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Expected Shortfall: alcune evidenze critiche

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA` DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento Di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in Banca, Finanza Aziendale

e Mercati Finanziari

TESI DI LAUREA

EXPECTED SHORTFALL: ALCUNE EVIDENZE CRITICHE

Relatore:

Candidato:

Prof. Riccardo Cambini

Francesco La Marca

(2)

I

INDICE

INTRODUZIONE pag 1

CAPITOLO 1: Introduzione al risk management pag 3

1.1 Il nuovo scenario competitivo pag 3

1.1.1 I rischi caratteristici dell’attività bancaria pag 4

1.1.2 Il ruolo del risk management per un efficace presidio dei rischi pag 6

1.2 Le carenze evidenziate dalla crisi pag 7

1.2.1 La necessità di un approccio integrato alla gestione dei rischi pag 9

1.3 Il rischio di mercato pag 11

1.3.1 Tratti definitori e classificazione pag 11

1.3.2 La disciplina dettata dalle Autorità di Vigilanza pag 13

1.4 Il calcolo del requisito patrimoniale secondo Basilea pag 15

1.4.1 La metodologia standardizzata pag 16

1.4.2 La metodologia evoluta pag 17

CAPITOLO 2: Il rischio di mercato e la sua stima pag 20

2.1 I modelli di stima e gestione del rischio

di mercato fondati sul VaR pag 20

2.1.1 L’approccio varianza-covarianza pag 22

2.1.2 La definizione dell’intervallo di confidenza pag 26

2.1.3 L’orizzonte di osservazione considerato pag 27

2.2 Modelli utilizzati per la stima della varianza pag 29

2.2.1 La media mobile semplice pag 30

2.2.2 La media mobile esponenziale pag 32

2.2.3 I modelli GARCH pag 36

2.3 I modelli di simulazione pag 39

2.3.1 La simulazione storica pag 40

2.3.2 La simulazione Montecarlo pag 42

(3)

II

2.5 Le critiche mosse al VaR pag 45

CAPITOLO 3: L’expected Shortfall pag 49

3.1 Analisi di misure diverse dal VaR pag 49

3.2 L’Expected Shortfall: una valida alternativa al VaR pag 50

3.2.1 I metodi di stima dell’Expected Shortfall pag 54

CAPITOLO 4: Aspetti critici dell’Expected Shortfall pag 57

4.1 Pacchetto Basilea 2.5 pag 57

4.2 “Fundamental Review of the Trading Book” pag 59

4.3 Differenza tra ES e VaR pag 61

4.4 Difetti dell’ES pag 63

4.5 L‘ES è una misura ingannevole nel considerare

il rischio estremo di default pag 66

4.6 Il non soddisfacimento della “surplus invariance”

da parte dell’ES pag 69

4.7 L’arbitraggio regolamentare è possibile utilizzando

l’ES e cambiando l’unità di conto pag 70

4.8 Arbitraggio regolamentare ed eccessiva propensione

al rischio derivante dall’applicazione dell’ES pag 72

4.9 Il rischio di modello dell’ES pag 75

4.9.1 Primo problema: scelta del modello pag 78

4.9.2 Secondo problema: scelta dei parametri stimati pag 79

4.9.3 Terzo problema: l’elevata volatilità pag 80

4.9.4 Rischio modello dell’ES: dati e risultati empirici pag 80

4.9.5 Rischio modello e arbitraggio regolamentare pag 84

4.9.6 Rischio modello e rischio di stima in ES pag 87

4.9.7 Rischio modello e volatilità delle misure di rischio nell’ES pag 88

CONCLUSIONI pag 89

(4)

1

INTRODUZIONE

Alla luce della recente crisi finanziaria, il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria ha optato per una rivisitazione dei principi fondamentali per un’efficace gestione dei rischi. Il mutamento verificatosi all’interno del contesto economico e finanziario, dovuto a fattori quali l’integrazione dei mercati finanziari o la disintermediazione bancaria, ha generato un aumento repentino della volatilità delle variabili di mercato evidenziando i limiti della struttura normativa previgente. Il nuovo assetto normativo, pur ricalcando gli obbiettivi fissati dalla precedente regolamentazione, quali la sicurezza e la solidità degli intermediari finanziari, definiscono standard più rigorosi per ciò che concerne i requisiti patrimoniali e i modelli utilizzati per la loro quantificazione. Un ulteriore elemento di novità, si manifesta nella volontà del Comitato di conciliare obbiettivi di natura macro e microprudenziale, estendendo la valutazione dei rischi e dei relativi requisiti, non soltanto su base individuale ma anche a livello consolidato, al fine di analizzare il rischio nelle sue diverse sfaccettature e tener conto dei fattori esterni in grado di minare la salute degli intermediari bancari.

Il seguente elaborato, intende focalizzare l’attenzione sulla tematica relativa al risk management, incentrando la propria analisi sul rischio di mercato e in particolare sulle metriche utilizzate per la quantificazione dei requisiti patrimoniali a fronte di tale rischio. Evidenziandone limiti e punti di forza, passerò in rassegna gli strumenti forniti dal Comitato di Basilea, soffermandomi in particolar modo sull’Expected Shortfall (ES), una misura alternativa al Value at Risk (VaR), inserita nell’ambito del processo di rivisitazione del trading book.

Il primo capitolo, intende fornire un’istantanea sul mutato contesto finanziario, definendo i tratti salienti che hanno condotto alla rivisitazione del sistema normativo in tema di rischi di bancari. Elencando dapprima i punti critici relativi alla normativa previgente e fornendo in seguito i caratteri definitori dei rischi di mercato e la disciplina dettata dalle Autorità di Vigilanza, illustrando le metodologie impiegate per la quantificazione dei relativi requisiti patrimoniali.

Per ciò che concerne il secondo capitolo, mostrerò una panoramica dei modelli utilizzati nella stima e nella gestione del rischio di mercato fondati sul VaR, passando in rassegna

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2

i diversi approcci (parametrico e quelli fondati sulle simulazioni), evidenziando per ciascun di essi punti di forza e limiti. Verranno fornite inoltre, alcune indicazioni relative ai modelli utilizzati per la stima della volatilità, indispensabili per la realizzazione dei modelli concernenti l’utilizzo del VaR. Infine, seguiranno una serie di considerazioni critiche inerenti alla misura statistica del VaR, elencando i difetti derivanti dall’utilizzo improprio di tale metrica e quelli imputabili alla natura intrinseca della misura stessa.

Con l’ausilio derivante dalle considerazioni proposte nel secondo capitolo, nella terza sezione verranno sottolineati gli sforzi di alcuni operatori tesi al superamento dei limiti gravanti sul VaR. Sfociati in seguito, nella produzione di ulteriori metriche come il Tail Conditional Expectation (TCE) o il Worst Conditional Expectation (WCE). Successivamente si procederà all’analisi dell’Expected Shortfall, illustrando i metodi utilizzati nella stima di tale metrica ed elencando una serie di caratteristiche ritenute auspicabili nell’individuazione di una misura valida per la quantificazione dei rischi di mercato.

