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Educare all’obbedienza. Pedagogia e politica in Piemonte tra Antico regime e Restaurazione

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Collana

teoria e storia dell

educazione

diretta da

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Educare all’obbedienza

Pedagogia e politica in Piemonte tra Antico Regime e Restaurazione

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© 2008 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino www.seieditrice.com Prima edizione: 2008 Ristampa 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 2008 2009 2010 2011 2012

Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione dell’opera o di parti di essa con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memoriz-zazione elettronica, se non espressamente autorizzata per iscritto.

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L’Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare errori di attribuzione o eventuali omissioni sui detentori di diritto di copyright non potuti reperire. Stampatre - Torino

Stampato con il contributo dell’Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Scienze dell’Educazione e della Formazione.

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Indice

IX Introduzione

Educare all’obbedienza

3 Capitolo primo

La pedagogia al servizio della politica nel Piemonte di fine Settecento

3 1. Il dibattito educativo in Piemonte e in Europa alla fine dell’Ancien Régime

11 2. La pedagogia “ufficiale” al soccorso dello Stato: il dibattito sulla superiorità dell’educazione pubblica su quella privata 32 3. “Dipendenza” e autorità

44 4. Selezione scolastica e diffusione dell’istruzione

60 5. Le riforme dall’interno: l’educazione scientifica e le innovazioni nella didattica

75 6. Medicina e divulgazione: l’“educazione fisica” e l’interesse per il popolo

87 Capitolo secondo

Un’utopia pedagogica piemontese?

87 1. La lenta agonia della scuola e della pedagogia di Antico Regime 92 2. La prima occupazione francese: dall’educazione del suddito

all’educazione del repubblicano 104 3. La “prima Restaurazione” (1799-1800)

115 4. Un ritratto di Antico Regime: la scuola piemontese nelle indagini del 1800

125 5. 1800-1802: la Rivoluzione tardiva della scuola piemontese 136 6. La breve autonomia della scuola sabauda

148 7. Sogni di riforma

160 8. La francesizzazione della scuola piemontese e la fine della stagione delle riforme

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175 Capitolo terzo

La scuola piemontese alla ricerca della sua identità

175 1. La fine dell’indipendenza

192 2. Torino conquista Parigi: la mutuazione del modello scolastico sabaudo da parte di Napoleone

221 3. L’Accademia di Torino e la difficile mediazione con l’Université impériale

242 4. La scuola piemontese tra domanda e offerta 250 5. La rivincita della didattica

259 Capitolo quarto

Tra riforma e contro-riforma della scuola: gli anni della Restaurazione

259 1. L’impossibile ritorno al passato della scuola sabauda 270 2. Tra sogni di riforma e difficoltà reali: il progetto

di Giuseppe Anselmi

277 3. Gli altri collaboratori di Balbo e Galeani Napione

291 4. La via moderata alle riforme: la nuova scuola sabauda secondo Galeani Napione e Balbo

300 5. Filantropia e politica: le scuole di mutuo insegnamento 308 6. La fine delle illusioni e il Regolamento del 1822

322 7. La scuola popolare tra insegnamento dell’italiano e avviamento precoce al lavoro

336 8. La vittoria della didattica sull’educazione 349 Indice dei nomi

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“Più la società è arretrata, più gli intellettuali sono retori, astratti ideologi, spregiatori delle tecniche, esaltatori di un sapere contemplativo, che si vanta della propria totale inutilità”.

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Introduzione

Tra la fine dell’Antico Regime e la Restaurazione avvennero pro-fonde trasformazioni nel modo di intendere la scuola e l’educazio-ne. Da un lato, maturarono i processi di revisione delle teorie e delle pratiche educative intraprese nell’età dei Lumi, dall’altro, si delinearono i modelli di scuola e di pedagogia – sia consentito que-sto uso improprio del termine, all’epoca non ancora utilizzato, per indicare la riflessione coeva sui fini e sui metodi dell’educazione e dell’istruzione – che sarebbero rimasti in vigore in Europa nei secoli seguenti.

In questo contesto, il Regno di Sardegna rappresenta un caso interessante. Infatti, sin dal 1729, quando Vittorio Amedeo II aveva estromesso i gesuiti dall’insegnamento, i monarchi sabaudi avevano inaugurato una politica scolastica “moderna”, rivendicando allo Stato la gestione delle scuole, inclusa la scelta degli insegnanti e dei programmi scolastici.

Non a caso, a metà Settecento, il Piemonte veniva assunto come punto di riferimento non solo dagli altri Stati regionali italiani, ma anche da alcune grandi monarchie europee, che guardarono al modello torinese soprattutto al momento delle espulsioni e della successiva soppressione dei gesuiti, tra il 1759 e il 1773. Mentre nel resto del continente si procedeva a una riorganizzazione dei sistemi scolastici nazionali, il Regno di Sardegna si arroccò in difesa del proprio, rifiutando qualunque innovazione.

La riflessione educativa non soltanto sostenne le posizioni del potere politico, ma si prodigò per argomentare da un punto di vista teorico la conservazione dello status quo, criticando aspramente ogni progetto di riforma proveniente dall’esterno. I sostenitori di tesi diverse da quelle prevalenti, come Domenico Soresi, poterono

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esporle solo dopo essere emigrati. All’interno del Piemonte le pro-poste in qualche misura alternative vennero formulate in modo sommesso dalle pagine dei pochi periodici esistenti, e sempre con grande discrezione. Gli unici cambiamenti messi in atto furono quelli che non avevano bisogno di leggi e che furono discussi tra gli addetti ai lavori: si trattò di modeste innovazioni apportate ai metodi didattici, ideate e messe in pratica da insegnanti particolar-mente intraprendenti e capaci.

La didattica rappresentò, di fatto, l’unico ambito in cui poterono essere sperimentate riforme per tutto il periodo preso in considera-zione, e non solo in Antico Regime. La pratica didattica era, infat-ti, reputata innocua, soprattutto se messa a confronto con problemi quali l’istruzione popolare o la gestione della scuola che mettevano in gioco questioni politiche di vasta portata. I metodi d’insegna-mento, però, per loro natura, si prestavano – e si prestano tutt’og-gi – a un uso ambiguo: riguardando le tecniche di trasmissione dei contenuti e l’organizzazione degli apprendimenti, risultano spesso indifferenti alle finalità educative, così come agli ideali di uomo e di società che vi sottendono. Non a caso, di didattica discussero sia i progressisti sia i conservatori, anch’essi spesso favorevoli a riforme in questo limitato campo.

Il dibattito relativo alle forme e ai contenuti dell’insegnamento fu, quindi, reso possibile da un’ambiguità di fondo: per gli uni rap-presentava il primo passo verso la formazione di un’opinione pub-blica accorta e informata, una sorta di surrogato di quelle riforme sostanziali che tardavano ad arrivare; per gli altri, costituiva un valido strumento per la gestione della vita scolastica e, dunque, un mezzo aggiornato di controllo sociale e culturale. L’impressio-ne, comunque, è che le innovazioni metodologiche abbiano rap-presentato, allora come oggi, l’estremo tentativo di innovare un sistema scolastico che il potere politico non sapeva o non voleva cambiare, ma e che appariva inadeguato a chi lo viveva quotidia-namente.

Con gli scrittori di questioni educative attenti a difendere il modello sabaudo e gli uomini di scuola interessati alle modalità d’insegnamento, fino alla Rivoluzione, nulla intervenne a mutare l’idea dell’istruzione come concessione fatta dal re agli studenti

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dotati di un’adeguata e certificata moralità. Lo Stato sabaudo con-servò la propria inveterata diffidenza nei confronti della cultura, intesa come patrimonio da affidare esclusivamente a persone, docenti e alunni, di provata rettitudine. Per questo, molti dei con-tenuti trasmessi dalla scuola miravano in primo luogo al consoli-damento dei costumi.

Non a caso, poi, nel 1792, appena si profilò l’eventualità che l’esempio francese venisse imitato in Piemonte, il governo provvi-de a chiuprovvi-dere l’Università e il Collegio provvi-delle Province, ovvero le più importanti e rappresentative istituzioni culturali sabaude, le quali vennero riaperte solo dopo l’allontanamento dei Savoia da Torino.

L’attenzione per la scuola e l’educazione si riaccese con l’arrivo delle truppe francesi, alla fine del 1798 quando la Rivoluzione di Francia aveva ormai perso buona parte della propria vena innova-tiva. I funzionari militari e civili della Grande Nation, insieme con i repubblicani piemontesi, si prodigarono per costruire un sistema scolastico adeguato al rinnovato clima politico. Durante la breve esperienza repubblicana, alcuni insegnanti ed educatori si opera-rono per andare in soccorso di un progetto politico che spesso avevano abbracciato e cominciato a propagandare prima del 1798. Rapidamente videro la luce libri scolastici, piani di riforma,

curri-cula, funzionali alla costruzione della Repubblica. Spesso si trattò

di docenti che si erano messi in luce negli ultimi anni dell’Antico Regime per intraprendenza e originalità, i quali fecero una bril-lante carriera nella scuola e nell’Università della 27a Divisione

Militare.

