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Dal Costruttivismo di Latour a una nuova "scoperta"

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

Tesi di laurea

Dal costruttivismo di Latour a una nuova “scoperta”

Candidato

Relatore

Sara Amadei

Prof. Pierluigi Barrotta

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Indice

Introduzione………. 2

Cap. 1 Latour e il Programma forte ………... 15

1. Kant e Kuhn………... 15

2. Programma forte………...………. 20

3. Latour………...…………...…………... 26

4. Scambi tra Programma forte e Latour……… 30

Cap. 2 Le opere ………... 34

1. Vita di laboratorio. La costruzione dei fatti scientifici ………. 34

2. La pastorizzazione della Francia ……….. 39

3. Scienza in azione ……….……… 41

4. Noi non siamo mai stati moderni ………. 44

5. Aramis o l’amore per la tecnologia ……….. 46

6. Il culto moderno dei fatticci ………. 49

7. La speranza di Pandora ……… 50

8. Politiche della natura ………... 53

9. Sull’esistenza parziale di oggetti esistenti e non esistenti ………... 56

10. Riassemblare il sociale ………... 58

11. Disinventare la modernità ……….. 60

12. Cogitamus ……….. 61

13. Un’inchiesta sui modi di esistenza ………. 64

Cap. 3 Scoperta e invenzione ………. 69

1. Che cos’è una scoperta? ………..……….… 69

2. Come si può dire che un fatto è oggettivo o soggettivo? ………. 74

3. Oggettivo vuol dire giusto? ……….. 79

4. Come si può sostituire il termine “scoperta”? ………. 82

5. Che cos’è un’invenzione? ……… 85

6. La tecnologia può essere soggettiva? ………... 88

7. Esiste una buona o una cattiva tecnologia? ………. 91

8. Perché occuparsi dell’invenzione e della scoperta? ………. 93

Appendice ……… 98

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Introduzione

Questa tesi nasce da un interesse per la filosofia della scienza sviluppato dal mio primo anno di studi universitari. Il progetto è quasi un prolungamento naturale del mio lavoro di tesi triennale. Studiando la filosofia della scienza, ho inizialmente concentrato la mia attenzione su autori come Kuhn, Feyerabend e Popper, per poi avvicinarmi al costruttivismo di Latour. L’approfondimento di questo ramo mi ha permesso di comprendere quanto possa essere ampio il campo non solo di indagine, ma anche di applicazione della stessa materia. Le grandi braccia della filosofia arrivano a toccare l’antropologia e la sociologia. Questa tesi vuole essere uno scritto che promuove l’utilità pratica del pensiero filosofico in un ambito inaspettato come quello scientifico e proviene dalla mia necessità di ampliare l’orizzonte della filosofia.

Il tema della scienza nella sociologia viene affrontato a partire dall’esigenza di rivedere la posizione cosiddetta “moderata”, derivante da Merton. Il presupposto della corrente mertoniana è che la scienza sia una materia di applicazione universale poiché i suoi metodi sono oggettivi e impersonali, dato che è l’osservazione a guidare la ricerca. In risposta a questo pensiero si alza il costruttivismo. Generalmente sono riconoscibili due diverse correnti al suo interno: una che vuole che la conoscenza sia formata interamente da e nel soggetto; un’altra che la conoscenza nasca da una costruzione sociale comune. Però si può ravvisare un rischio diffuso, ossia la possibilità di cadere nel soggettivismo e nel relativismo estremo. Intendo dire che se fosse il soggetto o il contesto sociale solamente a permettere la conoscenza, ognuno ne avrebbe una diversa dall’altro e sarebbe quasi impossibile vivere in una comunità in un caso e in un mondo comune nell’altro. Questo problema si presenta tanto più fortemente nella scienza, dato

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che si tratta della materia dell’oggettività, dei dogmi, delle Verità. Si pone così la questione del ripensamento della scienza in ottica costruttivista.

Su una delle branche più estreme del costruttivismo si schierano gli esponenti del Programma forte. Bloor e Barnes mettono in evidenza come lo scopo del pensiero razionalista, ossia fondare la conoscenza su asserzioni affidabili e giustificabili in modo universale, non sia possibile, senza far riferimento al contesto. L’osservazione non è completamente indipendente dai presupposti dell’osservatore, perciò anche i risultati non sono neutri. La cultura è al centro del pensiero del Programma forte e pare giocare un ruolo fondamentale nella pratica scientifica. Queste tesi radicali sono rifiutate da altri esponenti del costruttivismo, come Shapin, Mulkay, Knorr-Cetina1, Callon e Latour. L’idea comune di questi filosofi, riuniti nell’associazione professionale della “Society

for Social Studies of Science”, è che i fattori epistemologici che caratterizzano la scienza

si confondono inevitabilmente con la pratica dell’azione. C’è una convivenza e una reciproca influenza di questi due aspetti, ma non una vera propria preponderanza di uno sull’altro. Da tutto questo deriva la necessità di riconsiderare il senso dell’oggettività e la pratica empirica di laboratorio in tutto il sistema delle conoscenze scientifiche.

In questo dibattito sul costruttivismo, negli anni ’90, si è inserita la cosiddetta “Science Wars”, la guerra delle scienze. Sostanzialmente in questo campo di battaglia il dibattito di svolge su due poli: quello dei realisti, coloro che riconoscono dei principi fermi nella conoscenza scientifica, quali l’oggettività e un metodo scientifico ben definito; e i post-moderni (tra i quali vengono additati molti dei Filosofi sopra citati), coloro che principalmente si rifanno alla teoria di Kuhn dei paradigmi per sostenere che le teorie scientifiche sono costruzioni sociali. Nel 1996 esce un numero dedicato alla

1 Vedi Knorr-Cetina K., The Manufacture of Knowledge. An Essay on the Costructivist and Contextual

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Guerra delle scienze, sulla rivista Social Text. Questo contiene una serie di attacchi e critiche, più o meno velate, ai “post-moderni”, comprendendo anche l’invettiva parodica di Alan Sokal, il quale critica fortemente Latour come rappresentate della corrente filosofica francese dei post-moderni.

Bruno Latour nasce a Beaune nel 1947 e non facilmente gli si può attribuire il solo titolo di filosofo della scienza, ma è necessario integrare le sue competenze con l’antropologia e con la sociologia. È professore ordinario a Sciences Po di Parigi e alla

London School of Economics and Political Science. Latour è un rappresentante sui generis del costruttivismo. La questione che si presenta agli occhi del filosofo riguarda

la possibilità che i risultati della scienza possano essere influenzati dallo scienziato in quanto soggetto inserito in una comunità politica, religiosa, economica, morale. Latour entra nei laboratori e indaga sulla scienza con occhi costruttivisti; si domanda se ci sia altro dietro la cortina di fumo che hanno costruito i moderni intorno alla scienza. Il costruttivismo latouriano è sui generis sostanzialmente per due motivi: perché si colloca in una posizione intermedia rispetto al costruttivismo del soggetto e a quello sociale, e

perché non prescrive precise regole di metodo.

Quando dico che si colloca in una posizione di mezzo, intendo dire che gli elementi analizzati da Latour sono molti, e sicuramente includono anche l’importanza del soggetto (nel nostro caso lo scienziato) e quella del contesto sociale, ma contemporaneamente non escludono in alcun modo i fattori epistemici che caratterizzano la scienza. Ciò comporta una grande innovazione in questo ambito di ricerca, poiché nei laboratori non c’è spazio solo per provette, camici bianchi, manuali, logiche ferree; ma c’è spazio per le relazioni con il mondo esterno, quindi con la politica, l’economia, la morale, la retorica e tutti i profani. Proprio per questa ragione la scienza che risulta alla fine è una materia costruita, perché è praticata da persone che

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producono, anche nel senso più pratico del termine, un certo tipo di conoscenza; oggettiva perché ne escono oggetti scientifici; solida, perché è una disciplina che coglie l’influenza dei fattori epistemici e dei fattori esterni. In questa ottica Latour riesce a risolvere anche la questione moderna, la dicotomia soggetto-oggetto. Il cogito ergo sum di Cartesio è molto pericoloso perché diffonde l’idea che l’uomo possa pensare e conoscere in modo solitario, ma latourianamente nessuno conosce senza una rete di relazioni intorno e quindi non può nemmeno essere senza gli altri. Questi “altri” non sono solo le persone, ma anche le cose che sono nel mondo. Il rapporto tra il soggetto e l’oggetto è uno scambio reciproco, orizzontale e non più verticale alla maniera moderna. L’oggetto diventa l’altro interlocutore nel dialogo con il soggetto, il quale ne riceve informazioni utili e necessarie.

La forza del costruttivismo di Latour non sta solo nell’essere un ibrido, ma anche nel non lasciare spazio alle regole di metodo, diversamente da quanto invece prescrive il Programma forte. L’intento del Filosofo non è quello di dare indicazioni precise su come la scienza dovrebbe funzionare per essere una materia “pura”, non contaminata da nessun altro aspetto di vita; non è quello di diffondere i valori che la scienza dovrebbe seguire. Lo scopo è quello di togliere il velo che nasconde il volto della scienza, toglierle quell’aura solenne e dogmatica, che non permette di vedere e comprendere la realtà dei procedimenti, delle applicazioni scientifiche.

Il focus della mia attenzione si concentra in particolare sul tema della scoperta e in un secondo momento sulla vicinanza dell’ambiente scientifico con quello tecnologico. La scoperta nasconde un universo di fraintendimenti che possono partire anche dallo scienziato stesso. Gli scienziati durante il loro lavoro, non solo portano avanti la propria ricerca, ma tendono a nascondere tutti quei passaggi pratici di scambi col mondo esterno, di influenze reciproche tra colleghi, di sbagli, per paura di non rispettare

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l’aspettativa di oggettività che invece la scienza deve avere agli occhi di tutti. Così sono i primi che da una parte sminuiscono il loro lavoro, poiché omettono di mostrare la fatica e l’impegno che impiegano nel laboratorio, e dall’altra parte mettono in luce una pratica scientifica che non è completamente veritiera. A causa di questi passaggi invisibili, che devono essere resi visibili a tutti, trovo fondamentale pensare un altro termine che sostituisca la scoperta, il quale in modo a-moderno raccolga tutto ciò che non viene detto sulla scienza. Riprendendo la via di Latour ho pensato al termine “instaurazione”: un vocabolo che possa mettere in luce i punti d’ombra del precedente termine, che possa esprimere la forza degli scienziati, delle pratiche laboratoriali, delle negoziazioni e l’ontologia temporanea di un fatto scientifico.

Il percorso prevede di iniziare il lettore al panorama costruttivista, per poi passare ai testi specifici di Latour, per dedicarsi infine a rivedere il simbolo maggiormente emblematico della scienza: la scoperta. Il fine ultimo dell’elaborato è discutere il modo comune e moderno di vedere la Scienza, proponendo un nuovo concetto di scienze, e di mondo comune e un nuovo termine sostitutivo a “scoperta”. La scoperta nella forma

mentis comune è spesso s-coperta, un’azione casuale, spontanea, anche naturale degli

scienziati che inciampano in qualcosa e lo svelano, che si tratti di neutrini, o che si tratti di fermenti. Questa idea spesso viene instillata negli outsiders al laboratorio dalla propaganda, così sorge la necessità di soffermarsi molto su questo aspetto retorico della scienza. Lo scienziato in questa visione moderna della pratica scientifica sembra avere caratteristiche più vicine a un esploratore. Per rimanere più fedeli alla pratica reale, lo scienziato è una persona che cerca di provare la propria teoria con esperimenti, con un

team, con fatica, perché non tutte le prove possono andare a buon fine o possono essere

ritrattate. A questo orizzonte laboratoriale bisogna aggiungere che necessariamente c’è bisogno di soldi per finanziare la propria ricerca, c’è bisogno di appoggi politici, di

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approvazioni etiche, così che lo scienziato è costretto a lavorare anche su questi fronti che più sembrano sconosciuti alla scienza.

Molto spesso potrà sembrare che io mi sia concentrata molto di più sugli aspetti esterni che compongono e influenzano la scienza piuttosto che sui fattori epistemici. Forse questa scelta potrebbe essere interpretata come un errore e vorrei sottolineare come nella filosofia latouriana questi due aspetti siano considerati le due facce della stessa medaglia, che è la scienza. Il mio intento è quello di portare all’attenzione del lettore aspetti inconsueti che sembrano avere un ruolo marginale nel laboratorio, mentre si trovano sullo stesso piano della vera e propria ricerca. Rispetto a Latour, credo di aver forzato la mano sull’importanza della retorica e della propaganda scientifica. Questa sede mi sembra il momento opportuno dove poter sottolineare che si tratta di una decisione volontaria, non per abbracciare il costruttivismo sociale, ma per mettere in luce quello che fino ad adesso sembra essere stato nascosto anche dagli scienziati stessi.

Uno dei testi che mi ha guidata durante il mio percorso di studi su Latour è stato

Aramis or the Love for Technology. Non anticipo in questa sede il contenuto del libro,

ma vorrei solamente dire che durante una prima lettura potrebbe sembrare anche una sterzata brusca rispetto alla linea guida del costruttivismo scientifico. Solo dopo ho realizzato che poteva essere la chiave di volta in un percorso di lettura di Latour che andasse in un primo momento ad analizzare in modo parallelo scienza e tecnologia, per poi avvicinarle silenziosamente e lasciare che si incontrino nel punto del mondo comune. Entrambe si trovano ad essere influenzate da fattori esterni, ma questo è inevitabile se il loro scopo è quello di inserire i fatti scientifici e le innovazioni nel collettivo. Se le due discipline non scendessero a patti con la politica, l’economia, la morale e i profani, non potrebbero bussare alla porta del mondo e farsi avanti, bensì rimarrebbero confinate all’ambiente del laboratorio. Se l’innovazione tecnologica però

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non comporta tutti i malintesi che invece caratterizzano la scoperta, e se effettivamente i procedimenti della tecnologia si avvicinano a quelli scientifici, si potrebbe allora cercare di cambiare la visione sulla scienza ripartendo dalla tecnologia. Intendo dire che le opinioni comuni che si hanno sulla tecnologia potrebbero aiutarci a capire meglio come funziona realmente la scienza. L’inventore, per esempio, perché un’innovazione gli venga riconosciuta, la deve brevettare, deve seguire quindi un iter nel quale dimostra di aver realmente inventato qualcosa di utile. L’inventore dovrà intessere una trama con finanziatori e politici, in particolar modo. Lo scienziato anche se non seguendo le stesse pratiche burocratiche, deve fare qualcosa di molto simile, cioè deve cercare di far valere la propria ricerca su altre, inserirsi in quello che viene detto “cerchio della credibilità”, pubblicare articoli e testi sui suoi studi e solo dopo verrà accreditato come lo scienziato che ha scoperto qualcosa. Ci sono altri punti che accomunano le due discipline e che motivano la mia scelta di avvicinarle, il lettore li troverà espressi nel capitolo 3.

Il filo rosso che molto spesso ho deciso di adottare come esempio è stata la figura di Pasteur. Pasteur è lo scienziato per antonomasia nella ricerca di Latour. Rappresenta l’uomo con il camice bianco che si trova coinvolto nella lotta alla credibilità con il suo avversario Pouchet; rappresenta lo scienziato che deve fare negoziazioni con il mondo politico, accademico, economico per vincere; rappresenta lo scienziato che ha vinto ed è rimasto nella storia per la s-coperta dei fermenti e per quella dei vaccini; rappresenta il modo moderno di fare scienza, ma allo stesso tempo anche quello a-moderno se visto in un’ottica che decostruisca il suo percorso. In breve Pasteur è la figura di accesso alla scienza moderna e la chiave di volta per una nuova scienza che vinca il dualismo soggetto-oggetto.

I capitoli che vi troverete a leggere sono essenzialmente tre con la chiusura di un’appendice.

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Nel primo capitolo ho voluto occuparmi in breve delle radici del costruttivismo, esplorando le filosofie di Kant e Kuhn, principalmente. Lo scopo è quello di descrivere in modo sintetico, ma esaustivo, il panorama che ruota attorno a Latour. Successivamente l’argomento centrale del capitolo si dipana sulle differenze tra il Programma forte e il pensiero latouriano. I due esponenti principali della corrente nata ad Edimburgo, come ho già anticipato, sono Bloor e Barnes. Il primo dei due in particolare è quello che si scontra più direttamente con il Nostro. Bloor abbraccia la sociologia della conoscenza scientifica e ritiene opportuno stilare un piano metodologico con delle regole ben precise. A tal proposito Zammito suggerisce che:

«L’ANT è stata designata per rimpiazzare la SSK (Sociology of Scientifc

knowledge). E abbiamo bisogno di farlo, perché, così Latour sostiene, “dopo

anni di rapidi sviluppi, gli studi sociali della scienza sono ad un puto fermo.” “Il campo è rinchiuso in un vicolo cieco dal quale noi vogliamo scappare.” “Dobbiamo fare una svolta dal metro della SSK e trovare una seconda dimensione.” “La scienza in azione” e “la società nel suo farsi” devono essere “studiate simultaneamente”»2.

Il primo nodo sul quale i due non si accordano è proprio il tema soggetto-oggetto. Si scambiano reciproche accuse in merito alla regola della simmetria (adottata da Latour ma progettata da Bloor), e sul tema del relativismo. Già in questo primo passo di orientamento nel tema costruttivista, ho cercato di far emergere come il problema della scoperta risuoni in un modo particolare, attraverso appunto la dicotomia moderna; e insieme a questo la necessità di rivoluzionare questo aspetto nell’ottica di Latour. Da questo breve ma acceso scambio con il Programma forte si evince nuovamente la forza della teoria di Latour che risiede nella propria originalità. Si schiera contro l’assolutismo, contro il modernismo, ribadendo per la scienza l’importanza dei dubbi, delle perplessità, che solo le voci degli oggetti possono portare avanti.

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Non ho concesso molto spazio ad altri dibattiti accesi tutt’ora sulla filosofia di Latour, pertanto ritengo che si potrebbe trovare poco esaustivo il panorama delle critiche affrontato. Avrei potuto per esempio trattare del suddetto “Affare Sokal”. Alan Sokal, fisico statunitense, decise di condurre un esperimento pubblicando un articolo filosofico nonsense, nel fascicolo di Social Text, con l’obiettivo di dimostrare che sarebbe stato pubblicato ugualmente e sarebbe stato ritenuto vero, dato il suo stile di scrittura. Il contenuto principale, anche se parodico, intendeva criticare la contemporanea filosofia francese, e tra gli esponenti nominati figurava anche il nome di Latour. L’accusa essenzialmente rivoltagli in questo contesto è quella di essere un filosofo della post-modernità. In tutto il percorso, da questo momento in poi, ho cercato di dimostrare come realmente Latour si impegni a trovare soluzioni, sollevando anche questioni di difficile risoluzione, per uscire dalla forma mentis moderna, senza cadere nel post-modernismo, appunto. Vorrei che il lettore avesse chiara l’idea costruttivista di Latour, che non essendo particolarmente semplice ha bisogno di tempo per essere ben introdotta e descritta. Ho preferito dare spazio alla filosofia e alle proposte di Latour, senza la comprensione profonda delle quali le critiche sarebbero poco chiare. Per esempio vorrei che il lettore tenesse bene in mente che il Nostro non sostiene mai che la realtà è socialmente costruita, dato che questo è uno dei capi di accusa spesso mossi contro il costruttivismo latouriano. Ma un’affermazione del genere sarebbe prepotentemente moderna nella sua visione e non accettabile per chi vuole combattere la modernizzazione scientifica del mondo. Usare l’accusa però per precisare un tale punto di vista mi sembra complicare le cose e potrebbe forse essere fuorviante.

Il secondo capitolo vuole essere un’introduzione vera e propria al linguaggio, allo studio, all’approccio di Latour, attraverso alcuni dei suoi testi. Il modello che ho ripreso

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è stato lo stesso adottato da Schmidgen3, Professore alla Facoltà dei media all’Università Bauhaus Weimar, e Harman4

, Professore di Filosofia a Los Angeles. Entrambi hanno scritto una rassegna delle opere latouriane secondo lo sviluppo dei loro interessi. Diversamente da loro la mia attenzione si è rivolta a sottolineare come evolva l’idea di scoperta negli elaborati del Filosofo, per rimanere fedele alle mie intenzioni iniziali.

Il primo libro scritto da Latour risale al 1979 e l’ultimo al 2012. Si tratta di molti testi, dei quali ho approfondito lo studio di circa tredici. Questo viaggio letterario inizia con il testo Laboratory Life e finisce con An inquiry into modes of existence. Il primo testo e l’ultimo, attraverso tutti gli altri, sembrano il compimento del progetto di Latour. Inizialmente si concentra sulla descrizione del modo di operare della scienza, per poi inserire nuovi concetti che permettano l’inclusione dei fattori esterni, come i fatticci. In questo percorso non si rivede solo il ruolo degli oggetti ma anche quello degli scienziati, che diventano portavoce degli oggetti stessi, coinvolti direttamente nella vita dei fatti scientifici. Fino ad arrivare a una riflessione ontologica sui modi di esistenza, appunto, che caratterizzano tanto gli scienziati quanto gli oggetti. Non ho esposto meccanicamente tutti i contenuti, ma ho deciso di selezionare le parti più rilevanti al fine di introdurre il lettore a quello che poi sarà lo svolgimento del tema centrale. Attraverso l’esplorazione dei testi vorrei principalmente che l’attenzione si concentrasse sul modo in cui Latour rivede il tema della scoperta, in ambito scientifico, e dell’invenzione, in ambito tecnologico. Ciò implica passare attraverso la teoria del cerchio della credibilità, attraverso la spiegazione e la costruzione attiva del collettivo,

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Vedi Schmidgen H., Bruno Latour in Pieces. An intellectual Biography, Fordham University Press, New York, 2015.

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attraverso il chiarimento delle procedure di laboratorio, attraverso le proposte latouriane di rivisitazione del mondo comune.

Avrei potuto concedere molto più spazio all’ultimo testo di Latour, An Inquiry, poiché si tratta di un’opera che pare prendere una piega insolita rispetto a tutte le altre. Il tema che il Filosofo affronta in modo deciso per la prima volta in quell’occasione è quello della metafisica e dell’ontologia. Si tratta di un vero e proprio progetto che sembra avere una vita propria e per questo che possa continuare ad essere sviluppato, tanto che è l’unico ad avere un proprio sito internet. Però, come ho anticipato, sembra anche essere il compimento del costruttivismo latouriano, anche se si distacca fortemente da tutti quegli aspetti di pratica sociale e scientifica di cui si era occupato fino a questo momento. L’idea che possa essere la realizzazione finale di un progetto filosofico, è suggerita anche dal fatto che Latour stesso ha suddiviso questo programma in tre fasi: la prima che risale all’ottobre 2012 durante la quale si è occupato delle procedure di indagine sui modi di esistenza; la seconda (dall’ottobre 2013) nella quale sono stati coinvolti altri elementi al fine di considerare tutte le possibili lacune e problemi; la terza (2014) che conclude con l’idea di sostituire la modernizzazione con l’“ecologizzazione” al fine di comporre un mondo comune. Credo che sia il disegno con il quale Latour intende sconfiggere la macchia della modernità, una proposta per risolvere gli errori moderni e affrontare il mondo comune in tutt’altro modo. Per tutti questi motivi forse sarebbe stato possibile affrontare anche solo questa opera, ma la ragione per cui ho deciso di dedicarle lo stesso spazio degli altri testi è che il mio intento è quello di dare un’idea coesa della filosofia latouriana attraverso l’analisi degli scritti, selezionando ciò che va incontro alla mia necessità di concentrare l’attenzione sulla scoperta essenzialmente. An Inquiry al fine della mia ricerca è stato molto utile per

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capire realmente come si esca dall’impasse moderno, dall’errore manicheo di soggetto-oggetto, e quindi il rapporto tra lo scienziato e l’oggetto scientifico.

Il terzo capitolo è il punto in cui intendo in qualche modo smentire l’idea comune di scoperta, svelandone i caratteri fuorvianti, quali, per esempio, il disvelamento di qualcosa che prima non c’era, la possibilità che dietro una scoperta si nasconda la Verità, e il carattere casuale dell’operazione di scoperta stessa. In secondo luogo ritengo necessario discutere i parametri secondo cui una scoperta può essere detta oggettiva o meno, per poi passare a domandarmi se e come eventualmente si possa dire giusta una scoperta. Ho scelto di concentrarmi in particolare sul carattere retorico della scienza, aspetto spesso sottovalutato ma che incide fortemente sull’idea comune che si ha di essa. Per concludere l’aspetto scientifico l’idea è di proporre un nuovo termine che sostituisca “scoperta”, sulla scia dell’idea originale di Latour. Trovo che l’inserimento di un nuovo vocabolo sia opportuno per iniziare a rivedere la scienza come una materia non solo fatta di dogmi e di Natura, ma anche di persone cresciute in un certo contesto, con degli obiettivi personali, che si schierano politicamente e vivono in una rete sociale. Nella seconda parte del capitolo si discute in modo parallelo dell’invenzione sul versante tecnologico. Chiarire cosa significa “invenzione” legata all’innovazione, chiedersi se la tecnologia può avere un aspetto soggettivo, domandarsi se esista effettivamente una “buona” tecnologia, per concludere che il versante scientifico e quello tecnologico forse sono molto più vicini di quello che sembrano. Tra le due materie, la disciplina che pare avere aspetti costruiti sembra la tecnologia ma lo scopo è mostrare come realmente convergano verso un punto comune, il punto della conoscenza costruita, negoziata, malleabile, ritrattabile. Entrambe infatti risentono degli influssi di fattori esterni, ma si sostengono su una base epistemica; entrambe hanno bisogno di camici bianchi e di laboratori; entrambe non possono vivere senza gli outsiders.

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Come ultimo step di questa tesi il lettore si troverà davanti un’appendice che non è altro che un piccolo vocabolario latouriano. Molte delle considerazioni di Latour partono dalla revisione di alcuni termini o da nuovi vocaboli; da qui l’importanza di dare la possibilità di chiarire alcuni significati sui quali non era possibile soffermarsi nel corpo del testo. Si tratta di uno strumento di uso facoltativo, ma che permette di dare rilevanza alla parte lessicale del progetto latouriano.

Mi auguro a questo punto che il lettore comprenda le mie ragioni, i miei intenti e che la lettura possa essere chiara e piacevole.

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Capitolo 1

Latour e il Programma forte

1. Kant e Kuhn

Ciò di cui mi occuperò in generale è la scienza, ma non la scienza pensata come una materia asettica, che usa solamente i microscopi, le misure precise, non contaminata da nessun altro interesse che non sia quello di scoprire fatti nuovi; piuttosto il lato oscuro della disciplina. In questo spazio è necessario già da adesso introdurre non solo dati osservativi, esprimenti, regole del metodo, ma anche fattori sociali, che spaziano dalla politica, all’economia o alla morale, una giungla di discipline che si toccano ed intrecciano, anche fuori dal controllo scientifico, appunto. Nell’idea di chi non fa la scienza ma in qualche modo la subisce, questa è una materia nella quale ci sono criteri rigidi, osservazioni complicate e soprattutto vige come dogma l’oggettività. Per noi

outsider del laboratorio scientifico, la Scienza5 è stata a lungo qualcosa da cui trarre certezze sul mondo, sulla Realtà1, quasi un appiglio contro il resto che sfugge e passa, nonostante anche molte teorie scientifiche abbiano subito una propria evoluzione, siano state scardinate o falsificate.

Il costruttivismo vuole riconsiderare in particolare il concetto di verità, assegnando un ruolo diverso e più centrale al soggetto conoscente rispetto a questo argomento, alle sue facoltà cognitive e alle sue relazioni col mondo fuori dalla scienza. Come ci ricorda Nelson Goodman6, uno dei maggiori esponenti della filosofia analitica, le possibili versioni del mondo sono molte, da quella fisica a quella artistica, da quella scientifica a quella quotidiana, e ognuna di esse possiede i propri strumenti per produrre i fatti che la

5 Uso le lettere maiuscole come rimando al senso platonico di idea.

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riguardano, ma non possiamo dire che una sia più vera dell’altra, allo stesso tempo nemmeno possiamo asserire che anything goes, che tutta vada ugualmente bene, che tutto sia ammesso senza alcuna eccezione; possiamo solo notare che il concetto di verità come corrispondenza ci limita nella considerazione di ogni aspetto che può assumere potenzialmente. In questa ottica ogni materia costruisce una versione del mondo propria alla quale si può aderire o meno. La posizione rispetto la quale ci troviamo di fronte ha senza dubbio un lato relativista, ma sarà importante definirne i contorni e i limiti.

Anche Boghossian, oppositore di spicco della corrente costruttivista, ritiene che certe credenze siano giustificate, non in modo assoluto per una qualche evidenza, ma solo in modo relativo a una cornice epistemica che accettiamo. E questa cornice non viene a sua volta giustificata, vi si aderisce non per una qualche giustificazione razionale o scientifica, ma per scelta e di conseguenza la si adotta senza un vero motivo epistemologico. Forse si può solo parlare di adesione ragionevole: non essendoci una logica ferrea oppure una Verità come motore propulsivo per l’adesione a una cornice, si può trattare di una scelta che segue la ragionevolezza, ma non la Ragione. I fatti “parlano”7

al soggetto tante lingue diverse, ma il soggetto, secondo il suo sistema, prende un solo idioma oppure più di uno, ma non tutti. Lo stesso Heisenberg ammette nella natura un principio di indeterminazione, che dal suo punto di vista ovviamente non spinge tanto avanti fino a sostenere il costruttivismo, «il fisico però s’è reso conto che, quando credeva di fotografare, non fotografava sempre»8. Questo non implica una libertà smodata dello studioso, ma solo che l’uomo in certe situazioni si trova in una condizione abbastanza impotente nella quale non riesce ad indagare tutto nei minimi dettagli per cui si corre il rischio di parlare di Verità anche quando non si hanno tutte le

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Riprendo direttamente un concetto latouriano che svilupperò successivamente in modo più chiaro, per questo motivo adesso uso le virgolette.

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dovute sicurezze. Ciò sta sullo stesso piano dello scopo del fisico, che rimane quello di trovare leggi oggettive, proprio per questo motivo lo scienziato non ammette molto benevolmente l’intromissione nella sua materia da parte di un filosofo. La base della questione sta nel considerare o meno i due campi con una natura completamente diversa oppure no, considerare quindi se l’epistemologia di un uomo di scienza sia radicalmente diversa da quella di un antropologo, filosofo o sociologo, oppure se la dialettica scientifica abbia qualcosa a che fare, ed eventualmente in che modo, con quella filosofica. Il costruttivismo vuole indubbiamente questa compenetrazione sulla base dell’idea che la distanza sia solo teorica e artificiosa. Sicuramente far entrare il filosofo nella scienza equivale a correre un rischio, quello che Latour ammetterà essere un “rischio d’impresa”, ma quali sono i frutti che possono scaturire da questa commistione di interessi?

Le origini del pensiero costruttivista “puro” possono essere avvistate nelle tesi kantiane e, successivamente, in quelle kuhniane. Kant, nella Critica della Ragion Pura9, ha ipotizzato la possibilità per l’uomo di una conoscenza generale e oggettiva che ha luogo nel soggetto stesso. Il soggetto possiede dei giudizi che non sono altro che la conoscenza di un oggetto, ma ognuno di questi contiene un concetto che può adattarsi a più rappresentazioni. È necessario allora stabilire un’operazione che possa riunire le diverse rappresentazioni e comprendere la loro molteplicità in una sola conoscenza, questo è il compito che spetta alla sintesi. La questione è che l’uomo non può avere esperienza di tutto, infatti conosce alcune cose senza averle esperite, ma come ne è capace? Grazie alla categorie è resa possibile la natura, perché l’intelletto può dettare legge, in senso stretto: la categorie, proprietà dell’intelletto umano, prescrivono leggi a

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Per ulteriori informazioni riguardo Kant e il costruttivismo consultare di Rockmore T., Kant and

Phenomenology, Chicago: University of Chicago Press, 2011 oppure di Rockmore T., On Constructivist Epistemology, Lanham: Rowman & Littlefield, 2005.

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priori (necessarie e universali) ai fenomeni, quindi alla natura, «le leggi non esistono nei fenomeni, ma solo relativamente al soggetto a cui i fenomeni ineriscono»10. Le categorie sono forme del pensiero che, applicandosi ad oggetti, diventano oggettive, cioè permettono di pensare qualsiasi oggetto dell’esperienza. Il fulcro delle riflessioni diventa il soggetto nel quale si deve congiungere il molteplice della natura senza che la stessa congiunzione venga derivata dalla natura stessa, dall’esperienza, e ciò è possibile grazie all’intelletto e delle categorie che possiede. I fenomeni obbediscono alla facoltà connettente, che a sua volta dipende dall’intelletto, in particolar modo dalle categorie dell’intelletto; per cui tutti i fenomeni sottostanno alle categorie.

Kuhn, l’autore de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, è un filosofo di riferimento per il costruttivismo, che duecento anni dopo Kant arriva a dire che la scienza attuale è la nostra interpretazione della realtà. Il modo con il quale considera gli scienziati è quello di una comunità, la comunità di scienziati che sviluppa l’attività di scienza normale, cioè un atteggiamento degli scienziati per lo più quotidiano, secondo il quale c’è una dose preponderante di abitudine. Gli scienziati durante questo periodo non fanno di tutto per smentire le teorie, ma tendono a fare esperimenti che le confermino, in questo senso si dice che c’è un paradigma, infatti si aspettano da ogni prova una conferma. Il paradigma è la cornice di cui parlava Goodman, nel caso specifico della scienza è un sistema dentro il quale si trovano scienziati che condividono un’educazione, una formazione accademica, certi valori. Nel laboratorio può accadere che lo scienziato incappi in un problema, se si presenta una sola volta può anche essere ignorato, se invece si fa sempre più persistente inizia il momento della scienza speciale, nella quale vengono risolti i cosiddetti “rompicapi”. Gli scienziati, in questo frangente, non scelgono una teoria in base a prove osservative, o meglio la parte preponderante

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della scelta avviene come una conversione religiosa, un vero e proprio cambiamento di fede, come la decisione di affidarsi a qualcosa piuttosto che a qualcos’altro. Non si tratta di giustificazioni razionali che inducono gli operatori della scienza a preferire il nuovo al vecchio, ma di qualcosa che ha un carattere psicologico, tanto che il filosofo stesso introdurrà temi tipici della psicologia della Gestalt. Quando si decide di affrontare il problema nella visione dello scienziato non solo viene aggiunto qualcosa, ma la trasformazione è qualitativa. A questo proposito lo stesso Kuhn scrive:

«Ma il fatto ancora più importante è che, durante le rivoluzioni, gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche quando guardano con gli strumenti tradizionali nelle direzioni in cui avevano già guardato prima. […]: in alcune situazioni che gli erano familiari deve imparare a vedere una nuova Gestalt. Dopo di che, il mondo della sua ricerca gli sembrerà, in varie parti incommensurabile con quello in cui era vissuto prima.»11

L’esempio kuhniano per eccellenza è la figura dell’anatra-coniglio: in un primo momento la comunità scientifica vede solo una delle due figure, ma quando è riuscita a vedere anche l’altra non può ignorarla e con un passaggio continuo vede sia l’anatra che il coniglio. In questo senso si dice che prima gli scienziati “vedono che” (vedono qualcosa di definito) poi “vedono come” (vedono l’anatra come il coniglio o viceversa). Nella visione di Kuhn il soggetto conta ma non come in quella kantiana, qui lo scienziato è stato formato da un’educazione ben precisa, sceglie uno stile di vita, fa delle scelte morali che nel laboratorio hanno la loro parte. Non si tratta di un individuo isolato, ma uno che vive nel suo tempo, nella sua storia e anche questo trova un riscontro nell’attività di ricerca.

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20 2. Programma forte

Negli anni settanta ad Edimburgo nasce la scuola della sociologia forte o Programma forte, della quale i due esponenti più importanti sono David Bloor e Barry Barnes, che si rifanno alle tesi dei due predecessori, che abbiamo discusso poco fa. È necessario introdurre questo aspetto del costruttivismo per vedere come poi Latour prenderà le distanze o, in alcuni casi, prenderà in prestito dei termini per rivoluzionarli rispetto ai colleghi. La domanda principale dei due sociologi è se la sociologia possa intromettersi nella conoscenza scientifica. Dopo aver risposo positivamente al quesito, lo step successivo che impegna il lavoro di entrambi è vedere in che modo sia possibile, dal punto di vista metodologico, questa intrusione.

Barnes dedica un libro proprio all’analisi del pensiero kuhniano e in un certo senso elimina la distinzione manichea tra cultura e scienza, ma in un modo diverso da Latour. Per Barnes la cultura rappresenta una forma mentis imprescindibile per ognuno di noi, compreso lo scienziato, è come un rumore di sottofondo che non può essere eliminato e proprio per questo non possiamo escluderla nemmeno dalla ricerca scientifica, la cultura è la circostanza che diventa parte integrante della scienza. Non è possibile produrre alcuna spiegazione razionale in ambito scientifico indipendente dal contesto. La dicotomia nella tesi barneana mi sembra risolta ma appiattita: la cultura e la scienza, cioè, convivono in un solo ambiente, ma allo stesso tempo sembra che si possa considerare qualsiasi tipo di scienza come cultura e viceversa, come se si sovrapponessero una all’altra. Sulla linea di Kuhn, Barnes sostiene che la scoperta sia un evento comunitario, «”Scoperta” è una categoria sociale di approvazione che indica lo status convalidato di ciò a cui si riferisce»12. La scoperta quindi vorrebbe essere divulgata dagli scienziati come un unico evento che registra qualcosa e lo rende vero,

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ma questo atto non può essere considerato asetticamente rispetto sia alla cultura sia all’epistemologia stessa degli attori che ne prendono parte. La conoscenza per i sociologi del programma forte è qualsiasi cosa sia ritenuta una credenza vera, anche le scoperte devono essere affrontate come credenze reali e quindi come problema sociologico, «bisognerebbe notare che, però, il termine “conoscenza” è usato per tutto con il senso di “credenza accettata”, non con il senso di “credenza corretta”»13. Quello che oggi è accettato, piano piano, domani diventerà naturale.

Sarà Bloor a stilare un piano metodologico che la sociologia della conoscenza scientifica dovrebbe rispettare, composto di quattro punti essenziali:

1. Causalità: la sociologia deve guardare le condizioni che producono le credenze 2. Imparzialità: la sociologia deve essere imparziale rispetto alla razionalità o

all’irrazionalità, alla verità o alla falsità, al successo o al fallimento

3. Simmetria: la sociologia deve essere simmetrica nella sua spiegazione rispetto alle credenze vere e a quelle false

4. Riflessività: i modelli di spiegazione della sociologia devono essere applicabili alla sociologia stessa

Un altro punto molto interessante della teoria di Bloor, è quello che riguarda la nozione di verità, che nel suo pensiero va di pari passo con la spiegazione della corrispondenza, in modo specifico della corrispondenza della teoria con se stessa, questo significa che la teoria, qualsiasi essa sia, deve mantenere una propria coerenza interna. Bloor attribuisce alla nozione di verità tre funzioni fondamentali: quella discriminatoria (non possiamo non ordinare e selezionare le nostre credenze su una base funzionale), quella retorica (usiamo comunemente le etichette di “vero” e “falso”) e quella materialistica (la verità assume un’origine sociale). La posizione del sociologo ci

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induce a pensare che noi costruiamo la natura, «la natura esercita il suo potere su di noi, ma solo noi abbiamo l’autorità»14. Un esempio pratico è lo scontro tra Liebig e Thomson, preso in considerazione da Bloor. In questo episodio ci fu un vincitore, Liebig, e un vinto, Thomson. Ma perché? Liebig ebbe la meglio, per Bloor, perché riuscì a produrre risultati ripetibili, ottenne una reazione regolare della natura, cosa che non accadde al suo avversario. Così l’autore giustifica ad applicare un linguaggio che distingua l’uno dall’altro in termini di vero o falso aggiungendo anche che sarebbe praticamente impossibile lottare contro questo uso linguistico.

