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Risposte inglesi alla Rivoluzione francese

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Academic year: 2021

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U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN STORIA E

CIVILTÀ

TESI DI LAUREA

Risposte inglesi alla Rivoluzione francese

Relatore

Candidato

Dott.ssa Cristina Cassina Mirko Tomagnini

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Indice

Introduzione: p. 5.

La Rivoluzione in Francia: p. 7.

Risposte politico-militare: p. 17.

Pitt e la politica, p. 17. - Pitt e la guerra, p. 24.

Risposte Ideologiche: p. 32.

Edmund Burke: la vita e le opere, p. 33 - Reflections on the Revolution in France, p. 36. Thomas Paine: Rights of Man, p. 52 – Jeremy Bentham, p. 59.

Risposte della stampa: p. 64.

The Annual Register, p.70. - The Anti-Jacobin review and magazine, p. 86. - The British Critic and Quarterly Theological Review , p. 100.

Appendice: p. 106.

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Introduzione

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parole o gli atti con cui si risponde, si reagisce o si ribatte a espressioni, azioni o comportamenti di altri che costituiscono una provocazione, un’offesa o un attacco»1.

Questa è la definizione della parola «risposta» che possiamo trovare sull'Enciclopedia Treccani. Questo termine, derivante dal latino respondeo, aveva già nella sua origine latina una sfumatura nel suo significato che stava per «essere contrapposto, resistere, opporsi»:

«Urbes respondebunt Catilinae tumulis silvestribus»2.

A partire dall'epoca moderna questa accezione di significato fu lentamente assimilata anche dal termine «reazione», molto affine a «risposta», poiché parte della medesima famiglia semantica. Questo termine è possibile rilevarlo a partire dal Seicento nel linguaggio tecnico e scientifico; solo a partire dal Settecento divenne parte della terminologia di quelle che sarebbero poi divenute «scienze umane». Montesquieu lo utilizzò in senso figurato nella sua opera più importante: Lo spirito delle

leggi.

Solamente più avanti, proprio durante gli anni della Rivoluzione francese, il termine «reazione» assunse un significato politico: Mirabeau infatti diede questa definizione del termine nel 1790:

1 Consultato in rete su http://www.treccani.it/vocabolario/risposta in data 20/05/2018. 2 «Le nostre città si contrapporranno alle colline e alle macchie tra cui si terrà Catilina». Cic,

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«Mouvement d'opinion qui agit dans le sens opposé au mouvement d'opinion qui a précédé»3

Non solo Mirabeau, ma anche Marat contribuì a definire il significato di «reazione» in ambito politico. Così infatti si espresse nel 1792, dando forse una connotazione ancora più politica al termine:

«Mouvement d'idées, actions qui s'oppose au progrès social issu des principes de la Révolution et vise à rétablir des institutions antérieures»4.

Prendendo spunto dalle prime applicazioni al campo politico, in questo lavoro si analizzeranno il «movimento di opinioni», «il movimento di idee» e «le azioni» che nell’insieme, a cavallo tra Sette e Ottocento, formano le

Risposte inglesi alla Rivoluzione francese.

La Rivoluzione in Francia

3 Mirabeau, 27 nov. dans BRUNOT t. 9, p. 843 et 844, note 8. 4 Marat, Pamphlets, Aux Fr. patriotes, p. 299

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Nel 1789, in seguito a un lungo periodo di crisi al quale vari controllori delle finanze non riuscirono a porre rimedio, troviamo la «Rivoluzione francese», un evento che darà il via a un grande dibattito ideologico e a un grande lavoro costituzionale, paragonabile con quello avvenuto nelle colonie inglesi oltreoceano pochi anni prima.

Dopo parecchi anni in cui l'immobilismo dominò la politica francese attraverso questa grave crisi, Charles Alexandre de Calonne, nominato da poco nuovo direttore delle finanze, nel 1786 propose al re di Francia Luigi XVI l'unica soluzione secondo lui possibile per risanare un dissesto sempre più grave. Questa soluzione prevedeva l'introduzione di una nuova tassa fondiaria, proporzionale al proprio reddito, che sarebbe pesata su tutti i cittadini di ogni classe sociale. Conscio delle proteste che la proposta di questa tassa avrebbe scatenato, Calonne suggerì a Luigi XVI di discutere la sua proposta riunendo un'assemblea di notabili, nella speranza che questa accettasse l'abolizione dei privilegi di esenzione dalle tasse dei nobili e del clero. Pur mostrandosi concorde su questo punto l'assemblea decise di respingere la proposta del controllore delle finanze poiché riteneva che tale decisione dovesse passare al vaglio della vera rappresentanza della nazione: gli Stati Generali. Poiché nemmeno l'arcivescovo di Tolosa, che sostituì Calonne quale controllore delle finanze, riuscì a far passare la proposta presso l'assemblea dei notabili, il re decise di scioglierla il 25 maggio del 1787.

La posizione irremovibile dell'assemblea dei notabili di convocare gli Stati Generali era dovuta al fatto che nel corso del XVIII secolo l'opinione pubblica aveva acquisito una grande importanza e questo era avvenuto grazie al sempre maggior numero di giornali e libri che circolavano non solo a Parigi, ma in tutta la Francia. Grazie a tutto questo prese sempre più forza un dibattito che vedeva al centro la critica verso i monarchi e verso il

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dispotismo e di conseguenza una richiesta da parte del popolo di essere rappresentato, influenzati non solo dal modello inglese, ma anche dalle idee provenienti oltreoceano.

Mentre la crisi continuava, il popolo chiamava a gran voce la convocazione degli Stati Generali, desideroso non solo di trovare il modo di superare la crisi ma anche di riformare l'intero Stato. Così nell'agosto del 1788 venne annunciato che il 1 maggio dell'anno successivo si sarebbero riuniti gli Stati Generali. Nel frattempo Necker, già in passato controllore delle finanze, tornò a ricoprire il suo ruolo.

Il 5 maggio 1789 vennero riuniti quindi gli Stati Generali nella reggia di Versailles e vi scoppiò subito un contrasto riguardante le modalità di voto. Il 25 settembre dell'anno precedente era stato deciso dal Parlamento di Parigi che sarebbe state dovute essere rispettate le modalità con cui si svolse l'ultima riunione degli Stati Generali, avvenuta nel 1614: i tre ordini (nobiltà, clero e terzo stato) avrebbero dovuto sedere e deliberare separatamente. Nobiltà e clero infatti volevano in gran parte che l'espressione del voto fosse da esprimersi “per ordine”, mentre il terzo stato richiedeva che fosse espresso “per persona”. La stampa partecipò direttamente al dibattito, richiedendo che i tre ordini si riunissero in un'unica assemblea dove si sarebbe votato “per persona”.

«Chie espresse con maggior efficacia queste rivendicazioni fu l'abate Emmanuel-Joseph Sieyès, in un pamphlet pubblicato nel gennaio 1789 e intitolato Che cos'è il Terzo Stato?. Rifiutandosi di fare causa comune con il Terzo Stato, che era la grande maggioranza della nazione e ne costituiva l'unica componente operosa e produttiva, il clero e la nobiltà secondo Sieyès si ponevano di fatto al di fuori della nazione stessa e perdevano ogni diritto»5.

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Nel mentre prendeva sempre più piede l'idea che gli Stati Generali dovessero divenire assemblea costituente, dando così alla Francia una nuova Costituzione: questo era il clima in cui gli Stati Generali si riunirono. I deputati rappresentanti il Terzo Stato erano circa la somma dei deputati che rappresentavano gli altri due ordini, e ciò fu motivo ancora una volta di proteste per far si che si potesse votare «per persona» e non «per ordine».

Questa disputa si protrasse fino a giugno, quando poi il Terzo Stato, con l'appoggio del clero, decise di costituirsi in una assemblea indipendente (Assemblea nazionale), i cui membri giurarono di non sciogliersi prima di aver redatto una nuova Costituzione. Presto il clero e parte della nobiltà si unirono all'Assemblea nazionale, che divenne costituente il 9 luglio di quell'anno. Nel mentre la corona pianificava di sciogliere tale assemblea con la forza, ma una serie di sommosse scoppiate nei primi giorni di luglio, culminate il 14 luglio con la celebre presa della Bastiglia, impedì a Luigi XVI di portare avanti questo progetto. Le proteste non avvennero soltanto a Parigi, bensì si formarono nuove istituzioni municipali fedeli all'Assemblea nazionale in tutta la Francia. Conseguì anche una grande rivolta nelle campagne che diede un carattere antifeudale a quest'ultima: la «Grande Paura».

