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6. I due kommoi finali

6.1 L’inno al Sonno – strofe (vv 827-38)

Χο. Ὕπν’ ὀδύνας ἀδαής, Ὕπνε δ’ ἀλγέων, στρ. εὐαὴς ἡμῖν ἔλθοις, εὐαίων, εὐαίων, ὦναξ· ὄμμασι δ’ ἀντέχοις 830 τάνδ’ αἴγλαν, ἃ τέταται τανῦν. ἴθι ἴθι μοι, παιών. ὦ τέκνον, ὅρα ποῦ στάσῃ, ποῖ δὲ βάσῃ, πῶς δέ μοι τἀντεῦθεν φροντίδος. ὁρᾷς ἤδη. 835 πρὸς τί μενοῦμεν πράσσειν; καιρός τοι πάντων γνώμαν ἴσχων πολύ τι πολὺ παρὰ πόδα κράτος ἄρνυται. 

241 A tal proposito, sono state formulate dalla critica alcune interessanti osservazioni sulla relazione fra le

forme metriche del passo, prevalentemente docmiache, che di solito si trovano impiegate per esprimere forte eccitazione, e il livello semantico del testo della prima metà della stanza, un aspetto del quale si parlerà diffu- samente più avanti, cfr. infra, pp. 91-92.

242 Questo stacco fra la prima mezza strofe e quanto segue è stato evidenziato come «one of the harshest di-

scords one could find in Greek poetry» da Winnington-Ingram (1980), p. 287.

827. ἀλγέων: ἀχέων G ἄλγεος Hermann 828. εὐαὴς codd. pler.: εὐαὲς Wunder (ἀλγέων cum voc. εὐαὲς

coniunges contra auctoritatem Eustathii, qui etiam ad ἀλγέων retulit ἀδαής), obl. Hermann εὐμένης (sic) GRQpc 829. εὐαίων bis T, i.e. Dem. Triclinius propter metrum, edd.: semel rell., cum quibus consentit Bergk, cf. ad v. 844 sq. | ὦναξ: ἄναξ V, coni. Wilamowitz p. 347 nt. 1 830. ὄμμασι KSVTrz: ὄμμασιν La | ἀντέχοις codd., probat ΣL in lemmate et in textu: ἀντίσχοις Musgrave (edd. pler. Hermann secuti, obl. El- lendt Webster Wilamowitz) ἀμπίσχοις Burges 831. αἴγλαν: ἀχλὺν Reiske e sch. 832. ἴθι ἴθι μοι: ἴθι μοι ἴθι μοι Q ἴθιμι ἴθιμι R ἴθι ἴθι Zo ἴθι δ’, ἴθι μοι Bergk (παιήων pro παιών) 833. ποῦ: γε ποῦ Τ γε πῶς Qac 834-5. Δέ utrumque del. Dale, Webster | βάσῃ· … φροντίδος; … ἤδη; sic cum aliis interpunxit Ka- merbeek 834. Respondet v. 850, alterutrum corruptum censet Dawe; loccus varie temptatus, e. g. ποῖ δὲ βάσει, τὰ γ’ ἔνθεν Wecklein (~ κεῖνό μοι, κεῖνο λάθρᾳ) ποῖ βάσῃ, πῶς μοι τἀντεῦθεν Webster (κεῖνό μοι, κεῖνο δὴ λάθρᾳ) ποῖ δὲ βάσει secl. M. Schmidt (~ λάθρᾳ κεῖν’) | ποῖ LSVTaz: ποῦ Kr σοι Schubert, Blay- des 835. ὁρᾷς: οὖρος Erfurdt | ὁ. ἤδη: ὁ.; εὕδει Herwerden 836. μενοῦμεν: μένο- Erfurdt (propter ὃν v. 852) 838. πολύ τι πολὺ τι Hermann: κράτος πολλοῖς Wolff, coll. sch. (ὁ καιρὸς … πολλοῖς εὐδοξίαν σύνεγγυς παρέχει) κράτος αἴσιον vel sim. Campbell | πόδας QT

87 “Sonno ignaro d’angoscia, Sonno che non conosci i dolori, / giungi a noi favorevole, pro- pizio, / signore beato! Mantieni sugli occhi / questo bagliore, che ora si diffonde! / Vieni, vieni a me guaritore. / Figliolo, guarda dove stare, / verso dove ti dirigi, com’è da ora / il mio pensiero. Oramai lo vedi. / A che scopo aspetterai di agire? / Il momento opportuno, che trattiene giudizio di ogni cosa / in maniera repentina ottiene una grande, grande vitto- ria.”

