Indice
Introduzione ... 1
1. Una panoramica della critica recente sul ruolo corale ... 5
1.2 Le origini e la composizione del Coro ... 5
1.3 Il Coro come “spettatore ideale” e come tramite della comunità ... 7
1.4 Identità e autorità del ruolo corale ... 9
1.5 Il coinvolgimento corale nell’azione drammatica ... 12
1.6 Alcuni cenni sul ruolo corale in Sofocle ... 15
2. Filottete – Il mito e la sua forma teatrale ... 19
2.1 Il Filottete sulla scena tragica precedente a Sofocle ... 20
2.1.1 Il Filottete nei drammi di Eschilo e di Euripide ... 21
2.2 Il Filottete di Sofocle ... 24
2.3 Alcuni cenni sulla tradizione del testo ... 25
Conspectus siglorum ... 27
3. La parodo ... 28
3.1 La metrica e la tecnica drammatica ... 28
3.2 L’ingresso e la presenza scenica ... 29
3.3 Analisi e commento testuale della parodo – coppia strofica αʹ ... 31
3.4 Parodo – coppia strofica βʹ ... 34
3.4.1 La tematica della sezione centrale ... 41
3.5 Parodo – coppia strofica γʹ ... 44
3.6 Alcune prime considerazioni sul ruolo corale ... 47
4. Gli interventi nel primo episodio ... 50
4.1 L’invocazione a Γῆ – strofe (vv. 391-402) ... 51
4.2 Il canto di supplica – antistrofe (vv. 507-18) ... 55
4.3 Un particolare esempio di canto corale infraepisodico ... 58
4.4 La conclusione dell’episodio ... 61
5. L’unico stasimon ... 63
5.1 Analisi e commento testuale dello stasimo – coppia strofica αʹ ... 64
5.2 Stasimo – coppia strofica βʹ ... 71
5.3 Diverse ipotesi sulla conclusione dello stasimo ... 77
6. I due kommoi finali ... 85
6.1 L’inno al Sonno – strofe (vv. 827-38) ... 86
6.2 L’esortazione ad agire – antistrofe ed epodo (vv. 843-864) ... 93
6.3 L’unità formale della triade strofica ... 97
6.4 Il dialogo lirico con Filottete – kommos finale (vv. 1081-1217) ... 98
6.4.1 Il ruolo del Coro verso il finale della vicenda ... 104
7. Considerazioni conclusive ... 106
Riferimenti bibliografici ... 109
1
Introduzione
Il seguente elaborato si propone un’analisi degli interventi corali nel Filottete di So-focle, un dramma tragico messo in scena nel 409 a.C. e avente come argomento le vicende dell’eroe nell’isola di Lemno, al momento dell’arrivo dei greci Odisseo e Neottolemo, mandati a recuperare le invincibili armi appartenute a Eracle, senza le quali Troia non può essere presa. L’interesse che suscita il ruolo del Coro in quest’opera si motiva a fronte di alcune sue caratteristiche che lo portano in qualche modo a distinguersi all’interno della produzione sofoclea; in particolare, viene sottolineata dalla critica la sua stretta collabora-zione con gli attori nel corso dell’acollabora-zione drammatica, una partecipacollabora-zione che si manifesta soprattutto con l’adesione e l’effettivo sostegno forniti al raggiro ordito da Odisseo e il cui svolgimento viene demandato al giovane Neottolemo. È agli ordini di quest’ultimo, infatti, che risponde il gruppo rappresentato dai coreuti, un drappello di marinai soldati facenti parte dell’esercito greco: τί χρὴ τί χρή με, δέσποτ’, ἐν ξένᾳ ξένον στέγειν… essi esclamano in trimetro giambico, entrando per la prima volta sulla scena, dimostrando così, con la pri-ma di una serie di dopri-mande incalzanti, di conoscere il proprio dovere di subordinati. Que-sto verso iniziale della parodo, che si è scelto di riportare anche nel titolo della presente trattazione, è carico di una forte intensità emotiva, che si gioca sull’entusiasmo di collabo-rare ai piani ingannevoli, unito alla consapevolezza di trovarsi, da stranieri, in una terra straniera. Sin dal principio, dunque, risulta evidente come la funzione drammaturgica cora-le sarà strettamente connessa con lo svolgimento della trama, una caratteristica che spesso viene contrapposta, dagli studiosi, alla tendenza dei canti corali sofoclei a essere teatro di riflessioni generali, attraverso le quali gli eventi specifici dell’intreccio vengono collocati in una cornice intellettuale più ampia1. Le espressioni gnomiche e sentenziose sono assai rare nel Filottete, come viene evidenziato già da Dione Crisostomo2, una peculiarità legata indissolubilmente, da un lato, al ruolo e allo status dei componenti del Coro, dall’altro, all’aspetto formale dei suoi interventi; infatti, come si vedrà, le sezioni liriche includono un
1 Non tutta la critica, tuttavia, concorda in questa contrapposizione interna alla produzione sofoclea, vedendo,
al contrario, il Coro del Filottete come un esempio paradigmatico della trattazione corale di Sofocle, cfr. p. es. Müller (1967) e Gardiner (1987), la quale prende questo Coro a modello, pur riconoscendo i suoi tratti inusuali, che lo assimilano a un «deceitful character», p. 13.
2 Dione di Prusa legge il Filotette di Eschilo, Euripide e Sofocle, fornendoci con l’orazione LII un
osservato-rio privilegiato sul contenuto dei primi due drammi, che non sono giunti fino a noi. Su quello di Sofocle af-ferma che, rispetto a quelle euripidee, τά τε μέλη οὐκ ἔχει πολὺ τὸ γνωμικὸν καὶ πρὸς ἀρετὴν παράκλησιν, “le liriche non hanno la sentenziosità né l’esortazione alla virtù”, LII, 17, trad. G. Avezzù.
2 solo stasimo, luogo solitamente dedicato alle riflessioni corali e all’utilizzo di paradigmi mitici, mentre le altre parti cantate si configurano prevalentemente nei dialoghi commatici.
Pertanto, non sorprende che la tendenza principale nell’interpretazione del Coro nel Filottete di Sofocle è quella che lo considera quasi una sorta di personaggio minore, un ne-cessario completamento a fianco degli attori, piuttosto che un rappresentante delle tradi-zionali funzioni corali. Di questa opinione, fra gli altri, sono Kirkwood, Gardiner e Schein3, i cui contributi sul ruolo drammatico corale sono stati uno dei punti di partenza nello sviluppo del seguente lavoro; nello specifico, uno strumento molto utile è risultato il recente commento di Schein per l’edizione OCT, al quale è stato affiancato, oltre alle prin-cipali edizioni critiche, il testo curato da Avezzù e commentato da Pucci per la Valla. Altri critici, seguendo la medesima via interpretativa, hanno avanzato l’ipotesi che questo trat-tamento del gruppo corale possa essere determinato dalla prematura uscita di Odisseo alla fine del prologo, cosicché viene a crearsi la necessità di una presenza, in scena, che man-tenga coerentemente il piano fraudolento da lui stabilito, in contrapposizione a Neottole-mo, il quale subisce un’evoluzione morale che lo allontana progressivamente dalla posi-zione assunta in partenza4. In quest’ottica, Winnington-Ingram suggerisce che i marinai possano fornire un contesto di naturale pragmatismo rispetto alle mutevoli sfaccettature psicologiche del loro comandante, una visione simile a quella di Schmidt, per il quale la loro semplicità, data dall’essere “gente comune”, riflette una comprensione limitata della situazione, che contrasta con la profonda sensibilità del giovane figlio di Achille5. Tuttavia, non sono mancate, soprattutto in passato, letture differenti, fra queste si può menzionare il lavoro di T. von Wilamowitz sulla tecnica drammatica in Sofocle, dove, in particolare ri-guardo allo stasimo, il Coro viene interpretato come strumento nelle mani del poeta, e quello di Burton, autore di una completa monografia sui cori sofoclei. In epoca più recente, un’ipotesi differente da quelle viste finora è stata avanzata da Kitzinger, la quale, partendo dal presupposto che la modalità espressiva del Coro è profondamente diversa da quello de-gli attori, conclude che diversa è anche la reciproca visione del mondo, cosicché l’azione drammatica viene sempre presentata da due complementari, nonché inconciliabili punti di vista. Perciò, rifiutando le spiegazioni più comuni, la studiosa argomenta che nell’opera in
3 Kirkwood (1954): «Philoctetes is the least lyrical of Sophocles’ plays; the chorus is relatively insignificant,
and his role is more that of a minor character than of a choral group», p. 13, cfr. Anche Kirkwood (1958) e Gardiner (1987), nonché l’articolo di Schein (1988), su cui si tornerà, ma che nel finale presenta il ruolo del Coro come «“one of the actors”», p. 204.
4 Di questa opinione Esposito (1996), per il quale «Sophocles needed a consistent voice for Odysseus’
posi-tion. In Neoptolemus’ sailors he found that voice», p. 100.
