delega da presentare al governo.
Al termine dei lavori la Commissione produsse due testi rimettendo la scelta al Parlamento, tuttavia a seguito delle profonde differenze fra le due proposte, il Ministero della Giustizia istituì una Commissione ristretta con il compito di elaborare un disegno di legge volto a sostituire la legge fallimentare: nemmeno tale provvedimento ebbe esito parlamentare.
75 Così l’art. 2, lett. h), del progetto di legge della commissione
Trevisanato
76 G. BOZZA, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato,
o di inefficienza di origine interna o esterna, che determinano appunto la riduzione delle perdite, di varia entità, che a loro volta possono determinare l’insolvenza che, costituisce più che la causa, l’effetto, la manifestazione ultima del dissesto».77
Sicuramente dare una definizione di crisi non risulta agevole poiché la sua origine e natura sono diversificate, ma ciò nonostante sarebbe stato comunque necessario un chiarimento per comprendere l’intento della riforma78.
Con l’introduzione del concordato preventivo e, successivamente, degli accordi di ristrutturazione dei debiti l’imprenditore si trova dinanzi la possibilità di compiere la “scelta” fra conservazione e massimizzazione del valore del patrimonio d’impresa e liquidazione fallimentare, affidando all’autonomia privata la gestione della crisi79.
Nel concordato preventivo si osserva come l’autonomia dispositiva dell’imprenditore è massima, diversamente dal concordato fallimentare, in vista della ristrutturazione del debito e di un’efficace definizione dei rapporti con i creditori.
77 L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Milano, 1986, p. 39. 78 Si è sostenuto che lo stato di crisi ricorra nelle ipotesi disciplinate
dagli altri ordinamenti, ad esempio: i) l’ipotesi della ley concursual spagnola del 2003 per la quale si ha insolvenza imminente laddove il debitore non potrà soddisfare regolarmente e puntualmente le proprie obbligazioni; ii) ex art. L620-1 Code de commerce, qualora il debitore ha difficoltà non superabili che lo condurranno alla cessazione dei pagamenti; iii) o quando «is likely to become unable to pay its debts» (UK). Alla casistica si è poi aggiunta l’ipotesi dello sbilancio patrimoniale. Per un maggiore approfondimento si veda G. PRESTI,
Rigore è quando arbitro fischia?, cit., p. 27.
79 R. MARINO, M. CARMINATI, Interpretazione estensiva del presupposto
oggettivo di cui all’art. 160 l. fall. e prevenzione dell’insolvenza, in Fallimento, 4, 2015, p. 386.
4.1. Origini e natura del concordato preventivo
Il Concordato Preventivo trae origine dall’istituto della moratoria dell’antico Codice di Commercio del 1882, mediante la quale il debitore che aveva cessato i pagamenti poteva ottenere una dilazione nel caso in cui fosse stato dichiarato il fallimento o evitare l’apertura della procedura.
Con il r. d. 16 marzo 1942 n. 267, all’istituto veniva attribuito la qualità di strumento rivolto all’imprenditore “onesto e sfortunato” funzionale ad evitare “la inesorabile distruzione della sua impresa”80 e di tutte quelle conseguenze, sia in sede civile che
penale81.
Già nella Relazione del Guardasigilli al Re, al paragrafo 37, era possibile notare come l’istituto, ancor prima della sua regolamentazione all’interno della Legge Fallimentare, aveva mutato la sua originaria impostazione, da strumento avente lo scopo di tutela dell’impresa a “mezzo per il debitore di superare onorevolmente il dissesto e ottenere la sua liberazione attraverso la cessione dei beni ai creditori”.
Se il fallimento era la procedura più dannosa ed infamante per il debitore, il concordato preventivo assumeva natura premiale nei confronti dell’imprenditore il cui dissesto non fosse la conseguenza di dolo o colpa.
La legge fallimentare del 1942 per una parte sottolineava la funzione terapeutica del concordato preventivo ai fini della salvaguardia dell’impresa, per altra parte consentiva l’accesso a tale istituto anche nell’ipotesi di cessazione dei pagamenti,
80 Cfr. Relazione ministeriale al r.d. n. 267/1942, p. 14
81 Cfr. A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto Della Crisi Delle Imprese: Le
palesando la neutralità dell’istituto rispetto alla situazione di crisi dell’impresa82, con ciò si voleva sottolineare come l’istituto non
abbia ontologicamente la finalità di salvaguardia dell’impresa in crisi.