Schema metrico strofe-antistrofe

827 / 843 4 da

828-9 / 844

2 do

830 / 845-6 2 do

831 / 847 mol + do

832 / 848 do kaibel. (pros dochm.)

833 / 849 ia + mol (2 ia sync.)

834 / 850 || cr + ia + mol

835 / 851 ia + sp (2 ia sync.)

836 / 852 || cho + mol

837 / 853 mol + mol + mol 838 / 854 ||| 2 do

Una premessa, necessaria alla trattazione del contenuto del passo, va fatta riguardo all’aspetto metrico, che nel dettaglio causa qualche problematica, legata inevitabilmente con le scelte di ricostruzione testuale. Senza dubbio è facile riscontrare una combinazione di elementi dattilici, docmiaci e di giambi sincopati, ai quali si associano, quasi in ciascun verso, dei molossi ( . Approfondendo l’analisi delle singole forme metriche, le diffi- coltà interpretative maggiori coinvolgono principalmente il verso d’apertura e la respon- sione fra i vv. 834/850. La strofe, infatti, si apre con un tetrametro dattilico che termina con uno spondeo (ἀλγέων), in una responsione insolita con il verso 843, , (ὄψεται), in sinafia con i successivi243. Seguono quattro sequenze docmiache, un molosso, un altro docmio e un colon particolare, interpretabile come un docmio kaibeliano con il primo lon-

243 Dale (1968), p. 117, trova una giustificazione dell’abnormal responsion di questi versi nell’eco presentata

dall’epodo, vv. 860-1, dove si susseguono due tetrametri dattilici, dei quali il primo finisce con l’inusuale mentre il secondo con un dattilo , in sinafia con il seguente dim ia.

88 gum soluto (vv. 832/848). Per quanto riguarda la seconda questione menzionata, riguardan- te i vv. 834/850, la problematica è data sia dalla difficoltà di nominare con precisione i loro costituenti metrici244, sia dalla differente estensione fra la strofe e l’antistrofe, come si ve- drà nel corso dell’analisi testuale. Il finale della coppia strofica è caratterizzato da una lun- ga sequenza di elementi lunghi e da un dimetro docmiaco che presenta numerose soluzioni e una chiusa cretica. Il ritmo della prima metà della stanza si caratterizza, così, per una ca- denza lenta, grave, un vero e proprio “rallentando”, creato dalla successione di sillabe lun- ghe nella parte conclusiva delle sequenze, mentre nella sezione successiva, quando il Coro inizia la sua esortazione, il ritmo diviene concitato, quasi frenetico, grazie alle sequenze giambiche catalettiche, interrotte soltanto dai tre molossi consecutivi che al v. 837 segnano l’inizio della gnome conclusiva. È stato notato dagli interpreti come questa peculiarità me- trico-ritmica si articoli coerentemente con il contenuto semantico del testo, in quanto le pa- role carezzevoli dell’iniziale “ninna nanna” vengono accompagnate dall’andamento del canto, grazie alle chiuse molossiche che frenano l’abituale impetuosità dei docmi245. Per queste ragioni, il passo viene spesso portato ad esempio nella vexata quaestio di una carat- terizzazione dell’ethos dei metri, ossia del tentativo di individuare «una precisa e costante corrispondenza di determinati versi o cola con i sentimenti, le situazioni, le azioni rivelati dal testo»246. Questa caratteristica, solitamente attribuita al ritmo musicale, è stata negata per le singole forme metriche247 anche alla luce delle osservazioni che sono state fatte sulla diversa realizzazione possibile del docmio, come si è constatato nel caso del brano lirico in questione. Senza addentrarsi troppo in queste problematiche, che esulerebbero eccessiva- mente dal percorso di questo elaborato, si avrà modo di tornare in seguito sulla varietà rit- mica di questi versi in relazione alla coerenza e unitarietà del canto, di cui ora converrà af- frontare più nel dettaglio il contenuto.