Nel quarto capitolo, punto focale del mio elaborato, verranno elencati i punti chiavi della nuova riforma, effettuando una breve disamina sul Fundamental Review of the Trading Book. Il FRTB è un documento attraverso il quale il Comitato di Basilea intende descrivere il passaggio dal metodo VaR all’ES come metrica pertinente per il rischio di mercato. La trattazione proseguirà attraverso l’illustrazione delle differenze esistenti tra il VaR e l’ES, elencando con riferimento a quest’ultima, alcune problematiche relative alle tecniche di backtesting. Infine, affrontando tale trattazione da una prospettiva teorica più di tipo finanziario, la seconda parte di tale capitolo, tenderà di valutare l’idoneità dell’ES a soddisfare gli obbiettivi di natura macro e microprudenziali auspicati dalla nuova regolamentazione. Servendosi dei lavori di Koch-Medina e Munari (2015), fornirò degli esempi semplificativi che non intendono in alcun modo invalidare i possibili vantaggi derivanti dall’adozione dell’ES come misura di rischio, ma vogliono sottolineare la necessità di un utilizzo più cauto nel contesto dei regimi di adeguatezza patrimoniale e del controllo del rischio di portafoglio.

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3

CAPITOLO 1

INTRODUZIONE AL RISK MANAGEMENT

1.1 Il nuovo scenario competitivo

La comprensione del ruolo del risk management in banca impone l’approfondimento di quanto sia stato sottovalutato prima della crisi in termini di misurazione e relativa gestione delle esposizioni. Secondo gli autori M. Giorgino ed F. Travaglini (2008), “il termine rischio è stato spesso impiegato per esprimere in termini generali l’esposizione all’incertezza propria delle realtà imprenditoriali. I principali contributi presenti in letteratura fanno generalmente riferimento ai concetti di incertezza e variabilità dei risultati”1. Incertezza e rischio possono essere considerarti come due aspetti differenti di una stessa realtà: “i due fenomeni, del resto, sono inscindibili: si ha infatti, l'incertezza in quanto ogni manifestazione fenomenica è portatrice di rischi”2.

La tematica del risk management ha conosciuto negli ultimi venti anni uno sviluppo senza precedenti se confrontata ad altri aspetti della gestione bancaria. Ciò ha determinato l’introduzione e la rapida evoluzione dei modelli di misurazione, monitoraggio e gestione dei cosiddetti rischi finanziari, dove per rischi finanziari si intendono “i rischi latenti nelle caratteristiche strutturali di composizione dell’attivo e del passivo di bilancio e fuori bilancio della banca”.

Complementari al tradizionale rischio di credito, ancora oggi sicuramente più conosciuto dalle istituzioni creditizie (ma soggetto a nuove formulazioni), i rischi connessi alla volatilità dei mercati con i quali le banche si trovano ad operare, sono divenuti oggetto delle attenzioni sia delle autorità di vigilanza che dei manager bancari, nonché degli azionisti.

L’attenzione alla gestione integrata dei rischi bancari è cresciuta in maniera significativa negli ultimi anni per l’effetto congiunto della trasformazione del contesto in cui le banche si sono trovate ad operare e della graduale modifica stessa delle varie attività da

1 Giorgino M., Travaglini F., Il risk management nelle imprese italiane, pag. 3-36, Milano, Il Sole 24

Ore, 2008

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4

esse svolte. Vi sono almeno tre fenomeni, fra loro connessi, che meritano di essere evidenziati.3

Il primo elemento è rappresentato dall’evidente incremento della volatilità dei mercati finanziari, provocato anche dalla crescente integrazione tra gli stessi. Tale fenomeno ha avuto un duplice effetto: da un lato, ha posto in evidenza la rilevanza dei rischi da sempre tradizionalmente assunti dalle banche nella loro attività di trasformazione delle scadenze del passivo e dell’attivo (con particolare riferimento al rischio di variazioni di interesse); dall’altro, ha generato una nuova domanda di strumenti per la copertura del rischio da parte degli investitori (anche retail) contribuendo così a sviluppare una nuova area di attività per le banche.

In secondo luogo è bene ricordare processo di disintermediazione causato dalla ricerca sia da parte dei depositanti di forme d’impiego alternative ai propri risparmi, sia dal progressivo spostamento da parte delle imprese dal tradizionale finanziamento bancario al ricorso diretto al mercato dei capitali. Ciò ha determinato l’esigenza, da parte delle banche, di ricercare nuove forme di intermediazione finanziaria, sostituendola alle forme tradizionali di intermediazione creditizia (raccolta a vista e concessione di prestiti) che ha spinto gli intermediari ad incrementare i rischi assunti sia nelle attività suddette sia tramite lo sviluppo di nuove aree di attività, come i servizi di investimento e in particolare negoziazione in conto proprio e la gestione per conto terzi.

Il terzo elemento è riconducibile al nuovo orientamento delle autorità di vigilanza verso l’adozione di controlli prudenziali di adeguatezza patrimoniale parametrati al grado di rischio assunto, come strumento di tutela della stabilità del sistema finanziario che, se da un lato ha riacceso un forte processo concorrenziale, dall’altro la maggiore rischiosità degli attivi che ne conseguita ha stimolato le autorità di Vigilanza a tentare di affinare progressivamente gli strumenti di vigilanza prudenziale volti a prevenire possibili fenomeni di dissesto.

1.1.1 I rischi caratteristici dell’attività bancaria

La banca nella sua attività di intermediazione detiene attività con caratteristiche di liquidità, solvibilità e scadenza diverse da quelle con cui si finanzia, ecco dunque spiegato il motivo per il quale esistono in letteratura numerose definizioni dei rischi.

3 Saita F., Il risk management in banca: performance corrette per il rischio e allocazione del capitale , pagg. 9-10, Milano, Egea, 2000

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Partendo dal presupposto che in alcuni contesti la deviazione dal risultato atteso può condurre ad un esito esclusivamente sfavorevole, mentre in altri può essere sia favorevole che sfavorevole, si è soliti distinguere i rischi in puri e speculativi. Riassumibili nella prima categoria sono i rischi ritenuti assicurabili, ovvero quei rischi che si prestano ad essere gestiti per mediante il processo assicurativo. Alla seconda categoria, appartengono invece, sia i rischi finanziari, derivanti dall’incertezza dei prezzi sui mercati finanziari e che possono essere gestiti tramite apposite operazioni di hedging che si avvalgono di strumenti che vengono negoziati sul mercato, sia i rischi industriali.

Le realtà aziendali, tuttavia, sono solite far riferimento a classificazioni di rischio più operative ed intuitive, come ad esempio quelle che distinguono i rischi in strategici, finanziari ed operativi. Nel Financial Risk Management delle banche assumono particolare rilievo i seguenti rischi finanziari4:

 Rischio di credito, che è il rischio che la controparte sia insolvente e non sia in grado di rispettare i propri impegni di rimborso del debito o che, deteriorando la propria posizione patrimoniale, aumenti la probabilità che questo avvenga;

 Rischio di liquidità, che è il rischio che una banca non sia in grado di far fronte ai propri impegni di rimborso per l’incapacità sia di reperire fondi sul mercato (funding liquidity risk), sia di smobilizzare poste dell’attivo (market liquidity risk);

 Rischio di mercato, il rischio che deriva dagli effetti delle variazioni dei prezzi o degli altri fattori di mercato sul valore delle posizioni (o interi portafogli) scritte sui libri dell’intermediario, sia che siano detenute nel trading book, sia che risultino dall’operatività commerciale a dalle scelte strategiche, ovvero nel banking book;

 Rischio operativo, “Il rischio di subire perdite derivanti dall’inadeguatezza o dalla disfunzione di procedure, risorse umane e sistemi interni, oppure da eventi esog eni. Nel

4 Betti F., Value at Risk . La gestione dei rischi finanziari e la creazione di valore, pag. 12-13, Milano, Il

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rischio operativo è compreso il rischio legale, mentre non sono inclusi quelli strateg ici e di reputazione5 ”.

In ambito bancario è un rischio “giovane” poiché le banche lo hanno sempre gestito in maniera passiva, ovvero tramite la stipula di contratti assicurativi. La consapevolezza dell’aumentata incidenza dei rischi operativi, nell’ambito dell’industria bancaria e finanziaria, ha indotto gli organi di vigilanza internazionale a richiedere di allocare una specifica quota di capitale a fronte del rischio operativo, correlata all’effettivo profilo di rischio dell’istituzione.

1.1.2

Il ruolo del risk management per un efficace presidio del rischio

L’attività d’impresa, sia essa finanziaria o non finanziaria, è sempre caratterizzata da un certo margine di rischio, derivante dall’incertezza circa il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Il rischio è connaturato all’attività dell’impresa: da ciò sorge la necessità di definire, all’interno della stessa, un sistema di risk management, finalizzato ad assicurare il controllo e il governo del rischio; letteralmente, infatti, risk management significa “gestione del rischio” e tale funzione identifica il processo attraverso il quale l’organizzazione gestisce il proprio business considerando i costi ed i benefici associati ad ogni azione da essa intrapresa6. Il fine ultimo della funzione di risk management è quindi quello di consentire all’impresa di ottenere benefici durevoli da ogni attività che essa svolge, contribuendo a creare valore per l’azienda e per i suoi stakeholder (tra i quali azionisti e finanziatori) interessati ad una rappresentazione corretta e trasparente delle situazioni aziendali; presidiare il rischio non significa soltanto minimizzarlo, ma ottimizzare le strategie aziendali per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Il risk management può essere definito come un processo poiché la sua implementazione si snoda in fasi sequenziali così riassumibili:

 Definizione degli obbiettivi strategici dell’organizzazione, ai quali sono connessi i rischi;

 Individuazione e analisi dei rischi, concernente la loro identificazione, descrizione e stima;

5 Basel Committee on Banking Supervision, Operational Risk – Supporting Document to the New Basel Capital Accord, 2001.

6 P. Capuano, La crisi finanziaria internazionale: Il ruolo della funzione di risk management delle banche, 2013.

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7

 Valutazione dei rischi, consistente nel confrontare i rischi stimati con quelli target fissati dall’azienda, al fine di definire la rilevanza e l’accettazione o meno degli stessi;

 Trattamento del rischio, ossia selezione e attuazione delle misure più idonee a modificare il profilo di rischio stimato per renderlo coerente con quello target definito dall’organizzazione;

 Reporting e comunicazione del rischio, che consiste nella diffusione delle informazioni relative alla gestione del rischio e ai rischi residuali sia all’interno dell’azienda che all’esterno;

 Controllo e monitoraggio, che si esplica in una continua verifica sia in merito all’andamento dei rischi assunti e all’esposizione al rischio dell’organizzazione, sia relativamente all’efficacia e all’efficienza del processo stesso di risk management.

1.2 Le carenze evidenziate dalla crisi

Il profondo dibattito, sia su scala nazionale che internazionale, scaturito dalla crisi finanziaria globale del 2007, ha evidenziato la presenza di gravi mancanze nelle pratiche di identificazione, valutazione e gestione dei rischi adottate dalle banche. È ormai noto infatti che la crisi, originatasi nel comparto dei mutui sub-prime nell’ambito del mercato immobiliare statunitense, si sia poi estesa all’intero mercato finanziario e ai rapporti interbancari, e da qui sia stata veicolata all’economia reale. Nell’introduzione al framework di Basilea 37 è facile comprendere come, tra i fattori che hanno reso la crisi economica e finanziaria così profonda, vi fossero una «graduale erosione del livello e della qualità della base patrimoniale» degli intermediari finanziari nonché insufficienti riserve di liquidità, che non consentivano di assorbire le perdite sull’attività di negoziazione e su crediti.

Ciò ha provocato la perdita di fiducia nella stabilità e solvibilità degli istituti bancari da parte di mercato e operatori, con effetti ancor più rilevanti a causa della forte interconnessione tra le diverse istituzioni finanziarie. Si è evidenziata quindi una

7 Basel Committee on Banking Supervision, Basel 3: A global regulatory framework for more resilient bank s and bank ing systems, Dicembre 2010 (aggiornamento al Giugno 2011).

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8

profonda connessione tra rischi, patrimonio e liquidità, di cui non si era tenuto adeguatamente conto. Si riteneva, infatti, che i progressi nelle tecniche di risk management provenienti dall’implementazione dei modelli quantitativi e della tecnologia dell’informazione (che consentiva di avvalersi di una grande quantità di dati statistici) potessero, da soli, assicurare un efficace controllo dei rischi8. Tali convinzioni sono state messe in discussione dalla crisi, che ha fatto emergere elementi di debolezza che già da tempo erano oggetto di dibattito in ambito accademico e scientifico; primo fra tutti il model risk, legato alla possibilità che vi siano errori nei modelli di misurazione dei rischi o che questi vengano implementati in maniera scorretta9.

La crisi ha evidenziato come l’efficacia dei modelli sia intimamente connessa al contesto in cui sono sviluppati e applicati, esaurendosi fino quasi ad annullarsi quando tali contesti subiscono dei mutamenti strutturali. Inoltre, i “risultati” dei modelli sono subordinati ai dati utilizzati per le stime, non costituiscono dunque, misure oggettive quanto piuttosto previsioni che, come tali, possono essere soggette a un certo grado di errore, ancor più rilevante in contesti turbolenti. Mieli (2012) sottolinea come le previsioni dei modelli si fondino su un’ipotesi di esogeneità del rischio, considerandolo quindi come un dato e senza tener conto delle interazioni tra modello, operatori e contesto; tale atteggiamento, unitamente a stime basate su relazioni statistiche osservate in un orizzonte temporale (quello precedente alla crisi) caratterizzato da stabilità del quadro macroeconomico, alla scarsa attenzione alla tendenza delle correlazioni ad aumentare in condizioni di stress e allo scarso peso dato agli eventi caratterizzati da bassa probabilità di manifestarsi, ha portato a sottostimare significativamente le misure di rischio. Il processo decisionale è stato quindi eccessivamente vincolato ai modelli quantitativi, non integrati da sufficienti valutazioni e giudizi qualitativi. A ciò si sono aggiunte lacune e distorsioni anche nell’ambito della governance, il cui ruolo è fondamentale affinché si possa parlare di un’efficiente gestione del rischio. I consigli di amministrazione sono stati infatti scarsamente coinvolti nella fissazione di limiti ai livelli di rischio (risk appetite) e spesso poco consapevoli dell’effettiva esposizione al rischio assunta dall’istituto, soprattutto attraverso prodotti finanziari caratterizzati da

8 S. Mieli, Sistemi di controllo dei rischi e governo degli intermediari: una prospettiva di vigilanza ,

Università di Milano – Convegno ADEIMF “Corporate governance e gestione dei rischi: gli insegnamenti della crisi”, 2012.

9 Per approfondimenti si veda: M. Crouhy, D. Galai, R. Mark, The essentials of risk management, 2006,

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maggiore complessità e rischiosità, anche a causa di sistemi di informazione e comunicazione non adeguati alla complessità dei fenomeni da gestire.

Anche Conti (2009)10 sostiene che il mancato presidio dei rischi associati alle pratiche gestionali sia stato all’origine dei problemi delle banche, la funzione di risk management non è stata adeguatamente considerata come parte essenziale della strategia della banca ed quindi è mancata una visione unitaria, coordinata ed integrata dei rischi. I fattori fin qui analizzati, considerati congiuntamente, hanno innalzato il livello complessivo di rischio assunto dagli intermediari finanziari, che hanno sopravvalutato la resilienza del sistema. Si può dire che se, da un lato, si è riscontrato un notevole sviluppo dei modelli matematico-statistici connessi alla funzione di risk management delle banche, dall’altro lato, i vertici aziendali, nella maggior parte dei casi, non hanno attuato scelte organizzative adeguate che consentissero di evitare o limitare gli effetti della crisi. In quest’ottica, il sistema di buone pratiche di risk management che autorità e organizzazioni internazionali stanno delineando considera di fondamentale importanza l’adozione, nell’ambito dell’organizzazione bancaria, dell’approccio integrato e olistico alla gestione dei rischi. Esso, infatti, consente il superamento delle carenze precedentemente evidenziate, le quali si possono essenzialmente ricondurre alle caratteristiche tipiche del traditional risk management.

1.2.1 La necessità di un approccio integrato alla gestione dei rischi

La disciplina del risk management, incentrata soprattutto sugli aspetti finanziari, è stata introdotta in Italia a partire dagli anni ’90, a seguito del crollo della Lira sui mercati valutari e dell’emissione di nuovi prodotti finanziari strutturati e derivati. Da quel momento le banche hanno sviluppato importanti progetti tesi a sviluppare e rafforzare i sistemi e le procedure di gestione e misurazione dei rischi, influenzando sempre di più gli aspetti organizzativi e le decisioni di pianificazione strategica delle imprese. Il ruolo del risk management si modifica quindi rapidamente, passando da funzione di sostegno a funzione core, con l’obiettivo di garantire un presidio integrale e continuo delle minacce che la banca deve gestire, e non si limita più alla tradizionale funzione di RM, ma si estende piuttosto a tutte le business unit, garantendo in tal modo la diffusione della consapevolezza del rischio a livello complessivo e il notevole miglioramento dei

10 V. Conti, Crisi finanziarie, controlli interni e ruolo delle autorità , Università Bocconi, Carefin-Centre

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flussi informativi interni, con il fine ultimo di creare valore. Essa diviene “condizione necessaria per garantire una generazione di valore affidabile e sostenibile, in un contesto di rischio controllato, proteggendo così la solidità finanziaria e la reputazione d’impresa” (Ghisetti, 2013).

La revisione degli assetti e l’innovazione dei processi, legati alla gestione del rischio di credito, di mercato e operativo nel settore bancario, sono state in particolar modo incoraggiate dall’introduzione della disciplina prudenziale di Basilea II nel 2000 e dalla Circolare n.263 del 2006 della Banca d’Italia, a seguito della crescente necessità di definire un quadro di norme per la stabilità finanziaria e la copertura dei rischi.

Il CEBS ha inoltre evidenziato l’importanza di quattro principi su cui focalizzare l’attenzione nell’ambito di questa disciplina:

 la governance, intesa come organo teso alla supervisione delle pratiche aziendali e della pianificazione strategica, e la cultura del rischio, la quale deve partire dal top management ed essere diffusa trasversalmente alle singole unità di business, favorendo la comunicazione a tutti i livelli aziendali;

 la propensione e tolleranza al rischio (risk appetite) che devono essere definiti dal top management, supportato dal comitato di controllo o dalla funzione stessa di RM;

 il ruolo del chief risk officer (CRO), inteso come responsabile della funzione di RM e del coordinamento di tutte le attività volte ad una efficace individuazione, misurazione e valutazione dei rischi;

i modelli di integrazione della gestione del rischio, al fine di garantire la pervasività di tale disciplina all’interno di tutta l’organizzazione.

In seguito alla crisi del 2007-2008, che ha avuto importanti ripercussioni sulla stabilità finanziaria di tutti gli istituti bancari evidenziandone nuovamente limiti e criticità, si è resa necessaria un’ulteriore rivisitazione degli assetti organizzavi e dei modelli di gestione, portando così ad un processo di riforma culminato con lo sviluppo dell’Accordo di Basilea III. Tali riforme hanno portato non solo a definire nuove regole per la misurazione dei rischi, ma a richiedere alle banche un rafforzamento sostanziale del complessivo sistema di gestione e della corporate governance, sottolineando il ruolo fondamentale del Consiglio di Amministrazione, nella definizione e monitoraggio del risk appetite dell’organizzazione, del sistema di controllo interno, e dei sistemi

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informativi, come strumento efficiente per “assicurare robustezza e tempestività al processo di gestione dei rischi” (Tarantola, 2011). Per questi motivi ora più che mai il risk management “rappresenta una funzione strategica per gli intermediari finanziari, che, se ben strutturata, consente di conoscere, controllare e mitigare efficacemente i rischi aziendali” (Tarantola, 2011), e, sebbene gli istituti di credito italiani abbiano conseguito negli ultimi anni progressi significativi, “l’elevata incertezza dei mercati e l’evoluzione del quadro regolamentare richiedono ulteriori affinamenti di questa disciplina” (Tarantola, 2010)11.

1.3 Il rischio di mercato

1.3.1 Tratti definitori e classificazione

Il rischio di mercato si riferisce al rischio di variazioni del valore di mercato di uno strumento o di un portafoglio di strumenti finanziari collegate a variazioni inattese delle condizioni di mercato, ossia dei tassi di interesse e di cambio, dei prezzi azionari e delle merci, nonché della relativa volatilità. L’esposizione ai rischi di mercato caratterizza sia il portafoglio di attività finanziarie gestite con fini di negoziazione (trading book) sia il portafoglio di attività derivante dall’operatività commerciale nei confronti della clientela (banking book12), dove comunque prevale la componente relativa al rischio di credito13. Nello specifico, è possibile distinguere cinque categorie di rischio di mercato, tale classificazione è subordinata al fattore di rischio cui è sensibile lo strumento finanziario o il portafoglio di strumenti finanziari14.

 Rischio di cambio: quando il valore di mercato delle posizioni assunte è sensibile a variazioni dei tassi di cambio è questo il caso delle attività e passività

11 Tarantola Anna Maria, Il ruolo del risk management per un efficace presidio dei rischi: le lezioni della

crisi, http://www.astrid-online.it/Dossier--d1/Italia----/ Studi-- ric/Tarantola_10_11_11.pdf, 2010

12 La distinzione tra portafoglio di negoziazione e altre attività/passività è stata introdotta dal Comitato di

Basilea nell’aprile 1993, al momento dell’estensione dei coefficienti patrimoniali ai rischi di mercato. Tale classificazione è adottata dalla normativa vigente: si v eda, per esempio, Basel Committee on Banking Supervision (2006), Banca d‟Italia (2006) .

13 F. Saita, Il risk management in banca, performance corrette per il rischio e allocazione del capitale,

pag 9-10, Milano, Egea, 2000.

14 Resti A., Sironi A., Rischio e valore nelle banche. Misura, regolamentazione, gestione , Milano, Egea,

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finanziarie denominate in valuta estera e dei contratti derivati il cui valore dipende dal tasso di cambio (currency swap, currency future ecc.);

 Rischio di interesse: quando il valore di mercato delle posizioni assunte è sensibile a variazioni dei tassi d’interesse (come accade per i titoli obbligazionari e per svariati contratti derivati, come i forward rate agreeement, interest rate future, interest rate swap, cap, floor, collare ecc.);

 Rischio azionario: quando il valore delle posizioni assunte è sensibile all’andamento dei mercati azionari (titoli azionari, stock-index future, stock option ecc.);

 Rischio merci: quando il valore delle posizioni assunte è sensibile a variazioni dei prezzi delle commodity (acquisti/vendite a pronti e a termine di merci, commodity swap, commodity future, commodity option ecc.);

 Rischio di volatilità: quando il valore delle posizioni assunte è sensibile a variazioni delle volatilità di una delle variabili considerate sopra.

