• Non ci sono risultati.

Un’utopia pedagogica piemontese?

3. La “prima Restaurazione” (1799-1800)

Gli ultimi mesi di vita della Repubblica furono segnati dalle pra- tiche di annessione del Piemonte alla Francia e dagli sviluppi della guerra con la seconda coalizione. La prima venne attuata, al termi- ne di un acceso dibattito mai completamente sopito, nel febbraio del 1799, grazie a un plebiscito che sancì l’unione dell’antico Regno di Sardegna alla Grande Nation.47Essendo in tal modo deca-

duto il governo provvisorio, il 6 marzo, il direttorio parigino nomi- nò commissario politico e civile del governo francese in Piemonte Joseph Mathurin Musset.

Il plenipotenziario francese fu subito chiamato a fare i conti con l’avanzata delle truppe austro-russe e non vi fu certamente tempo per prendere in esame eventuali progetti di riforma della scuola. Il 26 maggio 1799, in circostanze non del tutto chiare, le truppe comandate dal generale Suvorov riuscirono a entrare a Torino e a sottrarre la città al controllo dei francesi.48Carlo Emanuele IV, a

cui la corte di Vienna non aveva perdonato il trattato di alleanza stipulato dal Regno di Sardegna con la Francia nel 1797, non ebbe il permesso di rientrare nei suoi possedimenti e fu costretto a governare a distanza attraverso un Consiglio Supremo composto da personale fedele alla monarchia sabauda.

47. Raccolta, vol. i, pp. 203-212; 215-217; 223-224.

48. Sulle circostanze, assai poco chiare, che permisero agli austro-russi di entrare a Torino cfr. tra gli altri P. Bianchini, L’uso politico del mito: il complotto giudaico in Euro-

pa tra Settecento e Ottocento, in P. Sibilla-G. Chiosso(a cura di), Alfabetizzazione, sco-

larizzazione e processi formativi nell’arco alpino. Itinerari di studio, temi di ricerca e pro- spettive d’intervento, Torino, Libreria Stampatori, 2005, pp. 149-172. Vedi anche N.

Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 sino al 1861, Torino, Fratelli Bocca, 1877-1885, 4 voll., vol. iii, Periodo Primo, Regni di Vittorio Amedeo III e di Carlo Ema-

Attraverso i dispacci che inviò al luogotenente generale del re, Thaon di Revel, il sovrano impose la nuova chiusura dell’Universi- tà e del Collegio delle Province, che vennero adibiti rispettivamen- te a caserma e a prigione. Non venne neppure ripristinato il Magi- strato della Riforma, in quanto la gestione del sistema scolastico fu affidato allo stesso Thaon di Revel.49I pochi allievi conservati al

Collegio delle Province si trovarono come direttore non più Giraud, ma l’abate Incisa Beccaria, già direttore dal 1788 e mem- bro del Magistrato della Riforma dal 1796.

Mentre il monarca, relegato in Sardegna, si prodigava per soffo- care le iniziative della Rivoluzione, all’interno del restaurato gover- no sabaudo si registrarono posizioni diverse circa l’orientamento che era opportuno dare alla scuola piemontese. Se, infatti, il re e le frange più reazionarie miravano alla riedificazione del vecchio edi- ficio formativo, nonché, come vedremo tra breve, alla punizione dei traditori, i sudditi più illuminati dei Savoia compresero chiara- mente grazie alla Rivoluzione che, per tornare a governare, era necessario ripensare il sistema scolastico nel suo complesso.

Anche se nella pratica poco era stato fatto dal governo provviso- rio, l’anelito educativo dei repubblicani piemontesi aveva suscitato speranze e progetti di riforma destinati a modificare radicalmente il concetto stesso di educazione e di partecipazione alla cittadinan- za. Nei pochi mesi dell’occupazione francese, infatti, ogni momen- to della vita pubblica, compresa quella scolastica, era stato presen- tato e concepito come potenzialmente formativo, ovvero utile a costruire l’adesione degli studenti e di tutta l’opinione pubblica al nuovo regime. Era stato, insomma, esplicitato in maniera più netta che mai il legame esistente tra Stato ed educazione.

Non era piccola la differenza con il modo di intendere la scuola e l’istruzione tipico delle monarchie assolute, quando lo Stato non sembrava possedere un proprio ideale di cittadino, ma mutuava il modello del buon cristiano, affidando per di più in larga parte alla Chiesa il compito di gestire l’istruzione. All’etica cattolica la scuo- la pensata dalla Rivoluzione sostituiva una morale civica che, se da un lato era anch’essa finalizzata a tenere sotto controllo i cittadini, per farli rientrare all’interno del modello desiderato, dall’altro

mirava a coinvolgerli nella gestione e nell’uso dei valori e delle isti- tuzioni dello Stato che, in quanto repubblicano, apparteneva a tutti e dipendeva dalla partecipazione di tutti. In effetti, se educare aveva continuato a fare rima con moralizzare, con insegnare i retti costu- mi, ciò che distingueva il modello educativo repubblicano da quel- lo adottato in precedenza era il suo contenuto politico, assente nelle monarchie assolutistiche settecentesche, interessate a tenere lontani i sudditi dalla conoscenza e dalla comprensione delle logi- che del potere. Volendo formare un cittadino capace di occuparsi dello Stato, la scuola assumeva un ruolo di primo piano, in quanto era chiamata a introdurre i cittadini più giovani alla conoscenza dei loro diritti e dei loro doveri.

Ne era ben consapevole uno dei più lucidi protagonisti delle vicende di quel periodo, Francesco Galeani Napione. In un suo

Promemoria riguardante la revisione de’ libri e stampe, datato 27 giu-

gno 1799, nel formulare alcune ipotesi, per la verità poco innovati- ve, per rafforzare la censura nei confronti dei libri “contrari alla Religione e al buon costume”, prendeva ad esempio l’Istruzione di Cesarotti:50imposto per legge come manuale in tutte le scuole, a

causa della sua diffusione, era impossibile da sopprimere se non con “un divieto stringente a’ maestri di scuola di farne uso veruno, ed un comando preciso d’insinuare massime contrarie, insinuazio- ni per parte di persone autorevoli e savie a’ padri di famiglia di toglierlo destramente di mano a’ figliuoli, e soprattutto qualche scritto che uscisse alla luce ben ragionato, breve, chiaro ed insi- nuante, opposto al medesimo sono gli unici mezzi con cui sperar si possa di farlo cadere in obblivione. Altrimenti le proibizioni e le perquisizioni più vigorose non servirebbero ad altro che a farne custodire più gelosamente gli esemplari, a tenerli più preziosi ed a farli leggere con avidità maggiore”.51

Proprio nei giorni in cui Galeani Napione stendeva il suo Prome-

moria, il Consiglio Supremo intimò ai librai di consegnare tutti i

libri sediziosi, oltre a quelli proibiti per motivi etici e religiosi, distinguendosi, così, nettamente dal governo provvisorio.52

50. ast, Corte, Pubblica istruzione, Regia Università, mazzo 3 di addizione, f. 14,

Promemoria riguardante la revisione de’ libri e stampe, p. 7.

51. Ivi, pp. 9-10.

Certamente non bastava la censura per impedire la circolazione delle idee e dei libri favorevoli alla Rivoluzione. Per di più, era evi- dente che una parte della popolazione aveva non solo accolto favo- revolmente la caduta della monarchia, ma l’aveva anche promossa. E quella parte di popolazione non era certo costituita dai ceti più umili, ma dalle élites culturali e produttive subalpine. Come dimo- strano i dati, pur parziali, elaborati da Vaccarino in base alle inchie- ste sui giacobini condotte nel 1800, la maggior parte dei sostenito- ri del nuovo regime apparteneva alle professioni liberali. Erano medici, avvocati, notai, preti.53

Non erano in pochi, pertanto, a pensare che per prevenire il ritorno della Rivoluzione fosse necessario riconquistare le coscien- ze alla monarchia e rivedere integralmente il modello formativo. Tuttavia, le voci favorevoli all’ammodernamento del sistema scola- stico, magari sulla linea tracciata nella Lombardia austriaca, rima- sero minoritarie o comunque non ebbero ragione su quanti, al con- trario, miravano esclusivamente a seppellire l’esperienza rivoluzio- naria e a epurare dalla scuola gli insegnanti che avevano accolto con favore la repubblica. O forse, ancora, non si ebbe il tempo per mettere in piedi un progetto complessivo, al quale, però, si comin- ciò a lavorare, raccogliendo le opinioni di alcuni esperti. Si spiega- no così i due piani di riforma redatti da Galeani Napione e da un altro anonimo consulente di Thaon di Revel.

Il principale obiettivo dell’ex redattore della “Biblioteca Oltre- montana e Piemontese” era, senza dubbio, dimostrare l’utilità di un’immediata riapertura dell’Ateneo torinese, la cui chiusura nuo- ceva non soltanto allo Stato, ma anche alla famiglia reale.54 Allo

stesso tempo, però, Galeani Napione era convinto che fosse neces- sario ripensare l’intero ciclo di studi, al fine di istruire una parte

53. G. Vaccarino, I giacobini piemontesi (1794-1814), Roma, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1989, 2 voll., vol. ii, pp. 759 sgg.: dopo gli ecclesiastici, la corpora- zione più rappresentata tra i “giacobini” era quella dei medici e degli speziali, che ammontavano al 13,75% del totale.

54. Memoria intorno al modo di riordinare la Regia Università degli Studi, scritta nel-

l’anno 1799 dal conte Galeani Napione di Coccolato, consigliere di Stato di S.M., incaricato delle incombenze di Regio Archivista di Corte. La copia qui utilizzata è quella conservata

in ast, Corte, Pubblica istruzione, Regia Università, mazzo 3 di addizione. Su Galeani Napione cfr. anche la voce a cura di O. Bergo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 51, 1998, pp. 384-387.

sempre più consistente della popolazione e di orientare ogni stu- dente verso un adeguato destino lavorativo.

Facendo leva sui timori della corte, Galeani Napione sosteneva che “per diminuire il numero degli scolari nella Capitale conver- rebbe in primo luogo che si migliorassero d’assai le scuole regie di filosofia e di umane lettere, che chiamansi collegi provinciali”.55A

tal fine era indispensabile fornirle di buoni manuali, passare ai docenti un salario più adeguato e diminuire il numero delle scuole secondarie, in modo da elevarne la qualità.

Le risorse potevano essere trovate smettendo di pagare i maestri di latino, che egli reputava non solo inutili, ma addirittura “perni- ciosi”.56Chiudere le scuole di latinità dei centri più piccoli equiva-

leva a sottrarre i ragazzi alla “vanità de’ parenti” e ottemperare alla norma, più volte prescritta dal Magistrato della Riforma, volta a impedire che “scuolari vilmente nati o miserabili” fossero avviati agli studi universitari.57

A tal fine, era necessario creare due curricula ben distinti, a secon- da del ceto di appartenenza degli studenti: uno per i figli delle fami- glie agiate, destinati a studiare il latino per accedere alle scuole supe- riori, l’altro aperto a tutti, ma limitato ai rudimenti dell’istruzione. Per questo, le scuole di latinità avrebbero dovuto esistere solo nelle città in cui erano aperte scuole secondarie. Del resto, “le persone facoltose che si ritrovano nelle terre di provincia o hanno il comodo di aver maestri particolari in casa per i loro figliuoli, od almeno potranno sopportar la spesa di mandarli alcuni anni prima nella città capo di provincia alle scuole dette di grammatica, dove né più né meno dovrebbono poi mandarli agli studi della filosofia”.58

Scuole di grammatica italiana dovevano essere aperte solo nelle città e solo per i giovani “di civile condizione”, tenute da maestri di valore, pagati anch’essi con i soldi risparmiati dalla chiusura delle scuole di latinità di campagna, in cui vece “converrebbe aumentare assai il numero de’ maestri di leggere e scrivere appunto per gli artigiani e per gli agricoltori, non solo in ogni città ed ogni terra, ma eziandio in ogni villaggio e semplice borgata”.59

55. Ivi, p. 186. 56. Ivi, p. 187. 57. Ivi, pp. 191-192. 58. Ivi, p. 194. 59. Ivi, pp. 206-207.

Citando Gerdil, che sosteneva in funzione anti-rousseauiana la superiorità dei bambini delle campagne su quelli di città, Napione invitava i genitori a non mandarli a scuola per liberarsi di un peso, per “cacciarli in esse quasi in un ergastolo senza nessun profitto”, ma “per acquistare quella poca cultura indispensabile per esercitar la professione loro, ed essere buoni cristiani e buoni sudditi, buoni padri di famiglia”.60

In tutte le scuole, il latino avrebbe dovuto essere sostituito con l’italiano come lingua d’insegnamento e l’esercizio pratico avrebbe dovuto subentrare al metodo mnemonico. Proprio l’insistenza sulla memoria, piuttosto che sulle capacità di ragionamento degli studen- ti, secondo Galeani Napione, costituiva il principale difetto della scuola coeva, in quanto “ne’ giovani di qualità si nutrisce necessaria- mente colla noia il dispetto e l’odio per ogni genere di applicazione, ed in quelli della infima condizione sorge la lusinghiera speranza di uscire con tal mezzo dalla propria classe facendosi atti ad uno stato migliore o di Chiesa o di professione di penna. Così quella medesi- ma strada che serve per disgustare gli animi ben formati e civili faci- lita alla classe infima necessaria all’agricoltura ed alle arti meccani- che la diserzione degli individui togliendoli dall’esercizio della per- sona per porli al grado ordinariamente degli oziosi e sedentari”.61

Inoltre, facendo tesoro dell’esperienza repubblicana, Galeani Napione suggeriva di inserire nei piani di studio di tutte le scuole “un estratto delle leggi nazionali, specie quelle penali [...] cui si premettesse una giusta idea del Governo Monarchico contro i sofi- smi de’ pretesi repubblicani, il che si potrebbe fare con un libretto di mole non maggior di quella dell’Istruzione del Cesarotti”.62