La prima metà della strofe, come già accennato, è occupata da un inno cletico, si apre infatti con l’invocazione del Sonno, seguita dalla richiesta di un suo intervento benefi- co per Filottete, esausto dal dolore. Pur essendo una creazione letteraria, il linguaggio e il

244

Dale (1968) nota come il v. 834 oscilli improvvisamente «into ordinary epitrites», p. 117.

245 In particolare, questo aspetto è stato approfondito da Pretagostini (1990), in un contributo sull’interazione

fra parola e metro in cui si sottolinea la necessità di studiare la realizzazione concreta delle forme metriche in relazione ai diversi livelli semantici in cui si articola il canto, poiché gli stessi metri e gli stessi cola possono dare adito a verse instances ritmicamente assai diversi. Cfr. anche Andreatta (2007), la quale definisce tale aspetto come il “motivo dell’apparente dissonanza”, p. 59.

246 Pretagostini (1990), p. 109.

247 Cfr. le osservazioni di Rossi (1969), pp. 320-21, il quale evidenzia come non ci sia testimonianza di una

siffatta corrispondenza nelle testimonianze degli antichi, dove si parla solo di una teoria musicale etica fonda- ta sui ritmi.

89 tono del passo riproducono un canto dal carattere liturgico, in quanto Ὕπνος era anche una divinità e il suo culto presenta delle tracce, anche se piuttosto esigue, riscontrabili a Treze- ne e nella sua relazione con il dio Asclepio248. Quest’ultimo, fra l’altro, verso la fine del dramma verrà indicato da Eracle come colui che curerà la ferita di Filottete, una volta giun- to a Troia (vv.1437-8), e al suo culto fu associato strettamente lo stesso Sofocle, aperto al clima sincretistico che iniziava a diffondersi nell’Atene dell’epoca. Dunque, come si vedrà meglio anche in seguito, in merito alla figura divina invocata dal Coro si possono eviden- ziare delle interrelazioni significative con altri aspetti del dramma e numerose sono le os- servazioni che si possono fare riguardo a questi pochi versi, a partire dalla loro forma. In- nanzitutto, il doppio vocativo del nome (Ὕπν(ε)…Ὕπνε v. 827) e l’invito a sopraggiunge- re (ἡμῖν ἔλθοις v. 829) sono tipici del genere innodico, mentre peculiari del linguaggio ri- tuale sono le frequenti ripetizioni (εὐαὴς… εὐαίων vv. 829-30; ἴθι ἴθι v. 832), su cui si tor- nerà parlando del ritmo. Nello specifico, è stato notato che la preghiera allude ed interagi- sce con una precisa tipologia della lirica corale, il peana249, un canto in onore di un dio παιών (qui al v. 832), “guaritore” o “soccorritore”, epiteto generalmente associato ad Apol- lo e successivamente anche ad altre divinità250. L’appellativo ὀδύνας ἀδαής … ἀλγέων (v. 827)251, invece, non è cultuale ma presenta una significativa e gradevole allitterazione, funzionale alla tonalità del canto, e lo stesso si può dire per l’aggettivo εὐαὴς, letteralmente dal senso concreto di “con vento a favore”252, qui da intendere metaforicamente come “fa- vorevole”. A partire dalla proposta di Hermann alcuni editori, fra cui Jebb (1962), Webster (1974) e Kamerbeek (1980), hanno corretto il nominativo con il vocativo εὐαὲς, con ᾰ, considerando il verso come una sequenza di coriambo e molosso, richiamando il v. 760 in cui vi sarebbe una simile attrazione dei due casi. Tuttavia l’ᾰ breve in questo aggettivo è difficile da accettare, mentre l’uso del nominativo per il vocativo non crea difficoltà (vd.

248 Del culto del Sonno a Trezene ne parla Pausania (II, 31, 3), il quale racconta di aver visto una sua imma-

gine anche vicino all’Asklepeion a Sicione (Paus. II, 10, 2); ad Atene, invece, la presenza di Ὕπνος a fianco di Asclepio e di Hygieia è attestata da un’iscrizione (CIA III, 132 a), che si può ricondurre a un culto tradi- zionale. In merito cfr. Haldane (1963), p. 54.

249 Per un confronto approfondito fra le caratteristiche comuni del passo in questione e quelle tipiche di que-

sto genere innodico, a cui si può aggiungere anche l’utilizzo del verso dattilico, cfr. Haldane (1963). Per la presenza del peana in tragedia, cfr. anche Rutherford (1994/5), pp. 127 ss., e Swift (2010), pp. 61-103.