Su tale aspetto si basava la distinzione tra la procedura di concordato preventivo e quella di amministrazione controllata, in quest’ultima infatti la conservazione dell’impresa era il fine esclusivo; mentre nel concordato preventivo, il giudice, nel decidere se concedere o meno l’omologazione, formulava un giudizio di opportunità sul permanere della gestione imprenditoriale, tenendo contezza di tutti gli interessi convergenti nell’impresa, non solo di quelli dei creditori83.
La natura del concordato preventiva è stata, sin dalla sua origine, oggetto di dibattito a causa di due elementi che lo contraddistinguono: da un lato, l’accordo tra maggioranza dei creditori e debitore, unico legittimato ad avanzare la proposta; dall’altro l’intervento istituzionalistica degli organi della procedura, volto a garantire il regolare svolgimento dell’iter concordatario.
Possono individuarsi due distinti orientamenti: i sostenitori della tesi contrattualistica, che fanno leva sull’accordo tra debitore e creditori; ed i fautori della tesi istituzionale, i quali danno peso preponderante all’ammissione al concordato ed al giudizio di omologazione84.
82 P. F. CENSONI, il concordato preventivo e la prospettiva della
riallocazione dell’impresa in crisi, in Dir. Fall., 1, 2008, p. 853
83 Cfr. R. PROVINCIALI, G. RAGUSA MAGGIORE, Istituzioni di diritto
fallimentare, CEDAM, Padova, 1988, pp. 791 ss. .
84 Secondo R. PROVINCIALI, G. RAGUSA MAGGIORE, Istituzioni di diritto
fallimentare, cit., p. 794, qualsiasi impostazione privatistica deve essere
rigettata, sulla circostanza per la quale ad essere privati sono gli interessi tutelati, fra i quali vi rientra anche la tutela dell’interesse
Con la L. 80/2005 ha avuto seguito un periodo di “gestazione normativa” che ha dato seguito all’affermarsi di una corrente di pensiero indirizzata alla c.d. “privatizzazione del trattamento giuridico dell’insolvenza”85.
La nuova formulazione del concordato preventivo ha visto il riemergere delle tesi contrattualistiche a seguito della maggiore autonomia attribuita alle parti nella gestione della crisi: l’argomento si fondava sulla diminuzione del potere giurisdizionale e sulla centralità data all’accordo fra creditore e debitore nel favorire le soluzioni negoziate delle crisi di impresa. 86
Sulla stessa posizione si assestò la giurisprudenza di legittimità, confermando una concezione “ultraprivatistica” del concordato preventivo, sull’assunto che il tribunale non ha poteri di sindacabilità del piano nemmeno in sede di riesame della proposta ex art. 173 l. fall87.
In realtà parte della dottrina non aveva mancato di sottolineare come le determinazioni dei creditori in sede di adunanza non potessero essere ricondotte allo schema contrattuale, poiché il principale ostacolo risiedeva nel fatto che i creditori fra loro non fossero avvinti da alcun legame contrattuale88. dell’economia, ma la disciplina è di diritto pubblico, ma non solo, gli atti diretti a raggiungere la pronuncia del giudice sono atti del processo. 85 Così D. GALLETTI, Commento all’art. 160, in A. JORIO, M. FABIANI, Il nuovo diritto fallimentare, cit., p. 2269.
86 Si veda G. MINUTOLI, L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra
giustizia contrattuale e controllo di merito (o di meritevolezza), cit., p.
1047ss.; G. LO CASCIO, Concordato preventivo: natura giuridica e fasi
giurisprudenziali alterne, in Fallimento, 5, 2013, p. 525 ss.; A. M. AZZARO, Concordato preventivo e autonomia privata, in Fallimento, 11, 2007, pp 1267 ss.
87 Cass., 25.10.2010, n. 21860.
88 Cfr. D. GALLETTI, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto