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Il lavoro penitenziario fra realtà mortificanti ed incerte prospettive di riforma

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Academic year: 2021

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Indice

1 Evoluzione storica e quadro normativo del lavoro

peni-tenziario 10

1.1 Evoluzione storica . . . 10

1.1.1 Il carcere nel diritto penale romano . . . 10

1.1.2 Età medievale . . . 11

1.1.3 Età moderna . . . 12

1.1.3.1 Esperienza Anglosassone . . . 13

1.1.3.2 Esperienza dei Paesi Bassi . . . 13

1.1.3.3 Esperienza statunitense . . . 15

1.1.4 Il lavoro carcerario nell'Italia pre-unitaria . . . 15

1.1.5 Il lavoro dei detenuti nel Regno d'Italia . . . 16

1.1.6 Il periodo fascista . . . 17

1.1.7 Dalla Costituzione all'emanazione dell'attuale Or-dinamento Penitenziario . . . 19

1.2 Il quadro normativo . . . 20

1.2.1 La Costituzione . . . 20

1.2.2 Le fonti internazionali . . . 21

1.2.3 L'ordinamento penitenziario e la normativa succes-siva . . . 24

2 Analisi del rapporto di lavoro del detenuto 29 2.1 I caratteri del lavoro penitenziario . . . 29

2.1.1 Denizione del lavoro penitenziario . . . 29

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2.1.3 Rapporti con il lavoro comune . . . 32

2.1.4 Obbligatorietà del lavoro penitenziario . . . 33

2.1.5 Le diverse tipologie di lavoro penitenziario . . . 35

2.1.6 Tutela giurisdizionale dei lavoratori detenuti . . . . 37

2.2 Il lavoro intramurario . . . 43

2.2.1 Il lavoro intramurario alle dipendenze dell'ammini-strazione penitenziaria . . . 44

2.2.1.1 Assegnazione del lavoro e costituzione del rapporto . . . 45

2.2.1.2 Lo svolgimento del rapporto e i diritti del lavoratore-detenuto . . . 46

2.2.1.3 Mercede, remunerazione, retribuzione . . 47

2.2.1.4 La determinazione delle mercedi . . . 49

2.2.1.5 Il danno contributivo . . . 50

2.2.1.6 La cessazione del rapporto . . . 51

2.2.2 Il lavoro intramurario alle dipendenze dei terzi . . 52

2.2.2.1 La costituzione del rapporto . . . 55

2.2.2.2 Lo svolgimento del rapporto . . . 56

2.2.2.3 La retribuzione . . . 57

2.2.2.4 La cessazione del rapporto . . . 57

2.3 Il lavoro extramurario . . . 58

2.3.1 La costituzione del rapporto . . . 62

2.3.2 Lo svolgimento del rapporto . . . 62

2.3.3 La cessazione del rapporto . . . 63

2.4 La normativa di sostegno al lavoro penitenziario . . . 64

2.4.1 Gli sgravi contributivi . . . 65

2.4.2 Il credito d'imposta . . . 66

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3 Gli Stati Generali dell'Esecuzione Penale 72

3.1 Quadro normativo e sociale di riferimento . . . 72

3.2 Il tavolo 8 sul lavoro penitenziario . . . 75

3.2.1 Prima parte: retribuzione . . . 77

3.2.2 Seconda parte: lavoro/libertà . . . 79

3.2.3 Terza parte: Organismo/ente per la formazione, il lavoro ed il reinserimento dei detenuti . . . 79

3.2.4 Quarta parte: alcune idee in materia di organizza-zione del lavoro e di contratti di lavoro . . . 82

4 L'impresa agricola del carcere di Taranto e l'iniziativa per la produzione della canapa 84 4.1 La nascita della impresa agricola . . . 84

4.2 Gli aspetti amministrativi, contabili e scali delle lavora-zioni penitenziarie . . . 86

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Introduzione

Il presente lavoro di tesi aronta la tematica del lavoro penitenziario analizzandone evoluzione storica e disciplina attuale. Si è cercato senza pretesa di esaustività, di mettere in evidenza caratteristiche e problema-ticità del lavoro in carcere con lo scopo di evidenziarne l'importanza ed imprescindibilità nel percorso di reinserimento del reo nella società. Il faro di tutta l'esecuzione della pena è rappresentato dall'articolo 27, terzo comma della Costituzione che richiede una pena che tenda alla rieducazione del condannato di talché è inevitabile che anche il lavoro penitenziario sia pensato ed organizzato a tal ne.

Questa caratterizzazione del lavoro in carcere è il portato di una lunga evoluzione storica e ai primordi, in epoca romana, era il carcere ad essere funzionale al lavoro penitenziario e non il contrario. Il carcere aveva solo la funzione di prevenire il pericolo di fuga o di reiterazione del reato. È in età moderna che si ha un cambio di rotta importante perchè le carceri verranno intese come istituzioni segreganti volte a tutelare la società da tutto ciò che poteva costituire un pericolo per la sua sopravvivenza. Nasce il connubio inscindibile carcere-fabbrica che vedrà l'impiego dei detenuti per la duplice funzione punitiva e produttiva data la scarsa presenza di manodopera in un mondo sempre più industrializzato. Questo modello di carcere produttivo non ebbe diusione nell'Italia pre-unitaria dato lo scarso sviluppo industriale ma frequente fu, invece, la condanna alla pena detentiva associata al lavoro forzato. Si introdusse l'obbligatorietà del la-voro penitenziario che costituirà un pilastro della legislazione penale no ai giorni nostri. La situazione si mantenne pressochè invariata dopo l'u-nità quando si diusero, più che lavorazioni industriali e manifatturiere, le colonie agricole soprattutto nelle zone incolte e malariche. In questo periodo si sviluppa l'idea tanto cara al legislatore fascista della simmetria tra bonica agricola e bonica umana. Durante il ventennio vi fu una copiosa produzione normativa che ribadì il carattere obbligatorio ed af-ittivo del lavoro. Fu anche il periodo in cui si passò dalla graticazione per il lavoro svolto alla mercede, che sopravvive tutt'oggi, e quello in cui venne istituzionalizzato, perchè già previsto da un regolamento del 1926, l'istituto dell'appalto di manodopera carceraria; denito da alcuni com-mentatori croce e delizia del lavoro in carcere. Da un lato, si congurò come una locatio hominis da parte dell'amministrazione penitenziaria che consentiva di utilizzare gratuitamente locali e macchinari situati all'inter-no del carcere per lavorazioni industriali gestite ed organizzate da privati purchè fossero impiegati detenuti. Molteplici le critiche di chi sosteneva

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che tale istituto appoggiasse, di fatto, lo sfruttamento dei detenuti impie-gati come lavoratori ordinari ma per pochi spiccioli. Dall'altro lato, mai come in questo periodo, si ebbero tanti detenuti impiegati con percentuali no al 50%.

Tale istituto costituisce un po' un viatico nel panorama delle lavorazioni penitenziarie posto che sarà, tra gli altri motivi, alla base della riforma dell'ordinamento penitenziario del 1975 che volle proprio eliminare l'in-viso appalto di manodopera. Si mise al bando l'iniziativa privata dalle lavorazioni carcerarie per circa 20 anni durante i quali emersero tutte le dicoltà di un'amministrazione incapace di conciliare le istanze securita-rie e quelle lavoristiche traducendosi, tutto ciò, in una decrescita costante del numero dei detenuti lavoranti.

La regolamentazione fascista non abrogata e il nuovo spirito della costitu-zione determinarono un parallelismo normativo destinato a sopravvivere no alla legge n.354 del 1975 ( con cui si porrà ne alla normativa del ventennio): la costituzione, da un lato all'articolo 27 enuncia il nalismo rieducativo della pena e pone il lavoro a fondamento dello stato democra-tico, dall'altro, il regolamento penitenziario del 1931 sosteneva l'idea del lavoro come parte della pena e della sua obbligatorietà per condannati ed internati.

Prima di proseguire l'analisi della normativa interna, il lavoro di tesi analizza l'apporto della normativa internazionale all'argomento trattato. Con riferimento al livello europeo, centrale è stata la Convenzione Euro-pea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950 che all'articolo 3 sancisce il divieto di tortura e di trattamenti disumani. Importanti le Regole Minime per il trattamento dei detenuti del 1973 con cui si deniscono gli aspetti essenziali della detenzione che ne consentono di assicurare le condizioni umane. Queste sono state poi assorbite dalle Regole Penitenziarie Europee del 1987 a loro volta ag-giornate nel 2006 e con le quali, in denitiva, si riconoscono in capo ai detenuti dei veri e propri diritti e non solo dei limiti alle pretese puni-tive degli Stati. Con riferimento al livello internazionale, il primo atto specicamente dedicato ai detenuti è costituito dalle regole Minime per il trattamento dei detenuti del 1955 che è un po' l'antenato dell'omonimo atto adottato a livello europeo dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa. Del 1984 è la Convenzione contro la tortura e gli altri trat-tamenti crudeli, inumani e degradanti che l'Italia ha raticato senza che ad oggi sia ancora previsto nel nostro codice penale, il reato di tortura. Da ultime vanno segnalate le Mandela rules del 2015 adottate dalla

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Com-missione delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale che costituiscono nuovi standard minimi per il trattamento dei detenuti.