250 Per la precisione, con peana si intende un canto, intonato per favorire una guarigione o per la celebrazione

di vittorie e matrimoni, in onore di Παιάν, il “Guaritore”, un appellativo che in origine sembra indicasse una divinità indipendente (Il. 5, 401 e 899-10), solo successivamente identificata con Apollo e poi, soprattutto nell’Atene classica, anche con Asclepio.

251

Sulla semantica dei due termini, Perrotta (1965): «Tra ὀδύνη e ἀλγος sembra doversi far differenza: ὀδύνη è la sofferenza fisica, ἀλγος è termine generico per ogni male, fisico e morale», p. 443. Inoltre, la formula ricorda la lode di Asclepio in Hom. Hymn. 16,4, κακῶν θελκτῆρ’ ὀδυνάων.

252 Cfr. Hes. Op. 599, dove significa “well ventilated”, così in LSJ (1996) s.v. εὐαὴς. Il significato concreto lo

90 vv. 530-2), pertanto non vi è alcuna esigenza di modificare il tràdito. L’aggettivo εὐαίων, “felice”, ma anche “che dona felicità”, a differenza del primo, lo si trova già in Eur. Ion, 125-7, ripetuto due volte, come epiteto di Παιάν. Qui la ripetizione al v. 829, presente in T, è probabile integrazione tricliniana per ristabilire la responsione, concordemente accettata dagli editori e in parte suffragata dalla doppia occorrenza di βαιάν ai vv. 844-5. Qualche difficoltà, questa volta di tipo interpretativo, si viene a creare anche in merito alla richiesta fatta al Sonno di “mantenere sugli occhi questa luce”, ὄμμασι δ’ ἀντέχοις τάνδ’ αἴγλαν (vv. 830-1)253, che molti studiosi hanno cercato di spiegare antifrasticamente, per intendere la diffusione del buio oppure l’allontanamento della luce del sole254, in accordo alla logica as- sociazione delle tenebre al riposo. Poiché queste proposte si appoggiano a quella che sem- bra essere un’eccessiva forzatura di significato, alcuni hanno proposto un riferimento di αἴγλη alla serenità del sonno di Filottete (Kamerbeek, 1980, ad loc.), mentre altri la inter- pretano come una dreamlight, che illumina le visioni avute in sogno (Jebb, 1962, ad loc.); infine, si può ipotizzare che la luce indichi la presenza del dio, in quanto le divinità riful- gono, anche se i mortali non lo vedono, e di conseguenza questa affermazione sarebbe da intendere: “possa tu essere sempre qui, con la tua luce sui suoi occhi” che ora sono chiusi nel buio del sonno. Oltretutto, la luminosità e lo splendore sono elementi tipici del peana, in linea con con il significato generale della luce come simbolo di vita e salute, tanto che Αἴγλη è spesso indicata come la figlia di Asclepio e ἀγλαός compare fra i suoi epiteti255

. Al v. 832, cantando il ritornello peanico ἴθι ἴθι μοι, παιών, “vieni, vieni a me guari- tore”, il Coro si identifica nuovamente con il destinatario del Sonno; tuttavia, poiché chia- ramente non sono i marinai a necessitare in prima persona del suo intervento ristoratore, nonché alla luce della successiva esortazione ad agire, l’invito contenuto nella preghiera può essere interpretato come se fosse stato formulato in vista del possibile vantaggio deri- vante dall’incoscienza di Filottete256. A questo punto, è possibile ricordare un’altra situa- zione simile, nella quale Ὕπνος risulta ugualmente coinvolto nella messa in atto di un in-

253

Il verbo ἀντέχοις, attestato dall’intera tradizione manoscritta, viene da alcuni corretto in ἀντίσχοις, per ri- pristinare un’esatta responsione con 845 e sulla scorta dello ΣL. Tuttavia, anche alla luce del fatto che nella

spiegazione al lemma del medesimo scolio compare la forma ἀντέχοις, la correzione non sembra necessaria, cfr. Avezzù (1999).