Nella pratica, tuttavia, cambiò molto poco. I progetti elaborati in quegli anni, al pari degli interventi nell’organizzazione della scuola, nella didattica e nella manualistica, furono comunque importanti perché ispirati da una nuova idea di istruzione: non più concessione del re a favore di una più o meno ristretta élite, ma riconoscimento di un diritto. Ogni momento della vita pubblica venne concepito per la prima volta come un’occasione per guada-gnare la popolazione alla causa repubblicana, ovvero come un’op-portunità educativa, funzionale alla costruzione di cittadini consa-pevoli dei loro diritti e dei loro doveri.

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Si trattò di un cambiamento significativo, per quanto di scarsa efficacia nell’immediato, del quale avrebbero dovuto tenere conto tutti i governi che nei decenni successivi ressero il Piemonte. Già durante la breve fase dell’occupazione austro-russa (1799-1800), infatti, i progetti di riforma elaborati dai contro-rivoluzionari sabaudi contemplarono l’allargamento della scolarizzazione anche ai ceti più umili, concentrandosi, inoltre, sulle finalità sociali e poli-tiche della loro formazione, piuttosto che sui contenuti della scuo-la poposcuo-lare.

Le opportunità di elaborare e sperimentare nuove modalità edu-cative prospettate alla fine del 1798 vennero meno già nel 1803, in seguito all’ascesa di Napoleone, il quale mise a tacere le istanze riformistiche più radicali e impose a tutto l’impero un sistema sco-lastico comune e centralizzato.

Il modello sabaudo riuscì, tuttavia, a conservare alcune delle pro-prie peculiarità. Ciò fu in parte reso possibile dalla tenacia e dal-l’abilità dei suoi amministratori, Prospero Balbo e Cesare Saluzzo su tutti, ma la scuola piemontese riuscì a riprodurre se stessa soprattutto perché il suo impianto organizzativo fu mutuato da Bonaparte ed esteso a tutti i domini, a ulteriore dimostrazione del prestigio di cui essa godeva a livello europeo. Infatti, Napoleone prese a modello per l’Università imperiale proprio l’organizzazione dell’Ateneo voluta da Vittorio Amedeo II, che le aveva affidato il compito di sovrintendere a tutti gli altri ordini di scuola, vigilando sui contenuti e sul personale insegnante.

Anche nel periodo napoleonico la riflessione educativa sorres-se le convinzioni e le ambizioni del potere politico, sottostiman-do le proposte di estensione dell’istruzione elementare formulate negli anni precedenti, per concentrarsi sulla scuola secondaria e superiore, in linea con quanto era accaduto già in Ancien Régime. Si registrò, così, una fredda accoglienza, per non parlare di un vero e proprio ostracismo, da parte delle élites sabaude, verso alcuni dei capisaldi dell’educazione illuministica, come, ad esem-pio, il De l’homme, l’Émile, il quarto libro della Scienza della

Legi-slazione, per altro, mai editi in Piemonte. Queste opere

conte-nevano messaggi politici neppure troppo velati: portando alle estreme conseguenze le riflessioni dell’Illuminismo europeo,

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l’educazione era prospettata come il campo dell’utopia politica, in cui anche pensatori certamente non radicali, come Rousseau e Filangieri, potevano spingersi a immaginare una società in cui tutti i cittadini godevano delle stesse opportunità sin dalla nasci-ta, compresa l’istruzione.

Educare, in questa nuova accezione, cessava di essere sinonimo di moralizzare, di infondere retti costumi, di rendere accettabile agli individui un ruolo sociale predefinito e coerente con la prove-nienza familiare; significava, invece, valorizzare le risorse del sog-getto, concedergli la possibilità di divenire ciò che meglio credeva, farne un membro critico dell’opinione pubblica. Questa nuova concezione educativa si traduceva nella promozione dell’alfabetiz-zazione e nella richiesta di maggiore aderenza della scuola ai biso-gni di tutta la popolazione e non solo di quella parte destinata a raggiungere i livelli più alti dell’istruzione.

Valori, questi, che prima e dopo la Rivoluzione, furono visti con sospetto dalle élites sabaude, anche da quelle più colte e aperte nei confronti dei Lumi, che sedevano nell’Accademia delle Scienze, nella Società reale d’Agricoltura, nelle accademie di provincia, nelle logge massoniche, insomma, che avevano una certa consuetudine con le pratiche culturali tipiche dell’Illumini-smo. Non è forse eccessivo sostenere che l’adesione di una parte consistente delle élites sabaude all’Illuminismo si sia limitata ai suoi contenuti scientifici, letterari e socializzanti, con l’esclusio-ne dei messaggi politici di maggior spessore. Per questi motivi, durante la Rivoluzione e l’Impero napoleonico, esse difesero tenacemente il modello di scuola e di educazione dell’Antico Regime.

Non a caso, tra il 1798 e il 1803, gli uomini che avevano prova-to a mettere in pratica i messaggi educativi divulgati dalla lettera-tura illuministica e dalla propaganda rivoluzionaria erano homines

novi, poi messi ai margini della cultura ufficiale e della vita

politi-ca, come Sebastiano Giraud, Carlo Botta e Francesco Brayda, membri dell’attivissimo Jury d’instruction publique di età repubbli-cana, o personalità straniere, come Jourdan e La Boulinière, a capo della della 27a Divisione militare per conto della Grande

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Meno traumatico di quanto si potrebbe immaginare fu, per-tanto, il ritorno all’impianto settecentesco della scuola sabauda, sancito dal crollo dell’Impero napoleonico e dal rientro in Pie-monte dei Savoia, nel 1814. Certo, si rinunciò ai licei per torna-re ai collegi (che del torna-resto non avevano mai cessato di funziona-re), ma il sistema scolastico ed educativo, almeno nella sua ispi-razione generale, rimase pressoché immutato. Certamente vent’anni non erano passati invano e l’idea del valore della scuo-la aveva compiuto qualche passo avanti sul piano delscuo-la coscienza collettiva, ma è difficile stabilire se ciò fu dovuto all’azione poli-tica scaturita dalla presenza francese oppure se essa non fu che il naturale sviluppo di una tendenza che si stava manifestando in varie parti d’Europa.

In ogni caso Balbo, Galeani Napione e quanti come loro erano consapevoli del fatto che non si poteva tornare alla situazione ante-riore al 1798, fingendo che nulla fosse accaduto nel frattempo, pro-varono a riaccendere il dibattito sull’istruzione e sarebbero proba-bilmente giunti a una riforma se i moti del 1821 non avessero irri-gidito per l’ennesima volta la vita politica sabauda.

Il riordino scolastico fu realizzato nel 1822 a opera di Tapa-relli D’Azeglio, il quale recuperò molte delle innovazioni dibat-tute e in qualche caso anche introdotte nei decenni precedenti, piegandole in funzione della formazione di un nuovo modello di suddito.

L’introduzione dell’italiano nelle elementari e la lotta alle scuo-le di latinità, così come gli sforzi per l’impiego del metodo norma-le e il proposito di istruire porzioni più ampie della popolazione, sull’esempio rivoluzionario, erano finalizzati alla trasmissione di valori civici, politici e religiosi adeguati alle varie classi sociali: mentre il latino e gli studi superiori andavano riservati ai ceti ele-vati, per quelli più umili si prospettava l’avviamento alle profes-sioni manuali, nella rigorosa tutela dell’armonia e del benessere sociale.

Divenne, così, evidente il fallimento del messaggio educativo dei Lumi, secondo il quale l’istruzione avrebbe dovuto servire a for-mare l’uomo prima ancora che il cittadino. L’uso strumentale della scuola da parte dei governi e delle élites sabaude segnò la sconfitta

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del modello rousseauiano, il quale, in un’epoca in cui era impossi-bile formare il cittadino, dato che non esistevano che sudditi, rivendicava per tutti pari opportunità educative, al fine di divenire artefici consapevoli del proprio destino e contribuire al migliora-mento della società.

La storia dell’istruzione e dell’educazione tra la fine del Sette-cento e i primi decenni dell’OttoSette-cento attesta anche per larga parte l’insuccesso del modello di Filangieri e di Helvétius, che intendevano l’educazione come il dovere dello Stato di crescere i cittadini nel rispetto dei propri diritti e dei propri doveri, ovve-ro nella costruzione di un’opinione pubblica critica e rappresen-tativa.

Mirando a rendere obbligatoria l’istruzione, già la Rivoluzione aveva inteso formare cittadini consapevoli, al fine, però, di permet-terne l’integrazione nel nuovo sistema socio-politico. Attraverso l’introduzione nei programmi delle scuole elementari dell’insegna-mento dei diritti e dei doveri del cittadino, la Rivoluzione – non senza contraddizioni – aveva tentato di coinvolgere nel suo proget-to politico le masse.

Non diversamente dalla scuola della tradizione, anche la scuo-la rivoluzionaria, quindi, era stata concepita con fini propagandi-stici e di persuasione sociale. Ma aveva comunque segnato un notevole scarto rispetto al sistema formativo delle monarchie assolute, in quanto intendeva creare, come diremmo oggi, inclu-sione e non escluinclu-sione. Allo stesso tempo, però, era preoccupata quasi esclusivamente del contenuto sociale dell’educazione, tra-scurando del tutto l’aspetto della crescita intima, personale e ori-ginale dell’alunno che la cultura pedagogica romantica avrebbe esaltato. La “pubblica felicità” soppiantò il diritto alla felicità del-l’individuo.

Con Bonaparte non solo venne meno l’interesse per la forma-zione di cittadini partecipi alla vita dello Stato, ma si smarrirono anche l’obbligatorietà e l’universalità della scuola elementare. Contemporaneamente, però, lo Stato aumentò il proprio inter-vento nella gestione e nella regolamentazione dell’istruzione, in specie di quella secondaria e superiore, in quanto considerata, com’è noto, un fondamentale strumento di controllo e di

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prose-litismo. Dimenticata l’utilità individuale dell’educazione, essa assunse il compito di formare non “il” cittadino, ma “un” cittadi-no, obbediente, omologato, abituato a considerarsi come un mec-canismo dell’ingranaggio sociale. Altro che formazione dell’opi-nione pubblica!

La monarchia sabauda ripartì da dove si era fermato Napoleo-ne: dopo aver pensato di riportare in vita il sistema scolastico ante-riore al 1798, si rese conto che non tutto ciò che era stato costrui-to nei due decenni precedenti era da rifiutare. Di qui, ad esempio la decisione di sostituire il latino nella scuola elementare con l’ita-liano, non tanto per rendere più democratico l’accesso alla prima alfabetizzazione, ma usandolo in funzione anti-francese e cioè per cancellare del tutto il ricordo dell’occupazione.

I Savoia affidarono, inoltre, la scuola elementare ai Fratelli delle Scuole Cristiane, così come aveva fatto Napoleone, rinnegando in questo modo il modello varato da Vittorio Amedeo II nel 1729. E soprattutto, anche lo Stato sabaudo arrivò, nel 1822, a prescrivere a tutti i comuni l’obbligo di aprire una scuola primaria nell’ottica di formare cittadini bene educati in quanto bene inseriti nel con-testo sociale. L’istruzione non fu più concepita come concessione da parte del sovrano, com’era stato prima della Rivoluzione, ma neppure venne presentata come diritto dell’individuo. Era, piutto-sto, assimilabile a un dovere a cui ogni cittadino doveva adempie-re o, nel miglioadempie-re dei casi, a un’opportunità messa a disposizione di ogni cittadino, a condizione che accettasse di non volere modi-ficare il proprio status sociale.

Persa la sua carica utopica, dell’invito alla ricerca della felicità pubblica e privata avanzato dalla pedagogia dei Lumi venne fatto un uso esclusivamente strumentale in nome del bene superiore dello Stato e della stabilità sociale e non di quello dei cittadini. In questa cultura affonda le sue radici la politica ottocentesca e primo novecentesca della scolarità obbligatoria.

Per chi, come noi, sa quante resistenze avrebbe incontrato, la propaganda degli Stati liberali per rendere obbligatoria la scuola primaria e per portarvi il maggior numero possibile di cittadini appare intrisa di questo paradosso: dominata dall’obbligo di

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rispettare una legge pensata dallo Stato per il proprio interesse, trascurò il bene e l’utilità che ne derivavano per gli individui, lasciando sempre trasparire la volontà di controllo e di normaliz-zazione, invece dell’offerta di crescita personale. Per questo, non stupisce che essa non sia riuscita a fare presa su una società che non avvertiva l’utilità della scuola e che, anzi, la considerava spes-so a ragione come un’indebita ingerenza dello Stato nella vita delle famiglie.

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Educare all’obbedienza

Pedagogia e politica in Piemonte tra Antico Regime e Restaurazione

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Capitolo primo

La pedagogia al servizio della politica

nel Piemonte di fine Settecento

1. Il dibattito educativo in Piemonte e in Europa

alla fine dell’Ancien Régime

Nel corso della seconda metà del Settecento si accese un intenso dibattito sulle finalità e sui metodi dell’educazione, che attraversò l’intero continente europeo, scuotendo le opinioni pubbliche, sin da allora assai sensibili a ogni cambiamento relativo all’istruzione e all’allevamento dei figli. Ad alimentare la discussione concorrevano almeno tre fattori, di matrice filosofica e politica, piuttosto che pedagogica. Il primo fu l’affermarsi di una diversa concezione delle facoltà cognitive dell’uomo: ricerche sull’origine delle idee come quelle di David Hume (Philosophical Essays concerning Human

Under-standing, 1748), Etienne Bonnot de Condillac (Essai sur l’origine des connaissances humaines, 1746; Traité des sensations, 1754) e Denis

Diderot (Lettre sur les aveugles, 1749) affrancarono le scienze umane dall’innatismo, per individuare la sorgente della conoscenza nel-l’esperienza e nelle capacità intellettive dell’individuo.

Questa nuova prospettiva aprì nuove e inaspettate possibilità all’educazione: nascendo privo di qualunque conoscenza, ma dota-to dei sensi e della ragione, l’individuo aveva bisogno di imparare a utilizzarli nel modo migliore. Da un lato, considerata non più come macchiata dal peccato originale, ma come tappa imprescindi-bile per la costruzione dell’adulto, l’infanzia divenne oggetto di nuove attenzioni e di una tutela sino ad allora sconosciuta. La piena realizzazione del singolo sin dalla più tenera età fu da quel momen-to presentata come uno dei requisiti necessari per il conseguimen-to della “pubblica felicità”. Dall’altro, si levarono dappertutconseguimen-to in Europa critiche nei confronti dei metodi e dei contenuti dell’inse-gnamento, che apparivano sempre meno adeguati ai bisogni e alle capacità degli studenti.

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Il secondo fattore è rappresentato dalle scoperte della medicina. Attraverso le innovative ricerche di scienziati di fama internazio-nale, come Simon André Tissot, Jacques Ballexerd, Gerard Van Swieten e Herman Boerhaave, la medicina infantile, progenitrice della pediatria, ridefinì le caratteristiche della natura del bambino e diede ulteriore impulso alle ricerche empiriche sull’uomo e sui suoi meccanismi cognitivi. Nacque allora l’“educazione fisica”, ovvero una specifica attenzione per le pratiche igieniche e di puericultura, indispensabili alla conservazione e allo sviluppo dell’infanzia. Let-terati, insegnanti, uomini di chiesa e soprattutto medici si prodiga-rono per diffondere le nuove scoperte circa la nociva pratica del baliatico e per rivendicare i benefici effetti dell’allattamento mater-no, oltre che per mettere in guardia le donne da antiche quanto mortifere pratiche, quali l’uso di fasciature rigide per il conteni-mento dei bambini e la somministrazione di cibi indigesti ma con-siderati tradizionalmente benefici. Era, infatti, ormai assodato che la tutela della salute dei bambini costituiva la migliore garanzia di sopravvivenza e di crescita, oltre che la base di ogni altra forma di educazione dell’infanzia.

Il terzo fattore che contribuì a richiamare l’attenzione sulle tematiche educative fu la rivendicazione, da parte degli Stati euro-pei, del controllo dell’istruzione, e specialmente di quella seconda-ria, sottraendola agli Ordini religiosi, che l’avevano gestita sino ad allora. Si trattava non tanto di rinnovare i modelli scolastici e peda-gogici, ma soprattutto di decidere a chi spettasse il controllo della formazione dei sudditi degli Stati assoluti di Ancien Régime, con ovvie implicazioni ideologiche e politiche. Il secolare sodalizio Stato-Chiesa nella gestione della scuola perse, così, gradualmente compattezza, minato, tra l’altro, dall’espulsione della Compagnia di Gesù dai regni borbonici, che ne ottennero poi la soppressione da parte di Clemente XIV. L’uscita di scena dell’Ordine insegnan-te per antonomasia offrì l’occasione per un ripensamento comples-sivo della gestione delle scuole, sulle quali gli Stati ebbero final-mente l’occasione di mettere le mani.