Nell'ambito della normativa italiana ci si era fermati al riferimento della legge n.354 del '75 con cui è stato introdotto il nuovo O.P. che ha il me-rito di segnare il superamento della regolamentazione fascista: si passa dal lavoro come parte integrante della pena al lavoro come elemento fon-damentale del trattamento del condannato ed internato. Evidentemente il lavoro perde il carattere aittivo che lo aveva caratterizzato no ad allora. L'intervento normativo successivo è la legge di modica dell'ordi-namento penitenziario, la n.663 del 1986, la c.d. Legge Gozzini con cui si introducono nuove misure alternative e la possibilità di accedervi dalla libertà; prevede che per l'ammissione del detenuto al lavoro all'esterno fosse necessaria l'approvazione non più della direzione ma del Magistrato di sorveglianza ed inne prevede nuovi criteri per il collocamento. Sempre sul collocamento, ma non solo, interviene la successiva legge del 1993, la n.296 che verrà ricordata soprattutto per aver "riaperto" il car-cere alle imprese private e pubbliche, consentendogli di sviluppare ed organizzare direttamente delle lavorazioni all'interno. Ciò fu possibile perchè il legislatore prese coscienza del fallimento della gestione del lavo-ro intramurario adata esclusivamente all'amministrazione penitenziaria e della dicoltà ad un ampio ricorso alle misure alternative alla deten-zione posta l'ossessione lavoristica della magistratura di sorveglianza che richiedeva l'esistenza di una oerta lavorativa per la concessione delle misure alternative.

Il secondo capitolo è dedicato all'analisi del rapporto di lavoro del de-tenuto e si articola in diverse sezioni, la prima delle quali si occupa dei caratteri del lavoro penitenziario a partire dal preferibile impiego della terminologia lavoro penitenziario rispetto alle meno opportune espres-sioni lavoro carcerario e lavoro dei detenuti. Si prosegue arontando il discorso riguardante la nalità di tale lavoro che è collocato dall'articolo 15 O.P tra gli elementi del trattamento rieducativo come prescritto dal-l'articolo 27 della costituzione. Interessante il discorso inerente i rapporti tra lavoro comune e penitenziario. Le diversità maggiori si ravvisano nel caso di lavoro alle dipendenze dell'amministrazione posta anche la pie-na equiparazione tra detenuti dipendenti di soggetti terzi e i lavoratori in libertà. I dubbi maggiori riguardano i casi in cui l'amministrazione ha la duplice veste di responsabile della esecuzione della pena e di da-tore di lavoro: la contrapposizione è tra la tesi contrattualista e quella

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acontrattualista ma diversi elementi sembrano far propendere verso la prima soluzione per la quale il lavoro penitenziario ha natura contrat-tuale perchè per la sua concretizzazione è sempre necessario il consenso del detenuto. Una delle questioni più discusse del lavoro penitenziario inerisce il suo carattere obbligatorio come previsto dall'articolo 20 O.P. che ha diviso e divide tutt'ora la dottrina che spesso però si è alienata su posizioni meramente dogmatiche tralasciando il dato dell'esperienza pratica delle carceri italiane che suggerisce di escludere la sussistenza di un obbligo per il detenuto di lavorare né tantomeno di un obbligo per l'amministrazione di garantire un'attività lavorativa.

Senza dubbio la tematica della tutela giurisdizionale dei lavoratori de-tenuti costituisce una parte fondamentale di questa tesi posta la lunga evoluzione che ha accompagnato la materia e il fatto che l'attuale disci-plina è la conseguenza di un rimbalzo di competenze tra Magistrato di sorveglianza e Giudice del lavoro. Una importante sentenza della Corte costituzionale, la n.341 del 2006 si è pronunciata per l'illegittimità secca dell'articolo 69, sesto comma lettera a) O.P. per l'estensione del procedi-mento ex articolo 14ter O.P. a tutte le controversie civili nascenti dalle prestazioni lavorative dei detenuti. Tale procedimento niva per com-primere notevolmente le garanzie giurisdizionali essenziali riconosciute a tutti i cittadini quindi anche a quelli ristretti nella propria libertà. La Corte costituzionale con tale sentenza trasferisce di fatto al Giudice del la-voro l'intera competenza in materia di controversie lavoristiche in ambito penitenziario.

Le sezioni successive del secondo capitolo sono dedicate alla distinzione tra lavoro intramurario e lavoro extramurario. Nel contesto del primo bisogna ulteriormente distinguere a seconda che si parli di lavoro alle di-pendenze dell'amministrazione o di terzi. In entrambi i casi, comunque, le fasi analizzate sono le medesime ossia la costituzione del rapporto, lo svol-gimento di questo e i diritti riconosciuti al lavoratore detenuto ed inne la cessazione del rapporto. Nel contesto del lavoro intramurario alle dipen-denze dell'amministrazione un'attenzione ulteriore è dedicata alla spinosa tematica delle mercedi, loro determinazione e problematiche conseguenti. La delicatezza di tale aspetto è rimarcata dall'interesse dedicatogli in seno agli Stati Generali dell'esecuzione penale dove si è innanzitutto proposta la sostituzione con il termine retribuzione per evitare il rimando ad una elergizione quasi caritatevole da parte dell'amministrazione. Nel contesto del lavoro intramurario alle dipendenze di terzi, invece, non si pongono i problemi appena visti in tema di retribuzione posta la equiparazione in

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questi casi tra lavoratori detenuti e quelli liberi.

Stessa partizione fasica è stata analizzata, con le sue peculiarità, anche per i detenuti ammessi al lavoro all'esterno ex articolo 21 O.P. la cui posizione, anche qui, è equiparata a quella dei lavoratori in libertà. La sezione che chiude il secondo capitolo riguarda la normativa di sostegno al lavoro penitenziario e si focalizza sulla analisi della importante legge n.193 del 2000, la cd legge Smuraglia che prevede sgravi contributivi e crediti d'imposta per le imprese o cooperative che assumano detenuti. La nalità proclamata è quella di rendere appetibile assumere detenuti attraverso agevolazioni che vadano ad attenuare le patologiche dicoltà di fare impresa all'interno del carcere.

Il terzo capitolo è dedicato alla recente iniziativa degli Stati Generali del-l'esecuzione penale che si è collocata in contemporanea alla discussione sul disegno di legge delega per la modica dell'attuale ordinamento pe-nitenziario che il Ministro della Giustizia ha voluto far precedere da una analisi attenta delle problematiche attuali perchè si giunga a delle mo-diche consapevoli della materia. Per sei mesi si è parlato a più livelli di carcere e di esecuzione della pena nel contesto di 18 tavoli tematici, tra cui anche l'ottavo dedicato al tema lavoro e formazione. Gli esperti componenti ciascun tavolo hanno cercato di evidenziare le problematicità del settore e di avanzare possibili soluzioni che sono state poi compendia-te in una relazione nale. Sarà importancompendia-te nei prossimi mesi assicurare un riscontro pratico alle buone proposte avanzate perchè gli Stati Gene-rali non rimangano solo una consultazione teorica, per quanto ampia e approfondita, ma divengano un'occasione per la realizzazione pratica di idee che dovrebbe contribuire al necessario processo di umanizzazione del carcere e della pena.

L'ultimo capitolo è dedicato al progetto del carcere di Taranto inerente l'impresa agricola per l'avvio di iniziative quali quella pilota della col-tivazione della canapa. È una idea a più ampio respiro che postula la realizzazione di progetti vari connessi all'impiego di terreni nella disponi-bilità della Casa Circondariale. Le idee, come riferito dalla direttrice del carcere di Taranto, sono diverse e tutte nalizzate al reinserimento socia-le e lavorativo dei detenuti. Nel dettaglio il progetto analizzato riguarda la coltivazione della canapa per la realizzazione della materia prima im-piegabile nel settore tessile, alimentare e dell'edilizia. Per quest'anno i detenuti si sono occupati esclusivamente della semina e successiva rac-colta laddove non poteva compiersi meccanicamente. L'idea futura della ditta responsabile e della direzione è di realizzare dei laboratori di

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la-vorazione della canapa direttamente all'interno del carcere così da avere un coinvolgimento maggiore della popolazione detenuta. È un proget-to che può far ben sperare per il suo sviluppo locale futuro ma anche e soprattutto per la sua valenza intrinseca nella misura in cui il dettato co-stituzionale richiedendo una pena che sia rieducativa, allude senz'altro ad un percorso in cui il lavoro non può che avere una funzione fondamentale ed imprescindibile.

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Capitolo 1

Evoluzione storica e quadro

normativo del lavoro

penitenziario

1.1 Evoluzione storica

1.1.1 Il carcere nel diritto penale romano

La storia giuridica romana ha durata secolare e il sistema di repressione dei reati, come è naturale, ha subito una evoluzione nel corso del tempo. Ai nostri ni, un'attenzione particolare deve essere riconosciuta al connu-bio carcere - lavoro cosi come questo si presentava in età imperiale. Dal detto ulpianeo, poi ripreso da altri giuristi in età imperiale, secondo cui "carcere enim ad continendos homines, non ad puniendos haberi opor-tet"1,ricaviamo che la pena detentiva non era contemplata tra i genera poenarum. Tutto ciò porta a congurare il connubio detenzione-lavoro in maniera peculiare rispetto alle epoche successive; l'idea che emerge è quella secondo cui è il carcere ad essere funzionale al lavoro penitenziario e non il contrario. Il carcere era concepito come misura preventiva, al ne per l'appunto di prevenire il pericolo di fuga dell'imputato in attesa del processo e tutt'al più come misura di sicurezza per evitare la reiterazione del reato. In termini pratici tutto ciò si tradusse in uno sfruttamento in-tensivo della manodopera detenuta. Tra le pene, infatti, accanto a quella pecuniaria e capitale va ricondotto l'opus publicum, ossia la condanna al-l'esecuzione di opere pubbliche quali pulizie delle strade o lo spurgo delle

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fogne. Era una condanna riservata ai cittadini liberi e solitamente tempo-ranea. Certamente più pesanti e gravose le condanne al lavoro in miniera nelle forme della condanna all'opus metalli e della condanna ad metalla. Queste due condanne si dierenziano pe la diversa natura dei lavori da eseguire che nella condanna ad metalla erano più duri e per la maggiore gravosità dei vincula2del condannato a quest'ultima fase. La condanna all'opus metalli poteva essere sia temporanea che perpetua mentre quella ad metalla era di solito perpetua e prevista per i reati più gravi.

Da queste sintetiche indicazioni può desumersi che in epoca romana l'im-piego lavorativo dei detenuti funse da essenza della pena più che da elemento di ulteriore aizione di questa.

1.1.2 Età medievale

In epoca romana lo sfruttamento su larga scala della manodopera dete-nuta era stato possibile in ragione di una complessa e capillare organizza-zione statuale. Il medioevo si caratterizzò, invece, per fenomeni opposti quali le signorie e l'incastellamento. Ma non è solo questa la ragione per cui nel medioevo non si conobbero forme di lavoro dei detenuti.

Nel primo medioevo, infatti, le pene maggiormente diuse furono le pene pecuniarie a favore dell'autorità e della vittima del reato. In quest'ultimo caso si parla di penances3. Con il tempo le classi più povere divennero sempre più numerose e sempre più raramente gli individui che ne erano parte riuscivano a pagare le pene pecuniarie che vennero progressivamente sostituite con le pene corporali4. In questo periodo se ne conobbero di terribili ed atroci.

Nel basso medioevo la pena assunse una funzione retributiva e al tempo stesso espiativa. La connotazione retributiva era glia della necessità di vendetta della parte oesa e della comunità che non sarebbe stata soddisfatta dalla compressione della libertà personale posto che questa non era intesa come un bene rilevante (diversamente dalla integrità sica, denaro o vita stessa). Il carattere espiativo lo si doveva al fatto che la pena aveva assunto una caratterizzazione marcatamente religiosa; attraverso la pena sarebbe stato possibile espiare l'oesa perpetrata nei confronti di Dio. Esclusa la detenzione dal novero delle pene, ancora meno probabile

2A.Lovato, Il carcere nel diritto penale romano, pg. 6

3G.Rusche, O.Kirchheimer, Pena e struttura sociale, pg 49: "le pene pecuniarie

e le penances ( pene pecuniarie dovute alla parte oesa) furono le più praticate nel primo medioevo"

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nel medioevo la previsione di un obbligo di lavoro connesso. L'assenza di un qualsiasi compito lavorativo è anche la conseguenza del diverso modo di concepire il lavoro nel periodo medievale. Il lavoro non era un valore economicamente e socialmente riconosciuto e veniva prestato a favore di altri soggetti perchè ciò costituiva carattere irrinunciabile della classe sociale di appartenenza.

Un'esperienza particolare di pena detentiva in epoca medievale la si ritro-va nel diritto canonico. La detenzione non averitro-va solo funzione preventiritro-va come in passato. I chierici colpevoli di mancanze nei confronti dell'au-torità o della morale ecclesiastica erano condannati all'isolamento totale anchè attraverso la preghiera e la meditazione potessero giungere al pentimento. A tal ne sorsero dei luoghi preposti alla detenzione come le segrete o le prigioni dei monasteri. Data la nalità di questa pena detentiva, non si lasciò spazio ad una possibile attività lavorativa dei chierici che potenzialmente poteva, al contrario, costituire un ostacolo al ravvedimento.

La evoluzione del lavoro penitenziario sconta il ritardo nello sviluppo del-la corredel-lativa concezione di pena detentiva aldel-la quale ancora nel '500 si riconosceva una funzione eminentemente cautelare; pena che tra l'altro non poteva essere appesantita da soerenze ulteriori per evitare la mor-te anzimor-tempo dell'imputato a riprova del fatto che il carcere serviva a custodire e non a punire5.

1.1.3 Età moderna

Il discorso deve partire dal ricordare, una volta di più, che l'istituzione carceraria non era ignota in epoca romana, né durante il medioevo: ciò che si ignorava era la pena della privazione della libertà e non il carcere co-me organizzazione segregante6. È tra il XVI e il XVII secolo che nascono gli stati-nazione e con essi la nuova concezione di carcere come istituzio-ne totale la cui funzioistituzio-ne sarebbe stata quella di proteggere la società da ciò che avrebbe costituito un pericolo per la sua sopravvivenza; pericolo che in quel periodo era individuato nelle masse di poveri che abbando-navano le campagne in cerca di un lavoro nelle grandi città industriali. Non a caso, autorevole dottrina7, quando aronta il tema della genesi dei moderni penitenziari identica i termini carcere e fabbrica quale un

5R.Canosa, I.Colonnello, Storia del carcere d'Italia dalla ne del '500 all'Unità,

pg.18

6Melossi, Pavarini, Carcere e fabbrica, Introduzione, pg. 21 7Ibidem, pp.143 e ss

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binomio pressochè inscindibile. Diversi sono stati i modelli sperimentati in Europa ma anche oltre oceano con precipuo riferimento all'esperienza statunitense.

1.1.3.1 Esperienza Anglosassone

Partiamo proprio dall'esperienza inglese ricordando che a metà del XVI secolo la recinzione delle terre comuni scatenò l'esodo della popolazione rurale verso la città. Venne formandosi il proletariato urbano. Le istitu-zioni deputate all'internamento coatto nascono con l'intento di escludere dal consorzio civile oziosi, vagabondi, ladri ed autori di reati bagatellari per obbligarli al lavoro ed ad una ferrea disciplina. Celebre fu la "hou-se of correction" di Bridewell dove gli internati abili venivano impiegati in attività manifatturiere. Solo per quelli che riutavano il lavoro era prevista la reclusione nel carcere comune destinato ai criminali.

Peculiare è il pensiero di alcuni autori8, secondo cui le house of corrections svolsero almeno due importanti funzioni. Tali strutture oltre a fornire manodopera a buon mercato, servivano da un lato a colmare, seppure in parte, l'aumento della domanda di lavoro che il contestuale aumento demograco non riusciva a soddisfare; dall'altro, e soprattutto secondo alcuni autori, le case di correzione servivano a calmierare il mercato del lavoro, scongiurando le spinte ad aumenti salariali ritenuti eccessivi. Inne dobbiamo dire che le houses of correction inglesi costituirono il primo esempio di penitenziario in cui la detenzione non aveva solamente nalità custodiali, come in passato.

1.1.3.2 Esperienza dei Paesi Bassi

Nel XVII-XVIII secolo l'economia olandese costituiva uno degli esempi più chiari di un modello capitalistico di stampo manifatturiero. Anche qui si registrò un gap tra oerta e domanda di lavoro senza che la prima, almeno in questo momento storico, riuscisse mai a pareggiare la seconda. In Olanda si diusero case correzionali (Tuchthuisen) con organizzazione e nalità simili alle houses of correction inglesi. Le categorie di reclusi di queste strutture erano le stesse delle analoghe inglesi.: oziosi, vagabondi, ladri ed autori di reati bagatellari. Peculiari erano le attività ivi svolte tra cui la tessitura e la più caratterizzante raschiatura che consisteva nel raschiare, per l'appunto, del legname da cui si ricavava della polvere da

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utilizzare come colorante. L'elemento interessante è dato dal fatto che questa seconda attività era compiuta dai reclusi in regime di monopolio per espressa volontà della municipalità di Amsterdam9.

Dall'esperienza olandese emergono due aspetti problematici del lavoro penitenziario che lo accompagneranno no ai giorni nostri. Il primo è il problema della concorrenza tra lavoro penitenziario e lavoro libero. Il secondo, strettamente connesso, è quello della scarsa produttività del lavoro penitenziario.

Come anticipato prima, l'attività di raschiatura era svolta dai reclusi in regime di monopolio nonostante vi fosse l'opportunità di produrre in tem-pi tem-più brevi attraverso l'avvalimento del mulino. Tale stato di cose aveva procurato l'opposizione delle corporazioni e delle altre municipalità inte-ressate alla più veloce ed economica produzione attraverso il mulino. Le ragioni della municipalità di Amsterdam che aveva imposto il regime di monopolio erano da ricercarsi da un lato, nella possibilità di produrre sen-za la necessità di grossi investimenti; dall'altro nella volontà di calmierare il costo del lavoro soddisfacendo al tempo stesso la funzione rieducativa nei confronti dei soggetti meno propensi a tali impieghi.

