4. Gli interventi nel primo episodio
4.1 L’invocazione a Γῆ – strofe (vv 391-402)
Due versi dalla stessa funzione, di commento e conferma, non risulterebbero inatte- si anche alla fine del lungo racconto fraudolento che Neottolemo imbastisce per guada- gnarsi le simpatie di Filottete. Invece, dopo che il giovane ha espresso il suo fittizio odio nei confronti degli Argivi e di Odisseo, responsabile di avergli sottratto le armi paterne alla morte di Achille, il Coro interviene con un brano dal ritmo giambo-docmiaco, lungo non più di una decina di versi (vv. 391-402)135. Una delle particolarità di questo inserto lirico consiste nel suo essere la prima parte di una coppia strofica, seguita, a distanza di un centi- naio di versi di dialogo fra gli attori, da una corrispondente antistrofe (vv. 507-518). Diver- samente, nel caso in cui si configurasse come una stanza astrofica, tale forma di commento corale nel corso di scene dialogate non stupirebbe più di tanto, dato che anche altrove si trovano interventi simili136. Lo scopo principale dei coreuti sembra essere quello di sottoli- neare l’effetto prodotto dalle parole menzognere del proprio comandante e convincere l’ascoltatore della loro genuinità; per queste ragioni l’azione non viene in alcun modo in- terrotta da questo breve canto, anzi, l’intenzione è quella di compiere una mossa decisiva
portatori di una pietà solo verbale, e solo in un secondo momento viene espresso lo stesso sentimento, che risulta, così, nella stessa misura poco sincero.
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Riguardo alle varie posizioni in merito e alla lettura più immediata, ovvero che si tratti dell’espressione di un sentimento corrivo in linea con la caratterizzazione popolare del personaggio corale, vd. supra, p. 28.
134 Cfr. Kittmer (1995), pp. 21 ss. Lo stesso accadrà, in maniera più marcata, anche in seguito (v. 507), al
principio del canto che fa da antistrofe alla preghiera alla Terra, quando il Coro invocherà pietà per Filottete presso il suo comandante. In questo caso il tono sarà ancor più disturbante, in quanto, nello stesso momento in cui si piangono le sorti del protagonista, se ne tradiscono gli intenti.
135 Fra le motivazioni ricercate dalla critica per giustificare questo lungo intervento, al di là di quelle legate al
contenuto e di cui si discuterà infra, Kitto (1956), p. 115, propone che serva a dare alla scena nuova energia, opinione simile a quella di Adams (1957), p. 144 nt. 9, che vede la scena altrimenti troppo lunga.
136 Cfr. p. es., Soph. Trach. vv. 205 ss., Aesch. Prom. vv. 687 ss., oppure Eur. Suppl. vv. 918 ss. Per altri
esempi di canti corali infraepisodici cfr. De Falco (1928b) e, in particolare, sulla loro interazione con l’azione drammatica, cfr. Centanni (1991b). Su questo modulo d’intervento corale si avrà modo di discutere più ap- profonditamente, vedi infra, par. 4.3, p. 61.
52 allo stratagemma137, in un’enfasi partecipativa che si conforma del tutto alla presente situa- zione drammatica. Χο. ὀρεστέρα παμβῶτι Γᾶ, στρ. μᾶτερ αὐτοῦ Διός, ἃ τὸν μέγαν Πακτωλὸν εὔχρυσον νέμεις, σὲ κἀκεῖ, μᾶτερ πότνι’, ἐπηυδώμαν, 395 ὅτ’ ἐς τόνδ’ Ἀτρειδᾶν ὕβρις πᾶσ’ ἐχώρει, ὅτε τὰ πάτρια τεύχεα παρεδίδοσαν, ἰὼ μάκαιρα ταυροκτόνων 400 λεόντων ἔφεδρε, τῷ Λαερτίου, σέβας ὑπέρτατον.