I rischi di mercato sono i rischi che forse da un punto di vista prettamente operativo hanno mostrato nel tempo la maggiore volatilità. Nei sistemi finanziari come quelli anglosassoni da decenni si parla di rischio di mercato perché vi era un’operatività più speculativa rispetto ad altri contesti come quello italiano, dove il sistema bancario ha lavorato in modo molto protetto. Nel momento in cui si è assistito all’apertura inevitabile al contesto internazionale allora tali rischi hanno assunto un ruolo primario. La cresciuta rilevanza dei rischi di mercato è da ricondurre a quattro ordini di motivazioni:

 Il primo elemento è riconducibile al processo di cartolarizzazione, ovvero la sostituzione di attività illiquide con attività aventi un prezzo e un mercato secondario, tali operazioni hanno favorito la diffusione di criteri di misurazione delle attività detenute al loro valore di mercato.

 Il secondo elemento è riconducibile all’ingresso in scena degli strumenti derivati finanziari, il cui principale profilo di rischio per gli intermediari che li negoziano è dato dalla variazione del relativo valore di mercato determinata da variazioni dei prezzi delle attività sottostanti e/o dalle condizioni di volatilità degli stessi.

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 Il terzo elemento concerne invece l’aumento della volatilità dei mercati finanziari scaturita dalla progressiva integrazione internazionale degli stessi.  Infine, il quarto elemento è da ricondurre ai nuovi standard contabili che

prevedendo l’iscrizione in bilancio del valore di mercato (e non del costo storico di acquisto) per molte attività e passività, determinavano l’immediata evidenziazione dei profitti e delle perdite connesse alle variazioni di breve termine delle condizioni di mercato, evidenziandone gli effetti del rischio di mercato

1.3.2 La disciplina dettata dalle Autorità di Vigilanza

Le ingenti perdite subite dalle grandi banche internazionali sul portafoglio di trading, spesso superiori al capitale regolamentare detenuto a fronte di tali attività, hanno spinto il Comitato di Basilea a proporre, fin dal luglio 200915, alcune importanti modifiche alla normativa sui rischi di mercato originariamente introdotta nel 1996.

Tali modifiche, entrate in vigore a fine 2011, riguardano prevalentemente l’approccio dei modelli interni, ossia i requisiti per le banche che hanno un modello interno per la misurazione dei rischi di mercato validato dall’autorità di vigilanza. Per quanto riguarda l’approccio standard, infatti, vi è solo l’applicazione di ponderazioni più severe per misurare il rischio specifico dei titoli azionari e dei titoli risultanti da processi di cartolarizzazione e ri-cartolarizzazione.

Il requisito patrimoniale a fronte dei rischi di mercato, che le banche e i gruppi bancari sono tenuti a rispettare in via continuativa, risulta dalla somma dei seguenti requisiti16:

a) con riferimento al portafoglio di negoziazione di vigilanza:  Rischio di posizione;

 Rischio di regolamento;  Rischio di concentrazione; b) con riferimento all’intero bilancio:

 Rischio di cambio;

 Rischio di posizione su merci;

15 Basel Committee on Banking Supervision, 2009.

16 Al riguardo si veda il documento di Bankitalia, Recepimento della nuova regolamentazione prudenziale internazionale requisiti patrimoniali sui rischi di mercato, Roma, 2006

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14

Analizziamo adesso le singole tipologie rischiose.

Il rischio di posizione, deriva dall’oscillazione dei valori mobiliari per fattori attinenti all’andamento dei mercati e alla situazione specifica della società emittente, il requisito patrimoniale a fronte di tale tipologia di rischio è pari alla somma di tutti i requisiti per il rischio generale e specifico a fronte delle posizioni in strumenti finanziari. Si distinguono le attività in funzione della natura dello strumento finanziario e del corrispondente fattore di rischio.

Il rischio di regolamento invece, è il rischio alla quale espone un’operazione a termine che prevede uno o più flussi di cassa in una data successiva alla stipula del contratto. Tale tipologia di rischio è legata alla possibilità che la controparte non adempia ai propri obblighi contrattuali successivamente alla stipula del contratto. Si è soliti distinguere due sottocategorie di tale rischio, a seconda che l’insolvenza si verifichi prima o dopo la scadenza del contratto, in particolare abbiamo:

 Rischio di pre-regolamento, ovvero di insolvenza prima della scadenza del contratto. In questo caso si ha perdita se, al momento dell’insolvenza, il valore di mercato della posizione inesigibile risulta maggiore di zero e sostituirla con un nuovo contratto comporta un costo. La perdita sarà pari alla differenza fra il prezzo a termine fissato contrattualmente e il fair value degli strumenti finanziari, delle valute o delle merci da ricevere

 Rischio di regolamento in senso stretto, è il rischio di subire una perdita in seguito all’insolvenza successiva alla scadenza del contratto. La perdita qui si ricollega al valore corrente

Degli strumenti finanziari, delle valute o delle merci trasferite alla controparte per le quali non è stato ricevuto il corrispettivo, oppure al contante pagato senza ricevere il sottostante.

Per quanto concerne invece il rischio di concentrazione, si fa riferimento all’eventualità in cui la banca sia eccessivamente esposta verso un cliente o più clienti connessi (da qui il concetto di controparte), per percentuali elevate del suo patrimonio. Tale rischio muove da quella che è la normativa sui grandi fidi che è stata prevista a livello europeo già dagli anni ’90. Tale normativa impone agli intermediari bancari di limitare le grandi esposizioni, ovvero quelle esposizioni che per ammontare costituiscono il 10% del

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15

capitale dell’intermediario stesso, allo scopo di preservare la banca da grandi perdite e grandi interferenze sull’equilibrio patrimoniale e finanziario.

Parlando poi dei rischi relativi all’intero bilancio, si è soliti riferirsi al rischio di cambio e rischio di posizione su merci. Il primo rappresenta il rischio di subire perdite derivanti da variazioni avverse dei corsi delle divise estere su tutte le posizioni detenute dalla banca indipendentemente dal portafoglio di allocazione (trading e banking book); il secondo, invece, fa riferimento alle possibili perdite derivanti da variazioni di prezzo delle merci.

1.4 Il calcolo del requisito patrimoniale secondo Basilea

“Considerate le carenze recentemente riscontrate, occorre rafforzare le norme per i modelli interni per il calcolo dei requisiti in materia di fondi propri per il rischio di mercato. In particolare, occorre fare in modo che assicurino una copertura completa dei rischi di credito nel portafoglio di negoziazione. Inoltre, è opportuno che i requisiti patrimoniali includano una componente adatta per le condizioni di stress, al fine di rafforzare i requisiti in materia di fondi propri in caso di deterioramento delle condizioni di mercato e al fine di ridurre il potenziale di prociclicità17”.