254 Cfr. Ellendt (1872), s.v. αἴγλη.

255 Αἴγλη è attestata come la madre di Asclepio, compagna di Apollo, in Isillo, Peana 46 (Powell 134), anche

se più spesso compare nel ruolo di figlia, cfr. Haldane (1963), p. 55, Webster (1974), ad loc. e Swift (2010), pp. 68-69, sp. nt. 27 per le relazioni di parentela delle due divinità e nt. 24 per le ricorrenze di ἀγλαός epiteto di Asclepio. Sulla questione generale di come è possibile interpretare τάνδ’ αἴγλαν nel passo, cfr. Pearson (1911).

256 La presenza dei dativi etici ἡμῖν e μοι, anche se con questa lettura potrebbe sembrare che segnalino il cini-

co interesse personale del Coro nell’invocazione, sono in ogni caso elementi comuni dell’inno cletico, cfr. Burton (1980), p. 41.

91 ganno e si trova altresì connesso con Lemno. Si tratta dell’episodio iliadico della Διὸς Ἀπάτη, lo stratagemma che Era mette in atto per addormentare il consorte e permettere ai Danai di riprendere vantaggio nella guerra di Troia. La dea si recò nell’isola e «là s’incontrò col fratello della Morte, col Sonno» e, affinché Poseidone potesse aiutare indi- sturbato gli Achei, gli chiese di addormentare «sotto le ciglia gli occhi splendenti di Zeus»257. Come se non bastasse, nella risposta che segue (Il. XIV, vv. 243 ss.) si trova indi- rettamente menzionata un’altra figura mitica, Eracle, che fu messo in una difficile situazio- ne da Era mentre il divino padre era stato indotto a dormire, e non è da escludere che anche questa eco letteraria sia da cogliersi. L’elemento mitologico nel passo lirico in questione, dunque, alludendo all’episodio omerico citato, assumerebbe una sfumatura di significato ulteriore, che va al di là della sua immediata pertinenza al contesto drammatico e che si in- serisce in questa fitta rete di riferimenti che arricchiscono la prima parte del kommos258.

La doppia finalità del Coro nella sua convocazione di Ὕπνος, come guaritore ma anche come complice dell’inganno, si enfatizza con l’urgenza che caratterizza la seconda metà della strofe, in cui si invita Neottolemo a considerare (ὅρα v. 833; ὁρᾷς v. 835) quale azione sia opportuno seguire. Il v. 834, ποῖ δὲ βάσῃ, πῶς δέ μοι τἀντεῦθεν, è stato messo fra cruces da Dawe (1996) poiché presenta una serie di problematiche, in primis una re- sponsione difettosa con il v. 850, che potrebbe essere causata sia da un’interpolazione nella strofe sia da un’omissione nell’antistrofe, con la conseguente necessità di operarvi un’integrazione259

. A ciò si aggiunge la difficoltà interpretativa data dal μοι, al posto del quale Lloyd-Jones – Wilson stampano σοι, accolto anche da Ussher (1990); volendo man- tenere il testo tràdito, anche alla luce dei vv. 135, 137, 142, 152 nella parodo, si può rende- re “(guarda) com’è da ora il mio pensiero”, sottintendendo il verbo essere, ma rimane la difficoltà del perché il Coro includa, a questo punto, la raccomandazione di prestare atten- zione a quella che sarà la sua opinione d’ora in avanti. Schein, invece, suggerisce che i ma- rinai vogliano far realizzare a Neottolemo quali saranno le sue prossime azioni, desideran- do sapere, con questa domanda, quali dovrebbero essere i loro pensieri per aiutarlo: «Child,

257 Il. XIV, vv. 231 e 237, trad. di G. Paduano. Da notare che in questo caso Sonno copre la brillantezza dello

sguardo, a differenza di quanto visto nel passo in questione.

258 Cfr. Burton (1980), p. 242 e Jones (1949), pp. 83 ss., il quale sottolinea come il collegamento fra l’ode e

l’episodio omerico fosse già stato notato dai commentatori antichi. Infatti, fra le spiegazioni del perché Era vada a cercare Ὕπνος proprio a Lemno ce n’è una, riportata nello scolio al ms. Townleianus, che giustifica la sua presenza nell’isola menzionando Filottete e gli appelli lanciati da quest’ultimo in preda alle sofferenze: οἱ δὲ ὅτι Φιλοκτή της ἐδεῖτο αὐτοῦ εἶναι ἐκεῖ διὰ τὰς ὀδύνας (schol. ad v. 231). Il riferimento linguistico τὰς ὀδύνας fa pensare che lo scoliasta avesse in mente proprio la lirica sofoclea.