L'Assemblea si mise subito all'opera. In tempi brevissimi, e sotto il peso di presunte minacce provenienti dalle campagne (il fenomeno della «Grande Paura»), essa compì passi decisivi: nella notte del 4 agosto abolì il sistema feudale e pochi giorni più tardi, il 26 agosto, votò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Per questo testo, nel quale si affrontano i diritti fondamentali dell'uomo sotto molteplici profili, l’Assemblea si ispirò sia alla Dichiarazione d'Indipendenza americana sia, soprattutto, alle Dichiarazioni che alcuni Stati americani avevano premesso ai propri testi costituzionali. Per inciso, la Dichiarazione francese del 1789 avrebbe a sua

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volta guidato la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo promulgata dalle Nazione Unite nel 1948.

Per far si che il re ratificasse questi provvedimenti fu necessario un intervento armato da parte della guardia nazionale, guidata da La Fayette, un generale e politico francese già protagonista della Rivoluzione americana, che costrinse il alla ratifica dei provvedimenti e a ristabilirsi a Parigi, dove si trasferì anche l'Assemblea nazionale.

A causa del carattere debole del Re, incapace di tenere testa alla portata degli eventi, nell'Assemblea nazionale poco peso ebbero sia i sostenitori dell'assolutismo, sia coloro che guardavano al modello inglese come un esempio da replicare in Francia. Furono invece i «liberali», tra le cui fila figurava La Fayette, e il triumvirato composta da Alexandre Lameth, Adrien Duport e Antoine Barnave ad avere maggior influenza in assemblea. Fu così che nacquero le espressioni «destra» e «sinistra» riferite agli schieramenti politici: tali termini infatti si riferivano al collocamento fisico degli schieramenti all'interno dell'Assemblea nazionale rispetto ai liberali. A sinistra di questi risiedevano coloro che avevano opinioni particolarmente radicali e volevano con maggior fermezza rispettare le richieste del popolo; tra questi figurava Maximilien Robespierre(1758-1794).

Le questioni politiche in quei giorni non erano discusse soltanto in sede dell'Assemblea nazionale, bensì anche nei vai circoli e club che sorsero copiosamente in tutta la Francia. Tra i vari club e circoli in questo periodo sorse anche quello della «Società degli amici della Costituzione» che prese poi il nome di club dei «giacobini». Questo club andò prendendo sempre più importanza tanto è vero che dopo la proclamazione della Repubblica divenne centrale quale «raccordo della vita politica di tutta la Francia».

Altro importante club che si costituì a seguito della Rivoluzione francese fu quello dei «cordiglieri», i cui maggiori membri di spicco furono

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il giornalista Desmoulins e l'oratore Danton (1759-1794) .

Molti furono anche i giornali che apportarono il loro contributo al dibattito sulla Rivoluzione in Francia, tra i quali è importante citare il

Patriote français di Brissot, L'ami du peuple di Marat e il Père Duchesne

di Hébert.

Il diffondersi dei vari circoli e club in tutta Francia, e l'intensiva pubblicazione da parte dei giornali contribuì in maniera decisa alla politicizzazione delle masse parigine e non, con la proliferazione di incontri nelle piazze e la formazione di società di quartiere. Nel 1790 si decise così di suddividere Parigi in 48 sezioni che fecero da quel momento da base per lo scambio di notizie e per il dibattito, nonché per l'organizzazione di manifestazioni e proteste da parte del popolo.

Tra le prime azioni portate avanti dall'Assemblea nazionale vi fu quella di abolire le parti delle procedura penale tipiche dell'Ancien Régime e lo scioglimento dei parlamenti. Stando alle nuove leggi il popolo doveva eleggere giudici e tribunali, sancendo così la separazione totale del potere giudiziario da quello legislativo e da quello esecutivo.

Nel mentre rimaneva però irrisolta la crisi economica che era stata causa delle proteste iniziali. Nel novembre del 1789 era stata sancita la confisca di tutti i beni ecclesiastici e si decise per l'emissione degli «assegnati», che però presto diventarono un arma per gli speculatori, che li usavano per comprare beni di Stato in vendita, e una trappola per le classi lavoratrici le quali, dovendo accettarli come pagamento, non riuscivano a comprarvi i beni di prima necessità a causa dell'inflazione sempre maggiore. Le vecchie imposte furono sostituite tra il 1790 e il 1791 con una nuova contribuzione fondiaria proporzionale al valore delle proprietà, un' imposta sulla ricchezza mobile e una patente per poter esercitare la professione. Tali misure risultarono però inefficaci. Fu così che presero piede le idee dei liberisti:

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questi pensavano che fosse necessaria l'abolizione delle corporazioni di mestiere e l'abolizione delle associazioni operaie.

Gli interventi dell'Assemblea nazionale prendevano in esame anche la delicata situazione delle istituzioni religiose. Dopo aver già deciso in favore della confisca dei beni ecclesiastici e della nomina a vescovo tramite elezione popolare, nel dicembre del 1790 fu sancito che tutti i rappresentanti del clero pronunciassero un giuramento di fedeltà alla Rivoluzione: la maggior parte di questi si rifiutarono.

Nel mentre il lavoro dell'Assemblea costituente proseguì, arrivando a promulgare il 30 settembre del 1791 una nuova costituzione. Questa nuova carta costituzionale aveva un carattere molto censitario: il diritto di voto era concesso solamente a chi potesse pagare imposte per un minimo di tre giornate di lavoro, un soglia che comunque permise a due terzi di maschi adulti di poter votare.

Questa costituzione prevedeva una limitazione dei poteri del sovrano, il quale era depositario del solo potere esecutivo, quindi la nomina di ministri, diplomatici e generali. I poteri del re inerenti la politica estera erano invece quelli di sottoporre all'Assemblea legislativa i trattati di guerra e i trattati di pace. In realtà il sovrano deteneva un altro potere decisivo, la facoltà di esercitare un veto sospensivo sulle Leggi prodotte dall'Assemblea Legislativa. Tale veto però non poteva «applicarsi né alle leggi costituzionali, né alle leggi fiscali, né alle deliberazioni concernenti la responsabilità dei ministri.» 6

Per quanto riguarda il potere legislativo, esso era competenza dell'Assemblea legislativa, composta di 754 deputati ed eletta per la durata di due anni. Prima di sciogliersi l'Assemblea costituente sancì che nessuno facente parte di questa potesse essere eletto all'Assemblea legislativa, dando

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così maggior autorità alle figure provenienti dai circoli e dai club sopra citati: 250 foglianti e 136 giacobini entrarono a far parte di tale assemblea. Ben presto questi ultimi grazie all'appoggio esterno del proprio club, e all'abilità politica e oratoria dei suoi membri di spicco quali Brissot e Robespierre, ben presto divennero la parte più influente dell'Assemblea.

Nella Costituzione del 1791 il rapporto tra re e Assemblea era senza dubbio a vantaggio di quest'ultima: la preponderanza del potere legislativo prefigurava un sistema piuttosto sbilanciato, privo di quei contrappesi che, nella Repubblica che si era formata nelle ex colonie inglesi, avevano cercato di tenere in equilibrio il nuovo edificio.

Dopo l'avvio nell'aprile del 1792 della guerra contro l'Austria ed il pessimo andamento iniziale di essa, l'Assemblea cedette il posto ad una Convenzione nazionale, eletta appositamente per redigere una nuova Costituzione.

Dopo l'avvio nell'aprile del 1792 della guerra contro l'Austria e il suo pessimo andamento, la situazione precipitò. Folle rivoluzionarie si impadronirono del Comune di Parigi e penetrarono negli appartamenti reali alle Tuileries. La famiglia reale fu messa «sotto protezione» dell’Assemblea Legislativa: in pratica, il re era prigioniero. Constatando che uno dei due perni su cui poggiava l’assetto disegnato nel 1791 era venuto meno, l'Assemblea cedette il posto ad una Convenzione nazionale, eletta appositamente per redigere una nuova Costituzione. La Convenzione Nazionale fu eletta il 21 settembre del 1792 a suffragio universale maschile. Il giorno di apertura dei lavori, come primo atto e con il favore di tutti i componenti, essa votò l'abolizione della monarchia. Qualche giorno dopo, il 25 settembre, la Convenzione proclamò la République française «unica e indivisibile».