Un altro aspetto che ci riguarda nel testo La dimensione sociale della conoscenza, che finora non ho preso in considerazione, ci porta all’introduzione del concetto di “negoziazione” nel pensiero logico. Il capitolo in cui se ne tratta paragona la stregoneria presso il popolo degli Azande, nell’Africa centrale, e il pensiero scientifico occidentale. Nella tradizione azande un intero clan di stregoni dovrebbe essere composto da stregoni, ma alla fine solo i consanguinei più stretti poi effettivamente ereditano questa attitudine magica. Per essere più chiari potremmo immaginare che un cugino di uno stregone dovrebbe aver ereditato le proprietà magiche dello zio, tanto quanto il figlio del capostipite, ma nella pratica vediamo che questa congettura viene smentita sulla base di un dato empirico: casi specifici invece di un principio generale e universale hanno dimostrato che la logica ha fallito in questo caso. Possiamo dire che si scontrano due tipi di logiche, che non è stata tratta una conclusione “logica” da una premessa, perché se così fosse allora tutti i parenti degli stregoni avrebbero capacità magiche, c’è stato quasi un rifiuto della logica. Ma le nostre credenze scientifiche funzionano più o meno allo stesso modo, come sosteneva Kuhn, il cambio di prospettiva non è altro che una conversione, quindi anche nella visione occidentale scientifica vanno a confluire due

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tipi diversi di logica, per cui si può parlare di negoziazione nel senso di convivenza tra due atteggiamenti che sembrano ossimorici: la fede e la logica occidentale. Il fisico Rosenfeld, discutendo riguardo l’approccio di Schrodinger, ci suggerisce che è la nostra

forma mentis, la nostra educazione che ci spinge ad ottenere un sistema del tutto

coerente che elimini le contraddizioni logiche, ma è con il modo di pensare dialettico che si può attivare un processo creativo15. Così diciamo che la “logica” non distinguerebbe un pensiero razionale da uno irrazionale, ma si tratterebbe solo di un atteggiamento comune che di naturale avrebbe unicamente la negoziazione. Mi sono soffermata su questo aspetto perché Latour si dedicherà alla negoziazione, ma ancora una volta con sfumature diverse che non voglio anticipare.

Dopo aver analizzato rispettivamente un testo di Barnes e uno di Bloor, vorrei concentrarmi su un piccolo testo scritto a quattro mani proprio da entrambi. La considerazione di base è che l’atteggiamento relativista è essenziale a tutte le discipline come la sociologia o l’antropologia e che ci sono dei punti essenziali che accomunano tutte le dottrine di questo tipo. Per un relativista non c’è un’idea che può essere più razionale di un’altra rispetto ad una che è accettata e basta, perché non esiste alcun contesto libero o norme della razionalità: razionale e irrazionale per il relativista non sono classi distinte in assoluto. Il razionalista sostanzialmente sostiene, invece, che ci sia una differenza essenziale, infatti usa due norme essenziali secondo cui un sistema può essere razionale: il criterio della verità (corrispondenza a una realtà comune e indipendente) e le regole della logica (il principio di non contraddizione). Il relativista

15 «Non siamo avvezzi, in base a tutta la nostra educazione e al nostro modo di pensare, a considerare le contraddizioni logiche come una cosa che deve essere evitata, evitata con la violenza, vale a dire sopprimendo uno dei termini della contraddizione, in modo da ottenere ciò che noi chiamiamo, nel senso classico, un sistema coerente, che denominerei metafisico. Ma c’è un altro modo di pensare, il modo di pensare dialettico. Se si analizzasse in particolare il modo di pensare dei fisici e specialmente quello del professor Schrodinger, si arriverebbe a concludere la stessa cosa, cioè che il corso del pensiero, e soprattutto del pensiero che crea, non corrisponde a uno schema metafisico; è il pensiero dialettico». Heisenberg, Schrodinger, Born e Auger [2002], p. 63.

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vuole invece che questa differenza non sia assoluta ma dipenda da ciò che è preso per vero nel back-ground di una certa considerazione, da quale è il rumore di sottofondo della ricerca. Questo, come ho accennato poco prima, non significa che tutto vada ugualmente bene; infatti Hacking, filosofo della scienza canadese noto per il suo libro anti-costruttivista The social Construction of What?, muove un’ obiezione al costruttivismo proprio partendo dal presupposto che la guerra delle scienze nasce dal costruttivismo, dall’idea che ogni opinione è buona come ogni altra. Nonostante queste considerazioni, dobbiamo ricordarci che tutti i pensieri possono cambiare, inoltre la convinzione di trovare certe idee in un determinato contesto dipende dalle circostanze degli utenti; in breve non esisterebbe, secondo il relativista, un criterio di razionalità universale che ci permetta di dire che qualcosa è vero qui e ovunque e che è vero ora e per sempre. La parte relativista più importante quindi risulta quella del tempo: quello che è vero oggi, potrebbe non esserlo domani e viceversa. Infine viene nuovamente presentato come essenziale il principio di simmetria, però cambiando in modo quasi impercettibile la visione rispetto a quella che ho esposto precedentemente. Tutte le teorie possono essere ugualmente vere o false; ora per Barnes e Bloor diventa che indipendentemente dalla verità o dalla falsità, il fatto deve essere visto come problematico in base alla sua credibilità. È proprio su questa nozione di credibilità che vale la pena soffermarsi, anche ai fini di un confronto con Latour. L’aiuto che ci viene incontro, citato proprio dai due sociologi, è quello della storia di Pasteur e Pouchet, che ci accompagnerà e sarà il filo rosso per molte considerazioni. «Come la storia della scienza ha dimostrato, scienziati differenti traggono conclusioni differenti e usano l’evidenza per puntare in diverse direzioni»16

. Secondo questa considerazione Pasteur avrebbe avuto la meglio perché avrebbe puntato in una direzione feconda, ma, come

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comprendiamo poco dopo, soprattutto perché ha avuto una credibilità maggiore. Bloor a Barnes arrivano a dire che la validità non è niente senza la credibilità, per assurdo uno scienziato potrebbe aver fatto “la scoperta del secolo”, ma senza una credibilità personale nell’ambito scientifico non varrà niente il suo studio. Pouchet non raggiunse il livello di credibilità necessario. La conclusione che traggono i due è che la realtà sia un fattore comune in tutte le diverse risposte cognitive che gli uomini producono, possiamo dire che ogni scienziato produce un qualcosa di reale, però per essere decretato tale sarà necessario un certo livello di credibilità e di validità nella ricerca. Per la sociologia è la società che spiega la natura17. In tutto questo poi sarà necessario fare attenzione al fatto che non abbiamo mai parlato di uno scienziato solo, ma al plurale, di scienziati, quindi il punto di partenza non saranno singoli individui ma, come vedremo, una rete di individui. Le tesi di Bloor e Barnes si appiattiscono su quella di Kuhn molto di più di quanto non accada nel pensiero latouriano. Se c’è un punto fermo di accordo è che la scienza non può essere una sequenza di verità che non cambiano, che si accumulano una sopra l’altra, come se gli scienziati fossero collezionisti di verità: non ci sono evidenze e le teorie devono essere esorcizzate da questa visione distorta che non rispecchia in alcun modo quello che accade o come gli scienziati sono nella pratica. Penso che i sociologi sarebbero maggiormente d’accordo sul fatto che la scienza sia condizionata dalla cultura.