5 Cfr. Winnington-Ingram (1980), pp. 284-5, 287, e Schmidt (1973), il quale vede il Coro come una sorta di
3 esame il drammaturgo, riducendo le odi a un unico canto a solo, ha volutamente minato e frammentato la solita prospettiva corale, privando la sua voce di credibilità e il pubblico della possibilità di avere una lettura superiore e generale degli eventi6.
Queste considerazioni vanno ad inserirsi necessariamente nel campo delle diverse teorie formulate in merito all’autorità corale e alla sua funzione drammatica, un dibattito su cui è stato scritto moltissimo e aperto sin dall’antichità, di cui si è occupato già Aristotele e successivamente ripreso dal romanticismo tedesco, fino ad arrivare ai giorni nostri7. Di tut-to ciò si parlerà nel corso del primo capitut-tolo, in cui viene fornita una panoramica sulle que-stioni legate alla nascita dei cori tragici, alla loro identità e alle diverse possibilità di ap-proccio alla loro interpretazione. Infatti, nei casi in cui il gruppo corale risulta particolar-mente coinvolto nella vicenda, come accade nell’opera in esame, la tendenza è quella di fornire un’esegesi che rivendica la piena coerenza psicologica del Coro come personaggio, in contrasto alla visione di origine schlegeliana e schilleriana, progressivamente abbando-nata dalla critica recente, che lo considera alla stregua di “portavoce del poeta” e “spettato-re ideale”, rip“spettato-resa poi dai critici nella misura di uno strumento nelle mani del drammatur-go. Tuttavia, spesso queste due posizioni, se mantenute troppo rigidamente, possono anda-re incontro a delle difficoltà, come accade anche nello stesso Filottete, in cui l’entità corale sembra così ben prestarsi a un’interpretazione “realistica” del suo personaggio. Ciò è quan-to emergerà nel corso della trattazione delle singole parti liriche, analizzate nei diversi ca-pitoli di questo lavoro di tesi, sia per quanto riguarda la parte di ricostruzione testuale, di cui si darà qualche accenno per poter meglio comprendere il significato dei diversi inter-venti, sia negli aspetti letterari, affrontati alla luce e nel confronto della rassegna di studi più recente.
Dunque, dopo aver fornito alcune linee guida sull’opera con il secondo capitolo, il terzo capitolo si occuperà della parodo, dalla particolare forma commatica, affrontando i primi dubbi sollevati in merito all’espressione di un sentimento di pietà nei confronti del protagonista, introdotto, con alti effetti drammatici, dallo scambio fra i marinai e il loro comandante. Nel quarto capitolo, poi, si passerà al primo episodio, in cui le odi costitui-scono un esempio di canto infraepisodico, trovandosi in responsione a distanza di un gran numero di versi; quello che colpisce, in questa sezione, è l’invenzione, da parte del Coro,
6
Cfr. Kitzinger (2008); la studiosa giustamente argomenta contro un approccio esegetico che «reduces the complexity and variety of the playwrights’ uses of the chorus to a single issue [ . . . ]», p. 72, ma, ammetten-do soltanto una funzione, ritenuta quella autentica, per i cori sofoclei, rischia di fare lo stesso.
7 Basti citare, per ora, l’opera fondamentale di Kranz(1933), Stasimon, e per un’amplia rassegna degli studi
4 di una preghiera finalizzata a persuadere Filottete della bontà delle intenzioni di Neottole-mo. Un punto di grande interesse risulta su quanto verterà la trattazione sostenuta nel quin-to capiquin-tolo, poiché vi si affronta l’unico stasimo del dramma, ricco di rimandi testuali e al-lusioni mitiche, in particolare grazie alla presenza del paradigma di Issione e del rimando a Eracle. La funzione drammatica corale che solitamente si evince nelle odi, della quale si è accennato prima, in questo caso è minata dalle parole dei marinai, che sembrano intenzio-nati a far avanzare con convinzione il piano ingannevole, per quanto, apparentemente, non ci sia nessuno degli attori in scena ad ascoltarli. Si discuterà, perciò, di questo aspetto, arri-vando a delle prime conclusioni sull’interpretazione generale che si intende proporre in merito al soggetto trattato, un’esegesi che vede la conferma del coinvolgimento corale nell’azione, ma che nega la necessità di ricercare in ogni suo intervento una lettura “veri-tiera” degli eventi e una consapevolezza del proprio ruolo tipica dei personaggi drammati-ci. Nello specifico, si troverà conferma di una coerenza fra i vari contributi del Coro, che mantiene inalterato il proposito fraudolento accolto in principio, manifestando delle opi-nioni e dei sentimenti in linea con la loro identità, ossia quella di un gruppo di uomini dal sentire più “comune” rispetto a quello dei protagonisti. Questo aspetto permette al pubbli-co, da un lato, di identificarsi e di sentirsi partecipe nell’intrigo, dall’altro, di trovare, nell’elemento corale, una sorta di spettatore interno, che mantiene nel corso della tragedia il punto di vista principale, con il quale si confronteranno e interagiranno gli attori. Oltre a ciò, la prospettiva che viene fornita permette, a un’analisi più attenta, di cogliere una visio-ne più ampia della vicenda, poiché vengono adombrati, visio-nelle parole dei marinai, spunti di riflessione e rimandi interni di cui solo il drammaturgo può avere consapevolezza, in un sottile gioco allusivo. Nell’ultimo capitolo dell’elaborato, dunque, si proverà a tirare le fila di questi aspetti ora accennati, analizzando i due kommoi che sostituiscono gli abituali sta-simi, durante i quali il Coro mantiene coerentemente la sua posizione, per poi eclissarsi nella parte finale, quando lo stratagemma non richiede più la sua collaborazione. La sua voce tornerà a sentirsi, infatti, soltanto con la chiusura tradizionale, che sancisce il ritorno all’ordine degli eventi drammatici.
5
1. Una panoramica della critica recente sul ruolo corale
Un elaborato che intenda trattare delle parti corali di una tragedia, non può non pre-sentare una panoramica introduttiva delle problematiche riguardanti il gruppo corale come parte costitutiva del dramma. Il suo complesso statuto, su cui la critica ha prodotto innume-revoli contributi, è determinato anche dalla varietà dei compiti assegnatigli; infatti, sempli-ficando al massimo,
si può definire funzione del Coro quella di articolare e accompagnare l’azione scenica, talora preparandola o anticipandola, talora discutendone le conseguenze, talaltra sostituendosi ad essa (nella descrizione di eventi extrascenici), spesso svelandone i nessi occulti, gli eventi del passato mitico che la motivano, in alcuni casi contribuendo, in diretto coinvolgimento, a determinarne il corso8.
Gli studiosi, antichi e moderni, hanno dedicato molta attenzione a questa parte della rap-presentazione tragica, occupandosi delle sue possibile fonti e successive evoluzioni, delle sue implicazioni “sociali”, del suo linguaggio e delle relative peculiarità testuali, della me-trica e di molto altro ancora. Nei paragrafi successivi, pertanto, si cercheranno di delineare alcuni aspetti fondamentali del ruolo corale, a partire dalle sue origini, passando per la que-stione legata all’identità corale, molto dibattuta, e cercando di fornire alcuni strumenti pre-liminari alla trattazione specifica del Coro sofocleo.
1.2 Le origini e la composizione del Coro
Per la concezione attuale che si ha dello spettacolo teatrale, l’idea del Coro come partecipante al dramma può risultare straniante, nella misura in cui esso si distingue dagli altri personaggi per alcune ovvie caratteristiche, fra le quali il suo essere un gruppo che canta all’unisono in versi lirici, il trovarsi costantemente presente in scena e in una zona ben definita. Nondimeno, nell’alternanza delle parti corali con quelle attoriali, si verifica anche la possibilità di un’interazione reciproca per mezzo del dialogo, che avviene fra l’attore e il Corifèo, il rappresentante e guida dei coreuti. Nonostante l’apparente artificiali-tà e innaturalezza di tale caratteristica drammatica, nell’approcciarsi allo studio di questo tipo di espressione artistica bisogna sempre tenere a mente che ai giorni nostri la fruizione di quanto ci è rimasto della produzione tragica antica è prevalentemente mediata dalla pa-gina scritta, mentre gli spettatori dell’epoca, per i quali venivano composti i drammi,
8
6 vano sentir cantare e veder danzare i componenti dei Cori, vestiti e mascherati in accordo al loro ruolo. Questo elemento allontana ancora di più l’interprete moderno da una totale comprensione del Coro tragico, la cui personalità vive di una sorta di ineffabilità, data dal poter reagire ed esprimersi come un singolo individuo, nonostante la sua materiale plurali-tà, mentre, dall’altro lato, appare costantemente come un gruppo enfatizzante la sua natura collettiva9. Di fatto la collettività, la dimensione del pubblico, viene introdotta in scena proprio da questa entità corale, posta in alternanza con il ruolo dell’attore, in una dinamica che aveva profonde radici nel passato arcaico della società ateniese. Infatti, la presenza del coro come parte fondante della tragedia si deve a un’evoluzione storica di un istituto più antico, probabilmente un’esperienza letteraria inserita in un contesto festivo che prevedeva il canto corale guidato da uno dei suoi membri, l’ἐξάρχων, il quale si sarebbe poi reso au-tonomo, fino ad impersonare una parte individuale. Aristotele (Poetica 1449a) riferisce che le origini del dramma tragico siano da ricercarsi nell’improvvisazione di chi guidava il Di-tirambo, un’espressione artistica e cultuale di ambito dionisiaco, ma anche altre forme ce-lebrative, come gli inni agli dei o le lamentazioni ai defunti10, potrebbero aver giocato un ruolo nello sviluppo delle successive rappresentazioni teatrali, fatto sta che l’importanza, nell’economia del tragico, della musica e del Coro risulta innegabile. Questa centralità è sottolineata altresì dalla terminologia utilizzata per indicare l’atto di produzione di uno spettacolo, così come dal suo aspetto istituzionale11. Un poeta che desiderasse essere am-messo ai concorsi delle Dionisie e delle Lenee doveva rivolgersi all’arconte eponimo, al
9 Kaimio (1970) offre una dettagliata analisi dell’uso del numero, plurale o singolare, da parte del Coro in
tutti e tre i grandi Tragici e in Aristofane. Complessivamente, la prima persona plurale fa emergere l’elemento collettivo del corpo corale e le sue caratteristiche di personaggio del dramma, con l’espressione di pensieri e sentimenti più distaccati e formali, mentre la prima persona singolare, la cui relazione con il ruolo del coro è più difficile da definire, sembra enfatizzare la sua coesione interna, nonché avere delle marcate sfumature di esperienza personale. Inoltre, l’alternanza delle due forme applicata ai verbi che esprimono l’azione del comunicare è stata interpretata come una caratteristica ereditata dalla dimensione interpretativa della poesia melica, cfr. Calame (1999) p. 130 e Bacon (1994/5), p. 22, nt. 6.
10 Sulle origini della tragedia sono stati prodotte numerose ipotesi e innumerevoli studi, volti a definire una
questione che non è ancora del tutto stabilita. Altre testimonianze oltre a quella aristotelica, riferibili alle ori-gini del dramma tragico, presentano possibilità alternative alla derivazione del Coro drammatico da quelli celebranti Dioniso; Erodoto (V, 67, 5), ad esempio, racconta che al tempo di Clistene venivano istituiti canti corali per celebrare i patimenti di Adrasto. Si veda, per alcuni indicazioni generali al riguardo, Di Benedet-to/Medda 1997, pp. 398-400, contestualmente alla replica all’articolo di Gentili (1984-5) sulle fonti antiche che trattano della questione e in merito alla derivazione della tragedia dal ditirambo.
11 Al riguardo, si veda in particolare il lavoro sulla coregia di Wilson (2000), al quale fa riferimento Foley,
pp. 3 e ss.; Wilson commenta la centralità del Coro nella rappresentazione tragica e nella prospettiva popola-re affermando che «Stopped on his way to the tragic competitions of the city Dionysia and asked whepopola-re he was headed, the average classical Athenian in the street would have probably have replied: ‘es chorous’ (‘to the choruses’)…» p. 183. Anche l’articolo di Helen Bacon, The Chorus in Greek Life and Drama, in cui si indaga il significato della forma corale nella società ateniese del tempo, ha come presupposto il rilievo che essa aveva nella vita quotidiana e nella mentalità generale, cfr. Bacon (1994/5) specialmente pp. 7-8.
7 quale “chiedeva un coro” (χορὸν αἰτεῖν)12
, che, una volta ottenuta l’approvazione del sog-getto drammatico, veniva finanziato da un cittadino abbiente, il corego. Il compito di quest’ultimo era anche quello di selezionare un “istruttore” dei coreuti, fornire costumi, at-trezzi di scena, comparse, e celebrare le vittorie con una festa.
Per quanto riguarda la composizione del Coro, da intendersi come i personaggi da questo interpretati, in maggior parte il gruppo corale si trova formato da stranieri, spesso rappresentanti della cittadinanza dei luoghi in cui si svolgono i drammi. In alcuni casi il suo ruolo è di primo piano, come per le Supplici, sia eschilee che di Euripide, in cui il gruppo di donne svolge una parte da protagonista, o le Eumenidi e le Baccanti, figure divi-ne o legate alla divinità su cui si incentra la vicenda. A questo riguardo, può stupire che la comunità sia rappresentata, molte volte, da dei personaggi femminili, tuttavia si può sup-porre che il drammaturgo non volesse rispecchiare gli istituti politici ateniesi a lui contem-poranei, ma che permettesse, in questo modo, una possibilità d’espressione anche a una parte della società all’epoca esclusa dalle istituzioni13
.
1.3 Il Coro come “spettatore ideale” e come tramite della comunità
Queste considerazioni portano inevitabilmente ad ulteriori riflessioni e alle diverse modalità di approccio alla figura del Coro, di cui si sono occupati i più recenti studi in ma-teria. Le tematiche principalmente trattate, e sulle quali è ancora aperto il dibattito accade-mico, riguardano soprattutto la sua funzione all’interno dell’azione drammatica, l’autorità del suo ruolo rispetto a quello degli attori e la sua relazione con il pubblico, questioni che si vanno ad intrecciare e si confrontano con l’identità dei personaggi interpretati dai coreu-ti14, intesa sia come loro appartenenza sociale, sia come gruppo dalle facoltà diverse rispet-to a quelle dell’atrispet-tore. Per chiarire, almeno parzialmente, questi aspetti conviene prendere le mosse dalla famosa definizione di Schlegel, tratta dal suo Corso di letteratura
12
Cratino, Βουκόλοι, fr. 15 PCG, Pl. Leg. 817d, Pickard-Cambridge (1996) p. 116, Csapo and Slater (1995) pp. 108-9. In generale, riguardo all’occasione, al finanziamento e alla produzione delle tragedie, si veda A.W. Pickard-Cambridge (1996), «Le Dionisie urbane», pp. 79-139.
13
Cfr. Di Benedetto/Medda, p. 242. Alcuni studiosi hanno provato a fare un calcolo statistico, dimostrando che i Cori “femminili” sembrano prevalere in Eschilo ed Euripide, mentre Sofocle dimostra una preferenza per quelli “maschili”, cfr. specialmente Mastronarde (1998), pp. 63-4, e l’appendice in Foley (2003). Sempre Foley, espone quanto notato da una parte della critica per cui la presenza corale femminile permetterebbe una relazione più intima con una protagonista femminile, nonché contribuirebbe a creare un’ambientazione mag-giormente privata, meno legata al contesto politico dell’azione, cfr. pp. 19-20.
14 Per quanto riguarda, invece, l’identità dei coreuti stessi, assodato che si trattava sempre di cittadini di sesso
maschile, è stato ipotizzato da Winkler (1990) che venissero reclutati per questo ruolo i giovani efebi, colle-gando il nome τραγῳδόι alle loro voci immature e simili ai versi di una capra. Su questa ipotesi alcuni dissen-tono, fra cui Foley (2003), p.8 n. 33.
8 tica, che descrive il Coro come uno «spettatore ideale»15. In questa concezione, variamente influente nella tradizione idealista e romantica, è implicita la nozione di “voce del poeta”, di cui il gruppo corale si fa portavoce, materializzandone i sentimenti e le meditazioni, moderando, inoltre, le impressioni eccessive generabili dalla vicenda narrata e stabilendo, fra pubblico e scena, una giusta distanza contemplativa. Tale interpretazione è stata a lungo un punto di partenza per le riflessioni sul ruolo del Coro come personaggio del dramma, venendo riformulata in termini simili, ma anche negata, soprattutto dalla critica recente. Nel primo caso, basta accennare alla nota teoria di Kranz sulla “triplice natura”, la Dreina-tur, della voce corale, al contempo persona drammatica, strumento di articolazione della vicenda e, infine, organo dell’“Io poetico”16
. Nel secondo caso, la principale obiezione che viene avanzata riguarda l’implicita sottovalutazione del ruolo del canto e, in generale, della parte che effettivamente viene interpretata dai coreuti in scena. La critica recente propende a riconsiderare questa visione schilleriana e schlegeliana sotto altri punti di vista; in parti-colare, Battezzato (2005) definisce l’approccio idealista tedesco condivisibile nella misura in cui si sostituisca, al concetto romantico di “spettatore”, quello di “lettore implicito”, così definito dalle moderne teorie letterarie17. Con questa interpretazione, come si vedrà, si con-tinua ad attribuire alla voce corale il compito di fornire una possibile risposta agli eventi scenici, in grado di orientare le reazioni e le considerazioni del pubblico reale, senza che, però, vi sia la pretesa di considerarla una lettura veritiera. Su questo punto si tornerà suc-cessivamente, quando si parlerà delle diverse posizioni degli studiosi nei confronti delle parti corali che appaiono del tutto inserite nell’azione drammatica, con un coinvolgimento del Coro variamente interpretabile nella sua coerenza psicologica come personaggio o, di-versamente, come strumento nelle mani del drammaturgo. Prima, però, conviene fornire qualche altro cenno riguardo alle ulteriori considerazioni sviluppate in merito a tali que-stioni.
Un altro approccio, dalla notevole influenza, oggetto di discussioni e approfondi-menti e che in parte riprende quello schlegeliano, pur differenziandosene in alcuni dei suoi
15
Per lo scrittore tedesco, «bisogna riguardare il Coro come la personificazione dei pensieri morali che inspi-ra l’azione, come l’organo dei sentimenti del poeta che parla egli stesso in nome di tutta l’umanità inteinspi-ra» e «volevasi che il coro in ciascuna tragedia, qual che si fosse la parte particolare che vi facesse, fosse per prima cosa il rappresentante dello spirito nazionale, e quindi il difensore degli interessi dell’umanità», Schlegel,
Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur, trad. G. Gherardini, ed. 1977, p. 60. La famosa
afferma-zione del coro come idealisierte Zuschauer, messo in discussione, fra i primi, dallo studio di Müller (1967), viene approfondito e contestualizzato, in un suo recente contributo, da Goldhill (2013), che nota come la tra-dizione idealista tedesca abbia in buona parte formato la percezione successiva del Coro greco.
16 Cfr. Kranz (1933) p. 171. 17
9 termini fondamentali, è quello proposto da Vernant e Vidal-Naquet. La loro riflessione si inserisce nell’ambito dei relativi studi sulla tragedia greca, nei quali viene sottolineato co-me quest’ultima nasca quando il mito comincia ad essere esaminato secondo i co-metodi di pensiero e le esperienze giuridiche e politiche della polis. Questo confronto fra i valori co-munitari della città e la mitologia tradizionale, simbolo di un passato eroico dalla diversa organizzazione sociale ed ideologica, avviene, agli occhi del pubblico, nel dramma tragico, che si serve come tramite del Coro, «essere collettivo ed anonimo, il cui ruolo consiste nell’esprimere, nei suoi lamenti, nelle sue speranze e nei suoi giudizi, i sentimenti degli spettatori che compongono la comunità civica». Inoltre, il gruppo corale diviene portavoce della «verità collettiva, la verità media, la verità della città»18, che si oppone agli eccessi della figura eroica protagonista della finzione drammatica, appartenente ad un’epoca e un mondo passati, a un “inaccessibile altrove”. Tale formulazione la si trova, similmente, in Longo, il cui breve schema sull’origine della tragedia a partire da un’azione comunitaria, dove il pubblico è anche attore, si conclude con la definizione del ruolo del Coro come «“rappresentante della collettività”, […] metafora scenica della comunità coinvolta nel ri-tuale drammatico»19.
1.4 Identità e autorità del ruolo corale
Da questo modello hanno preso spunto i successivi approcci alla questione, volti in primo luogo a chiarire fino a che punto si possa parlare di un’identificazione, da parte del pubblico ateniese, nella parte rappresentata dai coreuti. Strettamente legato a questo, si è posto il problema di come e in quale grado si possa attribuire un’autorità20 agli interventi corali, alla luce di vari elementi, fra cui il filtro costituito dal canto e dalla danza, nonché considerando l’identità del Coro stesso, complicata dal duplice ruolo di partecipante alla festa religiosa in onore di Dioniso e di interprete in uno spettacolo teatrale.
18 Vernant e Vidal-Naquet (1976), p. 4 e (1991), p. 144. Da una parte della critica successiva questa
formula-zione è stata discussa perché ritenuta in qualche modo fuorviante, in quanto «it elides the fifth-century identi-ty that lay beneath the masks and costumes of tragic chorus members […] with their dramatic role, glossing over the way that choruses enter into the same mythical world as the characters», Murnaghan (2011), pp. 246-47.
19 Longo (1978), p. 10. 20
Per la trattazione del concetto, elusivo e difficile da definire chiaramente, si rimanda all’elenco dei contri-buti al riguardo esposta da Foley (2003), p. 2 nt. 6, e all’analisi riassuntiva di Visvardi (2015), la quale sotto-linea che il Coro, come partecipante della festa di Dioniso, continua una lunga e autoritativa tradizione, da cui attinge e che in parte riconfigura, nella veste d’interprete di un personaggio interno al dramma, cfr. p. 21. Altre posizioni della critica sulla questione vengono trattate nel corso dell’esposizione, cfr. infra.
10 A questo riguardo, è stato spesso notato dalla critica che i Cori tragici sono compo-sti prevalentemente da donne, schiavi, uomini anziani o stranieri, come già sopra delineato, e che impersonano, dunque, degli individui che non facevano pienamente parte della con-gregazione di cittadini che assistevano agli spettacoli, rappresentata in maggioranza da uomini liberi residenti ad Atene. Questo aspetto è stato enfatizzato in particolare da John Gould, in un articolo in cui arriva alla definizione di una “marginalità sociale” del Coro21, alla quale conseguirebbe anche una perdita dell’autorità del discorso corale, che si trova ad esprimere, invece, «the experience of the excluded, the oppressed, and the vulnerable»22. Secondo l’autore, questa alterità viene sottolineata anche dalla coloritura dialettale, non at-tica, del linguaggio lirico, spesso ostico alla comprensione per la sua sintassi, una lingua «alien and strangely “distant”, which could indeed be called the speech of the “other”»23. Nonostante ciò, Gould non vuole deprivare la costante presenza corale della sua importan-za, mettendo in rilievo il fondamentale contributo che questa conferisce alla concezione del tragico attraverso il senso della condizione umana, che coinvolge tutti, sia a livello colletti-vo che individuale; inoltre, egli nota come «it is the chorus, ‘marginal’, transient, and alien though it is, rather than any of the play’s protagonist, who bring to this imagined world and its terrible events the ballast of memory»24, introducendo così il concetto della saggezza legata alle antiche tradizioni, di cui il Coro si fa portatore.
A queste considerazioni ha risposto, nell’ambito di un dibattito accademico, Simon Goldhill, sviluppando le osservazioni di Gould e sottolineando in particolare quest’ultima tematica, il ruolo della saggezza gnomica espressa dalle parti corali. Il punto di partenza, da cui muove la sua obiezione, mira a sottolineare la centralità dell’istituzione della core-gia, di cui si è precedentemente accennato, e la tradizione educativa che metteva in risalto l’importanza del canto e della danza, fattori che permeavano l’espressione del Coro di
21 Gould (1996), cfr. specialmente pp. 219-220. Lo studioso prende spunto dalla teorizzazione di Vernat, con
la quale concorda su di alcuni aspetti; fra questi, l’esperienza alternativa, rispetto a quella dell’eroe tragico, di cui il Coro si fa portatore, la sua essenza “collettiva” e la sua reazione agli eventi come gruppo, elemento fa-cente parte dell’antica concezione greca del tragico. L’aspetto su cui dissente, invece, riguarda la particolare formulazione di “esperienza collettiva”, come identificazione del Coro con la comunità civica.
22 Le uniche apparenti eccezioni, rilevate da Gould, all’interpretazione, da parte dei Cori, di personaggi in
qualche modo lontani dal contesto sociale ateniese, sono l’Aiace e il Filottete di Sofocle, in cui, però, i coreu-ti sono dei marinai al servizio dell’eroe tragico e possono, pertanto, agire solo su istruzione di quest’ulcoreu-timo. Per quanto riguarda l’Edipo Re e l’Antigone, se gli anziani tebani vengono pur sempre apostrofati come πολῖται, d’altra parte la loro anzianità non tinge di “democratic ideology” e non rende un “civic discourse” le loro affermazioni. Cfr. Gould (1996), p. 220.
23
Cfr. Gould (1996), p. 219. Goldhill (1996) replica a questa constatazione affermando che, per il pubblico ateniese del V secolo, il linguaggio, il metro e lo stile del canto corale dovevano essere, al contrario, molto familiari, cfr p. 251. Mastronarde (1998), concorda con Gould, sottolineando come l’alterità sia stabilita, non tanto dall’uso del dorico, quanto dalla lontananza del canto corale dal discorso pubblico, cfr. p. 59 e nt. 3.
24
11 torità, a differenza di quanto sostenuto dal suo interlocutore25. Infatti, pur non negando l’identità peculiare interpretata dal gruppo corale e riconoscendo, inoltre, che i suoi inter-venti spesso sono parziali, non comprensivi dell’azione e generalizzanti, non sufficienti a spiegare le sofferenza inflitte al protagonista26, tuttavia «it is, in short, the tension between authoritative, ritual, mythic utterance and specific, marginal, partial utterance that gives the chorus its special voice in tragedy»27. La sua conclusione ribadisce il significato della voce del Coro all’interno della democrazia ateniese, proprio per questa sua abilità di mettere in moto e in discussione l’autorità della saggezza collettiva.
Numerosi altri studi hanno successivamente contribuito ad esplorare le ulteriori sfaccettature legate all’interpretazione, da parte del gruppo corale, di personaggi caratteriz-zati da una sorta di “alterità”. Nel suo recente articolo la Foley, sottolineando l’importanza del Coro per la rappresentazione drammatica, di cui si è già accennato28, avanza alcune ipotesi sul fenomeno dell’identità corale. Fra queste, presupponendo che la vittoria di un’opera in un agone drammatico venisse data, in buona percentuale, dalla recitazione del-la parte corale, evidenzia come «representing the Other in performance»29 concedesse maggiori possibilità di sfoggio dell’abilità degli interpreti e di chi li aveva istruiti, grazie all’opportunità di un’esibizione visiva e uditiva più varia30. Dopo qualche altra considera-zione in merito, una delle conclusioni a cui giunge l’autrice è la presenza di alcune caratte-ristiche comuni che tendono a uniformare il ruolo del Coro, a prescindere dalla sua specifi-ca identità. Fra queste, l’essere portavoce della saggezza tradizionale, elemento avanzato già da Goldhill, una saggezza gnomica che poteva essere compresa e condivisa da tutti i partecipanti della cultura greca. Inoltre, a questo aspetto si lega il far parte di un rituale, l’interpretare atti pubblici, come preghiere e suppliche, un’esperienza in cui tutti si senti-vano coinvolti; d’altronde la stessa partecipazione ad atti corali era una pratica del tutto
25
Goldhill (1996), p. 250-251.
26 Elemento, questo, ascrivibile al concetto di ironia drammatica. La critica sottolinea l’influenza di questa
caratteristica sulle considerazioni in merito al ruolo del Coro, la cui mancanza di comprensione degli eventi o l’apparente convenzionalità di alcune sue parti può condurre a un errore di giudizio gli spettatori, che spesso hanno più conoscenze sull’azione drammatica del Coro stesso.
27 Goldhill (1996), p. 254. Cfr. anche Goldhill (1986), pp. 270-71.
28 In particolare, Foley sottolinea come il corego fosse incentivato a rendere competitiva l’interpretazione dei
coreuti, a fianco di quella degli attori, perché avevano una notevole influenza sul pubblico, data soprattutto dalle dimensioni del gruppo corale, dalla sua stretta vicinanza agli spettatori per la posizione dell’orchestra e dalla duplice possibilità di danzare e cantare, cfr. pp 2 e ss. Le medesime caratteristiche, ossia la vicinanza con la platea da un punto di vista spaziale e temporale, quest’ultimo nel senso di una continuità della presen-za del Coro in scena come testimone dell’azione drammatica, sono avanpresen-zate da Mastronarde (1998) per giu-stificare il ruolo corale come intermediario fra gli attori e il pubblico del teatro, che aveva così modo di iden-tificarsi. Cfr. p. 57.
29 Foley (2003), p. 5.
30 Data dalla possibilità di presentare nella performance costumi, gesti e movimenti diversificati rispetto a
12 familiare al pubblico ateniese, che identificava il corpo collettivo con la propria esperienza di corpo cittadino. Perciò, la categoria identitaria di “Altro” poteva essere percepita come una finzione scenica di distanziamento, che aiutava a suscitare reazioni nel pubblico e nei personaggi, ad esempio tramite l’uso di paradigmi mitici, veicolati in maniera più versatile a seconda dell’identità di chi li esprimeva, ma senza andare ad intaccarne l’autorevolezza e la possibilità di identificazione.
1.5 Il coinvolgimento corale nell’azione drammatica
Un’altra questione fra le più dibattute, peraltro sempre legata alla problematica dell’autorità corale, riguarda il grado di partecipazione del Coro nell’azione drammatica, una tematica che risulta influente per l’analisi che questo elaborato si propone, in quanto la parte corale del Filottete ha un peso notevole nell’intreccio. Il coinvolgimento corale nella vicenda tragica era di per sé determinato dalla sua costante presenza sulla scena, salvo del-le rare eccezioni31. Fino a che punto, però, arrivasse a collaborare con gli attori e influisse effettivamente sull’azione, è un aspetto del quale si era preoccupato già Aristotele, il quale notava, nella Poetica, che il Coro è uno degli attori, è una parte del tutto ed “è comparteci-pe” della vicenda32
. È necessario, nel considerare questa testimonianza, tenere presente il contesto in cui l’autore si trovava a esprimere questo giudizio. La drammaturgia del IV se-colo presentava ormai delle parti corali quasi del tutto dissociate dalla trama della singola opera tragica e il filosofo polemizzava verso tale tendenza; il confronto fra Sofocle ed Eu-ripide non è, pertanto, casuale, dato che nella produzione più tarda di quest’ultimo si inizia a percepire questa mancanza di relazione, mentre Sofocle veniva portato come esempio positivo del contrario. Al significato delle parole aristoteliche sono state date interpretazio-ni diverse, fra cui è nota quella del Gentili, secondo cui il ruolo del coro è di prendere parte agli eventi, ma senza determinarli, essendo il suo compito quello dell’imitazione dei
31
Ad esempio nelle Eumenidi e nell’Aiace, in cui l’uscita del Coro coincideva con un cambio di ambienta-zione scenica, mentre nell’Alcesti e nell’Elena i coreuti seguivano un personaggio nello spazio extrascenico per poi fare ritorno nel luogo di partenza.
32
Arist. Poetica 18, 1456 a 25 ss.: καὶ τὸν χορὸν δὲ ἕνα δεῖ ὑπολαμ βάνειν τῶν ὑποκριτῶν, καὶ μόριον εἶναι τοῦ ὅλου καὶ συναγωνίζεσθαι μὴ ὥσπερ Εὐριπίδῃ ἀλλ’ ὥσπερ Σοφοκλεῖ. τοῖς δὲ λοιποῖς τὰ ᾀδόμενα οὐδὲν μᾶλλον τοῦ μύθου ἢ ἄλλης τραγῳδίας ἐστίν·, (“Il coro si deve supporlo uno degli attori, essere parte del tutto e partecipare all’azione, non come in Euripide ma come in Sofocle. Nei più recenti poi le parti cantate non hanno altro a che fare con il racconto più che con quello di un’altra tragedia”. trad. D. Lanza). Il brano, che appare slegato dal contesto precedente, viene sovente citato come punto di partenza dell’argomentazione sul coinvolgimento del Coro; in particolare, cfr. Mastronarde (1998), che utilizza il passo in funzione di un’analisi dell’autorità dei Cori euripidei, pp. 67 ss., per un commento generale cfr. Gentili (1984-5), pp. 33-35, e per una trattazione del Coro tragico in Aristotele, con un approfondimento della parte interessata, cfr. Scattolin (2011).
13 ratteri” e dei comportamenti umani, attraverso le sue sentenze e le sue risposte emotive33. In generale, però, il senso che si conferisce al verbo συναγωνίζεσθαι è di “partecipare all’azione drammatica”, collaborando con il protagonista, da cui consegue la discussione sul grado di questa assistenza. Da parte di alcuni interpreti, infatti, viene inferito che il Co-ro e le sue affermazioni abbiano uno spessore simile a quello di un personaggio interpreta-to da un atinterpreta-tore, contribuendo alla forza della rappresentazione ed eventualmente alla sua vittoria. Su questo aspetto si tornerà più avanti, trattando nello specifico le parti corali nella produzione sofoclea, per ora basti sottolineare che il passo aristotelico non contribuisce a delineare un esaustivo sviluppo della parte del dramma in questione, a maggior ragione considerando che Eschilo rimane escluso dal giudizio del filosofo.
Un’altra parte della critica, dunque, si è orientata verso la messa in evidenza di una sorta di marginalità del ruolo corale nei confronti degli eventi drammatici, soprattutto alla luce di due importanti fattori: i canti lirici, spesso oscuri nella loro interpretazione e non del tutto inseriti nello svolgersi dei fatti, e l’impossibilità da parte del Coro, a causa delle convenzioni sceniche, di orientare, controllare o intraprendere l’azione34. Sebbene, infatti, esso mantenga la possibilità di muoversi e compiere dei gesti, i suoi interventi sono piutto-sto verbali che fisici, consigliando o dissuadendo, oppure collaborando con il protagonista nel mantenere segreti i suoi propositi, di cui diviene sempre, per necessità di scena, testi-mone35. Constatando il crescente peso dell’elemento retorico nello svilupparsi della trage-dia, Dale ha messo in rilievo un’altra caratteristica legata alle affermazioni del Coro, quella che definisce una specie di “legge non scritta”, «an unbroken law […] that though a Cho-rus may join in the dialogue to a limited extent it must never make a set speech, a ‘rhesis’, never marshal arguments, try to prove or refute a contention, or speak a descriptive set pie-ce»36. Contributi successivi hanno, in parte, ridimensionato questo punto di vista, definibile
33
Gentili (1984-5) interpreta il verbo συναγωνίζεσθαι basandosi su di un altro testo, pseudo-aristotelico, i
Problemi musicali, nei quali, però, si sostiene la teoria contraria, ovvero che il Coro non prende parte
all’azione. Si veda, in merito a quest’ipotesi e alla sua discussione critica, Di Benedetto/Medda (1997), pp. 396-7.