La valorizzazione del lavoro penitenziario emersa dalla breve analisi delle esperienze inglese ed olandese è senz'altro glia, in parte, di fattori eco-nomici, sociali e politici favorevoli (basti pensare al surplus di domanda rispetto all'oerta di lavoro), ma sui quali si andò ad innestare una in-novativa attenzione degli organi statali che di necessità fecero virtù nella misura in cui decisero di arontare la dicile questione del proleteriato urbano che aollava le periferie delle città destinando questi soggetti ad attività lavorative anche se scarsamente qualicanti. Però, a riprova del fatto che le case correzionali di lavoro non furono solo una scelta consa-pevole e calcolata dello Stato, c'è il dato storico successivo. Il modello di produzione inglese ed olandese del XVI-XVII secolo per buona parte di stampo manifatturiero, venne sostituito da uno di tipo industriale. Il binomio carcere-fabbrica si spezza.

Tale modello richiedeva macchinari complessi e strutture idonee che quasi mai potevano riscontrarsi nelle carceri, da un lato. Dall'altro, non si potè compensare ancora la scarsa produttività del lavoro penitenziario con politiche monopoliste e protezionistiche.

Con il tempo l'attenzione per le potenzialità produttive dei reclusi e del carcere viene scemando. Questo disinteresse economico fu accompagnato

9Il tipo di attività consistente nella raschiatura diede il nome alla casa di correzione

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ed accelerato, se vogliamo, da una nuova concezione preponderante di carcere, il cd carcere panottico ideato da Bentham, basato sull'isolamento cellulare e sulla necessità di sorvegliare continuamente i reclusi. La logica custodialistica si aermò a scapito del lavoro penitenziario che tornò ad essere monotono ed aittivo.

1.1.3.3 Esperienza statunitense

Il riferimento è alla contrapposizione tra due scuole di pensiero sulla te-matica della esecuzione penale con inevitabili risvolti sull'altra tete-matica oggetto del nostro interesse che è quella del lavoro penitenziario. Una contrapposizione che ha avuto un forte inusso sulla cultura europea ed italiana.

I protagonisti di questa opposizione sono i modelli ladelano ed au-burniano ( successivo). Il modello ladelano viene sperimentato per la prima volta nel 1790 nell'istituto di Walnut Street a Philadela. Il princi-pio ordinatore di tale modello è il solitary connement ossia l'isolamento cellulare dei detenuti sia di giorno che di notte. Il detenuto nella cella compiva ogni tipo di attività perchè vi era la convinzione che l'assenza di contatti potesse contribuire al ravvedimento del reo attraverso la ri-essione e la preghiera. Di conseguenza le uniche attività lavorative che potevano essere compiute erano quelle che non richiedevano spazi ampi e macchinari di dimensioni maggiori di quelli che la cella poteva orire; evidente è quindi il valore solo aittivo di tale attività.

Il modello auburniano, invece, prende il nome dal penitenziario di Au-burn a New York, inaugurato nel 1820. Si caratterizzava per il solitary connement di notte e il common work di giorno associato però al divie-to di comunicare quindi ad un obbligo al silenzio. Le caratteristiche del modello auburniano erano meglio rispondenti all'utilizzo su vasta scala della manodopera penitenziaria. Questo elemento unitamente alle criti-che della dottrina sulla disumanità della condanna al solitary connement portarono ad una maggiore diusione di questo secondo modello.

1.1.4 Il lavoro carcerario nell'Italia pre-unitaria

In Italia, dal XV al XVIII secolo, lo scarso sviluppo industriale tenne lontano il modello di carcere produttivo aermatosi nel resto d'Europa. Frequente era la condanna alla pena detentiva associata al lavoro forzato che diveniva un accessorio della pena in chiave aittiva. Con Napoleone

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si estese il codice penale d'oltralpe del 1810 alle regioni italiane sottoposte a controllo francese. Tra le altre cose, l'obbligo di lavoro venne genera-lizzato e furono istituite le case di forza e le case di lavoro dove l'obbligo di cui abbiamo appena detto costituiva la regola generale. Interessante rilevare come l'obbligo del lavoro, formalmente introdotto in questo pe-riodo, costituirà un pilastro della legislazione penale e penitenziaria no ai giorni nostri. La quasi totalità delle carceri italiane di questo periodo versava in una situazione di degrado ed abbandono. Merita, però, una nota particolare l'esperienza della casa di correzione istituita a Milano nel 1764 sotto l'impero austro-ungarico. In tale struttura venivano reclu-si giovani ozioreclu-si, individui dediti al gioco d'azzardo, soggetti condannati per insucienza di prove e prostitute. Le attività svolte erano di tipo manifatturiero e consistenti nella latura della lana e nella tessitura10. L'esperienza milanese rimarrà una delle poche eccezioni in un quadro più ampio di disinteresse ed emarginazione in cui era relegato il carcere nell'Italia preunitaria.

1.1.5 Il lavoro dei detenuti nel Regno d'Italia

All'indomani dell'Unità d'Italia si sviluppò un acceso dibattito dottri-nale11 in merito al modello penitenziario da seguire per il nuovo Regno d'Italia. L'alternativa era tra il modello ladelano e quello auburniano. Prevalsero le posizioni del modello ladelano che sosteneva un tipo di lavoro carcerario improduttivo ed aittivo. L'idea di base di tale model-lo, nella sua forma pura, è quella di un isolamento cellulare dei reclusi sia diurno che notturno anchè attraverso la preghiera e la meditazione giungessero al ravvedimento. È facile capire come, stando a questo mo-dello, la valenza del lavoro penitenziario fosse pressoché nulla; i reclusi avrebbero potuto compiere quelle attività che potevano essere svolte nella cella senza l'impiego di macchinari. La pedissequa realizzazione di questo modello richiedeva che le carceri avessero una struttura tale da garantire l'isolamento cellulare dei reclusi; in Italia però le risorse nanziarie per la costruzione e l'adeguamento degli istituti penitenziari non vi furono mai. Di talchè si addivenì ad un modello spurio, misto dove le pene più brevi venivano scontate con modalità di tipo ladelano mentre quelle lunghe in modalità di tipo auburniano. I risultati architettonici di quella scelta sono ancora oggi visibili. Alcune carceri hanno ancora una

impostazio-10R.Canosa, I.Colonnello, op.cit,pp 111-125

11Per una sintesi di tale dibattito si rinvia a G.C.Manno, La formazione dello spirito

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ne che riette la losoa cellulare e panottica che si traduce nell'assenza quasi totale di spazi comuni.

Per quanto riguarda il lavoro penitenziario, in questo periodo si diu-sero non tanto case di lavoro dove sviluppare lavorazioni e manifatture, quanto invece le colonie agricole che sorsero soprattutto nelle zone incolte e malariche. È in questo periodo che si sviluppò l'idea, che tanto cara sarà al legislatore fascista, della simmetria tra bonica agricola e bonica umana12. Dal punto di vista normativo, l'Unità d'Italia consentì di ope-rare una reductio ad unum dei vari regolamenti carcerari con il r.d n.413 del 1862.

Ancora, importante fu il codice penale Zanardelli del 1889 con cui si eli-minarono i lavori forzati. Un coordinamento della materia penitenziaria si ebbe con il r.d n.60 del 1891.

I primi anni del '900 si caratterizzano per un rinnovato interesse per la questione carceraria sebbene di lì a poco il primo conitto mondia-le costrinse ad abbandonare il dibattito. Negli anni della guerra, data la scarsità della manodopera per l'impegno al fronte degli uomini liberi, peculiare fu l'impiego all'aperto13 del lavoro dei detenuti. La ne del-la guerra e l'ascesa del fascismo incideranno profondamente sul quadro normativo in materia penale e penitenziaria.

1.1.6 Il periodo fascista

Il ventennio fascista riscrive il quadro normativo penalistico con l'emana-zione nello stesso anno, il 1930, del codice penale e del codice di procedura penale. Del 1931 è il r.d n.787 contenente il regolamento per gli istituti di prevenzione e pena che va a sostituire il regolamento carcerario del 1891. Importante è anche la legge n.547 del 1932 comunemente cono-sciuta come Carta del lavoro carcerario14. Da questo complesso di norme emerge l'obbligatorietà del lavoro carcerario come testimoniato tutt'ora dagli articoli 22 e ss del cp che sanciscono tale obbligo per l'ergastolano, il recluso e l'arrestato.

12D.Grandi, Bonica umana, Riv. Dir.Penit., 1942, pp 1 e ss

13V.C.Giannini, Il lavoro dei condannati all'aperto in zona di guerra,

Riv.disc.carc.corr.,1917. Il lavoro all'aperto di cui sù riguarda da un lato l'impiego dei detenuti nelle opere di bonica, dall'altro nel pieno del conitto, dopo la disfatta di Caporetto,un decreto luogotenenziale prevedeva la possibilità di impiegare i detenu-ti in varie occupazioni all'aperto purchè orientate alla difesa del paese e dell'economia nazionale. Questa politica otterrà comunque risultati trascurabili.