Adesso che l’analisi puntuale tra Bloor e Barnes può essere detta conclusa, possiamo notare che quello che fanno i sociologi con la scienza è prescrivere il metodo che la sociologia dovrebbe avere nei confronti di questa materia. Ammettono che la Scienza non abbia la S, cioè che non prescriva oggettivamente e razionalmente cosa

17 «Per noi, l’ordine naturale è un modello per comprendere l’ordine sociale.» Barnes [1974], p. 2, trad. mia.

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accade, che non ci sia una Natura con la N, piuttosto che in ogni considerazione ci sia qualcosa che va al di là dell’ambiente asettico che si vorrebbe per il laboratorio.

3. Latour

Latour non si colloca propriamente sul genere di costruttivismo che ho descritto fino ad ora, infatti in Pandora’s Hope parlerà dell’uomo che ha progettato Kant, come “mind

in the box”, mente nella scatola, proprio perché il soggetto kantiano trae da se stesso

tutto quello di cui ha bisogno per legiferare sul mondo, è un essere tutto in sé. Invece il costruttivismo latouriano parla di un soggetto che è con gli altri, che parla per gli altri, che vive di relazioni con altri, anche se questi “altri” non sono solo individui. Il Nostro filosofo, in Cogitamus, scrive dell’uomo kantiano come dell’individuo della “rivoluzione copernicana” per eccellenza; un Soggetto intorno al quale ruota tutto il mondo e che cerca di esplorare le cose in sé, separando nettamente la conoscenza scientifica dalla ragione pratica. Latour potrebbe considerarsi più vicino a Kuhn, ma non ammette un’intrusione forte da parte della psicologia nella scienza, piuttosto vi somma quella economica, quella della reputazione, quella politica. La psicologia lo riporterebbe a una dicotomia radicale tra mente e mondo, tra soggetto e oggetto, distanze che il Nostro filosofo intende colmare, o quanto meno ridurre.

Diversamente da quello che abbiamo visto con Barnes quando si occupa della dicotomia scienza-cultura, Latour cercherà di mantenere ogni aspetto separato, ma in una convivenza pacifica, senza una scala gerarchica che distribuisca i compiti di ogni materia. L’antropologo è più interessato a come viene costruito dal punto di vista ontologico un fatto scientifico, e proprio per questo motivo sarà necessario un processo decostruttivo che ci faccia tornare indietro nel processo costruttivo. Per l’antropologia la pratica scientifica nel laboratorio costruisce la società e la natura ugualmente così che

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sarà possibile praticare una commistione pacifica in un solo insieme di diverse discipline. La scoperta dal punto di vista latouriano è nonsense, si tratta solo di un

escamotage retorico, divulgativo, ma che nella pratica non ha corrispondenza con

nessun evento fisico o psicologico.

Analizzando le regole stilate da Bloor, ve n’è una che verrà ripresa da Latour, ovvero il principio di simmetria, che in questa occasione verrà applicato all’antropologia, ma non nell’ambito della spiegazione. Infatti l’antropologia verrà detta “simmetrica” perché si dovrà occupare di più aspetti contemporaneamente, per esempio il suo compito sarà quello di considerare nello stesso tempo chi sta dentro il laboratorio come chi sta fuori, in questo senso esclude la simmetria nel senso di verità o falsità. A questo proposito, vorrei notare come forse la differenza essenziale tra Bloor e Latour riguardi proprio queste divisioni manichee tra razionalità e irrazionalità, successo o fallimento. Il primo dei due non intende dare importanza a queste etichette, ma le mantiene, anzi sostiene che «vanno bene come qualunque altra»18; quello che invece ci suggerisce Latour, si distacca completamente da questa visione: vero e falso, razionale e irrazionale sono solo residui di un’eredità moderna che devono essere eliminati da qualsiasi lessico, più che mai da quello scientifico, per iniziare a ragionare in maniera simmetrica, appunto.

Sull’argomento della corrispondenza della teoria con se stessa, che abbiamo visto essere rilevante per Bloor, si potrebbe trovare d’accordo anche Latour: non possiamo pensare di stabilire una linea di continuità tra la realtà e le nostre teorie, e poi di poter giudicare un atteggiamento del genere razionale, perché non abbiamo gli strumenti per avere un accesso indipendente alla realtà, in breve, entrambi negano la possibilità di un’adequatio rei et intellectus. Non può essere la realtà che ci spiega perché una certa

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asserzione è stata fatta, addirittura la natura viene dopo che ogni dichiarazione è stata prodotta. Per Latour la scienza è un prodotto e come tale non può essere considerata inevitabile e quindi una Verità, ma qualcosa di vero in un determinato spazio e tempo. Latourianamente, tra tutte le funzioni della verità esposte da Bloor, si potrebbe accettare quella retorica nell’ottica della persuasione, ma solo come ammissione della pratica scientifica effettiva e non con l’intento di introdurla tra la sue idee per il rinnovo della scienza. Secondo il pensiero latouriano noi decidiamo solamente cosa vogliamo che faccia parte del nostro mondo comune, escludendo altro, ma non si tratta di “noi” soggetti attivi che agiscono e “natura” oggetto passivo che subisce la nostra influenza manipolativa, l’influenza di uno sull’altro è vicendevole e costante.

Per Barnes abbiamo visto il caso di Liebig e Thomson per esemplificare la sua teoria, parallelamente sul fronte di Latour possiamo portare il caso di Pasteur e Pouchet. Come nella situazione precedente ci fu un vincitore, Pasteur, e un vinto, Pouchet; allo stesso modo dobbiamo chiederci il perché. Pasteur ebbe la meglio perché stabilì una rete di alleanze su tutti i fronti più forte, più forte retoricamente, economicamente e politicamente e la ripetibilità ebbe un ruolo minore, come la verità o la falsità, la natura o la realtà. Latour si schiera contro la naturalizzazione di un vocabolario del genere che ammetta l’uso di termini della tradizione moderna senza che abbiano un’accezione corretta, il suo problema centrale non è la verità o la falsità, ma l’artificiosità della ricerca in laboratorio. Termini di questo tipo ci rimandano immediatamente all’oggettività, alla Natura, tutte questioni che devono essere ritrattate e riviste nel loro contesto. Latour introduce nei suoi argomenti la credibilità come motore della divulgazione di un fatto scientifico: se uno scienziato possiede una certa fama all’interno, non solo del proprio laboratorio, ma anche dell’ambiente lavorativo in senso più vasto, allora più facilmente otterrà finanziamenti per la sua ricerca, sarà citato più

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spesso negli articoli scientifici, sarà ben visto anche dalla politica e via dicendo. La credibilità riguarda anche il modo della divulgazione, come ho detto: fondamentale è diffondere le notizie secondo una certa retorica proprio per la persuasione e quindi la credibilità, come abbiamo visto anche in Bloor quando si occupa della verità. Questo è il motivo fondamentale perché Latour non crede che debba essere mantenuto un linguaggio, anche solo nell’uso comune, che parli di vero-falso, razionale-irrazionale, proprio perché la credibilità e la validità non sono direttamente proporzionali ed è tutto relativo al contesto. L’antropologo, rispetto ai sociologi, è più interessato a come viene costruito dal punto di vista ontologico un fatto scientifico, e proprio per questo motivo sarà necessario un processo decostruttivo che ci permetta un rewind, di tornare indietro nel processo costruttivo.

Sono due le questioni rilevanti da mettere in luce. La prima riguarda la peculiarità ddei sociologi di accedere a questo tipo di conoscenza del mondo scientifico, tagliando fuori gli altri profani, i quali continueranno a farsi sfuggire questo aspetto. L’originalità di Latour viene fuori, a mio avviso, su questi problemi. L’intento è quello di smascherare la Scienza e valorizzarla nelle scienze, un mondo fatto di decisioni e selezioni. I dibattiti della scienza diventano dibattiti di tutti perché sconfinano dal laboratorio, si estendono a macchia d’olio su tanti aspetti della vita quotidiana. Perciò è necessario un lavoro sul campo che permetta la formazione di un’epistemologia costruttivista, e incorpori nel linguaggio naturale oggetti e pratiche che adesso ne sono escluse. Il suo scopo è quello di introdurre un lettore qualsiasi, un outsider della scienza, a una lettura più sincera e più reale del laboratorio, proponendo poi di conseguenza delle soluzioni perché tutti entrino in un mondo fatto di scienza, tecnologia, morale, politica ed economia, ma ognuno con il proprio ruolo. Il messaggio latouriano è anche quello di spiegare perché le idee platoniche non sono tanto interessanti quanto quelle

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terrene: tutti possiamo pensare in modo scientifico e tutto viene contaminato da tutto, la diversità è la ricchezza e la forza del nostro mondo comune, non relegato nell’iperuranio della beatitudine, intoccabile se non da pochi eletti.