34 Mastronarde (1998) parla di una «convenzionale inabilità ad agire», aggiungendo che il ruolo del Coro «è
spesso quello di offrire speranza di moderazione e calma quando l’eroe e il pubblico vedono solo disastri» p. 60. Influente, per la visione di un Coro marginale rispetto all’azione drammatica, il passo pseudo-aristotelico a cui si è accennato nella nt. precedente, [Aristotele] Problemata 19.48.
35
Per un approfondimento sugli interventi diretti del Coro nell’azione, tramite sia la gestualità che le espres-sioni verbali, cfr. Di Benedetto/Medda (1997) pp. 60-63.
36 Dale (1969) p. 211. La studiosa aggiunge che il contributo corale, anche quando sostiene una parte
impor-tante nell’azione, «is lyric or emotional in tone, never rhetorical, and its intervention in the spoken dialogue are kept short», ivi p. 214.
14 come una tendenza più che una vera e propria regola, con delle differenze, anche significa-tive, fra i vari tragediografi37.
Riportando il discorso esclusivamente alle parti liriche, la percezione di questi in-terventi come “convenzionali” e dalla funzione spesso di intermezzo fra i vari episodi ha portato in alcuni casi ad evidenziare un’“alternanza” del ruolo del Coro, come se potesse calarsi o meno nella rappresentazione di un personaggio, con la conseguenza, pertanto, di una delineazione più vaga rispetto agli altri caratteri del dramma e una minore “realtà” del-la sua interpretazione all’interno deldel-la finzione scenica38
. Anche per questo, alcuni studiosi arrivano a considerarlo in prima battuta un cantante di odi, piuttosto che una dramatis per-sona, e a valutare queste parti cantate come liriche indipendenti piuttosto che possibile vei-colo di considerazioni in linea con la psivei-cologia del Coro-personaggio39. Per attenuare par-zialmente questo giudizio di artificialità della funzione corale, nei contributi recenti si ten-de a sottolineare un dato culturale importante ten-della società greca ten-del tempo, ovvero che il canto era una parte fondamentale della vita religiosa e festiva, senza contare che, insieme alla danza, era una modalità percepita come del tutto naturale per l’espressione di un grup-po. D’altra parte, proprio la reazione agli avvenimenti e il coinvolgimento nella vita quoti-diana della cittadinanza in forma collettiva erano una realtà consueta nell’Atene del V se-colo, almeno per quanto riguarda l’aspetto cultuale e celebrativo40
, tanto da far apparire, agli occhi degli spettatori, niente affatto anomala o innaturale una partecipazione lirica agli eventi, tale era quella del Coro. Alla luce di queste ultime considerazioni, si può affermare la presenza di innegabili e specifiche funzioni espressive del suo ruolo, anche nei suoi
37 Si veda, fra gli altri, Foley (2003), pp. 14 ss., e Gardiner (1987), pp. 177-92.
38 Per la trattazione di questo aspetto e i relativi riferimenti critici si rimanda all’introduzione del saggio di
Gardiner (1987), pp. 1-10. In particolare, sulla generalizzazione del ruolo del Coro a scapito della sua identità nella tragedia, Burton (1980) nota come: «it is a convention in Greek Tragedy that a group of people whose sympathies are known to be wholly devoted to one contestant should step out of character for a moment and make a detached, even censorious reflection on both» p. 35. Per quanto riguarda, invece, la sua delineazione, meno caratterizzata rispetto agli attori, alcuni hanno ipotizzato che lo scopo fosse di rappresentare in ogni opera un gruppo dalle stesse tendenziali caratteristiche, marcato da una sorta di mediocrità che facesse risal-tare la grandezza dell’eroe tragico, cfr. Gardiner (1987), p. 3, n. 6.
39 Sulla legittimità di un’interpretazione psicologica della parti corali nella coerenza del ruolo drammatico si
tornerà nel corso dell’elaborato, per ora si rimanda a quanto detto supra, p. 8.
40 Di questa realtà e dell’individuazione delle influenze reciproche fra il dramma e altre forme di
partecipa-zione culturale, si è occupato spesso Calame, in particolare si veda From Choral Poetry to tragic Stasimon (1994/5). Nella stessa raccolta di articoli, il contributo, già citato, di H. Bacon (1994/5) sottolinea le relazioni fra il dramma e la vita sociale quotidiana, focalizzando sulla familiarità che il pubblico aveva dell’espressione corale: «[…] all significant public and private events were celebrated with choral perfor-mances, sometimes improvised, sometimes traditional, sometimes, like Pindar's victory odes, commissioned, composed, and rehearsed for the occasion. […] Certainly most citizens had on occasion sung and danced in some form of choral performance, in the rituals of birth, adolescence, marriage, and death, or in local cults and festivals.» pp. 15-16.
15 terventi attraverso gli stasimi, i quali presentano una determinata risonanza sulla vicenda tragica in corso.
Volendo riassumere, è possibile evidenziare tre dimensioni riguardanti la voce co-rale: quella che si potrebbe definire “rituale” e che prevede un’interazione dei coreuti con attori e svolgimento dei fatti, in cui la loro espressione può prendere la forma dei canti cul-tuali e avere un’influenza pratica; una dimensione “ermeneutica”, nella misura in cui ven-gono fatte descrizioni e narrazioni, commentando gli eventi in corso con sentenze gnomi-che; infine, quella “emotiva”, che permette ai membri del Coro di esprimere intense emo-zioni provocate da quanto accade sulla scena41. Pertanto, si può concludere affermando che l’innovazione di dare al Coro un’identità specifica all’interno di una trama mitica divenne una caratteristica determinante della produzione tragica e che la scelta di questa identità era un modo con cui il drammaturgo poteva esercitare la sua libertà di elaborare un mito fami-liare. L’introduzione di un personaggio collettivo in ciascuna trama, inoltre, dava spazio alla dimensione del pubblico, grazie anche al permanere, nel Coro, di alcune caratteristiche della sua costituzione non-letteraria, derivante dalla lirica corale posta alle radici della tra-gedia; fra queste, si è parlato della sua funzione di narratore delle saghe tradizionali e voce della saggezza comune, della sua consapevolezza riguardo al proprio ruolo di interprete42 e dello stile particolare, vario e multiforme, della sua recitazione. Diventa così un flessibile e variante mezzo, in grado di offrire una serie di prospettive e gradi di coinvolgimento nell’azione, che ciascun tragediografo poteva dispiegare in maniera differente.
1.6 Alcuni cenni sul ruolo corale in Sofocle
Quanto è stato trattato finora si vuole configurare come un resoconto preliminare dei vari approcci alla figura del Coro nella tragedia ateniese di V secolo, senza distinzioni fra le differenze presenti nei vari autori. La generalizzazione, necessaria per comprendere le diverse modalità di approccio allo studio di questa componente alquanto problematica, non poteva ovviamente tenere conto delle peculiarità di ogni singola opera; per quanto le caratteristiche fondamentali siano le medesime, si possono notare anche delle diversità no-tevoli nel modo in cui i diversi drammaturghi hanno scelto di caratterizzare il gruppo cora-le. A tal proposito, è diffuso luogo comune, convalidato da Nietzsche, che la tragedia greca
41
Cfr. Calame (1999), pp. 128-129.
42 Con questa affermazione si fa riferimento a quanto evidenziato in particolare da Henrichs (1994/5), che nel
suo articolo definisce con l’espressione “self-referentiality” il riferimento interpretativo, da parte dei coreuti, alla pratica rituale nella quale i coreuti stessi sono impegnati, uno degli aspetti del ruolo da mediatore del Co-ro tragico.