Dal dibattito europeo sull’educazione e sull’istruzione, che pro-dusse, tra l’altro, alcuni dei capolavori della letteratura educativa, come l’Émile di Rousseau e, più tardi, Lienhard und Gertrud di Pesta-lozzi, oltre che dalla riforma, più o meno radicale, dei sistemi scola-stici operata in Austria e in Francia, il Piemonte sembra essere stato

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appena sfiorato. Certo poté influire il fatto che il regno di Sardegna aveva assistito precocemente, rispetto agli altri paesi, all’appropria-zione da parte dello Stato di una larga parte dell’istruall’appropria-zione pubblica. Ma ciò non basta a rendere conto della pressoché univoca e apparentemente universale adesione delle élites intellettuali sabaude al modello educativo e scolastico tradizionale, controllato dallo Stato ma nella pratica ampiamente gestito dal clero.1 Non può

sfuggire, infatti, che a Torino vide la luce una delle prime e più con-vincenti confutazioni dell’Émile, ad opera di un savoiardo destinato a una brillante carriera nella Roma pontificia: il barnabita Giacinto Sigismondo Gerdil, che avrebbe ottenuto fama internazionale non solo perché elevato al soglio cardinalizio da Clemente XIV e inve-stito di importanti responsabilità all’interno della congregazione dell’Indice, ma anche e soprattutto in quanto autore di acute e per-suasive opere apologetiche. In Piemonte egli assurse ben presto ad autorità in campo scolastico e pedagogico, potendo vantare espe-rienze significative prima come insegnante di collegio a Casale Monferrato, poi come precettore dell’erede al trono, il futuro Carlo Emanuele IV, quindi in qualità di segretario della neonata Accade-mia delle Scienze, e infine come docente dell’Ateneo torinese.2Tra

i suoi numerosi scritti di carattere educativo ebbero particolare for-tuna le Réflexions sur la théorie et la pratique de l’éducation contre les

principes de M. Rousseau,3pubblicate nel 1763, pochi anni prima che 1. Sulla fedeltà delle élites intellettuali sabaude all’ortodossia religiosa e alla monar-chia dei Savoia, solo raramente piuttosto ostentata che effettiva, vedi P. Delpianoin

Il trono e la cattedra, Istruzione e formazione dell’élite nel Piemonte del Settecento, Torino,

Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1997.

2. Su Gerdil cfr. R. Valabrega, Un anti-illuminista dalla cattedra alla porpora.

Gia-cinto Sigismondo Gerdil professore, precettore a corte e cardinale, Torino, Deputazione

subalpina di storia patria, 2004; vedi anche gli articoli sul cardinale raccolti nel nume-ro monografico di “Barnabiti studi”, 18, 2001. Sulla sua attività educativa e sulla sua influenza non soltanto sulla scuola piemontese, ma anche sull’organizzazione scolasti-ca dei barnabiti cfr. A. Bianchi, L’istruzione secondaria tra barocco ed età dei lumi. Il

col-legio di San Giovanni alle Vigne di Lodi e l’esperienza pedagogica dei Barnabiti, Milano,

Vita e Pensiero, Pubblicazioni dell’Università Cattolica, 1993; vedi pure Id., Scuola e

lumi in Italia nell’età delle riforme (1750-1780). La modernizzazione dei piani degli studi nei collegi degli ordini religiosi, Brescia, Editrice La Scuola, 1996.

3. S. Gerdil, Réflexions sur la théorie et la pratique de l’éducation contre les principes de

M. Rousseau, Turin, Reycends et Guibert, 1763 (al fondo: Turin, chez François

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lasciasse Torino alla volta di Roma. Nel volgere di pochi anni, le

Réflexions vennero tradotte in italiano, inglese e tedesco e

conobbe-ro numeconobbe-rose riedizioni, passando alla storia come L’Anti-Émile. Negli anni Ottanta un’altra personalità dotata di grande influen-za nella vita culturale subalpina sembrò accentrare intorno alle proprie teorie pedagogiche il consenso di buona parte dell’opinio-ne pubblica: il conte Benvenuto Robbio di San Raffaele. Riforma-tore agli studi e quindi autorità in campo scolastico, censore, mem-bro di numerose accademie letterarie, filantropo, in gioventù aveva subito il fascino della cultura illuminista, ma ben presto aveva cam-biato campo per divenire uno degli animatori segreti dell’Amitié

chrétienne fondata a Torino dall’ex gesuita Nikolaus Albert von

Diessbach, con l’obiettivo di porre un argine alla diffusione dei valori dell’Illuminismo mediante la redazione e la diffusione di “buoni libri”.4 Sebbene le convinzioni conservatrici di Robbio di

San Raffaele siano state a volte enfatizzate e banalizzate, anche per-ché il personaggio resta ancora poco studiato, è indubbio che esse abbiano improntato il dibattito educativo sabaudo, caratterizzan-dolo in senso spiccatamente anti-illuminista. Il nobile chierese impugnò, infatti, a più riprese la penna al fine non soltanto di denunciare l’empietà e le potenzialità sovversive della philosophie, ma anche per ribadire il valore e l’attualità dei metodi pedagogici e d’insegnamento tradizionalmente impiegati nei collegi e nelle famiglie piemontesi.5Per Robbio l’impegno letterario e pedagogi-4. Sull’attività di Benvenuto Robbio di San Raffaele all’interno dell’Amitié torinese vedi C. Bona, Le “Amicizie”, Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830), Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1962, in particolare le pp. 38-53. Sulla sua atti-vità di scrittore di questioni educative cfr. la datata ma ancora utile sintesi di G.B. G eri-ni, Gli scrittori pedagogici del secolo Decimottavo, Torino, Paravia, 1901, pp. 352-381; vedi anche M.L. Ricaldone, Progetti di educazione letteraria intorno al 1790: Benvenuto Robbio

di San Raffaele e la teoria del “Melius aliquid nescire secure, quam cum periculo discere”, in G.

Ioli(a cura di), Spazio e funzioni del letterato nel Piemonte del tardo ’700, Atti del convegno

“Piemonte e Letteratura 1789-1870”, s.l., Regione Piemonte, 1983, pp. 3-14. A

proposi-to dell’Amicizia catproposi-tolica proposi-torinese mi permetproposi-to di rimandare al mio L’uso politico del miproposi-to:

il complotto giudaico in Europa tra Settecento e Ottocento, in P. Sibilla-G. Chiosso(a cura di), Alfabetizzazione, scolarizzazione e processi formativi nell’arco alpino. Itinerari di studio,

temi di ricerca e prospettive d’intervento, Libreria Stampatori, Torino, 2005, pp. 149-172.

5. Questo era l’obiettivo dei trattati educativi che Robbio pubblicò nel corso degli anni Ottanta: B. Robbio diSanRaffaele, Della educazione continuata, del conte di San

Raffaele, Torino, Stamperia Fontana, 1783; Id., Apparecchio degli educatori del conte di

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co consisteva, dunque, essenzialmente nella confutazione dei prin-cipi pedagogici dell’Illuminismo.

A fronte delle lucide opere apologetiche e di forte stampo conser-vatore di Gerdil e di Robbio di San Raffaele, nel Regno di Sardegna della fine dell’Antico Regime non sembra essere avvenuta alcuna rielaborazione dei messaggi illuministici sull’educazione e l’istruzio-ne. È significativo, infatti, che i piemontesi passati alla storia per avere elaborato originali modelli educativi e per avere partecipato in prima persona alla riorganizzazione dei piani di studio, dei manuali e del sistema scolastico in alcuni Stati italiani prima della Rivoluzio-ne, come Pierdomenico Soresi o Paolo Maria Paciaudi, abbiano agito al di fuori dei confini dello Stato sabaudo, pur mantenendo stretti e costanti legami con la patria e pur svolgendo certamente una fondamentale funzione di mediazione nei confronti delle idee e dei progetti d’avanguardia, elaborati nel resto d’Europa.6

Tuttavia, anche se è inutile cercare di individuare un personaggio che possa contendere la scena a Gerdil e a Robbio di San Raffaele, non è lecito concludere che prima del 1799 in Piemonte non abbia avuto alcuna eco quel dibattito sulla scuola e sui metodi educativi che accendeva grandi polemiche in tutta Europa. Proprio la discus-sione dei problemi aperti da libri come l’Émile offrì ai piemontesi l’opportunità di riflettere sul loro sistema educativo, il più delle volte per sottolinearne il valore e, quindi, per assumerne la difesa. Del resto, il sistema scolastico sabaudo veniva preso a modello e a termine di paragone in Italia e all’estero, ed era impossibile nel contesto politico coevo metterlo in discussione. Le proposte più originali si registrarono a proposito dei piani di studio e dei meto-di d’insegnamento, delle pratiche della puericultura e dell’alleva-mento della prima infanzia, piuttosto che sulle finalità civiche e culturali dell’istruzione e ancora meno sulla diffusione dell’alfabe-tizzazione. Quello della didattica era, infatti, un tema neutro, poli-ticamente accettabile, in quanto non implicava una riforma com-plessiva della scuola e dei contenuti che essa contribuiva a diffon-dere, ma soltanto la sua gestione quotidiana.