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processo più lento. Esso è da inquadrare nelle diverse fasi in cui si è soliti suddividere la lunga esistenza di questa Assemblea Costituente: la fase girondina, la fase giacobina, la fase termidoriana. La seconda e la terza fase approdarono al varo di un testo costituzionale: la Costituzione dell’anno I7 e

la Costituzione dell’anno III8. Della prima fase invece, quella girondina,

non ci resta una Costituzione scritta, bensì un importantissimo documento costituzionale: il progetto girondino elaborato da Marie-Jean-Antoine de Caritat, marchese di Condorcet (1743-1794), fortemente influenzato dall'esempio oltreoceano.

Alla fine del XVIII secolo anche in Francia le moderne teorie repubblicane si traducono dunque in realtà e si accompagnano alla redazione di testi costituzionali. In tal contesto, l’esempio della Rivoluzione americana svolge un ruolo determinante. Infatti il periodo che va dal 1776 al 1787 «è l'epoca in cui lo scambio culturale franco-americano si colloca all'origine di un progressivo affinamento delle strutture formali del pensiero repubblicano moderno. E non è affatto secondario riconoscere che […] un tale processo ebbe effetti molto rilevanti sulla genealogia e i primi sviluppi politico-costituzionali della repubblica nella Francia rivoluzionaria»9.

Pur essendo ratificata da un referendum popolare, la Costituzione del

7 Il 24 giugno del 1793 i giacobini, egemoni della Convenzione, votarono la Costituzione dell'anno I. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino che la precedeva si discostava in parecchi punti da quella del 1789. In essa si proclamava la sovranità popolare, il diritto di associazione, il diritto al lavoro e all'assistenza pubblica, il diritto all'educazione pubblica e, come sanciva l'articolo 35: «Quando il Governo viola i diritti dei popolo,l'insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri» (art. 35). Pur essendo ratificata da un referendum popolare, la Costituzione del 1793 non entrò mai in vigore, poiché il 10 ottobre la Convenzione istituì il «governo rivoluzionario» fino alla fine della guerra contro l'Austria.

8 La Convenzione termidoriana, una volta scartata la possibilità di dare attuazione alla Costituzione giacobina, elaborò un nuovo testo costituzionale. La nuova articolazone dei poteri si realizza attraverso un potere Legislativo bicamerale e un esecutivo collegiale (Direttorio) nominato dallo stesso potere esecutivo.

9 Gabriele Magrin, Il costituzionalismo americano e la nascita della repubblica in Francia, in Fernanda Mazzanti Pepe (a cura di), Culture costituzionali a confronto: Europa e Stati Uniti

dall'età delle rivoluzioni all'età contemporanea tra Otto e Novecento. Genova, Name, 2005, p.

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1793 non entrò mai in vigore, poiché il 10 ottobre la Convenzione si decise per un «governo rivoluzionario» fino alla fine della guerra contro l'Austria.

All'interno del Comitato di salute pubblica intanto cresceva la fama di Maximilien Robespierre, «un ex avvocato di provincia che meritò di essere soprannominato “l'incorruttibile” per la sua dedizione completa alla causa rivoluzionaria, per la sua sollecitudine verso i poveri e gli oppressi e per la sua pratica delle virtù repubblicane»10. Il potere che questi possedeva fu

abbastanza forte da permettergli nei primi mesi del 1794 di eliminare i suoi due rivali: Hébert11 e Danton, rispettivamente a capo degli «hebertisti» e

degli «indulgenti». Questo fatto, che avrebbe dovuto essere la consacrazione di Robespierre come leader della Rivoluzione e della Francia, portò invece il malcontento tra il popolo e in seno alla Convenzione; questo e l'incremento delle esecuzioni durante questo periodo, definito «Regime del Terrore», portarono ad un complotto ai danni di Robespierre che venne ghigliottinato il 28 luglio sulla pubblica piazza.

Con la morte di Robespierre e la fine del «Regime del Terrore», si sentì il bisogno di ratificare una nuova Carta costituzionale: il 22 agosto 1795 venne così approvata la Costituzione dell'anno III, la quale dava il potere legislativo a due Camere: il Consiglio degli Anziani e il Consiglio dei Cinquecento. Il potere esecutivo era invece affidato al Direttorio, un assemblea di cinque membri. Fu proprio il Direttorio a decidere per un colpo di stato militare volto a salvare la repubblica alla luce della svolta monarchica delle elezioni del 1797. Sarà negli anni di governo del Direttorio che acquisterà sempre più potere e fama un giovane militare corso, Napoleone Bonaparte, il quale una volta assunta la guida della

10 C.Capra, Storia Moderna(1492-1848), Milano, Mondadori, 2011, p.293.

11 Jacques-René Hebert (1757-1794) fu membro del club dei Cordiglieri. [..]Sostituto procuratore della Comune (dic. 1792), fu a capo di una vivace corrente (gli hebertisti) che propugnava la lotta sociale e misure economiche rivoluzionarie. [..]Iniziato il riflusso del movimento rivoluzionario e dopo un fallito tentativo di presa del potere (4 marzo 1794) H. e i suoi furono processati e ghigliottinati (21-24 marzo).

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Francia assumendo il titolo di imperatore darà inizio a un'età che proprio da lui prenderà il nome, che si concluderà solamente con il Congresso di Vienna: l'Età Napoleonica.

Questi eventi ebbero grande influenza in tutta Europa, oltremanica e anche oltreoceano, nei neo-fondati Stati Uniti d'America, nella sfera politica e nelle riflessioni di vari pensatori e intellettuali dell'epoca, comportando così il crearsi di un dibattito sulle pagine dei giornali, con la pubblicazione frequente di pamphlet e articoli dedicati ai temi sollevati dalla Rivoluzione.

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Pitt e la politica

William Pitt “il Giovane” nacque ad Hayes il 28 maggio 1759 e fu il secondogenito di William Pitt, conte di Chatam, e di Hester Pitt. Fu inizialmente istruito a casa per volontà del padre, che affidò la sua formazione a un reverendo, Edward Wilson. Sin da subito si mostrò molto capace negli studi, iniziando così a frequentare nel 1773 il Pembroke

College a Cambridge, dedicandosi allo studio della filosofia politica e della

storia, senza tralasciare però lo studio delle scienze. Tormentato dalla cattiva salute, nel 1776 Pitt si laureò senza conseguire l'esame finale, avvalendosi di un privilegio riservato ai nobili. Due anni più tardi si spense Pitt “il Vecchio”, lasciando al suo secondogenito una piccola eredità. Questi decise di ottenere una formazione giuridica presso il Lincoln's Inn, arrivando così nel 1780 a poter esercitare la professione forense.

William Pitt fu protagonista assoluto della politica inglese alla fine del XVIII secolo. Questi diventò primo ministro nel 1783 per ordine di re Giorgio III (1732-1820), in seguito alla più grande crisi che il regno d'Inghilterra avesse sofferto nel '700: la guerra di indipendenza americana cominciata nel 177612. Dopo svariati fallimenti portati avanti dai vari

governi che si erano succeduti, dopo la destituzione di Lord North13 da

primo ministro nel 1782, il 17 dicembre del 1783 re Giorgio III decise di affidare il governo a William Pitt il giovane, ponendo quindi fine al governo

12 Per approfondire si veda A.Guido, La rivoluzione americana, Bari-Roma, Laterza, 2009. 13 Frederik North (1732-1792) 2° conte di Guilford, fu capo del governo inglese dal 1770 al 1782.

La debolezza del suo ministero favorì la perdita delle colonie inglesi d'America durante la rivoluzione americana.