16 non sia sopravvissuta alla produzione euripidea, seguendo un’evoluzione in negativo che ha portato al decadimento del genere tragico. In particolare, questa tendenza è stata riscon-trata per il Coro, portando a conferma la testimonianza già citata di Aristotele (Poetica 1456a25), secondo il quale con Agatone si iniziò a sostituire il ruolo corale con degli in-termezzi musicali, mentre già con Euripide non vi era più quella partecipazione all’azione che distingueva l’opera di Sofocle43
. Tralasciando la discussione che si potrebbe aprire ri-guardo al rapporto fra la teoria aristotelica e la prassi dell’utilizzo del Coro nel V secolo, su cui, come già accennato, è stato scritto molto, basti notare che, innanzitutto, il συναγωνίζεσθαι corale è affermato sia per i drammi sofoclei che per quelli euripidei, anche se questo coinvolgimento inizia a scemare nel tardo Euripide; va ribadita, inoltre, l’importanza di tenere presente il contesto storico e letterario in cui il giudizio è stato for-mulato. Nonostante ciò, la critica ha spesso recepito la preminenza data a Sofocle come una conferma del fatto che vadano ricercati, nella sua opera, i segni del progressivo avvici-namento del ruolo corale a quello attoriale, ravvisato nella diminuzione delle liriche indi-pendenti a favore dei dialoghi lirici e nella maggiore compartecipazione alle vicende tragi-che. Lo stesso processo viene identificato con quello che condurrà, successivamente, alla perdita della significanza drammatica del Coro stesso, poiché l’unicità e la peculiarità dei suoi interventi tenderanno a svanire, inversamente al rapporto per cui, in termini generali, quanto meno è partecipe dell’azione, tanto più diventa luogo privilegiato per riflessioni dal respiro universale44. Secondo alcuni interpreti, in particolare si pensi al contributo di Espo-sito (1996), è possibile tracciare una sorta di evoluzione interna alla produzione sofoclea, in base alla quale nelle opere più antiche del drammaturgo il contributo corale si esplicava soprattutto tramite dei canti riflessivi, mentre successivamente la sua partecipazione
43 Arist. Poetica 18, 1456 a 29-30: διὸ ἐμβόλιμα ᾄδουσιν πρώτου ἄρξαντος / Ἀγάθωνος τοῦ τοιούτου, (“si
cantano perciò intermezzi, e a far così ha iniziato per primo Agatone”, trad. D. Lanza) e cfr. supra, p. 12 e nt. 32. L’interpretazione complessiva del passo è stata orientata, in parte, dal riferimento agli ἐμβόλιμα, inter-mezzi musicali scollegati dal racconto, utilizzati dai drammaturghi successivi ad Euripide e visti come il culmine del processo di estraniazione del Coro dalle vicende del dramma. Questa lettura ha influenzato a ri-troso anche l’interpretazione dell’infinito συναγωνίζεσθαι e ha portato all’apertura del dibattito sulla superio-rità sofoclea nel predisporre un coro integrato nell’azione tragica, cfr. Scattolin (2011), pp. 179-180.
44 Cfr. Esposito (1996): «As the chorus moved into the arena of the actors, on occasion even seeming to
be-come an actor, the distinction between tragedy’s two constituent elements (iambic and lyric, speech and song) began to become blurred, to the detriment of the chorus and probably to the detriment of genre itself. The uniqueness of the chorus’s contribution was fading away and before long, as we know from fourth-century drama (and Poetics 1456a 27-32 on Agathon's embolima or “inserted lyrics”) their voice would be heard no longer», p. 108. Sull’opinione di Esposito, su cui vd. infra, per quanto condivisibile in linea molto generale, viene espressa qualche riserva da Kitzinger (2008), p. 72, nt. 6, che giudica un po’ rischiosa l’idea di collocare le opere dei tre drammaturghi in un modello evolutivo così schematico.
17 ne più “drammatica” e interattiva, con un’evidente variazione dell’utilizzo della funzione corale, per quanto lo “stile” lirico possa dirsi immutato, come evidenziato da Kranz45
. Dunque è su questi presupposti che, soprattutto in passato, i principali studi sul ruo-lo drammatico del Coro in Sofocle hanno intrapreso la ruo-loro analisi46; Kirkwood (1958), ad esempio, mira a chiarire il giudizio aristotelico analizzando gli interventi lirici, che reputa il luogo in cui si esplica la vera natura corale e su cui ritiene che verta il passo della Poeti-ca. Per quanto riguarda i versi giambici pronunciati dai diversi gruppi corali nei vari episo-di, vengono giudicati, dal critico, generalmente di scarso valore ai fini del dramma, o ap-prezzabili soltanto eccezionalmente. Un’importanza variabile viene attribuita anche ai kommoi, aventi lo scopo di enfatizzare gli aspetti emotivi della trama, di contribuire agli elementi più significativi della rappresentazione e di mettere in risalto la relazione con il protagonista. Kirkwood, notando come i dialoghi lirici assolvano a queste funzioni molto diversificate, imputa tale peculiarità a un utilizzo flessibile dello strumento corale da parte del drammaturgo, il quale «allows himself virtally complete formal freedom»47. Ritornan-do all’analisi degli stasimi, Ritornan-dopo una breve rassegna degli elementi comuni ai tre tragici, viene evidenziata, per le odi sofoclee, una più stretta relazione con l’azione, nonché viene esaminata una loro caratteristica che porta a definirle odes of suspance; infatti, capita so-vente che alcuni canti a solo del Coro, in cui si celebrano momenti di gioia e di speranza, ricorrano in punti cruciali del dramma, poco prima di eventi tendenzialmente catastrofici, che vanno a sovvertire il contenuto dei canti stessi. Tutto ciò viene connotato come una pratica corale sofoclea alquanto distintiva, che lega lo stasimo all’intreccio e rende la par-tecipazione corale «essentially dramatic»48, poiché, pur non influendo tangibilmente sul procedere degli eventi in scena, in ogni caso vengono espressi dei sentimenti che scaturi-scono da un ruolo “personale”, manifestazione di un interesse specifico verso l’azione drammatica.
45
Cfr. Kranz (1933), p. 174.
46 In accordo al giudizio aristotelico, p. es., Kitto (1954) afferma che Sofocle ha reso il Coro «always
drama-tic», aggiungendo che «it can no longer surround and control the action but it is always concerned in it», p. 165.
47 Kirkwood (1958), p. 5. 48
Ivi, p. 9. Per quanto tale tecnica drammatica venga considerata in accordo con una delle caratteristice tipiche dello stile di composizione delle odi, «the technique can be regarded as distinctively Sophoclean for two reasons: because Sophocles’ odes much more consistently fulfil this function and because, where the same basic function can be discovered in both Sophocles and Euripides, the odes of Sophocles almost always have a much sharper impact on the action», p. 10.
18 Altre numerose osservazioni si potrebbero fare, sulla base dei testi rimastici, in me-rito alle diverse caratteristiche dei Cori sofoclei49, fra cui il fatto che non compaiono mai come protagonisti del racconto mitico, a differenza di quanto accade in Eschilo, mentre spesso presentano degli stretti legami con uno degli attori principali. Si è preferito, finora, rendere conto principalmente degli studi critici che insistono sull’assimilazione corale con il ruolo dei personaggi, in quanto questa visione rispecchia una tendenza interpretativa al-quanto diffusa nella trattazione del Filottete; Esposito considera questo dramma come un punto di svolta nello sviluppo del genere tragico, in particolare per essere «the Sophocles’ least lyrical play», mentre Gardiner afferma che «the chorus of Philoctetes are particularly unusual because they apparently have been assigned the role of the deceitful character»50. Come si è già avuto modo di accennato nell’introduzione, tuttavia, da parte di alcuni inter-preti, che pur ammettono il coinvolgimento del Coro nell’inganno, non sono mancate le ipotesi che lo vedono come un mezzo utilizzato dal poeta per mettere in luce alcuni aspetti ulteriori della trama o della mentalità dei protagonisti, in particolare nel caso dello stasimo. Su tutto questo si tornerà nel corso della trattazione, che ora conviene proseguire fornendo qualche breve cenno sull’opera in esame.
49 Una recente articolo in cui queste vengono discusse, tenendo presente anche i diversi contributi critici del
passato, è quello di Murnaghan (2012), vd. sp. p. 234.
50
19
2. Filottete – Il mito e la sua forma teatrale
La vicenda mitica che riguarda l’eroe greco Filottete ha le sue prime attestazioni nei poemi omerici, anche se nell’Iliade e nell’Odissea la sua storia rimane marginale e alcune delle sue rare menzioni possono far pensare a inserti tardivi51. Uno spazio ben maggiore gli viene dato nei Cypria e nella Piccola Iliade, attribuita dalla tradizione a Lesche di Mitile-ne, opere delle quali conosciamo, in parte, il contenuto grazie ai tardi riassunti di Proclo. È dal ciclo epico troiano che i tre grandi tragediografi ateniesi Eschilo Euripide e Sofocle, in-sieme a qualche altro poeta minore, attingono il materiale per i loro drammi, nei quali por-tano in scena principalmente la parte finale della saga. Questa si può scomporre, per sommi capi, in alcune fasi distinte; innanzitutto l’antefatto, che vede l’aggregarsi di Filottete alla spedizione Achea, come viene ricordato nel Catalogo delle navi iliadico52, e che compren-de l’incicompren-dente avvenuto durante il viaggio verso Troia, quando l’eroe viene morso da un serpente sacro, mentre si appresta a compiere un sacrificio. In conseguenza di ciò, il ferito viene abbandonato nell’isola di Lemno, a causa del fetore emanato dalla piaga e dello scompiglio che provocavano i suoi lamenti53. Al fine di giustificare l’assenza dell’eroe sot-to le mura della città di Priamo, nel Catalogo viene ricordasot-to anche quessot-to episodio:
ἀλλ’ ὃ μὲν ἐν νήσῳ κεῖτο κρατέρ’ ἄλγεα πάσχων Λήμνῳ ἐν ἠγαθέῃ, ὅθι μιν λίπον υἷες Ἀχαιῶν ἕλκεϊ μοχθίζοντα κακῷ ὀλοόφρονος ὕδρου·54
(Il. 2.716-21) con la descrizione di quella che poi diverrà una delle caratteristiche principali legate alla rappresentazione del mito, lo strazio fisico cagionato dal suo male. Nove anni dopo l’abbandono, una profezia rivela all’esercito greco che senza l’arco invincibile di Filottete, dono di Eracle, la città di Troia non sarebbe caduta. Per questo motivo viene organizzata una spedizione, sui cui componenti le fonti discordano, al fine di recuperare l’eroe e le sue armi; secondo quanto riporta Apollodoro (Epit. 5.8-11) furono Odisseo e Diomede, a
51 Cfr. Avezzù (1988), p. 33, e passim per un approfondimento sulla ricostruzione del mito di Filottete e la
sua trattazione sulla scena attica, con una completa rassegna delle fonti letterarie.