6. Su Pierdomenico Soresi e il suo ruolo di mediatore tra gli illuministi lombardi e il Piemonte vedi F. Venturi, Settecento Riformatore, vol. v, L’Italia dei Lumi

(1764-1790), Tomo i, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La

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Esso aveva a che fare con quella che la letteratura coeva definiva l’“educazione scientifica”, ovvero con i contenuti formali dell’in-segnamento e con i metodi della loro trasmissione. In realtà, il dibattito in Piemonte non trascurò neppure gli altri due ambiti del-l’educazione illuministica, relativi alle componenti fisica e morale dell’individuo.7In tutti i casi, i toni della discussione rimasero

som-messi e i temi relegati alle questioni metodologiche, dove timidi tentativi di riforma cercarono di guadagnarsi piccoli spazi nella vita quodiana delle scuole e delle famiglie, senza mettere in discussione l’impianto scolastico sabaudo.

Del resto, la vena innovativa dell’assolutismo sabaudo, perlomeno in campo scolastico, si era esaurita già da un po’ di tempo: alle gran-di riforme gran-di Vittorio Amedeo II, tra il 1720 e il 1729, era subentra-ta ormai da anni una progressiva chiusura intellettuale e politica, che rendeva impossibile ogni cambiamento, come dimostravano le nuove Costituzioni per l’Università del 1772, le quali erano caratte-rizzate dalla totale assenza di provvedimenti significativi e non modificavano affatto l’impianto del sistema scolastico sabaudo.

In realtà, le ragioni dell’immobilismo della scuola piemontese vanno ricercate non solo nel mutato clima politico e culturale nazionale e internazionale degli anni successivi al 1729, che certo influenzò molto le scelte di Casa Savoia, ma anche negli stessi prov-vedimenti amedeani: infatti, mentre provava formalmente a intro-durre in tutte le scuole del regno una “perfetta uniformità d’utili insegnamenti”, Vittorio Amedeo II ne aveva ridotto al minimo l’au-tonomia. Al fine di sottrarne la gestione ai gesuiti, egli le affidò al Magistrato della Riforma, un organo statale da cui venivano fatti dipendere tutti gli ordini di studio, dall’Università alle scuole ele-mentari (con la sola eccezione dei seminari). Inoltre, sebbene gli

7. Colui che forse, per primo, descrisse con chiarezza i tre ambiti su cui doveva concentrarsi l’azione educativa fu Gaetano Filangieri nel Quarto libro della Scienza

della Legislazione. Nelle Leggi che riguardano l’educazione, i costumi e l’istruzione pubblica

il filosofo napoletano distinse tre tipi di educazione necessari all’uomo: fisica, morale e scientifica. Non è certo un caso che l’opera filangieriana non sia stata stampata in Piemonte prima della metà dell’Ottocento e che, quando ciò avvenne, fu solo per la parte relativa alle questioni economiche. G. Filangieri, Scienza della legislazione, libro

iv, Delle leggi che riguardano l’educazione, i costumi e l’istruzione pubblica, Napoli, Stam-peria Raimondiana, 1785. Mi permetto di rinviare il lettore all’introduzione dell’edi-zione da me curata, Venezia, Centro Studi sull’Illuminismo Stiffoni, 2004.

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insegnanti fossero ancora nella quasi totalità ecclesiastici, era stata creata con la facoltà delle arti un’istituzione esplicitamente rivolta alla loro formazione, con l’obiettivo di costituire un corpo docente omogeneo a cui affidare la direzione dei collegi sabaudi.

Ma se, da un lato, il Magistrato della Riforma garantiva omogenei-tà e ordine, dall’altro nasceva proprio per vegliare sull’“ortodossia” di docenti e alunni, non solo in campo religioso, ma anche in ambito politico e didattico. La riforma amedeana non era stata certo dettata dalla volontà di laicizzare la scuola, ma, anzi, al fine di sfruttare la controversia giurisdizionale con Roma e rafforzare l’assolutismo monarchico. Le Costituzioni del 1729 affidavano alla Chiesa il con-trollo morale e religioso sull’istruzione, mentre riservavano allo Stato le strategie culturali e organizzative. L’obiettivo era proprio quello di accrescere il controllo del sovrano sulla formazione dei suoi sudditi, senza passare attraverso l’ingombrante mediazione della Compagnia di Gesù e degli altri ordini insegnanti.

Non senza resistenze da parte delle comunità e dei ceti dirigenti locali, oltre che, naturalmente, degli ordini religiosi, lo Stato riuscì a rientrare in possesso dei beni che dovevano servire ad aprire le scuole regie. Fu proprio questa l’operazione che attirò maggiore interesse nei confronti della politica regalistica di Vittorio Amedeo II, capace di mettere in atto, con più di un trentennio d’anticipo sugli altri paesi europei, una fitta rete di istituti secondari gestiti direttamente o strettamente controllati dallo Stato.8

Nel 1772, si contavano nel Regno di Savoia 22 scuole regie finanziate dall’erario, 7 a carico dei comuni e 2 (ad Aosta e One-glia) gestite da ordini religiosi per conto del re.9 Quasi numerosi 8. Sul sistema scolastico sabaudo tra Ancien Régime e Rivoluzione cfr. M. Roggero,

Il sapere e la virtù. Stato, Università e professioni nel Piemonte tra Settecento e Ottocento,

Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1987; Ead., Insegnar lettere, Ricerche

di storia dell’istruzione in età moderna, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1992. Sul

colle-gio delle Province cfr. Ead., Scuola e riforme nello stato sabaudo, L’istruzione secondaria

dalla Ratio Studiorum alle costituzioni del 1772, Torino, Deputazione Subalpina di

Sto-ria PatSto-ria, 1982, e in particolare le pp. 161-199.

9. Le scuole regie a carico dello Stato erano quelle di Alba, Acqui, Alessandria, Asti, Biella, Casale, Cuneo, Fossano, Ivrea, Mondovì, Novara, Nizza, Oulx, Pallanza, Pinerolo, Saluzzo, Savigliano, Sospello, Susa, Tortona, Voghera e Vercelli. A carico dei comuni: Bra, Carmagnola, Ceva, Cherasco, Chieri, Mortara, oltre a Torino (cfr. M. Roggero, Scuola e riforme, cit., pp. 155-159).

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quanto i collegi di pieno esercizio erano, poi, i cosiddetti petits

col-lèges, scuole superiori pubbliche con classi successive alla terza.

Verso queste scuole il Magistrato della Riforma tenne un control-lo molto meno rigido rispetto ai collegi veri e propri. Secondo Marina Roggero, scarso controllo e pochi soldi, dato che dipende-vano dai comuni, le rendedipende-vano “scuole abbastanza mediocri, in nessun caso paragonabili ai collegi reali”.10

Se l’intervento dello Stato fu decisamente innovativo in ambito organizzativo e gestionale, assai meno originale risultò in ambito pedagogico e curricolare. Le scuole regie, infatti, vennero impo-state sullo stesso modello umanistico-retorico dei collegi preesi-stenti, nei quali ai corsi di lettere classiche seguivano gli insegna-menti para-universitari di filosofia e teologia. Rimase, inoltre, del tutto esclusa dagli interventi amedeani l’istruzione elementare.

Il disinteresse regio nei confronti della prima alfabetizzazione non può essere spiegato solo con la preoccupazione che essa origi-nava in molti dei contemporanei, sorretti nel loro pregiudizio da un’intensa propaganda avversa all’educazione popolare, ma anche con l’importanza attribuita ai livelli più elevati dell’istruzione da parte dello Stato sabaudo.

L’impianto scolastico piemontese, infatti, era incentrato sull’Uni-versità, in funzione della quale era impostato tutto il percorso for-mativo degli studenti. Non a caso, anche l’istruzione di base comin-ciava e insisteva sul latino, escludendo di fatto molta parte della popolazione. Le scuole “preparatorie alla latinità” prevedevano sei classi, in cui anche la lettura e la scrittura erano apprese su testi clas-sici. Solo nel 1777 fu aggiunta la settima (in seguito sdoppiata in maggiore e minore), che avrebbe dovuto introdurre gli studenti alla conoscenza dell’italiano e prepararli alla scuola di latinità.11

Le petites écoles, nelle quali si apprendevano i rudimenti dell’alfa-betizzazione, non costituivano in alcun modo un oggetto

d’interes-10. Ivi, p. 157. Scuole con classi superiori alla terza erano presenti in 26 comuni, ovvero a Carignano, Chivasso, Front, Lanzo, Moncalieri, Rivarolo, San Giorgio, Molare, Nizza Monferrato, Ponzone, Valenza, Cocconato, Montechiaro, Racconigi, Busca, Bene, Courgnè, Pont, Garessio, Santo Stefano, Bobbio, Barge, Giaveno, Cre-scentino, Santhià e Trino.

11. Sulle scuole primarie in Antico Regime cfr. M. Roggero, L’istruzione di base in

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se per lo Stato, che le lasciò agli insegnanti privati (pur invitandoli a munirsi di patentino) oppure a enti caritatevoli, come, a Torino, le scuole della Regia Opera della Mendicità Istruita (

r.o.m.i.