Il regolamento sui requisiti patrimoniali fa obbligo alle banche di accantonare capitale sufficiente per coprire le perdite inattese e rimanere solvibili in situazione di crisi. Come principio fondamentale, l'importo del capitale necessario dipende dal rischio legato alle attività di una determinata banca. Tale principio noto come requisito di fondi propri è espresso in percentuale delle attività ponderate per il rischio, dove per attività ponderate per il rischio si intende che ad attività più sicure viene attribuito un fattore di allocazione di capitale minore, mentre alle attività più a rischio è attribuito un fattore di ponderazione del rischio più elevato. Al capitale sono assegnate determinate classi in funzione della qualità e del rischio, abbiamo infatti:

Il capitale tier 1 considerato come il capitale in situazione di continuità aziendale, questo consente a una banca di proseguire le sue attività e ne mantiene la solvibilità. Tale capitale dotato di qualità elevatissima viene definito capitale primario di classe 1 (CET 1). Il capitale tier 2 considerato invece come il capitale in caso di cessazione di attività, esso consente a un ente di rimborsare i depositanti e i creditori privilegiati nel caso una banca diventi insolvibile. L'importo totale del capitale che le

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16

banche e le imprese di investimento hanno l'obbligo di detenere dovrebbe essere pari almeno all'8% delle attività ponderate per il rischio. La percentuale di capitale primario di classe 1 dovrebbe rappresentare il 4,5% delle attività ponderate per il rischio.

La materia dei rischi di mercato è molto tecnica, sono rischi meno intuitivi e che per tale motivo si faticano a collegare all’attività bancaria ma la rilevanza che tale tipologia di rischio ha avuto nella crisi deve farci riconoscere un ruolo primario. Nella quantificazione del requisito patrimoniale a fronte di tale rischio, l’intermediario bancario può decidere di servirsi della metodologia standardizzata fondata sul building block approach, o la metodologia evoluta (o modello interno) basata sul concetto del VaR.

1.4.1 La metodologia standardizzata

Per il calcolo del requisito patrimoniale a fronte del rischio di mercato, il metodo standardizzato, disciplinato dal Comitato di Basilea e recepito Da Bankitalia nel 2006, prevede l’utilizzo di un approccio a blocchi che considera il calcolo separato del rischio derivante dai tassi di interesse, dalla posizione in azioni, dal cambio, dalla posizione in merci e da quella in opzioni. Il rischio complessivo, che determina il capitale di vigilanza minimo, sarà ottenuto tramite la somma aritmetica del rischio associato a ciascuna delle cinque categorie, senza tener conto della correlazione tra i diversi fattori di rischio. Tipicamente nella metodologia standardizzata utilizzando tale approccio, l’intermediario sarà costretto ad un maggior accantonamento di capitale, essendo infatti la metodologia standardizzata, una metodologia prettamente prudenziale si tende ad una sovrastima del rischio e quindi ad un fabbisogno di capitale maggiore. Il rischio legato ai tassi di interesse e alle posizioni in azioni, viene ulteriormente suddiviso in rischio specifico e generico. Nella fattispecie, per il calcolo dei requisiti patrimoniali a fronte del rischio specifico sui titoli di debito, l’ente imputa le sue posizioni nette in strumenti diversi dalle posizioni verso le cartolarizzazioni nel trading book alle categorie di una tabella che tiene conto dell’emittente o obbligato, della valutazione esterna del suo merito creditizio e della durata residua di tale posizione, quindi le moltiplica per i coefficienti di ponderazione dettati dalle Autorità di Vigilanza, successivamente addiziona le sue posizioni ponderate per calcolare il requisito patrimoniale.

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17

Per il rischio generico vengono proposti due metodi alternativi, il primo basato sulla vita residua dei titoli, il secondo, più preciso, sulla duration degli stessi. In entrambi i casi il patrimonio complessivo minimo a fronte del rischio di interesse è dato dalla somma di quattro componenti: la posizione netta di tutto il portafoglio; una quota limitata, crescente con la scadenza, delle posizioni bilanciate in titoli in singole fasce temporali; una quota più elevata delle posizioni bilanciate tra diverse fasce temporali e infine un valore derivante dalla eventuale posizione in opzioni.

1.4.2 La metodologia evoluta

“Le banche possono ricorrere a schemi di calcolo dei requisiti a fronte del rischio di posizione, del rischio di posizione in merci e del rischio di cambio dell’intero portafoglio sulla base dei modelli interni, purché questi soddisfino un serie di criteri organizzativi e quantitativi, e siano autorizzati dalla Banca d’Italia18

”.

La metodologia interna è una metodologia più avanzata, che per i rischi di mercato e qualsiasi rischio del primo pilastro prevede una quantificazione del capitale regolamentare a fronte di elaborazioni interne, le attività ponderate per il rischio saranno frutto dell’elaborazione della posizione di bilancio della banca sulla base di stime di rischio interne. La possibilità introdotta dal Comitato di Basilea nel Gennaio del 2006 ha una nobile finalità, il fine ultimo infatti è quello di giungere ad una determinazione del rischio che sia maggiormente attinente all’effettiva esposizione rischiosa dell’intermediario finanziario, scopo non esattamente perseguibile tramite l’approccio standardizzato. Il lato negativo di tali metodologie, qualunque sia il rischio considerato, è l’eccessiva discrezionalità attribuita alla banca sulla stima del rischio, per tale motivo l’Autorità di vigilanza ha voluto ancorare l’utilizzo dei suddetti modelli alla concessione rilasciata da Banca d’Italia che deve verificare l’esistenza di alcuni requisiti di natura qualitativa e quantitativa. I modelli interni si fondano sul monitoraggio quotidiano dell’esposizione al rischio, determinata mediante un approccio basato su procedure statistiche il Value at Risk (VaR), che rappresenta una misura sintetica del rischio presente in certo portafoglio finanziario, espresso in forma monetaria, in sintesi, la perdita massima subita dal valore di una posizione o di un determinato portafoglio, dato

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18

un determinato intervallo di confidenza ed un determinato orizzonte temporale. Negli anni novanta, in concomitanza con la diffusione dei derivati, la banca d’affari J.P.Morgan pubblicizzò per prima l’uso di un nuovo strumento a carattere gestionale, presso la Morgan doveva essere prodotto quotidianamente un aggiornamento sul grado di rischio delle posizioni finanziarie detenute dalla banca. È molto semplice comprendere come, essendo il VaR una misura di tipo probabilistica, questa assume valori diversi in corrispondenza di differenti livelli di confidenza. Indicando con pr(E) la probabilità dell’evento E, con z il livello di confidenza e con L la perdita sull’orizzonte temporale prescelto si ha:

𝑝𝑟(𝐿 > 𝑉𝑎𝑅)=1−𝑧

Si ponga l’attenzione su come la definizione di VaR ammetta la possibilità di perdite eccedenti il VaR stesso (con probabilità pari a 1-z). “E chiaro che il VaR non e in grado di descrivere la forma che le perdite assumono oltre il VaR stesso. Alcuni portafogli possono registrare perdite vicine al VaR ma altri possono registrare perdite che superano di parecchie volte la misura del VaR19”. I modelli del VaR permettendo il confronto tra diverse tipologie di rischio, vengono spesso utilizzati per confrontare le diverse alternative di impiego del capitale di rischio, valutare la redditività del capitale allocato ed infine prezzare in modo corretto le singole operazioni sulla base del relativo grado di rischio.

Il Comitato di Basilea, come accennato, ha deciso di subordinare la concessione dell’autorizzazione all’utilizzo dei modelli interni sulla base di dell’esistenza di alcuni requisiti di natura qualitativa e quantitativa, che seppur lasciano in linea di massima alle aziende di credito, la possibilità di scegliere il sistema che meglio si adatta alle loro esigenze operative, fissa in maniera abbastanza rigida la discrezionalità concernente la scelta dei parametri fondamentali alla base del modello scelto.

Per quanto riguarda i requisiti qualitativi è necessario che20:

o il Consiglio di Amministrazione e l’Alta Direzione siano coinvolti attivamente nel processo di controllo dei rischi;

19 Jorion P., Value at Risk : the new benchmark for managing financial risk . New York, Mc Graw Hill,

2007

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19

o la banca disponga di una autonoma unita di controllo dei rischi;

o il modello sia strettamente integrato nella gestione quotidiana del rischio; o sia attuato un rigoroso programma di prove di stress.