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di coalizione di Portland14, Fox15 e North. Pitt accettò subito l'incarico,

avendo la garanzia che avrebbe potuto contare sull'appoggio della Camera dei Comuni fino a quando con nuove elezioni non avesse ottenuto una maggioranza sufficiente in entrambe le camere. Fin da subito Fox criticò aspramente Pitt «definendolo un rinnegato ambizioso che aveva messo da parte le proprie opinioni per amore della carica»16, probabilmente poiché lo

stesso Fox aveva chiesto a Pitt di entrare a far parte del proprio gabinetto il mese prima che Pitt accettasse la carica di primo ministro. I maggiori temi su cui Pitt e Fox si scontrarono fino al 1806, anno della fine del governo e della morte di Pitt, furono il tema costituzionale e la politica estera legata soprattutto agli eventi che avrebbero visto protagonista la Francia a partire dal 1789. Durante il periodo che separò la nomina di Pitt alle elezioni della primavera del 1784, Fox si spese molto per portare l'opinione pubblica e il consenso della classe politica dalla sua parte; la forte tematica che questi portava avanti riguardava l'incostituzionalità di un primo ministro che non aveva la maggioranza alla Camera dei Comuni. Pitt però riuscì a rafforzare passo dopo passo la sua posizione in entrambe le camere, conquistando alla fine anche l'opinione pubblica grazie ai suoi progetti per le Indie e alla riforma parlamentare che perorava sin dal 1781. Nel marzo del 1784 il re sciolse il parlamento e si tennero le elezioni generali che, come previsto, videro trionfare Pitt e perdere ben 100 seggi all'avversario Fox. Durante il suo primo mandato, il giovane primo ministro diede dimostrazione di non desiderare una propria fama e autorità disgiunta dall'autorità regia di

14 William Henry Cavendish Bentink duca di Portland (1738-1809). Successore di Lord Rockingham come capo dei whigs, primo ministro nell'anno 1783, poi segretario di stato per gli Affari Interni con Pitt durante la guerra contro la Francia rivoluzionaria, fu ancora primo ministro nel 1807-09.

15 Charles James Fox (1749-1806) fu un politico e oratore inglese. Nel 1783 fece parte del governo che firmò la pace con gli Stati Uniti (20 gennaio). Per tutta la durata del governo di Pitt il giovane sarà all'opposizione.

16 A.Briggs, L'età del progresso: l'Inghilterra fra il 1783 e il 1867, il Mulino, Bologna, 1987, p. 93.

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Giorgio III, cercando sempre di servire al meglio l'Inghilterra e la corona; anche quando nell'aprile del 1785 la proposta di riformare il parlamento venne osteggiata e bocciata dal re, con il favore di lord North, Pitt accettò con serenità la bocciatura della riforma, e con essa il fatto che il suo compito era quello di servire il re e non quello di guidare il paese soltanto secondo le sue intenzioni. Fu probabilmente anche per questa sua qualità che riuscì a conservare la carica tanto a lungo e a portare avanti la sua politica costellata di tanti successi, quattro in particolare: risanamento delle finanze nazionali, realizzazione di riforme amministrative, riorganizzazione dei mandati imperiali britannici e riabilitazione della Gran Bretagna in Europa. Per quanto riguardava il risanamento delle finanze nazionali, la bravura di Pitt fu quella di comprendere l'importante momento di progresso che il paese stava vivendo in quegli anni, aiutando questo processo con una eccellente politica fiscale che permise, tramite nuove imposte, di aumentare le entrate nelle casse del regno di quasi 4 milioni di sterline. Anche l'opera di prevenzione del contrabbando e delle frodi fu molto importante; con l'emanazione dell'Hovering Act, che autorizzava la confisca di alcune tipologie di nave costruite appositamente per il contrabbando quando erano ormeggiate o bordeggiavano entro 4 miglia dalla costa, e con l'abbattimento dei dazi doganali al 12,5%, Pitt rese sconveniente il contrabbando proprio per coloro che lo esercitavano.

La politica economica di Pitt non si limitava solamente alla fiscalità e alla prevenzione del contrabbando; nel 1785 portò all'attenzione del Parlamento un trattato per il libero scambio con l'Irlanda, che fu però oggetto di una forte opposizione da parte degli industriali impedendone alla fine la ratifica. L'anno seguente Pitt riuscì invece a concludere un trattato commerciale con la Francia, sebbene ancora una volta parte degli industriali si opposero, che fino agli eventi della Rivoluzione francese portò molti

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vantaggi al mercato inglese. La politica economica di Pitt non fu osteggiata soltanto dalla classe industriale, ma anche da Fox. Questi si dichiarò profondamente anti-francese durante i dibattiti sul trattato con la Francia, arrivando ad affermare che «la Francia è il nemico politico naturale della Gran Bretagna»17. In realtà le parole di Fox erano un mero pretesto per

attaccare la politica economica di Pitt senza proporre un'alternativa valida, e ciò è dimostrato dal fatto che una volta scoppiata la rivoluzione in Francia, Fox abbandonò le sue posizioni anti-francesi, a quel punto abbracciate da Pitt, affermando che le sue posizioni nel 1786 erano anti-borboniche e non anti-francesi.

Dal punto di vista amministrativo e dell'organizzazione del gabinetto Pitt aveva delle idee ben precise riguardo al ruolo del primo ministro; egli, nell'amministrazione del paese, doveva avere il peso maggiore in consiglio e godere più di tutti della fiducia del re. Sempre a lui spettava essere a capo delle finanze, pur rimanendo sempre aperto al dialogo e al confronto con le altre cariche istituzionali. Questa concezione della carica da parte di Pitt ottenne di abituare l'Inghilterra a un elevato livello di competenza amministrativa e finanziaria.

All'inizio del suo mandato come primo ministro Pitt si mostrava titubante sulle possibilità militari della Gran Bretagna, a causa del contraccolpo economico dovuto alla perdita delle colonie americane; grazie però alla pace con esse, al conseguente avvio di un florido commercio nell'Atlantico tra gli Stati Uniti e il regno di Giorgio III e alle politiche economico-finanziarie di Pitt di cui sopra, la potenza economica inglese crebbe e di pari passo pure la sua potenza militare. Questo periodo di crescita economica fu possibile, proprio come sostenne lo stesso Pitt nel 1792 in un suo discorso, grazie al periodo di pace che era seguito dopo la

17 Citato in A.Briggs, L'età del progresso: l'Inghilterra fra il 1783 e il 1867, il Mulino, Bologna, 1987, p.135

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fine del conflitto oltreoceano, permettendo quindi all'Inghilterra di arrivare alla vigilia della guerra con la Francia rivoluzionaria ben preparata. A riguardo di questo, nel solito anno, fu scritto infatti:

«Quest'isola, separata dal grande continente dell'Europa, possiede più ricchezza e potere e gode di maggior tranquillità e libertà di tutte quelle immense nazioni che popolano questa regione tanto importante del globo»18.

Pitt non fu mai un ammiratore dell'Ancien Régime e, quando decise di entrare in guerra, non desiderava vederlo restaurato. Accolse con favore la riforma in Francia, ma per lui la vera rivoluzione fu quella del 1789. Condannò la scivolata verso l'anarchia e la violenza, ma fu sconvolto dall'intransigenza di coloro che lasciarono la Francia proprio come fu indignato dal fanatismo dei giacobini; la risposta che conseguì alla Rivoluzione francese da parte di Pitt fu quindi essenzialmente obiettiva, piuttosto che dottrinaria o allarmista. Le maggiori preoccupazioni del primo ministro durante la guerra furono senza dubbio la difesa degli interessi britannici e il raggiungimento di un equilibrio di potere; dopo il 1783 infatti Pitt aveva fatto tutto il possibile per sanare i problemi dell'Inghilterra ereditati dalla guerra contro le tredici colonie americane. Furono gli eventi esterni all'Inghilterra che dal 1789 in poi determinarono gran parte di quello che successe in Gran Bretagna nell'ultima decade del XVIII secolo.

Lo scoppio della Rivoluzione non fu mai vittima di un pregiudizio da parte dell'opinione pubblica inglese: molti degli intellettuali inglesi videro di buon occhio ciò che stava accadendo in Francia, numerosi poeti furono

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ispirati da questo vento di rinnovamento e di libertà proveniente da oltremanica. I whigs salutarono la Rivoluzione come se fosse una tappa fondamentale nella storia dell'uomo per l'affermazione della libertà e della giustizia, mentre i tories ritennero, probabilmente in maniera più opportunistica, che il 1789 significasse un indebolimento della Francia, favorendo così i piani di politica estera e militare dell'Inghilterra.

In questo periodo nacquero anche diverse associazioni la cui natura era quella di sostenere le idee e le azioni portate avanti dai rivoluzionari, spesso cercando di correlare la Gloriosa Rivoluzione e la Rivoluzione francese come tappe verso l'ottenimento della libertà. Difatti molte delle società che sostenevano gli ideali rivoluzionari francesi non erano altro che società nate anzitempo in commemorazione del centenario della Gloriosa Rivoluzione, che trovarono nella Rivoluzione la possibilità di dare continuità alle proprio idee rinnovamento. Bisogna comunque tenere conto del fatto che queste associazioni rappresentavano in realtà soltanto una piccola parte elitaria e minoritaria dell'opinione pubblica, che per la maggior parte manifestava preoccupazione per la deriva violenta che la Rivoluzione avrebbe potuto assumere.