), che avviavano alla conoscenza del catechismo e dei rudimenti dell’alfa-beto i “fanciulli e giovinetti infelici ai quali i genitori non possono o non si curano di provvedere”.12

Nulla nel sistema scolastico subalpino sarebbe mutato sino alla Rivoluzione. Ciò che importa sottolineare è, però, soprattutto che gli scrittori di questioni educative piemontesi avallarono la scelta anti-riformistica del governo, arroccandosi dietro alle riforme ame-deane. Anzi, gli unici inviti a mettere mano all’impianto formativo furono fatti in senso conservatore e non progressista, per chiedere, cioè, non che si andasse oltre l’assetto ideato da Vittorio Ame-deo II, ma che venisse almeno in parte restaurata l’organizzazione precedente, affidando nuovamente la gestione della scuola al clero.

2. La pedagogia “ufficiale” al soccorso dello Stato: il dibattito

sulla superiorità dell’educazione pubblica su quella privata

Il tema dell’Émile che, con ogni probabilità, alimentò più di ogni altro il dibattito pedagogico nel Regno di Sardegna fu quello rela-tivo al valore dei collegi. Rousseau non aveva esitato a definire “risibles” le scuole pubbliche, giudicandole incapaci di fornire un’educazione funzionale sia al benessere personale degli allievi sia a quello della collettività. I motivi dell’inadeguatezza degli istituti

12. G. Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di Sua

Maestà il re di Sardegna, Torino, Maspero, 1851, vol. xxi, p. 700. Le scuole della Regia Opera della Mendicità Istruita erano state fondate nel 1743, con l’obiettivo di insegnare, oltre al catechismo, anche le prime elementari conoscenze della lettura, scrittura, calcolo aritmetico. Sulle loro origini vedi il pur datato C. Carrera, Brevi

cenni sulla Opera della Mendicità Istruita in Torino, dalla sua origine sino all’anno 1878. Raccolti dal segretario della Medesima Carlo Carrera, Torino, Vincenzo Bona, 1878; sulla

storia ottocentesca della r.o.m.i.cfr. G. Chiosso, La gioventù “povera e abbandona-ta” a Torino nell’Ottocento. Il caso degli allievi-artigiani della Mendicità Istruita

(1818-1861), in J.M. Prellezo(a cura di), L’impegno di educare. Studi in onore di Pietro

Brai-do, Roma, Las, 1991, pp. 375-402, ora in Id., Carità educatrice e istruzione in Piemonte.

Aristocratici, filantropi e preti di fronte all’educazione del popolo nel primo ’800, Torino,

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scolastici andavano ricercati, secondo il philosophe ginevrino, nel contesto politico dell’epoca: dato che la pubblica istruzione trova-va la sua ragione d’essere nella formazione dei cittadini, avrebbe dovuto poggiare su un’idea di patria e di appartenenza che, però, le monarchie assolutistiche della fine del Settecento avevano di fatto smantellato, in nome dell’obbedienza e della sottomissione al monarca. Dato che gli Stati europei non erano in grado di educare cittadini che amassero la loro terra e desiderassero sacrificarsi per lei, le scuole avevano perso buona parte della loro utilità.13

Di qui derivava la scelta di Rousseau di affidare Emilio alle cure di un precettore che lo educasse al di fuori del suo contesto socia-le, con l’obiettivo di costruire non un buon cittadino, ovvero un buon suddito, ma un uomo felice, in grado di rientrare in società privo di pregiudizi e di impegnarsi per cambiarla.

Le accuse al sistema scolastico coevo, ancora più del consiglio di posticipare l’insegnamento della religione alla maggiore età, valsero a Rousseau la duplice condanna del parlamento e dell’arcivescovo di Parigi. E fu espressamente per sfuggire al tribunale laico, e non certo al giudizio di Christophe de Beaumont, che l’autore

dell’Émi-le fu costretto a lasciare precipitosamente la Francia alla volta della

Svizzera, dove la sua opera ricevette, però, le stesse sanzioni.14

La condanna dell’opera di Rousseau era proprio dovuta ai suoi contenuti politici, anche se tanto la censura laica, quanto quella eccle-siastica insistettero sulla pericolosità sociale dell’Émile: mettendo in dubbio il valore educativo della società coeva, dalla quale Rousseau sceglieva di allontanare il suo discepolo, il philosophe minava, infatti, alle basi il patto sul quale era fondata la convivenza civile.

Del resto, alla fine del Settecento, l’educazione era intesa soprat-tutto come dovere verso la collettività e non come diritto per l’in-dividuo. Allora – come oggi – “educato” significava “in grado di stare in società”, prima ancora che “colto” o “istruito”.

13. J.J. Rousseau, Émile ou de l’éducation, La Haye, Jean Neaulme, 1762, libro i. 14. Sulle vicende della pubblicazione dell’Émile e sulle condanne inflitte al suo autore cfr. J.J. Rousseau, Œuvres complètes, IVÉmile, Éducation, Morale, Botanique,

Paris, Gallimard, 1969, con introduzioni di J.S. Spink, C. Wirz, P. Burgelin, H. Gou-hier, R. de Vilmorin, B. Gagnebin e, in particolare, vol. iv, pp. 1856-1863. Sulla for-tuna dell’opera vedi M. Grandière, L’Ideal pédagogique en France au XVIIIesiècle,

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Non a caso, la componente più importante dell’educazione era quella morale. Ben oltre la metà del

xix

secolo, educare avrebbe fatto generalmente rima con moralizzare, correggere, insegnare i buoni costumi, nell’accezione ancora oggi utilizzata nel linguaggio comune.

Nell’introduzione all’Educazione continuata, Robbio di San Raf-faele forniva una definizione di educazione che non lasciava dubbi: secondo lo scrittore sabaudo essa serviva a insegnare all’uomo a evitare i tre vizi capitali indicati da S. Bernardo, ovvero “il piacer molle, il piacer vano, il piacere amaro. Al primo appartengono le morbidezze, e le delizie del senso; al seguente i ventosi pensieri dell’orgoglio, e i castelli in aria della gonfia ambizione; al terzo, che più si sarebbe stentato ad indovinare, il tossico amaro e pur gradi-to del cupo odio, della diffidenza, del bieco livore, e d’ogni altra perturbazione affannosa”.15

Gli ultimi decenni del Settecento, specialmente grazie al dibatti-to scaturidibatti-to in seguidibatti-to alla pubblicazione di opere come l’Émile o il

De l’Homme de ses facultés et de son éducation di Helvétius, rivelarono

sino in fondo le implicazioni attribuite alla componente etica del-l’educazione. Essa era investita di una duplice finalità, individuale e sociale, ma tra le due la formazione morale del soggetto era per tradizione quella più importante, in quanto destinata a offrirgli le conoscenze e le capacità per guadagnarsi nel corso della vita terre-na la salvezza eterterre-na. Coincideva quindi con l’educazione del buon cristiano, cattolico o protestante che fosse.

In questo modo, la formazione del fedele aveva finito per essere identificata con la formazione del cittadino. L’assunto su cui pog-giava tale coincidenza era che un uomo dotato di saldi principi morali e religiosi non poteva che applicarli a partire dai suoi simi-li, ovvero all’interno del proprio contesto sociale.

Educare il cristiano equivaleva, dunque, a educare il cittadino, o meglio, in una fase storica in cui la stragrande maggioranza del-l’Europa era governata da monarchie, il suddito. E fu proprio su questo secondo aspetto che si concentrarono le attenzioni degli specialisti dell’educazione, molto spesso più preoccupati di garanti-re l’ordine sociale sulla terra che di procuragaranti-re all’individuo la

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vezza futura. Così, la religione venne adottata e proposta in manie-ra strumentale come mezzo educativo dagli Stati assoluti, con sod-disfazione della maggior parte degli uomini di Chiesa, appagati dall’importanza riconosciuta all’istituzione ecclesiastica, più che alla fede, e preoccupati di non «invaghir» la gioventù «di pensieri, o scrutini non solamente inaddattati, ma di cose ancora troppo sin-golari, e nuove, e così per lo più pericolose».16

L’istruzione, che costituiva la parte essenziale dell’educazione, era chiamata a lavorare nella stessa direzione: lo studio era importante non solo come mezzo di acquisizione delle «scienze», «ma eziandio della disciplina del ben vivere, principalmente per quello che riguar-da la religione e i buoni costumi».17Per questo, le Costituzioni per

l’Università del 1729, al fine di garantire ai giovani «un’ottima

educa-zione», avevano prescritto agli insegnanti di «stabilire ne’ loro cuori quel timor santo di Dio, il qual è principio della vera sapienza».18

La raccomandazione venne ripresa alla lettera dalle Costituzioni del 1772, secondo cui “fondamento e base della vera sapienza è il santo timor di Dio, e il verace culto verso il padre de’ lumi”. Per questo, “debbono alla cristiana educazione de’ giovani studiosi principalmente volgersi le nostre cure, così che venga negli animi loro giovanili per tempo impresso il puro affetto della religione, senza cui anche le più sublimi cognizioni potrebbero essere non solo inutili, ma eziandio perniciose”.19

Per rendere l’istruzione funzionale agli interessi dello Stato era necessario in primo luogo sottoporla a un controllo rigoroso. A tal fine, i riformatori erano chiamati a frequentare giornalmente l’uni-versità e «praticare quelli altri mezzi o pubblici, o segreti, che vi saprà suggerire la circospetta, e prudente vostra accortezza».20Le 16. Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi ast), Istruzione pubblica, Regia

Univer-sità, mazzo 6, fascicolo 19, Progetto per un miglior governo de’ studi della Savoia, e delle altre materie dipendenti dalla università. L’anonimo progetto di riorganizzazione

degli studi è datato 1768.