52 Il. 2.716-20: «Οἳ δ’ ἄρα Μηθώνην καὶ Θαυμακίην ἐνέμοντο / καὶ Μελίβοιαν ἔχον καὶ Ὀλιζῶνα τρηχεῖαν, /
τῶν δὲ Φιλοκτήτης ἦρχεν τόξων ἐῢ εἰδὼς / ἑπτὰ νεῶν· ἐρέται δ’ ἐν ἑκάστῃ πεντήκοντα / ἐμβέβασαν τόξων εὖ εἰδότες ἶφι μάχεσθαι», “Quelli che avevano Metone e Taumacia e Melibea tenevano, e Olizone selvaggia, questi guidava Filottete esperto con l’arco, sette navi: ciascuna cinquanta imbarcati, ai remi, esperti a combat-tere con l’arco”, trad. Avezzù (1988), p. 159.
53 La prima ragione è riferita da Proclo, nei Cypria, la seconda la si trova in Soph., Phil. vv. 8-10.
54 “Ma egli nell’isola giaceva, preda di forti dolori / a Lemno, la sacra, dove l’abbandonarono i figli degli
20 guito della predizione di Calcante, a impadronirsi con l’astuzia dell’arco e a convincere l’eroe a tornare a combattere, mentre nel riassunto di Proclo della Piccola Iliade il vatici-nio viene fatto da Eleno e a Lemno viene mandato il solo Diomede. A epilogo di queste vi-cende, Filottete, tornato al campo di battaglia55 viene guarito grazie all’intervento del me-dico Macaone e successivamente uccide Paride con una delle sue frecce.
2.1 Il Filottete sulla scena tragica precedente a Sofocle
Come già anticipato, con il racconto del ciclo epico troiano si confrontarono i drammaturghi del V secolo, che ripresero più volte il mito di Filottete e delle sue invincibi-li armi, tanto che fra i soggetti tragici questo risulta uno dei più praticati, segno che l’intera vicenda, o uno o l’altro dei suoi nuclei, esercitavano un notevole fascino sul pubblico ate-niese. Tra i fattori che determinarono questo successo, senza dubbio è da annoverare la pe-culiarità della figura del protagonista, terribile emblema dello sradicamento dalla comunità, rappresentato come un uomo lacero, vestito di stracci, dilaniato dal dolore per la ferita in-curabile, zoppo e costretto a cibarsi della cacciagione che gli viene procurata dalle sue ar-mi, la sua garanzia di sopravvivenza. È proprio l’arco a connotarlo e a divenire un oggetto quasi inscindibile dal suo possessore, come denuncia anche lo stesso nome dell’eroe, Φιλοκτήτης, da φίλος e κτῆμα, “colui che ama il possesso”56
; questo rapporto indissolubile diviene un fattore di resistenza alle possibili varianti drammatiche sul personaggio, che ac-quista un’immagine di sé monocorde e in parte stereotipata. Per queste ragioni, in aggiunta alla difficoltà di doversi confrontare con una vicenda prevalentemente statica, gli autori che ne hanno trattato il mito hanno dovuto dimostrare grande ingegno e abilità57, dandone prova con la rielaborazione dei caratteri secondari, nello specifico gli esponenti della co-munità che respinse l’eroe e che poi necessitò di reintegrarlo, agendo drammaturgicamente sugli aspetti del suo recupero. Questo per quanto riguarda le opere che ebbero come sog-getto la spedizione a Lemno, scelta dai tre grandi Eschilo, Euripide e Sofocle, e da
55
Oltre alle fonti di cui si è accennato, e per le quali si rimanda ad Avezzù (1988), spec. pp. 38-43, il suo ri-torno a Troia viene citato anche da Pindaro, Pyth. 1, 101 ss., e nello scolio al verso 100.
56 Definizione di Avezzù (1988), p. 51, che preferisce “possesso” a “guadagno” o “appropriazione”, cfr. nt.
24, p. 81. In Soph., Phil. vv. 671-73, il poeta gioca con l’etimologia del nome, «opponendo al sommo ktêma il guadagno di un philos», ibid., in funzione del piano ingannevole che viene ordito alle spalle del protagoni-sta.
57 La trama segue uno sviluppo estremamente lineare e, come afferma Goethe, «il compito, di fronte a questo
soggetto, era assai semplice e cioè: andare nell’isola di Lemno e riportarne Filottete e il suo arco. Affare del poeta era però quello di rappresentare come ciò avviene, e in questa rappresentazione ognuno poteva fare meglio dell’altro», trad. di G. V. Amoretti, cit. in Avezzù (2003), p. 234.
21 te58, uno dei più importanti poeti tragici del IV secolo; parallelamente, Sofocle e alcuni mi-nori, Acheo, forse Filocle e l’Anonimo del Papiro di Ossirinco fr. 321659, rappresentano, in vari Filottete a Troia, la parte finale della saga, con il protagonista forse già guarito e vitto-rioso dopo lo scontro con Paride. L’antefatto immediato, ossia il ferimento presso l’altare, forse fu messo in scena nella tragedia Tenes, di cui ci rimangono pochi frammenti papira-cei, attribuiti a Eschilo ma difficilmente identificabili con alcuno dei titoli attribuitigli dalla tradizione60. Veniva qui trattata l’uccisione di Tenes e la devastazione di Tenedo ad opera degli Achei, un episodio che si conclude con il ferimento di Filottete, incaricato di guidare i sacrifici d’espiazione61
, e il cui resoconto si trova nell’Epitome alla Biblioteca di Apollo-doro (3, 26-27 e 5, 8-11) e in Plutarco (Quaest. Gr. 28).
2.1.1 Il Filottete nei drammi di Eschilo e di Euripide
Limitando l’approfondimento, nella presente trattazione, alle opere che diedero forma teatrale alla storia di Filottete a Lemno, per un paragone con il dramma sofocleo in esame, è necessario preludere che la documentazione inerente alle tragedie di Eschilo ed Euripide sarebbe eccessivamente scarna allo scopo, se non fosse per la disponibilità d’un osservatorio eccezionalmente privilegiato. Questo è dato da un resoconto stilato intorno al 100 d.C. da Dione di Prusa, il quale nella sua orazione LII pone a confronto il Filottete dei tre tragici, fornendo, inoltre, la parafrasi in prosa del prologo del dramma euripideo, nell’orazione LIX. Grazie a queste testimonianze, insieme all’ausilio dato dai frammenti e da altri indizi, è possibile tentare la ricostruzione dell’ossatura dei due drammi perduti62, avendo presente che l’opuscolo dioneo fornisce delle informazioni parziali, essendo stato scritto senza l’intenzione di dare una conoscenza diretta dei testi, la quale era già presup-posta. Il soggetto comune, individuato dall’oratore, è il furto dell’arco, o meglio la sua
58
Theodectes 72, TrGF I, frr. 5BI, 5bII, 15.
59 Acheus, TrGF I, frr. 37, 44, 45 e P.Oxy. XLV, 3216292 ed. Haslam = TrGF II, Adesp. fr. 654.
60 Il frammento più esteso è P.Oxy. 2256, fr. 53; che la tragedia Tenes sia da considerare fra quelle che
narra-no le vicende di Filottete è ipotesi di Mette (1963), cit. in Avezzù, p. 44.
61 Il sacrificio venne organizzato per stornare la rabbia di Apollo da Achille, che uccise Tenes. Una seconda
versione del mito, riportata successivamente anche da Sofocle (vv. 192-4, 268-70, 1326-28), vede il rito ce-lebrato nell’isolotto di Crise, davanti al simulacro della dea Crise, il cui guardiano è la serpe che arreca a Fi-lottete la ferita divina e insanabile.
62
Le fonti sul Filottete di Eschilo sono principalmente l’orazione LII e Aspas., Comm. in Aristotelis EN VII 8, nonché un frammento di hypothesis in P.Oxy. 2256.5, mentre per Euripide le testimonianze sono raccolte nei TGF da Nauck, frr. 787-803. Per un approfondimento sulla ricostruzione della trama dei due drammi, ol-tre ad Avezzù (1988), pp. 99 ss., cfr. i due articoli della Luzzatto (1980 e 1983), spec. in relazione alle due orazioni dionee.