In sostanza tali requisiti qualitativi, riguardano la struttura di governance ed organizzativa della banca, si vuole che il modello interno interessi il processo decisionale, vi deve essere un’adeguatezza organizzativa alla base del funzionamento del modello.

Per quanto concerne il rispetto dei requisiti quantitativi, i modelli dovranno rispettare i seguenti criteri:

o il VaR deve essere calcolato su base giornaliera utilizzando un intervallo di confidenza al 99° percentile;

o il periodo di detenzione ipotizzato per il calcolo del VaR deve essere almeno pari a 10 giorni lavorativi;

o il periodo storico di osservazione deve essere almeno 1 anno, tranne nel

caso in cui un periodo di osservazione più breve sia giustificato da un aumento improvviso e significativo della volatilità dei prezzi;

o le serie dei dati devono essere aggiornate con frequenza mensile.

Il coefficiente patrimoniale per una banca che utilizzi un modello evoluto sarà pari alla cifra maggiore tra il VaR del giorno precedente e la media del VaR nei 60 giorni lavorativi precedenti, moltiplicata per un fattore pari a 3.

Inoltre la banca, come prescrive l’articolo 365 della CRR, deve calcolare almeno settimanalmente, un VaR in condizioni di stress del portafoglio corrente, con parametri immessi nel modello del VaR calibrati su dati storici per un periodo continuato di 12 mesi di notevole stress finanziario pertinente per il portafoglio dell’ente. La scelta dei dati storici è soggetta ad un riesame almeno annuale da parte dell’ente, che ne deve notificare i risultati alle autorità competenti.

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20

CAPITOLO 2

IL RISCHIO DI MERCATO E LA SUA STIMA

2.1 I modelli di stima e gestione del rischio di mercato fondati sul VaR

Storicamente, l’approccio alla stima e alla gestione dei rischi di mercato si fondava unicamente sui valori facciali delle singole posizioni. L’esposizione al rischio risultava direttamente proporzionale al valore nominale dello strumento detenuto e ogni limite operativo sulla negoziazione e sul massimo rischio che l’istituzione finanziaria poteva assumere era espresso in termini del valore nominale dei titoli detenuti. Questa misura di rischio, sebbene caratterizzata da un’estrema semplicità, presentava però alcuni svantaggi. Un primo limite evidente era dovuto alla mancata considerazione del valore di mercato di una posizione. In tal modo, due posizioni con stesso valore facciale ma diverso valore di mercato erano valutate ugualmente rischiose. Inoltre l’uso del solo valore nominale non consentiva di apprezzare le differenze tra un acquisto (che produce un utile in caso di un aumento dei prezzi) e una vendita (che produce utile in caso di una diminuzione dei prezzi). In secondo luogo, il valore nominale non permetteva di cogliere la sensibilità ai diversi fattori di mercato a cui risultavano subordinati gli strumenti finanziari in esame. Utilizzando esclusivamente il valore nominale come indicatore, non veniva presa in considerazione la variabilità dei diversi fattori di mercato da cui sono influenzati i vari titoli posseduti, posizioni le cui variazioni dipendevano da fattori di rischio caratterizzati da frequenti fluttuazioni presentavano il medesimo livello di rischio di posizioni legate a fattori di rischio più stazionari.

Il Value at Risk come accennato in precedenza, esprime il tentativo di sintetizzare in un solo valore numerico il rischio complessivo derivante da un portafoglio di attività finanziarie. Dal punto di vista applicativo, la stima dell’esposizione rischiosa secondo il modello VaR necessita di una stima della distribuzione di probabilità, delle variazioni di valore del portafoglio di negoziazione dell’intermediario. È necessario inoltre porre in essere alcune ipotesi concernenti l’orizzonte temporale di riferimento; la numerosità del campione di osservazioni; la distribuzione di probabilità; l’ammontare di massima perdita probabile.

(24)

21

Per quanto riguarda il primo elemento, l’utilizzo di tale modello presuppone la specificazione dell’orizzonte temporale a cui riferire la valutazione del rischio ed all’interno del quale si valuta la variazione del prezzo (giorno, settimana, mese, ecc.). Naturalmente tale scelta inciderà sull’ammontare di rischio assegnato a ciascuna attività. Passiamo ora al secondo punto, ovvero la numerosità del campione di osservazioni. Si fa riferimento alla durata del campione di analisi con riferimento al quale calcolare i rendimenti di periodo e quindi analizzare le caratteristiche della loro distribuzione di frequenza. La scelta di una differente durata campionaria modifica infatti la forma della distribuzione e quindi la valutazione del rischio. Si tratta in questo caso di scegliere il numero di osservazioni passate che occorre includere nell’analisi, la frequenza di revisione dei dati, il peso da assegnare alle singole osservazioni distribuite nel tempo. Per quel che concerne la forma della distribuzione di probabilità, è da sottolineare il fatto che per alcune metodologie di calcolo del VaR, ad esempio quelle parametriche, si impongono ipotesi sulla forma della distribuzione di probabilità e sulle variabili necessarie a descriverne le proprietà (ad esempio media e varianza). In alternativa è possibile non fare alcun tipo di assunzione e valutare direttamente la distribuzione di frequenza dei rendimenti dall’analisi dei dati, come avviene con i modelli basati sulla simulazione sia storica che Montecarlo. Infine, definita la forma della distribuzione dei rendimenti, deve essere deciso l’ammontare di massima perdita probabile che si intende incorporare nell’indicatore di rischio. Tale valore è in genere individuato in corrispondenza del 95° o del 99° percentile di perdita, che in altri termini equivale a scegliere un valore massimo di perdita a cui si attribuisce una probabilità di realizzazione non superiore rispettivamente al 5 e all’1 per cento.21

Attualmente in letteratura vengono disciplinate diverse metodologie di calcolo del VaR raggruppabili in tre famiglie:

1. VaR parametrico: alla base viene posto un modello statistico di riferimento per descrivere le variabili finanziare utilizzate, si è soliti ipotizzare che le perdite del portafoglio seguano una determinata distribuzione con parametri definiti ex-ante (solitamente Gaussiana con media nulla). Si calcola quindi il percentile della distribuzione delle perdite corrispondente al livello di confidenza scelto.

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22

2. VaR con simulazione storica: la stima della massima perdita potenziale, a differenza del metodo precedente, è derivata, non si fa alcuna assunzione sulla distribuzione sottostante le perdite del portafoglio. Si estrae il percentile di tale distribuzione a partire dalla serie storica disponibile, risulta essere maggiormente puntuale nella stima dell’esposizione rischiosa a fronte di un onere maggiore in termini di calcoli e informazioni richieste.

3. VaR con simulazione Monte Carlo: si procede a simulare un numero elevato di volte (sulla base di un generatore di numeri casuali) l’evoluzione di una variabile di mercato della singola posizione e a ricalcolare il valore di mercato della posizione stessa in corrispondenza di ciascun scenario simulato. Una volta ottenuta la distribuzione di probabilità delle variazioni del valore di mercato della posizione, il VaR viene ricavato come nella simulazione storica.

Di seguito verranno descritte in dettaglio le tre metodologie di calcolo del VaR.