“Tu montuosa, Terra che tutto nutri, / madre dello stesso Zeus, / tu che domini sul grande Pattòlo ricco d’oro, / te anche laggiù, madre veneranda, invocavo, / quando tutta la traco- tanza / degli Atridi lo raggiungeva, / allorché le armi paterne, o beata / seduta sui leoni sterminatori di tori, / consegnavano al figlio di Laerte, / gloria suprema.”
Il Coro si dichiara testimone dell’ignobile consegna delle armi paterne a Odisseo e per farlo invoca una divinità, riprendendo l’ultima battuta della rhesis di Neottolemo, il quale maledice gli Atridi che non hanno saputo imporre giustizia: […] ὁ δ’ Ἀτρείδας στυγῶν / ἐμοί θ’ ὁμοίως καὶ θεοῖς εἴη φίλος (“colui che odia gli Atridi sia caro a me come anche agli dei”, vv. 389-90). Questo coinvolgimento del divino nell’inganno si protrae, dunque, con l’appello a Ge, la Terra, sincretisticamente identificabile anche con Rea, la madre di Zeus, e soprattutto con Cibele Frigia, una dea di origini non greche, ma prove- niente dall’Asia Minore, il cui culto ufficiale venne introdotto ad Atene soltanto verso la fine del quinto secolo138. La divinità, definita dall’hapax παμβῶτις, con un richiamo impli-
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Così Burton (1980): «Sophocles replaces the normal two-line spoken comment after a long speech by a
ten-line sung strophe at 391 in order to enhance the effect of Neoptolemus’ lying speech and convince Phil- octetes that it is genuine», p. 232.
395. ἐπηυδώμαν: ἐξηυ- T 399. παρεδίδοσαν KTarz: παρα- L(sed παρε- ΣL), SV 401. Λαερτίου
LKSTaz, def. Andreatta: Λαρτίου Vr Nauck 402. Σέβας: γέρας Nauck
138 Il sincretismo religioso era molto diffuso negli anni in cui venne composto il Filottete, come testimonia
anche il canto di invocazione alla Dea Madre in Eur. Hel. vv. 1301-68, nel quale il Coro identifica Cibele, ὀρεία ... | μάτηρ θεῶν, con Demetra, familiare agli Ateniesi in particolare per il contesto dei misteri eleusini. La scelta di invocare, qui, proprio questa divinità potrebbe dipendere dal fatto che il suo culto era diffuso in
53 cito alle qualità nutritive dell’isola, fondamentali per la sopravvivenza di Filottete139, è rappresentata a cavalcioni (nello specifico mentre “siede sopra a”, ἔφεδρε) dei leoni “ster- minatori di tori” (ταυροκτόνων è un altro hapax), una descrizione che dà spazio anche ad ulteriori possibilità d’interpretazione del testo, evocate dalla diversa iconografia che vede la divinità a guida di un carro trainato dai maestosi felini o seduta su un trono decorato da queste fiere. L’invocazione presenta alcune delle tipiche caratteristiche della preghiera, fra cui il chiamare per nome l’invocato, ricordare le sue precedenti relazioni con l’orante e l’uso del verbo νέμω per indicare l’azione divina; nonostante ciò, non viene fatta alcuna esplicita richiesta, ma si ricorda soltanto che in passato la dea era stata chiamata ad assiste- re alla violenza dei capi degli Argivi.
Per quanto riguarda la forma stilistica, la breve stanza consiste di un’unica lunga frase, composta da diversi periodi metrici, caratterizzati da un ritmo giambo-docmiaco che simula una forte emozione, probabilmente sottolineata dagli animati movimenti di danza. La ripetizione di ὅτε a introdurre le due subordinate temporali conferisce un ulteriore effet- to patetico, accresciuto dall’appello parentetico alla dea dei vv. 400-1, un inciso che con- tribuisce, inoltre, a mettere in risalto il destinatario fraudolento delle armi, indicato dal pa- tronimico τῷ Λαρτίου. La distribuzione dei termini ha destato qualche dubbio interpretati- vo sulla sintassi del testo, poiché il nesso finale, σέβας ὑπέρτατον, si trova di molto distan- ziato dal sostantivo a cui funge da apposizione, τὰ πάτρια τεύχεα140, così come il dativo di termine è lontano dal verbo παρεδίδοσαν141, ma questa disposizione risulta comprensibile alla luce dell’enfasi di sdegno che si viene a porre su Odisseo.