Anche il re Giorgio III, poiché il re di Francia Luigi XVI si era alleato con le colonie durante la guerra in America, pensò che vi fosse giustizia in ciò che stava accadendo; lo stesso Pitt confidava che in Francia maturasse una stabilità che permettesse il prima possibile di instaurare un rapporto di pace con essa. L'unica voce fuori dal coro fu quella di Edmund Burke che, come vedremo, fin da subito si espresse contro alla Rivoluzione francese, “profetizzando” gli eventi che avrebbero poi caratterizzato la Francia nell'ultima decade del XVII secolo.

Questa atmosfera ottimista che si respirava nell'Inghilterra di quegli anni ebbe però vita breve; arrivati al biennio 1792-1793, l'effetto principale che

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la Rivoluzione francese ebbe non fu tanto quello di rivitalizzare l'attività politica anche nelle classi più povere, ma quello di creare nella classe dirigente inglese la paura che eventi come quelli oltremanica potessero diffondersi anche nel proprio regno. Questo cambiamento è riconducibile a fattori diversi, uno dei quali è sicuramente il fatto che le società radicali, seppur ricche di entusiasmo riguardo alla rivoluzione, erano troppo piccole e troppo osteggiate per riuscire a diffondere il loro entusiasmo al resto della popolazione e l'esempio di ciò che accadde a Birmingham nel luglio del 1791 lo dimostra; in tal data i sostenitori della rivoluzione, che desideravano celebrare l'anniversario della presa della Bastiglia, furono vittime del tumulto scatenato dalla popolazione al grido di «chiesa e re».

Altro fattore senza dubbio determinante nel cambio di posizione che la società inglese esercitò, fu il saper ben propagandare l'importanza del mantenere l'ordine costituito; il governo infatti non solo avviò un propria propaganda per screditare o censurare scritti riformisti, ma avallò anche varie iniziative indipendenti come la pubblicazione di opuscoli anti-riformisti, tra i quali vi erano i Cheap Repository Tracts, definiti da molti «Burke per principianti». Fu proprio la diffusione delle idee di Burke l'ultimo grande fattore che contribuì al cambiamento di percezione che si aveva della rivoluzione in Inghilterra. L'impatto che gli scritti filosofici e politici ebbero sul pensiero delle persone circa gli eventi che scuotevano la Francia in quel periodo fu possibile soprattutto a causa della politica annessionista che quest'ultima portava avanti per diffondere i principi della rivoluzione fuori dai propri confini.

In questa fase la Rivoluzione francese esercitò un grande sconvolgimento negli schieramenti politici inglesi: alcuni dei whigs più influenti entrarono a far parte del governo Pitt, convinti che fosse necessario porre fine al dilagante giacobinismo francese, isolando quindi

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sempre più la fazione whig fedele a Fox. A partire dal 1792 furono attuate dal primo ministro inglese una serie di politiche volte a impedire che i temi della rivoluzione potessero attecchire e diffondersi tra la popolazione. Quella che si vide in Inghilterra durante l'ultimo decennio del XIX secolo fu una vera e propria politica della repressione: molti scritti vennero censurati, molti esponenti del pensiero filo-rivoluzionario vennero processati (anche se poi tutti furono assolti), venne sospeso l'habeas corpus19, fu esteso il

reato di tradimento non solo a chi avesse agito in tal senso, ma anche a chi avesse parlato o scritto. Tutta questa serie di restrizioni però furono ben accette; la maggioranza della popolazione riteneva che fossero necessarie per garantire l'ordine pubblico in Inghilterra e mantenere quella pace che sotto il governo Pitt durava ormai da diversi anni. A partire dal 1792-93 infatti, dapprima con la svolta repubblicana e successivamente con il Terrore, furono molti i dubbi e molte le perplessità che andarono formandosi non solo tra i vari popoli d'Europa, ma anche tra i riformatori stessi, così che la Rivoluzione venne percepita da quel momento in maniera senza dubbio ostile.

Pitt e la guerra

A seguito degli eventi del 1789, la Francia veniva vista oramai come una minaccia da gran parte d'Europa ed era consapevole che presto o tardi ci sarebbe stata una reazione da parte di quegli stati che ancora sostenevano l'Ancien Régime. Questa fu proprio la motivazione per cui, in aperto contrasto con Robespierre, Brissot sostenne con forza che l'unica strada in

19 Consiste in un atto, rilasciato dalla giurisdizione competente, con cui si ingiunge a chi detiene un prigioniero di dichiarare in qual giorno e per quale causa sia stato arrestato. Fu richiamato in vigore nella Petition of Rights del 1627, mentre nel 1679 fu promulgato l’Habeas Corpus Act, che sanciva ancora il principio dell’inviolabilità personale e ne regola tuttora le guarentigie: in virtù di questo atto, l’imputato deve conoscere la causa del suo arresto ed è tradotto davanti al magistrato competente che deve immediatamente pronunciarsi sulla sua messa in libertà, ove egli possa fornire cauzione di tornare in giudizio.

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grado di salvaguardare i risultati ottenuti dalla Rivoluzione francese fosse quella della guerra contro coloro che si ergevano a difesa dei principi che quest'ultima aveva messo in discussione. A favorire le tesi di Brissot vi fu anche un cambiamento in quello che era l'assetto militare francese. Fino al 1791 l'esercito francese, come era solito tra gli eserciti di ancien régime, era composto prevalentemente da soldati arruolati forzatamente sotto il comando di qualche nobile, e da mercenari. A seguito della rivoluzione però anche la conformazione dell'esercito, proprio come il resto della Francia, mutò: a causa dell'emigrazione di molti di quei nobili che prima comandavano le truppe, vi fu la necessità di ricostruire quanto prima il corpo ufficiali e ciò fu possibile grazie alla voglia di molti giovani desiderosi di mettere in mostra le proprie doti di comando. Questo mutamento non fu però limitato solamente al corpo ufficiali: fu molto importante infatti anche l'esperienza del «volontariato militare», ovvero l'arruolamento volontario da parte di alcuni cittadini persuasi dagli ideali rivoluzionari, i quali furono organizzati a partire dal 1793, grazie alla legge dell'amalgama. Anche l'arruolamento forzato subì un mutamento, riguardante più la mentalità che le modalità con cui era effettuato, infatti «il clima culturale è completamente cambiato: ora si fa un'intensissima propaganda affinché le reclute capiscano di essere parte di una nazione in armi; cioè affinché capiscano di militare in un esercito di cittadini che combattono per la liberà della propria patria e quindi per il loro più intimo interesse»20.

Fu proprio dall'unione di questi innovamenti nell'esercito e della politica annessionista che la Francia divenne una minaccia sempre più concreta e temibile per gli altri stati europei, Inghilterra compresa.

L'entrata in guerra dell'Inghilterra contro la Francia rivoluzionaria fu

20 A. M. Banti, L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo, Laterza, Bari, 2011, p. 92.

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ritenuta necessaria dal governo di Pitt nell'interessa del paese e della sua sicurezza, ma indubbiamente tale scelta venne presa dal Primo ministro sula base di un'ostilità oramai fortemente manifestata dall'opinione pubblica britannica verso la Francia giacobina. A giocare un ruolo importante nella decisione del Primo ministro non fu tanto il voler assumere un ruolo di difesa di quei principi che la Rivoluzione francese mise in discussione e che Burke difese con forza nei suoi scritti, bensì le varie politiche francesi che mettevano a rischio il benessere dell'Inghilterra, in particolar modo fu il disprezzo che i rivoluzionari francesi mostrarono per quei trattati marittimi e commerciali di massima importanza per la Gran Bretagna. Fu così che nel 1793 Pitt decise che l'unica strada perseguibile per affrontare la Francia fosse la guerra, mostrandosi fin da subito abile nella retorica militare, infiammando con i suoi discorsi il Parlamento affinché venisse compresa l'importanza che avrebbe avuto questa guerra non solo per l'Inghilterra ma per tutto il mondo, sottolineando quanto fosse necessario non sottovalutare la Francia, nemmeno in quel periodo in cui era attraversata da una grave crisi economica, e quindi poco abile al sostentamento di una guerra dalla lunga durata.