La seconda questione riguarda il tema della scoperta, il quale verrà affrontato in modo più esaustivo successivamente. Considerando che Latour intende eclissare il principio di corrispondenza alla maniera moderna e che intende rivedere il senso dell’oggettività, si può già iniziare a comprendere l’importanza della sua revisione del senso di scoperta. Il suo progetto è quello di scardinare l’idea di scoperta come atto rivoluzionario che nasce da un casuale inciampo dello scienziato in un oggetto della Natura. Rivedere questo concetto significa rimediare al fraintendimento moderno che vuole che ci sia una Natura che cela una Verità accessibile con la Scienza. Il principio di simmetria è il primo step verso una visione della materia scientifica a-moderna: il fine è quello di cassare la dicotomia verticale soggetto-oggetto, fortemente radicata nell’idea di s-coperta. La modernità può essere superata con questa revisione che direzione il pensiero non verso la post-modernità, ma verso una a-modernità.

4. Scambi tra Programma forte e Latour

In questo ultimo paragrafo mi vorrei occupare di uno scambio diretto tra Bloor e Latour, pubblicato sulla rivista Studies in History and Philosophy Science, mettendo in risalto solo i punti più rilevanti delle accuse del sociologo e le relative risposte.

Bloor nel 1999 scrisse questo testo dal titolo significativo, Anti-Latour, in cui attaccava l’antropologo sulla base delle sue esternazione riguardo il Programma forte. Il primo punto importante, dopo aver dichiarato che i due approcci sono profondamente diversi, deriva dalla considerazione che Latour ha dello schema soggetto-oggetto. Questo dualismo, come abbiamo in parte visto e vedremo, prevede che la conoscenza

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sia compresa in termini di un’interazione tra una realtà indipendente, ossia l’oggetto, e un soggetto, che assorbe attraverso l’esperienza il “fuori” e rappresenta il modo in cui riceve informazioni. Bloor ammette che non ci sono solo svantaggi in questa opposizione, ma ci siano buone ragioni per tenerla in considerazione. Latour fraintende però il punto di vista dei sociologi, secondo il collega, in quanto crede che la loro posizione occupi una posizione estrema tra i due poli e che il loro motto possa essere riassunto nello slogan “La società spiega la Natura”. Bloor controbatte a questa accusa sostenendo che il suo scopo non è quello di spiegare la natura, bensì di spiegare i pensieri condivisi sulla natura, cosa che l’avversario prende ben poco in considerazione, e solo in questo senso la dicotomia può essere mantenuta in sociologia. Inoltre l’esponente del Programma forte punta il dito contro l’antropologo sullo stesso tema: se il suo intento è quello di separare il mondo dalla descrizione degli attori sul mondo, allora questa non è altro che un’altra via per dire che si deve rispettare la distinzione tra l’oggetto della conoscenza e il soggetto della conoscenza.

Il secondo punto di attacco riguarda un argomento che ho già menzionato, il principio di simmetria. È lo stesso Bloor a dire che quello da lui enunciato si discosta da quello di Latour, che chiama il “nuovo principio di simmetria”. L’idea latouriana è che non si deve cercare di spiegare la natura in termini di società, o la società in termini di natura, ma occorre sperimentare una terza via secondo la quale società e natura siano considerati come coprodotti, ed è da qui che nasce il suo principio, secondo Bloor. Questo processo ripristina il rapporto tra gli agenti e le cose, e la diretta conseguenza è che ogni scoperta scientifica implica un cambiamento nella società, non bisogna limitarsi a ridurre l’una all’altra. Per il sociologo questa teorizzazione implica dire che nessuno ha davvero accesso al reale, ma si potrebbe meglio dire che tutte le culture allo stesso modo sono vicine alla società.

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Il terzo, e ultimo, punto di accusa si sviluppa sul tema del relativismo, dal quale Latour cerca di prendere le distanze, in quanto sembra derivare direttamente dal principio di simmetria blooriano. Il rigetto di questa posizione viene dalla considerazione secondo la quale i relativisti effettivamente ignorano il fatto che gli scienziati lavorano duro per produrre un’asimmetria, che è quella di rendere alcune teorie più credibili di altre con il mezzo della retorica. Bloor conclude scrivendo che Latour non ha fatto altro che incoraggiare uno stereotipo completamente falso sul Programma forte.

Latour nello stesso anno risponde, ma in maniera significativamente più breve (si tratta della metà delle pagine pubblicate da Bloor) e non rispondendo puntualmente a ogni questione sollevata dall’accusa, perché per il Nostro la dicotomia soggetto-oggetto è la più importante da risolvere e il principio di simmetria vi si può ricondurre (da qui la necessità di modificare l’originale principio); anche l’argomento del relativismo viene affrontato nella stessa ottica. Il fulcro del problema è capire quale sia il ruolo che giocano gli oggetti: per Latour il loro ruolo è quello di creare anomalie, dubbi, nella nostra cornice di interpretazioni, se si facesse, invece, una lista degli scopi di questi nella sociologia della conoscenza scientifica non ce ne sarebbero molti. Per la SSK, così come per la filosofia kantiana, le cose servono a rendere sicuro chi fa ricerca di non essere un idealista, servono a fissare i fenomeni con una sorta di resistenza, potremmo paragonarli a delle ancore. Proprio in questo contesto ritorna l’esempio di Pasteur (citato anche da Bloor), che diventa uno strumento dell’antropologo per dimostrare che questo scienziato è l’emblema della preoccupazione se sia stato lui a creare i fatti o i fatti a portare il loro peso agli occhi del ricercatore, ponendo, appunto, perplessità. In questo punto viene accusato Bloor di essere un moderno, perché considera l’oggetto sempre come passivo. Per rispondere al problema del relativismo Latour non dice di

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essere a favore o sfavore di questa posizione, ma scrive di essersi da tempo schierato contro la posizione assolutista. È attraverso la Natura che la storia dell’assolutismo si è sviluppata ed è proprio quindi contro questa idea che bisogna combattere e rivoluzionarci.

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Capitolo 2

Le opere

L’intento di questo terzo capitolo è quello di analizzare le opere di Latour che ho ritenuto maggiormente rilevanti per il mio lavoro. L’arco temporale preso in considerazione si estende dal 1979 al 2012. Esporrò in ordine cronologico di scrittura i testi latouriani per trattare l’evoluzione dei temi principali.

I temi sono stati scelti in modo funzionale rispetto al capitolo successivo che si occuperà parallelamente di scoperta, in ambito scientifico, e di invenzione, in campo tecnologico. Per ogni testo trattato mi sarei potuta dilungare maggiormente, ma proprio per non perdere il focus dell’attenzione del lettore ho preferito dare spazio solo a ciò è strettamente utile per il seguito del lavoro.

1. Vita di laboratorio. La costruzione dei fatti scientifici

Il primo testo che tratterò è stato scritto nel 1979 a quattro mani da Latour e Steve Woolgar, sociologo britannico e professore all’Università di Oxford. Questo libro non è importante solo perché è il primo pubblicato, ma anche perché introduce una rivoluzione radicale nel modo di intendere la scienza. Il titolo dà già un’indicazione chiara sia sul luogo fisico nel quale è stato svolto lo studio sia sull’argomento. Il tema che viene affrontato è quello del processo grazie al quale i fatti scientifici vengono costruiti, a partire dal laboratorio in particolare. I due autori hanno preso le mosse dal laboratorio di La Jolla, in California, direttore del quale era Jonas Salk. La loro analisi prende inizio dalla seguente domanda: è vero che gli scienziati guardano al mondo con occhi freddi e distanti? Il modo più preciso di rispondere alla questione poteva essere

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