Le perplessità maggiori, tuttavia, sono state sollevate nei confronti della legittimità della supplica, apparsa agli occhi di molti critici “eccessiva”, poiché sembra rasentare qua- si la blasfemia, apparendo inventata per l’occasione e andando a scomodare una divinità a
Asia Minore, comprendente la Troade, dove la dea avrebbe potuto dare ascolto alla preghiera anche in passa- to. Cfr. Schein, ad 391-3, che parla anche di una tradizione cultuale di Cibele, identificabile con la μεγάλη θεός, a Lemno.
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Cfr. Bers (1981) pp. 503-4. Lo studioso fa notare la relazione che sembra esserci fra gli epiteti attribuiti a Gea nell’apertura dell’invocazione e gli aggettivi che Filottete utilizza per descrivere la terra di Lemno, quando teme di morire di fame, abbandonato e privato delle sue armi, (1158-1161) in particolare viene messo in luce il richiamo a βιόδωρος (1161), citato anche da Jebb (1970), ad loc.
140 Tendenzialmente questa relazione appositiva non viene messa in discussione, anche se è stato variamente
ipotizzato che possa riferirsi alla dea, come secondo vocativo o in accordo a ἰὼ μάκαιρα. Kitzinger (2008) suggerisce che la posizione finale e isolata dei due termini possa portare l’uditorio a considerarli in riferimen- to all’intera stanza, alla rappresentazione dell’atto rituale, con una forte sfumatura ironica, essendo questa in- vocazione ingannevole. Cfr. p. 90, nt. 50.
141 Kamerbeek (1980), ad loc., sebbene non metta in discussione il ruolo appositivo di σέβας ὑπέρτατον alle
armi di Achille, non considera alcuna pausa sintattica dopo Λαρτίου, accordando il termine in primo luogo con questo nesso finale, “somma reverenza per il figlio di Laerte”. Però, come fa notare Jebb, ad loc., si avrebbe così una sovrapposizione di significati, abbastanza forzata e non necessaria.
54 sostegno di una palese menzogna. Che il racconto di Neottolemo sia una trovata fittizia al- lo scopo di trarre le simpatie di Filottete dalla sua parte è difficile negarlo, per quanto alcu- ni critici abbiano avanzato delle proposte divergenti in tal senso142; se così non fosse, se veramente il giovane figlio di Achille avesse subito l’oltraggio di vedersi sottratte iniqua- mente le armi, non si giustificherebbe in alcun modo la situazione del prologo, quando è palese il suo rapporto di complicità e quasi di sottomissione ad Odisseo e dove viene reso noto che si sta per ordire un inganno143. A maggior ragione, quasi tutte le testimonianze principali del ciclo epico iliadico riferiscono la consegna delle πάτρια τεύχεα a Neottolemo al suo arrivo a Troia; semmai, si può notare che il Coro è impreciso nel riportare questa va- riante della tradizionale contesa per le armi, poiché si dovrebbe parlare di una riconferma dell’assegnazione, avvenuta dopo la morte di Achille, a favore di Odisseo e a sfavore di Aiace144. Assodato ciò, rimane lo stupore di qualche critico suscitato dall’impudente atto di inventarsi una falsa preghiera, fra questi Whitman (1951), che nel tentativo di trovare una giustificazione plausibile supporta la teoria di Zielinski, in base alla quale si sarebbe in presenza di un riferimento a un’altra opera sofoclea, il perduto Neoptolemus, dove avrebbe luogo proprio la scena evocata dal Coro, compresa l’invocazione, che non risulterebbe, pertanto, un artifizio del momento, ma una citazione poetica145. Anche Webster (1974) non vede alcuna forma di spergiuro, fornendo una spiegazione di tipo grammaticale, ovvero at- tribuendo un aspetto conativo all’imperfetto παρεδίδοσαν146