In un primo momento, a causa delle cattive condizioni in cui versavano le milizie inglesi, la strategia principale di Pitt fu quella di sostenere economicamente, più che con supporti di uomini e navi, gli alleati che la Gran Bretagna aveva sul continente, favorendo così il costituirsi di più coalizioni. Questa strategia non si mostrò però vincente, infatti i risultati che gli eserciti alleati ottenevano non erano vittorie ottenute dalla Gran Bretagna. Spesso le potenze alleate aiutate economicamente dall'Inghilterra circa il sostenimento della guerra stringevano accordi di pace con la Francia che poco andavano ad incidere sulla situazione di pericolo in cui si trovava il regno di Giorgio III, come accadde con la Prussia che nel 1795 strinse

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una pace a Basilea con la Francia rivoluzionaria, lasciando così l'Inghilterra a fronteggiare questa con il solo appoggio di Vienna e del Regno di Sardegna. I successi francesi continuarono e fu così che anche l'Austria nel 1797 capitolò firmando il trattato di Campoformio, il quale confermava le conquiste di Napoleone in Italia e l'autorità della Francia sui Paesi Bassi. La situazione che emerse dopo la firma del trattato di Campoformio non favoriva quindi l'Inghilterra, la quale si trovava sempre più in difficoltà nel portare avanti una guerra che Pitt credeva sarebbe stata breve: fu così che nel medesimo anno il Primo ministro decise di provare la via diplomatica provando a instaurare degli accordi di pace con la Francia che però reagì con disprezzo, a dimostrazione di quanto in quel momento le chance di vittoria della Gran Bretagna fossero misere.

Questi furono anni difficili per l'Inghilterra, il malcontento per lo sviluppo della guerra si faceva sentire sia tra il popolo che in parlamento, ma grazie all'abilità retorica di Pitt di richiamare il paese al patriottismo, e alla scelta strategica di Napoleone di vertere la propria attenzione nei confronti del Mediterraneo prima che contro l'Inghilterra, permise a quest'ultima di riorganizzarsi; il 1 agosto del 1798 l'ammiraglio Nelson, impiegando abilmente la forza navale inglese, riuscì a distruggere la flotta navale napoleonica. Questa vittoria permise una vera e propria rinascita del patriottismo inglese, permettendo così a Pitt di formare una nuova alleanza con la Russia e l'Austria. La nuova coalizione però seguì le orme di quelle che l'avevano preceduta e ben presto i dissidi interni portarono allo stipulare accordi di tregua o pace separatamente con la Francia; Napoleone nel 1799 propose una pace, seppur temporanea, direttamente al re Giorgio III, il quale subito la rifiutò, fidandosi della scia di successi che la flotta inglese stava continuando a ottenere.

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trattato di Lunéville21 nel 1801 da parte dell'Austria e della ricostituzione

della Lega della neutralità armata22 da parte della Russia, costrinse la Gran

Bretagna a firmare nel marzo del 1802 il trattato di Amiens23. Al momento

della firma del trattato Pitt aveva già lasciato le dimissioni come primo ministro in favore di Henry Addington24, pur continuando a fornire il

proprio aiuto al nuovo primo ministro in qualità di consigliere. La pace firmata ad Amiens con la Francia fu una pace di poca durata, dopo poco più di un anno vi fu la ripresa delle ostilità, che però permise di appagare «temporaneamente una corrente crescente di opinione pubblica pacifista e che non ridusse i fattori determinanti della potenza inglese a lungo termine, in particolare la flotta»25.

Subito durante la prima fase della ripresa delle ostilità Pitt tornò in

21 In genere, fu confermato il trattato di Campoformio. La Francia ottenne i territori della riva sinistra del Reno; in Italia, essa tenne il Piemonte e la Liguria direttamente, la repubblica Cisalpina e il regno d'Etruria (che sostituì il granducato di Toscana) sotto la sua protezione e controllo. L'Austria invece ebbe il territorio dell'antica repubblica di Venezia sino all'Adige. I principi tedeschi, danneggiati dall'annessione alla Francia delle terre alla sinistra del Reno, dovevano essere compensati con territori alla destra del Reno, da prelevarsi sui domini ecclesiastici e delle città . Il trattato costituì un netto successo della Francia.

22 Lega creata inizialmente su iniziativa di Caterina II di Russia nel 1781 con l'obbiettivo di difendere la libertà di navigazione per le navi delle nazioni neutre relativamente alla guerra d'indipendenza americana. Questa lega venne ricostituita a seguito della guerra tra Inghilterra e Francia rivoluzionaria.

23 Per essa, l'Inghilterra restituiva alla Francia e ai suoi alleati le colonie di cui s'era impossessata durante la guerra; restituiva all'Ordine omonimo l'Isola di Malta, di cui veniva stabilita la "neutralità" sotto la garanzia delle grandi potenze, ma che frattanto sarebbe stata presidiata da truppe del regno di Napoli, sino a che l'Ordine non fosse in grado di provvedere da sé; ma conservava l'Isola di Ceylon e quella di Trinidad, nelle Antille, tolta alla Spagna. La Francia s'impegnava, per conto suo, ad evacuare il Portogallo, lo Stato pontificio e il regno di Napoli. Veniva garantita l'integrità dell'impero ottomano, compreso l'Egitto; la repubblica delle Isole Ionie era riconosciuta sotto il protettorato russo; infine, la colonia olandese del Capo di Buona Speranza doveva essere aperta alle navi di tutte le potenze.

24 Uomo di stato inglese (Londra 1757 - ivi 1844); intransigente tory, deputato dal 1784, divenne primo ministro alla caduta di Pitt (1801-1804) e concluse la pace di Amiens. Nel 1805 fu creato visconte Sidmouth e nominato lord presidente del Consiglio privato nel nuovo ministero Pitt; poi lord del sigillo privato nel ministero Granville (1806-07). Nel 1812, salito al potere lord Liverpool, divenne per breve tempo lord presidente del Consiglio, poi ministro degli Interni, carica che conservò fino al 1821, rimanendo nel gabinetto come ministro senza portafoglio fino al 1824. Come ministro degli Interni fu contrario all'emancipazione dei cattolici e seguì una politica di rigida conservazione sociale opponendosi alla libertà di stampa e all'opinione liberale che reclamava la riforma del Parlamento.

25 A.Briggs, L'età del progresso: l'Inghilterra fra il 1783 e il 1867, il Mulino, Bologna, 1987, p.165.

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carica quale primo ministro, seppur riuscendo a mettere insieme un gabinetto piuttosto debole a causa del veto del re Giorgio III di farvi aderire Fox, minando seriamente l'appoggio che il nuovo governo poteva ottenere. A causa della fragilità del proprio gabinetto Pitt non era nelle condizioni di poter intervenire efficacemente in Europa. Ancora una volta fu la grande capacità oratoria a permettere al Primo ministro di portare avanti efficacemente la guerra contro la Francia, infiammando ancora una volta il cuore degli inglesi, anche grazie all'aiuto di vari poeti che scrissero canti patriottici, nei quali spesso figurava la metafora del tiranno francese tremante davanti al leone inglese. Ciò ebbe un grande effetto non solo sulle milizie ma anche sulla popolazione: «per esempio a Birmingham un mercante offrì di mettere a disposizione del governo sul suo molo a Birmingham 10 natanti di 200 tonnellate e 15 navi di 300 tonnellate a Stourport. Un oste “con grande patriottismo” offrì tutte le sue carrozze e cavalli per trasportare le truppe di sua Maestà, senza alcuna spesa»26. Ciò

che ancora una volta fece però la differenza tra l'Inghilterra e la Francia di Napoleone fu ancora una volta la potenza della flotta navale: il 21 ottobre 1805 la Royal Navy affrontò la flotta combinata franco-spagnola nelle acque dell'Atlantico al largo della costa sud-occidentale della Spagna, appena ad ovest di Capo Trafalgar, vicino Cadice. La flotta britannica colse la vittoria navale più decisiva della guerra: ventisette vascelli da guerra britannici, sotto il comando dell'ammiraglio Horatio Nelson a bordo della HMS

Victory, sconfissero trentatré navi da guerra franco-spagnole. La flotta

franco-spagnola perse ventidue navi, senza che una sola nave britannica andasse perduta.