2.1.1 L’approccio varianza-covarianza

L’approccio varianza-covarianza (anche detto approccio analitico o parametrico) viene utilizzato in presenza di portafogli lineari. Tale modello rappresenta la versione originale dei modelli VaR e, come tale, quella più rapidamente diffusasi presso le banche anglosassoni. I modelli appartenenti a tale tipologia sono caratterizzati dalle seguenti ipotesi:

 Il rischio viene misurato sulla base della sensibilità della posizione a variazioni dei fattori di mercato e del grado di correlazione fra gli stessi.

 L’individuazione del livello di confidenza desiderato è legata all’ipotesi di una distribuzione normale delle variazioni dei rendimenti della posizione o del portafoglio;

L’ipotesi di “linearità” dei profili di rischio degli strumenti e dei portafogli negoziati;

 Indipendenza seriale dei rendimenti dei fattori di rischio;

La stima del rischio di mercato deriva da specifiche metodologie statistiche che descrivono l’andamento delle variabili finanziarie utilizzate. Servendosi di una matrice delle varianze e delle covarianze si cerca di ottenere una stima dei singoli movimenti

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23

dei fattori di rischio e dei loro movimenti congiunti, ponderando le singole varianze e covarianze ottenute per opportuni parametri di sensibilità si arriva a stimare l’impatto sulle singole posizioni.22

Occorre partire dal presupposto che ci sia un rapporto di reattività tra la posizione iscritta in bilancio e l’andamento del fattore di rischio è necessario inoltre fissare un’assunzione rispetto a quella che è la variabilità dei fattori di rischio e sul grado di correlazione tra quest’ultimi per cercare di cogliere l’effetto di diversificazione del portafoglio.

Tale modello prevede di stimare il VaR di una posizione come prodotto di tre elementi:  Il valore di mercato della stessa posizione (VMi);

 Un coefficiente (δi) rappresentativo della sensibilità della posizione a variazioni del fattore di mercato nei confronti del quale la posizione è esposta;

 La potenziale variazione sfavorevole del fattore di mercato, ottenuta come prodotto di due elementi: la volatilità stimata dei rendimenti di tale fattore di mercato (σi).

 Un fattore scalare ‘s’ che, data l’ipotesi di distribuzione normale dei rendimenti dei fattori di mercato, permette di ottenere una stima del rischio corrispondente al livello di confidenza prescelto;

𝑉𝑎𝑅

𝑖

= 𝑉𝑀

𝑖

⨉ 𝛿

𝑖

⨉ s ⨉ 𝜎

𝑖

Come è facile notare, le singole posizioni verranno inizialmente scomposte nelle relative componenti elementari, utilizzando la tecnica del mapping, tali componenti risulteranno subordinate, in termini di sensibilità, a variazioni di uno solo dei fattori di mercato considerati. Il rischio dell'intera posizione sarà determinato sulla base dei rischi connessi alle singole componenti, aggregati sulla base delle correlazioni fra i rendimenti dei relativi fattori di mercato.

L’ipotesi relativa alla normalità dei rendimenti, risulta essere imprescindibile e semplifica moltissimo il calcolo del VaR, il suo valore infatti risulterà subordinato, oltre che dall’intervallo di confidenza prescelto, da un solo parametro, la deviazione standard della distribuzione di probabilità del rendimento.

Volendo stimare il rischio di un intero portafoglio, occorrerà tenere in considerazione non soltanto la volatilità dei singoli rendimenti delle posizioni, ma anche delle

(27)

24

covarianze. La stima del VaR di un portafoglio P di posizioni sensibili a N diversi fattori di rischio richiede un input addizionale, il coefficiente di correlazione tra i rendimenti dei fattori di mercato. Nel caso limite in cui vi siano soltanto due posizioni aventi valore di mercato VMA e VMB , il valore a rischio complessivo può essere sintetizzato come:

VaR

P

=

VaR

A2

+ VaR

B2

+ 2 VaR

A .

VaR

B .

AB

Nel caso più diffuso di un portafoglio con più di due posizioni, il VaR complessivo può essere stimato ricorrendo all’algebra matriciale23. Indicando con V il vettore dei VaR delle diverse posizioni incluse nel portafoglio:

V =

[

𝑉𝑎𝑅

1

𝑉𝑎𝑅

2

𝑉𝑎𝑅

𝑁

]

e con C la matrice delle correlazioni fra i rendimenti:

C = [

1

1,2

1,𝑁

1,2

1

2,𝑁

1,𝑁

2,𝑁

1

]

È possibile esprimere il VaRp complessivo del portafoglio come:

VaR

p

=

√𝑉

𝑡

𝐶

Con Vt matrice trasposta di V.

Sebbene l’approccio varianza-covarianza risulti essere notevolmente pratico e ampiamente utilizzato, le ipotesi sottostanti il suo funzionamento non sono pienamente realistiche. Le distribuzioni empiriche dei rendimenti dei fattori di mercato sembrano

23 Saita F., Il risk management in banca: performance corrette per il rischio e allocazione del capitale,

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25

confutare l’ipotesi di distribuzione normale dei rendimenti, mostrando code più spesse di quelle di una distribuzione normale. Questo fenomeno, definito leptocurtosi, va ad evidenziare come la probabilità che si verifichino variazioni di prezzo lontane dal valore medio è più elevata di quella implicita in una distribuzione normale, di conseguenza l’eventualità di subire perdite superiori al VaR è maggiore rispetto a quella corrispondente al livello di confidenza scelto. Al fine di superare il suddetto limite gli addetti ai lavori hanno sviluppato degli accorgimenti metodologici nella stima delle volatilità e delle correlazioni tra i rendimenti dei fattori di mercato, utilizzati nel calcolo del VaR con l’approccio parametrico, si pensi all’utilizzo delle metodologie fondate sulle medie mobili24, che servendosi dei dati di volatilità e correlazioni storiche, tentano di fornire delle previsioni di volatilità e correlazioni future. A tal fine basti pensare al metodo delle medie mobili semplici, nel quale il dato più lontano è continuamente aggiornato per fornire una previsione più accurata e lasciando inalterata la dimensione del campione analizzato. Un’altra metodologia appartenente alla medesima categoria è quella delle medie mobili esponenziali, che servendosi un elevato numero di osservazioni passate attribuisce un peso maggiore a quelle più recenti, ponderandole con un determinato fattore denominato decay factor in funzione di quello che è il grado di persistenza delle osservazioni passate.

Altri accorgimenti per la stima della volatilità e delle correlazione dei rendimenti dei fattori di mercato derivano dall’utilizzo dei modelli GARCH25 (Generalized Autoregressive Conditional Heteroskedasticity), volti a fronteggiare il fenomeno definito con il termine di volatility clustering, che si fonda sull’ipotesi che i fattori di mercato presentano periodi di maggiore volatilità.

Una seconda soluzione è quella di sostituire la distribuzione normale dei rendimenti con un’altra distribuzione, quale ad esempio la distribuzione t di Student26, caratterizzata da code più spesse e dunque in grado di riflettere adeguatamente la probabilità associata a movimenti estremi dei fattori di mercato

24 Per ulteriori approfondimenti sulle medie mobili utilizzate per il calcolo del VaR si veda: C. Alexander

“Volatility and correlation: measurement, models and applications”, working paper, 1998; C. Books, G. Persand, “The pitfalls of VaR estimates”, working paper, Risk, 2003; A. Sironi, M. Marsella, “La misurazione e la gestione dei rischi di mercato”, Il Mulino, Bologna, 1997

25 Per ulteriori approfondimenti sui modelli GARCH si veda: C. Alexander “ Volatility and correlation: measurement, models and applications”, working paper, 1998; E. Sheedy “Why VaR models fail and

what can be done”, working paper, 2008; C. Brooks and G. Persand “Volatility forecasting risk management”.

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