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Con riferimento al regolamento del 1931, si osserva come questo mante-nesse l'impianto del regolamento del 1891, mutuando da quello il carat-tere aittivo del lavoro e il collegamento stretto con la pena che doveva essere scontata anche attraverso il lavoro. Il nuovo regolamento contene-va, però, anche degli elementi nuovi che segnano seppur in maniera non eclatante, il distacco con la normativa precedente. Si passa ad esempio dalla graticazione per il lavoro svolto alla mercede e alla remunerazione introducendo per la prima volta in ambito penitenziario il concetto, sep-pur menomato, di sinallagmaticità.; si allude alla disciplina sull'orario di lavoro ( ssato in 8 ore) e alla previsione del riposo festivo; si prevede per la prima volta la possibilità di svolgere lavoro all'esterno che consisteva nella attività di bonica e dissodamento dei terreni.

La novità senz'altro più dirompente del regolamento del '31 era costituita dall'istituto del cd appalto di manodopera carceraria. Già previsto da un decreto ministeriale del 1926 ma poi consacrato proprio nel regolamento e destinato a sopravvivere ben oltre l'entrata in vigore della Costituzione. Si trattava di una locatio hominis con cui l'amministrazione penitenziaria concedeva alle imprese appaltatrici la forza lavoro (se non il corpo vero e proprio) dei detenuti. Più nel dettaglio la direzione del carcere concede-va in comodato a queste imprese ocine e laboratori ubicati all'interno del carcere e si impegnava ad occuparsi della sorveglianza e sicurezza in generale. Le imprese, dal canto loro, fornivano i macchinari necessari e le materie prime per la lavorazione che era di natura industriale e naliz-zata a produrre beni da commercializzare sul libero mercato. È evidente che le nuove attività si ponevano in controtendenza rispetto alle attivi-tà produttive del passato quasi esclusivamente dedicate alla produzione di casermaggio e vestiario per i detenuti e per l'amministrazione peni-tenziaria. L'amministrazione individuava dei detenuti ritenuti idonei a tali attività lavorative ma la scelta di quelli da assumere spettava poi all'impresa appaltatrice. Questo istituto delineato dal legislatore fasci-sta si porrà in contrasto, per certi versi, con molti principi della nuova costituzione.

Nonostante tutto solo a ne anni '60 una rinnovata sensibilità verso le tematiche del carcere riaccenderà i riettori sulla tematica del lavoro sca-tenando feroci critiche nei confronti dell'amministrazione penitenziaria e delle imprese che utilizzavano il lavoro carcerario. All'opposto non man-cavano i sostenitori di una normativa, quella dell'appalto di manodopera carceraria, che nella prassi aveva portato a livelli di occupazione che in alcune carceri superavano il 50% dei detenuti.

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1.1.7 Dalla Costituzione all'emanazione dell'attuale Ordi-namento Penitenziario

Dello stravolgimento concettuale portato dalla costituzione alla tematica in analisi avremo modo di parlare compiutamente nella sezione successiva dedicata al quadro normativo. Quello che qui occorre precisare è che dall'entrata in vigore della costituzione si assisterà, per circa 30 anni, ad un parallelismo normativo per certi versi incomprensibile.

La costituzione, da un lato, con il principio sancito dall'art 27, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato e la concezione del lavoro come fondamento dell'intero stato democratico; il regolamento penitenziario del '31, dall'altro, che sosteneva l'idea del lavoro come parte della pena e della sua obbligatorietà per condannati ed internati15. Evidente ed insopportabile la discriminazione operata dal regolamento tra lavoratori liberi e detenuti a cui la corte costituzionale per tutti questi anni non potè rimediare a causa della cd questione qualicatoria, cioè, della natura regolamentare della disciplina penitenziaria e come tale non sindacabile dalla corte costituzionale.

La strada che portò al nuovo O.P. fu irta e tortuosa. L'ostacolo più dicile da superare fu la concezione stessa del lavoro penitenziario di cui perno la corte costituzionale aveva una visione paternalistica16 come testimoniato da una sentenza, la n.264 del 1974, che è precedente di solo un anno alla l. 354/75 con cui è stato introdotto il nuovo O.P.

Il nuovo ordinamento, certamente migliorabile e in parte successivamente rimaneggiato, ha avuto il merito di segnare il superamento della regola-mentazione fascista. Si passa dal lavoro come parte integrante della pena al lavoro come elemento fondamentale del trattamento del condannato ed internato. Una più approfondita analisi dell'ordinamento del '75 è fornita dalla sezione successiva.

15V.Lamonaca, Proli storici del lavoro carcerario, Rassegna penitenziaria n.2, 2012,

pg.30

16Sent. Corte Cost. 22 novembre 1974, n.264 secondo cui "il lavoro ben lungi

dall'essere in contrasto con la normale esigenza di tutela e rispetto della persona è gloria umana, precetto religioso per molti, dovere e diritto sociale per tutti e reca sollievo ai condannati che lavorano, anche all'aperto [..] e godono migliore salute sica e psichica, conseguono un compenso e si sentono meno estraniati dal contesto sociale".

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1.2 Il quadro normativo

1.2.1 La Costituzione

Il lavoro penitenziario è una materia che abbraccia branche del dirit-to particolarmente ampie: la branca penalistica e quella giuslavoristi-ca. Si tratta di ambiti, ovviamente, riguardati dal dettato costituzionale e su cui poniamo l'attenzione. Verranno in considerazione la materia dell'esecuzione penale e quella del diritto al lavoro.

Nella prima direzione non si può non parlare dell'articolo 27 comma ter-zo della costituzione che costituisce punto di partenza e di approdo di qualsiasi dissertazione nell'ambito dell'esecuzione penale. L'articolo 27,3 così recita: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". In questa direzione l'articolo 20 comma 2 dell'O.P. ribadisce il carattere non aittivo del lavoro dei detenuti andando a recepire quanto disposto dalla prima parte del terzo comma dell'articolo 27 in merito all'impossi-bilità che le pene possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. L'ordinamento penitenziario si mostra rispondente al dettato costituzionale anche per ciò che attiene alla seconda parte del comma ter-zo inerente la funzione rieducativa della pena; l'articolo 15 comma primo dell'O.P colloca, infatti, il lavoro tra gli elementi cardine del trattamento rieducativo insime ad istruzione, religione, attività culturali, ricreative e sportive.

Nella seconda direzione, la materia toccata è quella del lavoro il cui ri-svolto nel dettato costituzionale è rinvenibile, ai nostri ni, negli articoli 4 e 36, tra gli altri. L'intreccio diritto/obbligo al lavoro da un lato e la restrizione alla libertà personale dall'altro, costituiscono il nucleo della nostra analisi e sarà arontato nel prossimo capitolo; qui ci limitiamo a tracciare le coordinate del discorso.

Parte della dottrina ha ritenuto e ritiene che in capo al detenuto sia con-gurabile un vero e proprio diritto soggettivo al lavoro che trova riscontro nell'art 15, 2° comma O.P. il quale prevede che ai ni del trattamento rieducativo sia assicurato il lavoro ai detenuti ed internati, salvo casi di impossibilità. Ulteriore elemento e supporto deriverebbe dalla previsione dell'articolo 20, 3° comma dell'O.P. enunciante il carattere obbligatorio del lavoro a cui dovrebbe corrispondere un dovere dell'amministrazione penitenziaria di assicurare un lavoro a tutti i detenuti.

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D'altro canto, la dottrina maggioritaria fa però leva sull'inciso nale "sal-vo i casi di impossibilità" per ridimensionare la congurabilità di un dirit-to al lavoro per i detenuti che ne esce smorzadirit-to. Una conferma in quesdirit-to senso si ha attraverso l'analisi dei lavori preparatori al nuovo O.P. in cui l'inciso salvi casi di impossibilità non compariva inizialmente a rimarca-re il fatto che il legislatorimarca-re, conscio della situazione occupazionale delle carceri, lo abbia inserito a seguito di un'attenta valutazione di oppor-tunità. Altra norma costituzionale rilevante in ambito giuslavoristico è l'articolo 36 della costituzione che riconosce il diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro reso. Anche, e soprattut-to, questo sarà uno degli aspetti centrali del prosieguo di questo lavoro. Le tappe di questa tematica sono state scandite da alcune sentenze della corte costituzionale. Tra le altre vanno ricordate la sentenza n.1087 del 1988 che dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 23 O.P. nella parte in cui riconosce una minore retribuzio-ne del lavoro penitenziario circoscrivendo però questa disciplina in pejus al solo lavoro dei detenuti alle dipendenze dell'amministrazione peniten-ziaria; oppure ancora la sentenza n.158 del 2001 che dichiarò illegittimo l'articolo 20 comma sesto nella parte in cui non prevedeva il diritto alle ferie del lavoratore detenuto.

1.2.2 Le fonti internazionali

Quando si parla di fonti internazionali l'indagine si esplica su un du-plice piano che è quello europeo e quello internazionale con riferimento all'Organizzazione delle Nazioni Unite.