17. Costituzioni di Sua Maestà per l’Università di Torino, in Torino, nella Stamperia Reale, 1772, p. 100.

18. Regolamenti del Magistrato della riforma per l’Università di Torino annessi alle

Costituzioni di sua maestà, 1729, p. 5.

19. Regolamenti del Magistrato della riforma annessi alle Costituzioni di sua maestà, 1772, pp. 1 e sgg.

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prescrizioni delle Costituzioni non rimasero sulla carta, ma serviro-no a instaurare un apparato di censura attento, tra l’altro, a serviro-non turbare i rapporti con la Santa Sede, specialmente dopo la firma dei concordati del 1727 e del 1741. Ne fecero le spese noti docen-ti dell’Ateneo torinese, tra cui Francesco Antonio Chionio, Gio-vanni Battista Agostino Bono e Carlo Denina.21

Erano molte le ragioni che spingevano le monarchie a cercare l’appoggio del clero. La prima era rappresentata dal sostegno che la religione offriva al controllo delle coscienze e alla salvaguardia della concordia sociale. La seconda era di natura, per così dire, organizzativa: era, infatti, impensabile per lo Stato sabaudo recluta-re i docenti senza farecluta-re ricorso a personale ecclesiastico, specialmen-te per l’istruzione elementare, della quale si era disinspecialmen-teressato sino a quel momento.

Ciò era vero non solo in Piemonte, ma anche nei Paesi che stava-no tentando di impiantare un sistema scolastico nazionale, come l’impero asburgico, e per quelli che lo stavano progettando, come la Prussia e la Russia, che non per nulla furono gli ultimi a mettere al bando la Compagnia di Gesù. E non avrebbe potuto essere diversa-mente, poiché solo il clero disponeva di insegnanti preparati e dispo-sti a percepire salari poco elevati, a cui potevano, però, ovviare con la vita di comunità ed, eventualmente, con benefici di varia natura.

Di fatto, nel corso del Settecento, l’istruzione e l’educazione divennero materie politiche, impossibili da affrontare con legge-rezza. Di conseguenza, il problema della formazione dei costumi, che rappresentava il fulcro del dibattito, accalorò educatori, uomi-ni di lettere e ammiuomi-nistratori pubblici, in quanto coinvolgeva que-stioni sociali di vitale importanza. Ciò fu vero anche nel Regno sabaudo, dove esso si incentrò su alcuni temi in particolare, offren-do soluzioni originali nel panorama europeo.

In primo luogo, il problema dell’educazione morale influì sui contenuti e sulle conclusioni a cui pervenne in Piemonte il dibatti-to sulla tipologia migliore di istruzione. Il confrondibatti-to era tra l’edu-cazione pubblica e l’edul’edu-cazione privata. Per “edul’edu-cazione pubblica” si intendeva all’epoca l’istruzione impartita all’interno delle scuole,

21. Sul ruolo della censura nella vita culturale sabauda cfr. L. Braida, Il commercio

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mentre il termine “educazione privata” veniva utilizzato per defini-re l’insegnamento impartito in famiglia ad opera dei genitori o, come avveniva più frequentemente, dei precettori.22“Pubblico” e

“privato”, quindi, non erano riferiti a chi erogava l’istruzione – anche perché il ruolo dello Stato rimaneva all’epoca molto margi-nale nella gestione effettiva delle scuole –, ma facevano riferimen-to al contesriferimen-to in cui aveva luogo l’apprendimenriferimen-to: pubblica era l’istruzione impartita collettivamente a più studenti, privata quella rivolta a un solo discepolo, nella sua abitazione o presso il docente. Lo spazio pubblico acquistava, dunque, pieno significato in oppo-sizione allo spazio privato o domestico, rappresentato dalla casa.23

Il problema della scelta tra istruzione scolastica e istruzione domestica, che era avvertito da oltre un secolo in tutta Europa, aveva assunto particolare importanza nella seconda metà del Sette-cento, in quanto intercettava alcune questioni ideologiche e cultu-rali molto attuali e pressanti.24La prima era legata alle espulsioni e

alla soppressione pontificia della Compagnia di Gesù, che compor-tarono la necessità di ridefinire praticamente l’organizzazione dei sistemi scolastici – perlomeno a livello di istruzione secondaria – e di decidere a chi competesse l’onere e l’onore della loro gestione.

La seconda rimandava al tema della natura dell’uomo e dell’in-fluenza esercitata dalla società sul suo sviluppo. Su di essa grava-vano le teorie relative all’uguaglianza naturale degli uomini e al loro bisogno di vivere con i propri simili. A quanti, come Rousseau, credevano che l’“uomo naturale” andasse preservato rispetto al-l’“uomo civile”, per evitare che venisse corrotto e salvaguardarne la bontà innata, si opponeva buona parte dei pensatori cattolici,

con-22. A questo proposito vedi da P. Delpiano, Istruzione domestica e istruzione

pubbli-ca nel Piemonte del Settecento, in “Quaderni di storia dell’Università di Torino”, 6

(2001), n. 5, pp. 2-53, in particolare il paragrafo 1, Pensieri sull’educazione.

23. Per il dibattito su spazio pubblico e privato, molto acceso in età moderna, si vedano, tra l’altro, R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, Bolo-gna, Il Mulino, 1976 (1° ed., 1959); J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1984 (1° ed., 1962); D. Goodman, Public Sphere and Private Life:

toward a Synthesis of Current Historiographical Approaches to the Old Regime, in

«Histo-ry and Theo«Histo-ry», 31 (1992), n. 1, pp. 1-20.

24. Cfr. J.C. Caron, I giovani a scuola: collegiali e liceali ( fine XVIII-fine XIXsecolo), in

G. Levi-J.-C. Schmitt(a cura di), Storia dei giovani, 2, L’età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 161-232.

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vinta dell’esigenza di intervenire precocemente per liberare l’indi-viduo dal peccato e offrirgli gli strumenti per conseguire la felicità terrena e ultraterrena.

In questo contesto, il dibattito intorno all’educazione e all’istru-zione pubblica sollevato dalla pubblicaall’istru-zione dell’Émile di Rousseau e dalla chiusura dei collegi dei gesuiti in Francia avrebbe potuto riaprire il problema dell’insegnamento privato, fornendo indiret-tamente valide argomentazioni a quanti diffidavano della scuola di Stato, e ribadire il valore dell’educazione familiare.

A giudicare dallo spazio attribuito all’istruzione privata nella let-teratura specialistica piemontese si direbbe che, così come avveniva in Francia e nell’impero asburgico negli stessi anni, il precettorato avesse conservato un peso significativo nel sistema educativo, soprattutto per l’età prescolare o dei primi anni di scuola, e all’inter-no dei ceti sociali elevati, per i quali l’insegnante privato continuava a rappresentare un elemento di distinzione.25Inoltre, anche quando

decidevano di far studiare i propri figli in una scuola pubblica, molte famiglie nobili continuavano a farli accompagnare da un precettore che vegliava sulla loro condotta. Allo stesso modo, non erano venu-ti meno coloro che crivenu-ticavano l’ingerenza dello Stato in una man-sione, quella dell’insegnamento, tradizionalmente attribuita al clero, e che avevano per questo preferito far educare i propri figli all’inter-no di qualche seminario in Piemonte o all’estero, specialmente in Francia, nei collegi retti da ordini religiosi.

Tuttavia, in Piemonte, i fautori dell’istruzione scolastica furono nettamente più numerosi dei sostenitori del precettorato. In ogni caso, gli uni e gli altri si schierarono compatti contro le teorie di Rousseau contrarie ai collegi, il cui valore, invece, rimase fuori discussione almeno sino allo scoppio della Rivoluzione francese. Animati dal desiderio di difendere la propria tradizione, gli scrit-tori educativi piemontesi introdussero nel dibattito temi

stereotipa-25. Vedi il quadro delineato per la Francia da D. Roche, Il precettore, educatore

pri-vilegiato e intermediario culturale, in Id., La cultura dei Lumi. Letterati, libri, biblioteche

nel XVIIIsecolo, Bologna, Il Mulino, 1992 (1° ed., 1988), pp. 421-446, e Id., Le

précep-teur dans la noblesse française: instituprécep-teur privilegié ou domestique?, in Problèmes d’histoire de l’éducation. Actes des séminaires organisés par l’École française de Rome et l’Università di Roma La Sapienza ( janvier-mai 1985), Roma, École Française de Rome, 1988, pp.