Questa strepitosa vittoria non valse però la salvezza della Terza coalizione anti-francese che nel 1804 si era creata tra Gran Bretagna,

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Svezia, Russia e Austria. Se infatti il predominio sulle acque era indiscutibilmente inglese, ben diversi erano i rapporti di forza sulla terra: il 20 ottobre 1805 Napoleone sbaragliò l'esercito austriaco a Ulm e lo stesso fece il 2 dicembre contro un esercito russo-austriaco ad Austerlitz. A seguito di questi successi l'Austria decise di firmare la pace di Pressburgo27 il 26

dicembre dello stesso anno. Stessa sorte toccò alla Prussia l'anno seguente che, sconfitta pesantemente a Jena il 14 ottobre, vide i francesi entrare a Berlino in poco tempo. In questa situazione la Russia decise così di avviare anch'essa trattative di pace che si risolsero con la pace di Tilsit28, firmata l'8

luglio del 1807, lasciando nuovamente l'Inghilterra sola a contrastare la Francia.

William Pitt non vide mai però il completo sciogliersi di questa coalizione: egli morì il 23 gennaio 1806 all'età di soli 47 anni. Mentre il giudizio dei suoi contemporanei non fu negativo, Wilberforce29 usò queste

parole nel descrivere Pitt «per purezza personale, disinteresse e amor del suo paese, non ho mai conosciuto uno a lui pari»30, il giudizio che i posteri

hanno dato di Pitt non è mai stato molto positivo, probabilmente a causa del

27 Firmata il 26 dicembre 1805 tra Napoleone e Francesco I d’Austria dopo la battaglia di Austerlitz: l’Austria cedeva a Napoleone il Veneto, l’Istria e la Dalmazia (annesse al regno d’Italia), e alla Baviera il Tirolo, Trento, Burgau, Eichstädt, Passavia e Lindau; riconosceva i regni di Baviera e Württemberg, e si impegnava a pagare una cospicua indennità di guerra, ottenendo in compenso l’arcivescovato di Salisburgo.

28 Conclusa l’8 luglio 1807 tra lo zar Alessandro I e Napoleone, pose fine alla guerra della 4ª coalizione antinapoleonica. A pagare le spese della guerra fu la Prussia, che dovette cedere parte dei suoi territori (furono creati il regno di Vestfalia e, con la Posnania e la Polonia sino alla Vistola, il granducato di Varsavia; Danzica divenne città libera), pagare una gravosa indennità di guerra e chiudere i suoi porti agli Inglesi. Lo zar cedette Cattaro e le Isole Ionie, ottenendo in cambio libertà di azione nella Finlandia, allora svedese, e nelle province europee dell’Impero ottomano. Gli accordi di Tilsit segnarono il momento della maggiore potenza napoleonica e la spartizione dell’Europa in due zone di influenza (l’Occidente alla Francia e l’Oriente alla Russia).

29 Filantropo e uomo politico inglese (Hull, Yorkshire, 1759 - Londra 1833). Deputato ai Comuni dal 1780, convertitosi alla confessione evangelica nel 1784, si impegnò totalmente in iniziative filantropiche; in parlamento condusse dal 1787 al 1825, quando lasciò la camera dei Comuni, una incessante battaglia per l'abolizione della schiavitù; nella sua azione ebbe l'appoggio del primo ministro W. Pitt, di cui fu amico intimo e leale sostenitore. Ai suoi sforzi si dovette in gran parte l'abolizione del commercio degli schiavi nelle colonie britanniche (1807).

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carattere di questo personaggio solitario e spesso presuntuoso. Pur dimostrandosi un politico molto abile nel valorizzare le potenzialità del suo paese, come mostrò nel risanare le finanze inglesi e nell'amministrare l'impero commerciale britannico, a partire dal 1793 Pitt mostrò spesso le sue difficoltà a far fronte alla Rivoluzione francese, senza riuscire a tenere sotto controllo il progredire degli eventi, ma mostrandosi comunque l'uomo del suo tempo più capace nel reagire a quest'ultimi, in grado con la sua retorica e la sua eloquenza di riunire gli uomini affinché si ergessero a difesa della monarchia inglese, divenendo il punto di riferimento della lotta contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica.

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La Rivoluzione francese marcò senza dubbio un segno di discontinuità storica, e ciò fu subito molto evidente ai contemporanei dell'epoca che interpretarono in maniera diversa tal segno: i sostenitori della rivoluzione erano entusiasti di questa cesura poiché era una dimostrazione che l'uomo potesse disfare e ricostituire i «rapporti di obbligazione politica». Inizialmente infatti si era visto nella Rivoluzione francese la possibilità di esprimere gli stessi valori che l'Inghilterra aveva espresso nel 1688. La presa della Bastiglia era divenuta il simbolo della possibilità di rendere reali gli ideali che la filosofia illuminista aveva portato avanti per tutto il XVIII secolo. Il 4 novembre del 1789 vi fu una riunione della London Revolution

Society per commemorare la Glorious Revolution; questa società fu fondata

dai due pastori Richard Price e Joseph Priestly, i quali decisero di aprire la commemorazione proprio complimentandosi con il popolo francese per ciò che stava facendo. In particolare Price affermò riguardo alla Rivoluzione francese:

«Che il popolo francese, da schiavo, abbia ora ottenuto la libertà non deve stupire, poiché si mostri agli uomini che sono uomini ed essi agiranno come tali, li si illumini e si eleveranno, si diano loro giuste idee sul governo dicendo che è solo strumentale ad ottenere protezione contro i soprusi e difesa per i propri diritti, e sarà impossibile per loro sottomettersi a governi che usurpino tali diritti e siano poco più di espedienti tesi all'oppressione dei pochi sui molti»31.

Pur essendo un uomo di fede Price arrivò a sostenere la Rivoluzione

31 R. Price, Discourse on the Love of Our Country, Londra, 1789, citato in L.M. Crisafulli Jones,

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francese anche nella sua lotta religiosa, affermando che la religione andava purificata dal misticismo e dalla superstizione tramiti i valori che la rivoluzione portava avanti. Tali forme infatti per il pastore Price svilivano il ruolo della religione, trasformandola in una bigotteria intollerante.

Dall'altra parte i controrivoluzionari erano del parere che gli eventi del 1789 avessero distrutto i rapporti fondamentali su cui si basava la società e su cui avrebbero dovuto ritrovare stabilità e ordine politico. L'Inghilterra, e Londra in particolar modo, divenne la meta di molti degli intellettuali di quell'epoca che scappavano dalla rivoluzione o che volevano partecipare direttamente al dibattito riguardante questa, favorendo così il nascere di un movimento radicale e controrivoluzionario molto forte.

Proprio in questo movimento possiamo inserire Edmund Burke, scrittore, politico del partito whig e direttore del Annual Register, rivista di politica e lettere.

Edmund Burke: la vita e le opere.

Burke nacque a Dublino il 12 gennaio 1729; il padre era un avvocato e questo fatto influenzò la sua prima formazione di carattere giuridico. Studiò dapprima presso il Trinity College, per poi trasferirsi a Londra nel 1750 dove iniziò a studiare presso il Middle Temple. Interrotti gli studi iniziò la propria carriera come scrittore, nel 1756 pubblicò anonimamente A

Vindication of Natural Society, un'imitazione satirica dello stile del visconte

Bolingbroke che mirava sia alla critica distruttiva della religione rivelata sia alla moda contemporanea per un «ritorno alla natura». La prima opera che diede risalto ad Edmund Burke fu A Philosophical Enquiry into the Origin

of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, un trattato di estetica pubblicato

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al suo autore anche l'elogio di Immanuel Kant. A seguito di questi eventi, nel 1758, divenne il direttore della rivista Annual Register, ed è in questo periodo che arrivarono anche le sue numerose amicizie letterarie e artistiche, comprese quelle con il Dr. Samuel Johnson, Oliver Goldsmith, Sir Joshua Reynolds e David Garrick. A partire dal 1765 Burke militò nel partito dei whig quale uno dei membri di spicco, grazie alla nomina come segretario da parte del Marchese di Rockingham per il quale lavorò fino alla morte di questi nel 1782, divenendo una delle menti più influenti del partito, battendosi allo scopo di garantire sempre uguali diritti a tutti i sudditi britannici. Durante questi anni Burke partecipò attivamente alla controversia costituzionale interna del regno di Giorgio III: il problema principale durante il diciottesimo secolo era se fosse il re o il Parlamento a controllare l'esecutivo. Il re stava cercando di riaffermare un ruolo maggiore per la corona, senza però violare i limiti della prerogativa reale stabilita dall'insediamento rivoluzionario del 1689. Burke su questo problema intervenne pubblicando un opuscolo dal titolo Thoughts on the Cause of the

Present Discontents nel 1770, in cui sosteneva che le azioni del re erano

contrarie allo spirito della costituzione. In questo opuscolo fu inclusa anche la spiegazione dell'allineamento del partito whig, definito come un corpo di uomini uniti da un principio pubblico, che potrebbe fungere da collegamento costituzionale tra re e Parlamento, fornendo coerenza e forza nell'amministrazione, o critiche di principio all'opposizione.