Partendo dal livello europeo, il primo documento di nota è la Conven-zione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950. Centrale ai nostri ni è l'articolo 3 della con-venzione il quale probisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante. Su tale articolo si è sviluppata una copiosa giurispruden-za della Corte di Strasburgo che ha consentito in molti casi di adeguare la legislazione in tema di esecuzione penale di molti stati agli standard contenuti nella stessa convenzione.

I redattori della convenzione ritennero di dover aancare al sistema di tutela contenuto nella convenzione per l'appunto, un meccanismo a ca-rattere preventivo volto a monitorare il trattamento cui erano sottoposti i detenuti; venne così promulgata la Convenzione Europea per la preven-zione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti che

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ha richiesto la creazione del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, con l'acronimo di CPT. Questo organo ha il compito di svolgere delle visite periodiche in qualsiasi luogo in cui si trovino individui detenuti al ne di garantire un maggiore eetto protettivo nei loro confronti, mettendo i detenuti nella condizione di denunciare le eventuali violazioni dei diritti previsti dalla convenzione.

In ambito europeo ancora signicative sono state le Regole Minime per il trattamento dei detenuti allegate alla risoluzione 5/1973 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa la cui nalità è stata quella di stabilire un insieme di regole minime su tutti gli aspetti essenziali per assicurare delle condizioni umane di detenzione e di trattamento positivo. Le regole minime sono state successivamente assorbite dalle raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa del 1987 aventi ad oggetto le Regole Penitenziarie Europee con cui si riconoscono in capo ai detenuti dei veri e propri diritti e non solo dei limiti alla pretesa punitiva degli stati. Le Regole Penitenziarie europee sono state aggiornate con racco-mandazione del Consiglio dei Ministri 2/2006 e denominate, per così dire, Nuove Regole Penitenziarie Europee; l'aggiornamento si è reso necessario per l'ingresso nell'Ue di nuovi stati con la conseguente eterogeneità tra i diversi ordinamenti penitenziari e per dettare dei principi direttivi in materia di misure alternative e contrasto al sovraollamento.

All'indomani del secondo conitto mondiale si avvertì l'esigenza di un nuovo ordine internazionale in cui la tutela dei diritti umani rappresen-tasse non più solo un'esigenza legata agli interessi particolari di singoli Stati, ma una delle condizioni essenziali al mantenimento della pace e sicurezza globale. Nasce l'Onu nel 1945 a seguito di una conferenza in-ternazionale apertasi nell'aprile dello stesso anno. Il 24 ottobre entrò in vigore lo statuto con la ratica dei cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza e della maggioranza degli altri stati matari. Il 26 giugno nell'ambito della conferenza sull'Organizzazione internaziona-le venne redatta la Carta delinternaziona-le Nazioni Unite che pone la prevenzione e la salvaguardia dei diritti fondamentali come presupposto per il mante-nimento della pace e della sicurezza internazionali. In base all'articolo 68 della Carta fu costituita la commissione che elaborò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, era il 10 dicembre 1948. Ai nostri ni tale dichiarazione contiene degli articoli espressamente dedicati agli individui in esecuzione penale o indagati ( articoli 9-11) senza però alcun riferi-mento specico al lavoro dei detenuti. Va aggiunto che le enunciazioni

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della dichiarazione riferite ai cittadini liberi si devono ritenere valide e riconosciute anche nei confronti dei soggetti ristretti nella propria libertà personale. Esemplicativo in questa sede è l'articolo 23 il quale riconosce il diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste condizioni di lavoro, alla protezione dalla disoccupazione, ad una eguale retribuzione ( che deve essere equa e soddisfacente) per eguale lavoro.

Sempre nell'ambito ONU vanno ricordate le Regole Minime per il trat-tamento dei detenuti del 1955 che si propongono di stabilire principi generali e regole minime di una buona organizzazione penitenziaria e di una buona pratica di trattamento dei detenuti. In materia di lavoro pos-siamo constatare che a distanza di più di sessant'anni dalla emanazione di tali regole va segnalata la sostanziale inattuazione, a livello nazionale italiano, di alcuni principi quali quello di cui al pt. 71 e seguenti che ri-chiedono che l'organizzazione del lavoro carcerario debba riettere quanto più possibile quella del lavoro comune; o ancora il principio secondo cui il lavoro in carcere deve essere produttivo e tale da garantire la formazione professionale dei detenuti in età lavorativa.

Nel 1984 è stata adottata la Convenzione contro la tortura e altri tratta-menti crudeli, inumani e degradanti. Il fondamento di tale convenzione è l'articolo 5 della Dichiarazione Universale dei diritti umani contenente il divieto di tortura. In Italia il documento è stato raticato nel 1988 ed entrato in vigore nel 1989. Ad oggi, a più di 25 anni dalla ratica, manca ancora nel codice penale italiano il reato di tortura. Diversi i tentativi ma nessun risultato. Per ultima va segnalata la proposta di legge volta ad introdurre gli articoli 613 bis per il reato di tortura e 613 ter per il reato di istigazione alla tortura. L'auspicio è quello di colmare al più presto una delle lacune più invise del nostro codice penale.

Nel solco tracciato dalle Regole Minime del 1955 si collocano le Mandela Rules, così denominati i nuovi standard minimi per il trattamento peni-tenziario dei detenuti adottati dalla commissione delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale il 22 maggio 2015. Il testo nale ssa una serie di principi fondamentali di civiltà e di rispetto della dignità della persona umana che dovrebbero uniformare il trattamento penitenziario dei detenuti di ciascuno stato membro. Le mandela rules sono la riprova del fatto che la dimensione sovranazionale aiuta quella interna a fare passi in avanti nella cultura di una pena che non sia solo punizione17

17cit. Patrizio Gonnella, Presidente dell'associazione Antigone,

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1.2.3 L'ordinamento penitenziario e la normativa succes-siva

Con la legge n.354/75 si è avuta l'apertura del carcere al mondo ester-no18come testimoniato dall'articolo 17 di tale legge che prevede la pos-sibilità di visite negli stabilimenti penitenziari non più subordinata al permesso del Ministro della Giustizia ma all'autorizzazione del Magistra-to di sorveglianza su parere favorevole del diretMagistra-tore. È una apertura normativa a cui la costituzione gridava da tempo con il suo articolo 27 che enuncia il cd principio del nalismo rieducativo della pena.

Faremo in prima analisi riferimento alla versione primigenia della leg-ge per poi mettere in evidenza gli interventi normativi successivi che la hanno modicata.

Partendo dall'inizio, bisogna dire che il nuovo ordinamento penitenzia-rio e il relativo regolamento di esecuzione, il dPR 29 aprile 1976, n.431 ( poi sostituito dal d.p.r. 230 del 2000), espungono dal nostro ordina-mento la legislazione penitenziaria risalente agli anni trenta e con essa la concezione del lavoro come componente della pena19. Ad ogni modo è doveroso ricordare che l'articolo 20 comma terzo O.P. continua a sancire l'obbligatorietà del lavoro per i condannati, per i sottoposti alle misure di sicurezza della casa di lavoro e della colonia agricola; così come va detto che tale previsione è in parte stemperata dalle previsioni successi-ve che disciplinano le modalità di assegnazione del lavoro per le quali è necessario tener conto, tra le altre cose, delle preferenze e delle attitudini personali del detenuto, delle attività svolte precedentemente e di quelle a cui il soggetto intenda eventualmente dedicarsi dopo la dimissione dal carcere.

Però la previsione che più di altre evidenzia il compiuto passo in avanti è l'articolo 15 O.P il quale prevede che "il trattamento del condannato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione e del lavoro [..]". Il lavoro in carcere perde quella che per molto tempo era stata la sua con-notazione naturalistica, ossia il carattere aittivo per divenire uno degli elementi cardine del trattamento. Il lavoro cessa di essere parte inte-grante della pena, o meglio modalità di esecuzione della pena stessa, per divenire strumento fondamentale del trattamento rieducativo.

L'articolo 20 specica che l'organizzazione e i metodi del lavoro peni-tenziario devono riettere quelli del lavoro nella società libera senza che

18F.Cardanobile, R.Bruno, I.Careccia, Il lavoro dei detenuti, pp. 20 19G.Pera, Aspetti giuridici del lavoro penitenziario, Foro.it, 1971,V,53

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però il legislatore si sia spinto ad una equiparazione del rapporto di la-voro del detenuto al rapporto di lala-voro di diritto comune; la tendenza, però, evidenziata anche nel contesto dei lavori degli Stati Generali della Esecuzione Penale è quella di limare le incongruenze per giungere ad una assimilazione tra le due gure di lavoratore.

Con l'articolo 22 il legislatore del '75 ha voluto conformarsi al dettato dell'articolo 36 della Costituzione, il quale prevede che la retribuzione debba essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro reso; similmente il 22 O.P. ha previsto che la determinazione del corrispet-tivo venga indicizzata alla contrattazione collettiva e parametrata alla quantità e qualità del lavoro svolto.