13-36. Per il Piemonte cfr. il già citato saggio di P. Delpiano, Istruzione domestica e

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ti: tutti gli autori concordavano nell’attribuire all’educazione dome-stica una maggiore cura del discepolo, con benefici effetti sulla sua salute. Nello stesso tempo non c’era chi non concordasse con Rob-bio di San Raffaele quando sosteneva che nell’educazione domesti-ca “lo studio vi suol essere più languido, la mensa troppo squisita, le piccole indisposizioni vere, o furbescamente allegate dal figlio, trop-po compatite e temute”.26Il tutto a svantaggio della maturazione del

fanciullo, il quale, soffocato dalle attenzioni dei genitori e non sti-molato dal confronto con i coetanei, correva il rischio di essere fre-nato nel suo sviluppo caratteriale e intellettuale.

A definire i canoni della polemistica anti-rousseauiana in Pie-monte fu soprattutto il barnabita Sigismondo Gerdil. Egli non incentrò la sua confutazione sulla necessità di dare all’educazione una base religiosa, che il philosophe, invece, trascurava, posticipando l’insegnamento del catechismo all’adolescenza. Le Réflexions di Gerdil muovevano, invece, dall’assunto di fondo dell’opera del ginevrino: l’educazione pubblica “n’existe plus, et ne peut plus exi-ster, parce qu’où il n’y a plus de patrie, il n’y a plus de citoyens”.27

Partendo da questa convinzione, secondo il cardinale savoiardo, Rousseau utilizzava l’Émile per proporre un “système de politique” prima ancora di una “théorie de l’éducation”.28

Infatti, anche se Rousseau dichiarava di non voler esplicitare le cause della disaffezione dei cittadini nei confronti della patria (“J’en sais bien la raison, mais je ne veux pas la dire; elle ne fait rien à mon sujet”), era chiaro che ne attribuiva la colpa alle monarchie assolute.29 Per questi motivi, Mentore sceglieva di educare il suo

discepolo al di fuori delle aule scolastiche, con un rapporto indivi-duale, che lo preservasse dalle nefaste influenze della società e del governo, in modo che fosse in grado, una volta adulto, di osservar-ne il funzionamento con distacco e di favorirosservar-ne il cambiamento.

Al contrario, Gerdil ribadiva il valore dell’istruzione impartita nei collegi, “établissements louables, dont on a tiré beaucoup d’uti-lité”,30indicandoli come l’unico luogo in cui era possibile formare

26. B. Robbio diSanRaffaele, Apparecchio degli educatori, cit., p. 2. 27. J.-J. Rousseau, Émile, cit., libro i. G.S. Gerdil, Réflexions, cit., p. 173. 28. G.S. Gerdil, Réflexions, cit., p. 4.

29. J.-J. Rousseau, Émile, cit., libro i. G.S. Gerdil, Réflexions, cit., p. 173. 30. G.S. Gerdil, Réflexions, cit., p. 174.

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lo spirito nazionale e patriottico. E se il teologo savoiardo poteva presentare le scuole pubbliche come le uniche in grado di costrui-re i futuri cittadini era perché esse fondavano il loro sapecostrui-re su basi salde e soprattutto universali, ovvero sulla religione. L’insegna-mento religioso, per Gerdil, aveva certo valore di per sé, ma nel confutare l’opera di Rousseau, egli lo usava soprattutto in funzione antifilosofica, ovvero per rivendicare la superiorità della fede sulla ragione come strumento cognitivo e per denunciare le finalità sov-versive dei philosophes. Se, infatti, «la religion tend à l’union, parce que elle est fondée sur une autorité‚ qui captive les esprits, et qui les réunit dans la soumission qu’ils doivent aux oracles de la révéla-tion», la filosofia «n’est qu’un assemblage de différents systèmes nés en différentes têtes, qui se contredisent perpétuellement ou sur les principes, ou sur les philosophes».31Per questo, «la philosophie

est peu propre à établir l’uniformité de l’esprit patriotique qui doit animer, et à lier les différents membres de l’État pour n’en former qu’un seul corps».32

Se, quindi, la religione è il cemento di una nazione, non è impor-tante chi sia a diffonderla, ma è, invece, determinante che tanto l’istruzione pubblica, quanto quella privata siano fondate sull’inse-gnamento religioso, necessario sia a formare il buon cristiano sia a creare la coscienza nazionale, nonché un forte senso di appartenen-za allo Stato. Caratteristiche, queste ultime, che le scuole sabaude possedevano, secondo l’autore delle Réflexions, come dimostra, tra l’altro, il fatto che egli rivolgeva, in chiusura del libro, un accorato appello non agli amministratori, ma ai genitori, affinché rigettasse-ro il nuovo modello educativo rigettasse-rousseauiano per rimanere fedeli ai principi dell’educazione cristiana.

Francesco Alberti di Villanova, il secondo piemontese in ordine di tempo, dopo Gerdil, a prendere la penna contro Rousseau, de-dicò buona parte del suo Dell’educazione fisica e morale, o sia de’

dove-ri de’ paddove-ri, delle maddove-ri, e de’ precettodove-ri cdove-ristiani nell’educazion de’ figliuoli, contro i principi del Signor Rousseau di Ginevra, proprio a

decidere “qual sia il luogo più proprio per attendere all’educazion de’ figliuoli”, manifestando infine la sua preferenza per l’istruzione

31. Ivi, p. 177. 32. Ivi, pp. 176-177.

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privata.33Letterato di una certa fama, probabilmente con un

passa-to di insegnante o di precetpassa-tore, Alberti di Villanova fu aupassa-tore di iniziative editoriali interessanti. Tra queste, la traduzione del

Dizio-nario del cittadino o sia Ristretto storico, teorico e pratico del commercio di

Henry Lacombe de Prezel, nel 1762, aveva già palesato la sua attenzione per le tematiche educative.34

Egli avrebbe raggiunto la notorietà più tardi, in qualità di tra-duttore delle fortunatissime Notti di Eduard Young, e soprattutto come autore di un Dizionario universale critico ed enciclopedico della

lingua italiana.35 Con Dell’educazione fisica e morale egli intendeva

opporre un “sistema di educazion positiva al nuovo sistema di edu-cazion negativa proposto dal signor Rousseau”;36 sulla scorta di

Sigismondo Gerdil, Alberti voleva dimostrare che il modello di educazione naturale del ginevrino era destinato a produrre atei o miscredenti, a causa del suo disinteresse nei confronti della religio-ne. Per questo, recuperava molti dei temi della tradizione peda-gogica cattolica, traendo specialmente ispirazione dalle opere con-tro-riformistiche. Muovendo dal presupposto che “l’educazion cristiana, che i genitori debbono dare ai loro figliuoli, consiste

33. F. Alberti diVillanova, Dell’educazione fisica e morale, o sia de’ doveri de’ padri,

delle madri, e de’ precettori cristiani nell’educazion de’ figliuoli, contro i principi del Signor Rousseau di Ginevra, di D. Francesco Alberti, in Torino, nella Stamperia Reale, 1767,

voll. 2, t. i, p. 174.

34. Dizionario del cittadino o sia Ristretto storico, teorico e pratico del commercio,

tradot-to dal francese dal signor chierico Francesco Alberti, ed accresciutradot-to dal medesimo di varie parti de’ suddetti articoli coll’aggiunta eziandio di quattro tavole, in cui si trova ad un tratto la cor-rispondenza de’ Pesi, Misure, e reciproca valutazione delle monete fittizie e reali, 2 tomi,

Nizza, Gabriele Floteront, Stampatore del governo nel palazzo Regio, 1762. Su Fran-cesco Alberti di Villanova vedi la voce a lui dedicata nel Dizionario Biografico degli

Ita-liani da A. AsorRosa, t. i, 1960, pp. 719-720. Sulle sue teorie pedagogiche cfr. G.B. Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, Torino, Paravia, 1910, p. 21.

35. Dizionario universale critico ed enciclopedico della lingua italiana dell’abate

D’Alber-ti di Villanuova, in Lucca, dalla Stamperia di Domenico Marescandoli, 1797-1805, 6

voll. Alberti non poté vedere la fine dell’opera, in quanto morì nel 1801. Essa venne portata a compimento dall’amico Federighi. Prima di mettere mano al Dizionario

Universale, l’abate compì un’opera di profonda revisione del Dictionnaire italien, latin et françois dell’Antonini (Marsiglia, 1772), che venne più volte ristampato in Italia

nella prima metà dell’800 e fu a lungo usato nelle scuole piemontesi, come attesta la sua presenza tra i “Libri d’istruzione e di uso” vagliati dalla censura torinese di cui ci occuperemo tra breve.

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