«Da uomo politico e da parlamentare di lungo corso stabilmente collocato all'opposizione nei primi tre decenni di Giorgio III […] egli si misurò costantemente con le questioni imperiali intese come problemi di governo di crescente complessità, tali da richiedere provvedimenti e riforme in grado di fronteggiare disfunzioni, conflitti

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e criticità che egli analizzò sempre con acuta e originale percezione delle implicazioni relative anche all'assetto politico domestico. In questo, Burke fu certamente ispirato da idee e valori appartenenti alla sua cultura filosofico-politica whig, ma soprattutto raggiunse una non comune conoscenza delle realtà americane, indiane e irlandesi, servendosene non per scopi di studio disinteressato, ma per perseguire i suoi obbiettivi di politico riformatore»32.

Col proseguire della propria carriera politica Burke maturò l'idea che chi ricopriva una carica come la sua dovesse essere un rappresentante e non un semplice delegato impegnato a obbedire in modo sproporzionato ai desideri dei suoi elettori occupandosi dei loro interessi locali, mentre è importante rivolgersi al bene generale dell'intera nazione, agendo secondo il proprio giudizio e la propria coscienza, non condizionato da mandati o istruzioni precedenti da parte di coloro che rappresenta. Il 1790 fu l'anno in cui Burke pubblicò la sua opera più famosa: Reflections on the Revolution

in France and on the Proceedings in Certain Societies in London Relative to that Event in a Letter Intended to Have Been Sent to a Gentleman in Paris. Dopo la pubblicazione di quest'opera Burke fu assorbito dal dibattito

sulla Rivoluzione francese, che lo vedeva molto critico a riguardo, senza però mai tralasciare i suoi doveri parlamentari. Ritiratosi nel 1794 dall'attività parlamentare, Burke dedicò gli ultimi anni della sua vita alla stesura di altri testi33, morendo poi il 9 luglio 1797 nella propria casa di

campagna di Beaconsfield, in Inghilterra.

Reflections on the Revolution in France

32 G. Abbattista, D. Francesconi, Introduzione a E. Burke, Scritti sull'Impero. America, India,

Irlanda, a cura di G. Abbattista e D. Francesconi, Torino, Utet, 2008, p. IX.

33 Nel 1795 furono pubblicati due scritti: Thoughts and Detail on Scarcity e Letter to a Noble

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Come detto sopra, Reflections on the Revolution in France è da considerarsi l'opera più importante dello scrittore ango-irlandese, la quale esercitò non solo una enorme influenza nel dibattito riguardante la rivoluzione, ma divenne il testo di riferimento per chiunque aderisse al dibattito sulla Rivoluzione. La forza con cui Burke condanna la Rivoluzione francese è motivata non tanto da quello che sarebbe stato il destino della Francia, quanto dalla volontà dell'autore di rispondere a chi in Inghilterra sosteneva il fenomeno rivoluzionario. Egli infatti riteneva possibile che gli ideali rivoluzionari mettessero radici in seno al partito whig, soprattutto a causa del sostegno che Fox mostrava in favore della Rivoluzione.

Il testo di Burke fu concepito in risposta ad un sermone di Richard Price, intitolato A discourse on the Love of our Country, con cui il predicatore nel Novembre del 1789 aveva lodato la Rivoluzione, definendola il trionfo della libertà, e aveva delineato un filo conduttore tra la Gloriosa Rivoluzione, la Rivoluzione americana e quella francese. Bisogna però ricordare che se in un primo momento il paragone tra le due rivoluzioni poteva aver suscitato un sentimento d'orgoglio per gli inglesi, con la Dichiarazione di fratellanza e di assistenza del novembre del 1792, pronunciata dalla Convenzione di Parigi, in cui veniva affermata la volontà di voler dare il proprio sostegno a tutti i popoli soppressi da un tiranno, così da esportare quindi la rivoluzione anche oltre i confini della Francia, il paragone divenne insostenibile se non addirittura pericoloso. Per lo scrittore anglo-irlandese infatti «la vita associata degli uomini è governata non dalla ragione astratta, ma dallo scorrere delle generazioni, legate tra di loro da un contratto originario ed eterno»34, questo perché i controrivoluzionari

individuano nella tradizione il principio di stabilità politica, in grado di dare continuità storica e quindi di legittimare un ordine gerarchico in cui i

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sudditi rimangono fedeli al sovrano.

Riguardo al sistema politico Burke infatti afferma che tale si pone in giusta corrispondenza e simmetria con l'ordine del mondo, e tale simmetria è formata dall'uomo come la natura e dallo stato come la famiglia; nel momento in cui questa simmetria viene a mancare si costituisce un «ordine infernale» da cui nascono i movimenti di terrore come quelli che derivarono dalla Rivoluzione francese. Burke, analizzando gli eventi del 1789, fece subito un'importante distinzione tra la Rivoluzione francese, quella americana e la Gloriosa rivoluzione del 1688. Egli non accettava di considerare le rivoluzioni come atti originari della libertà, e tanto meno di affermare un qualsia rapporto di continuità tra gli eventi del 1688 in Inghilterra e quelli del 1789 in Francia. A riguardo di ciò A.J. Grieve affermò:

«Burke sets out to show that the English liberties which Price was so proud of were not first achieved at the Revolution of 1688, but were essentially an English inheritance, and, further, that between the orderly procedure of England in 1688 ad the disorderly action of France a century later was a whole world of difference»35.

Per comprendere le motivazioni che spinsero Burke su questa posizione in merito alle rivoluzioni, è necessario sottolineare la differenza che intercorre tra questi e altre due grandi pensatori dell'epoca quali de Maistre e de Bonald. Infatti seppur vi fu un apprezzamento reciproco tra questi pensatori, è impossibile non tenere conto delle numerose differenze

35 A.J. Grieve, Introduction, in E.Burke, Reflections on the French revolution, London, J.M. Dent & Sons Ltd, 1955, p. XI.

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culturali derivate dal contesto in cui si formarono, e le differenza circa le prospettive politiche. Burke era figlio dell'empirismo britannico e pertanto esaltava il suo legame con la libertà. Egli contrapponeva l'approccio riformatore a quello rivoluzionario; egli non assumeva una chiusura di principio fondata su basi etiche o religiose, ma riteneva la rivoluzione “l'estrema risorsa”. Innanzi alla Rivoluzione, nella sua opera il politico anglo-irlandese assunse un atteggiamento pragmatico, respingendo la rivoluzione per i danni che crea. L'essere ostili alla Rivoluzione, come afferma Domenico Fisichella, non è però da interpretarsi come un'ostilità nei confronti del cambiamento:

«Il pensatore irlandese giunge a convenire che senza dubbio fosse necessario produrre cambiamenti nel tessuto istituzionale, sociale e civile della vicina nazione francese, poiché certi difetti avevano raggiunto portata ragguardevole, ma che per ottenere gli effetti voluti e dovuti fosse da seguire la via della riforma, non la strada della rivoluzione […] Inoltre, ricorda Burke, la riforma è quel tipo di intervento che, determinando un progresso lento e costante, dà modo di controllare l'effetto di ciascun passo compiuto, buono o cattivo che sia, consentendo perciò di regolare il secondo passo sul primo, e così via, evitando che le diverse parti del sistema politico si pongano in contraddizione insanabile tra loro, ed eliminando man mano che si presentano i mali fatalmente latenti anche nei meccanismi più promettenti»36.

Quindi possiamo affermare che Burke tendesse a contrapporre riforma e rivoluzione, vedendo nella prima una soluzione per evitare la seconda.

36 D. Fisichella, Conservazione e riforma nelle Riflessione di Edmund Burke, in Autorità e

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