Il riscontro pratico di tale enunciazione di principio è meno roseo perchè, innanzitutto , il nesso di sinallagmaticità tra lavoro e salario, tipico di ogni rapporto di lavoro, qui, per i detenuti viene annacquato dal riferimento non alla retribuzione ma alla mercede; ancora per la determinazione dei compensi il parametro è la contrattazione collettiva che è la base per una quanticazione solo equitativa delle mercedi che sono ssate in misura non inferiore ai 2/3 dell'ammontare previsto dai contratti collettivi. L'articolo 22 ha previsto l'istituzione di una commissione con il compito di stabilire i livelli delle mercedi che sono stati mantenuti al minimo dei 2/3 e per di più non sono stati più aggiornati dal 1994 ad oggi per evitare la indicizzazione delle mercedi ai livelli salariali attuali a causa della cronica insucienza di fondi di copertura del capitolo di bilancio dedicato al lavoro dei detenuti. Con l'O.P. del 1975 si è superato l'inviso istituto dell'appalto di mano-dopera dei detenuti che era stato introdotto dalla legislazione fascista. L'obiettivo venne raggiunto negando l'accesso in carcere alle imprese pri-vate sia come appaltatrici che come controparti datoriali. Se da un lato, con tale decisione si pose ne allo sfruttamento cui aveva portato l'appal-to di manodopera, dall'altro si registrò una inesorabile diminuzione delle lavorazioni e di conseguenza di detenuti lavoranti all'interno del carcere. I detenuti tornarono, così, ad essere impiegati quasi esclusivamente nelle attività alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria che erano, e lo sono tuttora, assai poco produttive e qualicanti.

Un cenno, nella sua previsione originaria, all'articolo 21 O.P. inerente il lavoro all'esterno che poteva essere svolto dal detenuto su autorizzazio-ne della direzioautorizzazio-ne. Fino all'ampliamento normativo prima ed applicativo poi delle misure alternative alla detenzione, il lavoro all'esterno costituì, almeno sulla carta, una importante alternativa agli impieghi

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intramu-rari classici anche se poi rimase per circa un decennio un istituto poco utilizzato per le ragioni che si esporranno in seguito.

La contradditorietà del legislatore del 1975 emerge nella misura in cui da un lato si bandiscono le imprese private dalle attività produttive intra-murarie, dall'altro i soggetti privati, nel lavoro all'esterno, divengono gli interlocutori unici per i detenuti ammessi al lavoro ex articolo 2120. Importanti novità in tema di lavoro penitenziario sono state introdotte dalla legge di modica dell'ordinamento penitenziario 10 ottobre 1986, n.663, la cd legge Gozzini. Rilevanti le novità in tema di misure alterna-tive che vengono aumentate a livello numerico e contestualmente è stata prevista la possibilità di accedervi direttamente dallo stato di libertà evi-tando qualsiasi contatto con il carcere e con il noto eetto criminogeno che questo può avere.

Il nostro interesse deve soermarsi sulla tematica del lavoro e a tal ne segnaliamo le novelle introdotte per quello extramurario. Innanzitutto l'ammissione al lavoro all'esterno è stata sottoposta all'approvazione del Magistrato di sorveglianza, soggetto che meglio delle più caute direzioni avrebbe potuto valutare la concessione della misura del lavoro ex articolo 21 O.P. Inoltre è stata estesa la possibilità di fruizione della misura anche per gli imputati previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria procedente. Inne si è esclusa, salvo ipotesi particolari, la necessità che i detenuti lavoranti all'esterno fossero scortati dagli agenti di polizia penitenziaria e logicamente ciò ha consentito una meno dicoltosa concessione della misura.

Va ricordato che la legge n. 354/75 aveva previsto una trattenuta sulle mercedi dei detenuti pari a 3/10 da versare alla Cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime del reato. La legge Gozzini cancella questa trattenuta attraverso l'abrogazione dei primi tre commi dell'articolo 23. Fermi sono rimasti, invece, i riferimenti alla mercede e alla retribuzione per il lavoro carcerario no a 2/3 del trattamento economico previsto dai contratti collettivi.

Abbiamo prima detto che la riforma del '75 aveva perseguito più o me-no consapevolmente la via della marginalizzazione del lavoro carcerario intramurario attraverso la cacciata delle imprese private dalle attività produttive intramoenia. La legge Gozzini si pone, anch'essa, in questo solco; lo fa prevedendo dei diversi criteri per l'assegnazione dei detenuti

20Posto che la condanna alla pena detentiva porta dietro di sè la pena accessoria

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al lavoro: il riferimento alle precedenti attività e a quelle cui i detenuti potranno dedicarsi dopo le dimissioni fu sostituito dal richiamo alle con-dizioni economiche della famiglia del detenuto21. Alle criticità della legge del 1986 tentò di porre rimedio la legge 12 agosto 1993 n.296 che è andata a modicare gli articoli 20 e 21 e ad introdurre l'articolo 20 bis dell'O.P. Si interviene sul collocamento intramurario con l'obiettivo palesato di ga-rantire trasparenza nell'assegnazione dei detenuti al lavoro, premio ambi-to in una situazione di carceri aollate e di un numero di posti di lavoro assai esiguo. Vennero predisposte due graduatorie, da cui due liste, una generica e l'altra per qualica e mestiere.

La legge del '93, con la riscrittura del primo comma dell'articolo 20, ria-pre il carcere ai privati dopo anni di messa al bando. La norma consente l'organizzazione di lavorazioni gestite direttamente da imprese pubbliche e private. Questa novità costituisce la presa di coscienza del legislato-re della mediocrità dell'assetto plegislato-revigente: il fallimento della gestione del lavoro inframurario adata esclusivamente all'amministrazione peni-tenziaria e la dicoltà ad un ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione.

Sotto il primo prolo il legislatore prende atto che dal '75 in poi, da quando alle imprese private fu proibito di entrare in carcere, si è avuto un declino inesorabile delle lavorazioni carcerarie sia sotto il punto di vista numerico dei detenuti impiegati, sia sotto il prolo della quantità e qualità del lavoro reso. Un quadro che strideva in maniera assordante con la nalità rieducativa della pena e con la concezione del lavoro come pilastro del trattamento dei detenuti.

Sotto il secondo prolo va segnalata la ritrosia della magistratura di sor-veglianza a concedere le misure alternative alla detenzione; una magistra-tura rea di quella che è stata denita un'ossesione lavoristica.22

Queste le ragioni che spinsero il legislatore ad estendere le possibilità di lavoro intramurario.

Dopo diversi interventi integrativi della normativa riguardante l'ordina-mento carcerario si segnala la legge 22 giugno 2000 n.193, la cd legge

21Cosi facendo la legge Gozzini mostrò di avere una concezione assistenziale del

lavoro in carcere che nisce per non assolvere alla nalità rieducativa e mostra, ancora, una buona dose di contradditorietà quando omette di dare il giusto peso all'art 20 comma 5 che chiede organizzazione e metodi di lavoro capaci di riettere quelli del lavoro della società libera.

22M.Vitali, Il lavoro penitenziario, pp. 63-69. L'autrice evidenzia come la

magi-stratura di sorveglianza, di fatto, niva per ritenere l'attività lavorativa un elemento indispensabile per la concessione di diverse misure alternative.

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Smuraglia che costituisce il primo intervento sistematico a sostegno del lavoro dei detenuti ( di cui si avrà modo di parlare più compiutamente nei capitoli successivi). In quella direzione anche il regolamento di esecuzione di pochi giorni successivo, il d.P.R. 30 giugno 2000, n.230.

La nalità della legge è stata quella di incentivare un graduale ritorno di interesse da parte delle imprese all'assunzione di lavoratori detenu-ti. Nel dettaglio si prevedevano delle agevolazioni scali e contributive per soggetti pubblici, privati e cooperative sociali che avessero organiz-zato attività produttive e di servizi, all'interno degli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate.

In questo ambito ancora da segnalare il decreto legge 1 luglio 2013, n.78, Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena, convertito in legge 9 agosto 2013, n.94 che aumenta l'ammontare degli incentivi sca-li all'assunzione dei detenuti ed ha esteso l'ambito di appsca-licazione del credito d'imposta e degli sgravi contributivi.

Gli appena conclusi Stati Generali dell'Esecuzione Penale hanno rimarca-to una volta di più il carattere essenziale dei sostegni alle imprese pubbli-che, private e cooperative sociali che vogliano investire nelle lavorazioni carcerarie. Vedremo nei prossimi mesi se e in che misura si vorrà perse-guire questa strada che ha mostrato saper condurre ad ottimi risultati sia per le imprese che, soprattutto, per i detenuti lavoratori.

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Capitolo 2

Analisi del rapporto di lavoro

del detenuto

2.1 I caratteri del lavoro penitenziario

2.1.1 Denizione del lavoro penitenziario

Va preliminarmente segnalato che pochissimi autori si sono espressamente soermati sulla questione qualicatoria. Parte della dottrina1 ha fatto ricorso all'espressione "lavoro carcerario" per indicare i rapporti di lavoro in essere negli istituti penitenziari in cui i detenuti assumono la veste di prestatori di lavoro.

Bisogna però precisare che l'attuale Ordinamento penitenziario e i regola-menti d'esecuzione non contengono più i riferiregola-menti alla parola "carcere" o all'aggettivo "carcerario", in ragione del fatto che trattasi di termi-ni che traggono origine dal verbo latino coercere (come costringere) e rimandano all'idea di un luogo nalizzato alla punizione in chiaro contra-sto con il dettato dell'articolo 27 della costituzione che rimarca la nalità rieducativa della pena.