e ritenendo ἰὼ una semplice particella di saluto, slegata dalla sua funzione di richiamare l’attenzione della dea a testi- moniare il fittizio misfatto. Infine, Gardiner (1987) non vede alcun tipo di blasfemia insita nel passo, principalmente per il fatto che ritiene il culto della dea Γῆ/Cibele, la cui identifi- cazione in questo caso è agevolata da una precisa indicazione geografica (v. 394), stretta-
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Adams (1957), p. es., avanza l’ardita convinzione che Neottolemo «still may not actually lie […] he is tel-
ling nothing but the truth» e che «the anger that he manifests is genuine», p. 142, questo perché non ritiene
plausibile che la storia che vede l’assegnazione delle armi ad Odisseo, definito dallo studioso come «the mo-
re familiar version», venga smentita, anche solo in maniera implicita, in questa tragedia. In realtà, il racconto
tradizionale riportato dalla maggior parte delle fonti, in primis nella Piccola Iliade, prevede la cessione delle armi a Neottolemo al suo arrivo a Troia da Sciro. Una replica esaustiva alla teoria di Adams la fornisce Knox (1964), p. 191, ntt. 29 e 30.
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Ai vv. 64-65 è lo stesso Odisseo che fornisce a Neottolemo le parole del discorso con il quale dovrà trarre in inganno Filottete, ovvero tale versione dei fatti, ritenuta dal giovane come ψευδῆ λέγειν, “dire il falso”, cfr. vv. 100 e 108.
144 Cfr. Pucci (2011), ad 395-9. È in questa occasione, definita da Knox (1964) «the original award of the arms», p. 192, nt. 33, che secondo Calder (1971) fu effettivamente pronunciata la preghiera in questione, es-
sendo già presenti a Troia i marinai di Sciro, al tempo al seguito di Achille, cfr. p. 159.
145 Cfr. Zielinski (1924), De Sophoclis fabula ignota, Eos 27, pp. 60-61, cit. in Whitman (1951), p. 275, nt.
23 e in Bers (1981), p. 500, nt. 2, il quale ritiene, verosimilmente, altamente improbabile questa ipotesi, no- nostante l’accurata ricostruzione della trama attuata da Zielinski.
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55 mente locale e non riconosciuto ufficialmente dagli Ateniesi, perciò l’auditorio non avreb- be trovato nulla da ridire nella falsa invocazione147.
Senza spingersi così lontano sulle strade dell’interpretazione, ci si può limitare a sottolineare che il Coro non fa esplicite richieste alla divinità, né giura qualcosa di specifi- co, ma si limita a ricordare che l’apostrofò in occasione della violenza commessa dagli Atridi, utilizzando la commozione derivante da questo accorato appello per introdurre l’evento inesistente destinato a vincere le simpatie di Filottete. Le resistenze della critica a definire questo intervento una menzogna derivano verosimilmente dallo statuto general- mente attribuito ai canti corali, di cui non si è soliti mettere in questione la falsità o la veri- tà. L’autorità generalmente attribuita alla loro performance, derivante dai suoi prerequisiti formali, in questo caso, però, viene a mancare, o meglio, serve a dare credibilità a una co- struzione fittizia, situata nel passato ed attuata nel presente148. L’adesione totale del Coro ai piani del proprio comandante, anche per mezzo della forma lirica, sortisce, dunque, un du- plice effetto, in quanto, da un lato, mette in discussione la fonte stessa dell’attendibilità che solitamente gli si ascrive, mentre dall’altro lo inserisce pienamente nella trama e in una re- lazione attiva con gli attori149.