259 Jebb (1962) ritiene che la mancanza di un verbo al v. 834 per πῶς δέ μοι τἀντεῦθεν segnali come la corru-

zione sia da cercarsi qui e propone ποῖ δέ μοι τἀνθένδε βάσει, vd. ad loc. Per ulteriori suggerimenti di emen- dazione si rimanda all’apparato critico e infra, nel commento all’antistrofe.

92 look where you will stand, and where you direct your steps, and how (there should be) a care for me (i.e. ‘what I should be concerned with’) in respect to things from this point on»260. In ogni caso viene sottolineato come non si debba rimandare l’azione, πρὸς τί μένοῦμεν πράσσειν; (v. 836)261

, poiché si sta presentando una buona occasione per scam- pare alle difficoltà che si presenterebbero al giovane dopo il risveglio di Filottete. Un’altra personificazione occorre in queste righe, quella di Kαιρός (v. 837), come indica la metafo- ra κράτος ἄρνυται (v. 838) e l’espressione γνώμαν ἴσχων (v. 837), che Jebb (1862), ad loc., chiosa come sinonimo di πάντα γιγνώσκων, «taking cognisance of all things, – discerning, in every case, whether the circumstances warrant prompt action», mentre Kamerbeek (1980) preferisce intendere γνώμη come “decisione”, quindi Kαιρός “che decide ogni co- sa”.

Segue l’intervento di Neottolemo, proferito in esametri dattilici, il verso tipico dell’epica e dei responsi oracolari, un elemento che potrebbe apparire non casuale, dato che il giovane figlio di Achille ricorda il contenuto della profezia di Eleno, per la quale an- che Filottete deve essere presente a Troia, non solo il suo arco262. Egli rifiuta, dunque, l’implicito suggerimento della sua ciurma, espresso in una forma «coperta e censurata»263

, poiché le parole del Coro rimangono sempre allusive e né l’arco né la partenza dall’isola sono mai citati esplicitamente. Soltanto alla luce dell’interpretazione fornita da Neottolemo nella sua risposta, infatti, è possibile individuare il piano proposto dai marinai, quello di scappare con le armi e abbandonare il loro proprietario. Questo intervento del giovane co- mandante è stato definito «his first moment of conscious moral action»264, mentre secondo altri interpreti Sofocle ha evitato di dare una chiara connotazione morale a questi versi, na- scondendo la compassione verso Filottete dietro alle parole profetiche del responso divino. Probabilmente, quello che viene qui espressa è una chiara visione della situazione, accom- pagnata dalla pragmatica preoccupazione su ciò che deve essere fatto per vincere la guerra di Troia e, di sicuro, per la prima volta la menzogna viene considerata un’infamia, sia che serva a portare a termine l’azione, che a sostenere il vanto dell’incompiutezza della stessa.

260

Cfr. Schein (2013), ad loc., p. 250.

261 Alcuni editori, fra cui Lloyd-Jones – Wilson e Schein, correggono qui μενοῦμεν con μένομεν per ripristi-

nare una perfetta responsione (cretico + molosso) con il v. 852, dove preferiscono ὃν in luogo di ὧν, soste- nendo, inoltre, che in questo contesto il presente è più naturale e diretto rispetto al futuro. Per il mantenimen- to del tràdito e le diverse opzioni riguardo al testo dell’antistrofe, cfr. Avezzù (2000), p. 52.

262

«Certo costui non sente niente, ma io vedo bene che vana / è questa preda dell’arco, se salpiamo senza di lui! / Sua è la corona della vittoria, il dio disse di portare lui! / Vantarsi d’azione incompiuta grazie a menzo- gne, / è il peggior disonore», vv. 839-42, trad. G. Cerri.

263 Cfr. Paduano (1982), p. 678, nt. 52. 264

93 Questo rifiuto del mentire potrebbe derivare anche dal possesso dell’arco, uno strumento che concede a Neottolemo anche la facoltà di rivelare l’inganno e che lo fa apparire, di fat- to, uscito dalla relativa passività e indecisione che lo avevano finora caratterizzato.