L'impiego dell'espressione lavoro carcerario, però, non può dirsi soddisfa-cente nella misura in cui restringe l'ambito di applicazione della materia ai soli rapporti di lavoro interni agli istituti penitenziari, non ricompren-dendovi, invece, i rapporti di lavoro che vedono coinvolti i detenuti al di fuori del carcere o il lavoro prestato da soggetti beneciari di misura alternativa alla detenzione.

1G.Pera, Aspetti giuridici del lavoro carcerario, in FI, 1971; M.Pavarini, La nuova

disciplina del lavoro carcerario nella riforma dell'ordinamento penitenziario, pp. 105 e ss.

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Per questa ragione altra dottrina2ha ritenuto preferibile impiegare l'e-spressione "lavoro dei detenuti". Il vantaggio di tale el'e-spressione sta nel fatto che consente di non limitare la trattazione ai rapporti di lavoro che hanno luogo all'interno del carcere ma di estenderla anche al lavoro svolto al di fuori degli istituti. Però tale nozione tiene fuori, pur sempre, tutti i rapporti di lavoro aerenti all'esecuzione penale che siano previsti in so-stituzione della pena detentiva, quali il lavoro di pubblica utilità e tutte le forme di lavoro prescritte con nalità rieducativa e risarcitoria. Per questo che gran parte della dottrina3ha ritenuto preferibile impiegare la terminologia "lavoro penitenzario". Questa nozione è mutuata dalla denizione di "prison work" contenuta nel Libro bianco sull'organizzazio-ne e la gestiosull'organizzazio-ne delle lavorazioni penitenziarie,4 secondo cui "prison work is the employement activity undertaken by persons subject to freedom-restriction measures", intendendo con freedom-freedom-restriction measures ogni misura restrittiva della libertà non necessariamente di tipo detentivo. Questa caratterizzazione del lavoro penitenziario consente di superare le preclusioni a cui si andava incontro con le precedenti connotazioni evidenziate.

2.1.2 Finalità del lavoro penitenziario

La nalità del lavoro penitenziario è connessa con la concezione storica della pena. Con la legge n.354 del '75 si è introdotta nel nostro ordi-namento una concezione del lavoro penitenziario che l'articolo 15 O.P. colloca tra gli elementi del trattamento rieducativo della pena come pre-scritto dall'articolo 27 della Costituzione. In questa maniera il lavoro penitenziario ha perso qualsiasi connotazione aittiva.

Ai nostri ni, va richiamato anche l'articolo 20, comma quinto O.P. il quale prevede che l'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario de-vono riettere quelli del lavoro nella società libera cosi da far acquisire ai detenuti una adeguata preparazione professionale che faciliti il reinseri-mento sociale. Nonostante il lavoro sia l'unico elereinseri-mento del trattareinseri-mento previsto come obbligatorio, questo deve essere collocato nel contesto di

2G.Novelli, Il lavoro dei detenuti, in Riv. dir. penit., 1930, 469 e ss; F.Cardanobile,

R.Bruno, A.Basso, I.Careccia, Il lavoro dei detenuti

3M.Pavarini, La nuova disciplina del lavoro penitenziario nella riforma, in Il carcere

riformato, pp.105 e ss.; E.Fassone, Sfondi ideologici e scelte normative nella disciplina del lavoro penitenzario, 157 e ss.; M.Vitali, Il lavoro penitenziario.

4E' un documento conseguente ad un accordo transnazionale PROEXIT tra

isti-tuzioni pubbliche e private operanti nel settore, nell'ambito dell'iniziativa europea EQUAL Community

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un programma più ampio che prevede leve ulteriori quali l'istruzione, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive e misure volte ad agevolare il contatto col mondo esterno e con la famiglia.

Sempre la tensione rieducativa della pena richiede che il lavoro penitenzia-rio abbia ultepenitenzia-riori connotazioni perchè possa assolvere a questa funzione. In primis va richiamata la remunerazione del lavoro penitenziario che si pone in linea con il dettato dell'articolo 36 della costituzione il quale inerisce i caratteri della sucienza e della proporzionalità della retribu-zione; ma anche in linea con la necessità che per il lavoro penitenziario sia prevista una remunerazione dignitosa e proporzionata per l'attività svolta. Tutto ciò perchè non si abbia l'impressione che il lavoro è oerto ai detenuti quale misura assistenziale e premiale.

La nalità rieducativa emerge anche per ciò che attiene ai criteri di as-segnazione al lavoro, per i quali l'articolo 20 O.P. prevede dei parame-tri oggettivi incombendo sul direttore dell'istituto l'obbligo di assicurare l'imparzialità e la trasparenza delle assegnazioni5. In caso contrario, il lavoro rischierebbe addirittura di produrre degli eetti negativi, perchè si avrebbe un numero limitato di detenuti che per il fatto di svolgere un'at-tività lavorativa nirebbero per ritrovarsi in una situazione di preminenza rispetto agli altri, per ciò solo vietata dall'art 32, comma terzo dell'O.P. Parte della dottrina6 ha aermato che questo eetto "taumaturgico" del lavoro penitenziario, in realtà, attecchisca solo in presenza del classico esempio di delinquente come soggetto emarginato e costretto a delin-quere per necessità. Ben inferiore sarebbe, a dire di questa dottrina, l'ecacia del lavoro nei confronti di detenuti per reati di criminalità or-ganizzata o per i cd "colletti bianchi", tutti soggetti che invece mostrano una integrazione con il tessuto sociale particolarmente profonda. Proprio rispetto a questi ci si è interrogati sulla reale funzione risocializzante del-l'attività lavorativa prestata in carcere. Si ritiene di poter sostenere la tesi secondo cui tanto nei reati di stampo maoso quanto, similmente, nei reati dei colletti bianchi si riscontrano degli illeciti che riettono un disco-noscimento del lavoro e della meritocrazia come strumenti di progresso economico e sociale, personale e della collettività. Ciononostante anche, e soprattutto, in reati come questi un percorso di educazione al lavoro ri-sulterebbe sicuramente importante ai ni della riscoperta di alcuni valori

5F. Della Casa, G.Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, pp.280 e ss. 6G.Bettiol, Il mito della rieducazione, in Sul problema della rieducazione del

con-danato,1963; F.Mantovani, Il problema della criminalità, secondo cui per gli autori di reati di stampo maoso e terroristico e per i cd colletti bianchi, al lavoro carcerario può riconoscersi tutt'al più la funzione di antidoto al taedium carceris.

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dell'attività lavorativa ( sacricio, dignità, cooperazione, ducia) sooca-ti da una subcultura che vede nel lavoro esclusivamente uno strumento di sopravvivenza per i soggetti più vulnerabili7.

Si comprende inne che il lavoro penitenziario assume valenza a prescin-dere dall'etichetta del reato, perchè anche se prestato nelle forme più umili ed apparentemente dequalicanti, contribuisce sempre e comunque, a preparare il detenuto ai ritmi e condotte richiesti dal mondo del lavoro.

2.1.3 Rapporti con il lavoro comune

Per molto tempo si è ritenuto che il lavoro penitenziario fosse diverso dal lavoro comune perchè il primo veniva inteso come elemento costitutivo della pena e come tale nalizzato all'aizione del detenuto.

Il nuovo Ordinamento penitenziario recepisce, invece, il dettato costi-tuzionale dell'articolo 27 inerente la nalità rieducativa della pena; si pretende così che anche il lavoro penitenzario si collochi in questo sol-co, divenendo infatti uno degli elementi imprescindibili del trattamento rieducativo. Nonostante con l'approvazione del nuovo Ordinamento si fosse spinto per un'assimilazione del lavoro dei detenuti a quello comune, non si sono comunque placate le discussioni a riguardo. Quelle maggiori hanno riguardato il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione peniten-ziaria che ha dei tratti dierenziali forti rispetto al lavoro comune. Il lavoro dei detenuti alle dipendenze dei terzi, invece, si ritiene ricada, in linea generale, sotto la disciplina del diritto comune.

La contrapposizione è tra la teoria acontrattualista e quella contrattuali-sta. Il primo indirizzo fa leva sul fatto che il lavoro dei detenuti ha origine non nella libera manifestazione di volontà delle parti ma in una normati-va che contempla l'obbligatorietà del lavoro in carcere8. L'altro indirizzo pur riconoscendo il carattere vincolante e sanzionato dell'obbligo di la-voro per i detenuti, sostiene comunque la natura contrattuale del lala-voro penitenziario con l'argomentazione secondo cui il consenso del detenuto è imprescindibile perchè si concretizzi tale rapporto di lavoro9. Diverse considerazioni fanno propendere per la tesi contrattualista: in primis, il fatto che la proposta lavorativa viene fatta solo ai detenuti che ne facciano

7D.Alborghetti, Il lavoro penitenziario. Evoluzione e prospettive, pp 54

8L. De Litala, La prestazione di lavoro nel sistema penitenziario italiano, in Dl,

1946, I, 240 e ss; G.Novelli, Il lavoro dei detenuti, in Riv.dir.penit., 1930, 494 e ss.

9G.Pera, Aspetti giuridici del lavoro carcerario, 54 e ss; R. Rustia, Il lavoro del

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