Fedele a quanto aveva già proposto in qualità di redattore della “Biblioteca Oltremontana e Piemontese”, Galeani Napione sugge- riva di affidare le scuole secondarie ai regolari, gli unici in grado di garantire “il buon costume”, proseguendo nella politica intrapresa “in questi ultimi anni”, quando “(non essendovi più gesuiti) siasi per risparmio di spesa non solamente concesso, ma prescritto a parecchi ordini regolari in Torino di aprire scuole pubbliche di gra- matica, cosa per politica levata a’ gesuiti”.63

60. Ivi, p. 189. 61. Ivi, pp. 201-202. 62. Ivi, pp. 208-209. 63. Ivi, pp. 211-214.

Rispetto alla Memoria di Galeani Napione, l’anonimo Piano di

letteraria riforma per le scuole del Piemonte denotava un maggiore

interesse per la ricerca delle cause del cattivo funzionamento delle scuole, piuttosto che per l’individuazione di nuove strategie per educare i sudditi dei Savoia.64 L’autore era persuaso che solo dal

“ristabilimento degli studi e della pubblica educazione [...] dipende in gran parte il miglioramento de’ costumi, senza di cui non potrà mai gloriarsi il Principe di avere sudditi fedeli e virtuosi”.65Colpe-

vole del degrado morale della nazione era l’Illuminismo, reo di avere diffuso “già da molti anni [...] clandestinamente in tutto lo Stato, ed anche talvolta nelle pubbliche scuole, certe dottrine con cui apertamente si facea la guerra alla Religione, alla Chiesa ed insidiosamente macchinavasi contro il Principe”.66

A fronte della “trascuratezza, anzi corruttela” che si riscontrava “nella privata educazione”, era necessario predisporre “una pubbli- ca ben intesa letteraria e civile educazione, il cui scopo principale sia di raddrizzare e correggere le false, perniciose, storte idee, e di ricondurre al buon costume la studiosa gioventù”.67

Non sarebbe, quindi, bastata una “provvidenza parziale”, ma sareb- be servita “quasi una nuova riedificazione totale e un generale nuovo piano di studi” con il quale “formare il cuore de’ giovani sudditi” e “ristabilire le altre parti dell’edifizio politico e promuovere sempre più il solido sapere e l’ordinato governo e la pubblica felicità”.68

In particolare, bisognava riportare nei giusti limiti la conoscenza scientifica, originata dalla “malattia dello spirito umano, generata dalla sua curiosità senza freno e dalla superbia d’obbliare i vantaggi presenti che dalle cose si possono ricavare, ed applicarsi al rintraccia- mento di quelle che lontane sono ed oscure”,69distinguendo “il retto

uso delle scienze dall’abuso”, che consiste “nell’indagarne attenta- mente le cagioni e col soccorso di savj e convenienti regolamenti dirigerle a tutti que’ vantaggi a cui furono dal Creatore destinate”.70 64. ast, Corte, Pubblica istruzione, Regia Università, mazzo 3 di addizione, Piano di

letteraria riforma per le scuole del Piemonte, s.d., ma certamente del 1799, p. 139.

65. Ivi, p. 1 recto. 66. Ivi, p. 1 verso. 67. Ivi, p. 2 recto. 68. Ivi, p. 16 recto. 69. Ivi, p. 4. 70. Ivi, pp. 17-18.

Inoltre, era opportuno tenerne lontani gli “spiriti depravati e corrotti”, così come quelli “filosofici ed enciclopedici”, selezionan- do gli studenti attraverso “la disamina degli ingegni e delle inclina- zioni di chi s’accinge allo studio per conoscerne le naturali tenden- ze verso le varie professioni”.71

Per ridare all’istruzione il suo significato originario era neces- sario che le scuole tornassero a costituire “il secondo Seminario in cui la Religione formi il Cristiano, la Morale il virtuoso cittadi- no e la coltura delle scienze l’Uomo di Lettere”.72I rimedi ai mali

del sistema scolastico piemontese individuati dall’autore del Piano non si discostavano da quelli di Galeani Napione, e contemplava- no il controllo sui manuali e sugli insegnanti (scelti sulla base della “riputazione e probità di costumi ben stabilita, dottrina, abi- lità d’insegnare”), relazioni mensili dei docenti al riformatore e soprattutto la distinzione di due classi di studenti: i pochi destina- ti a compiere “l’intero corso della letteratura”, quindi, ammessi allo studio del latino, e tutti gli altri, da affidare a maestri che li avvieranno alle “principali regole dell’aritmetica, allo stile episto- lare, ai primi elementi di meccanica, geometria pratica ed agri- coltura”.73

Tutte e due le categorie di studenti avrebbero, comunque, dovu- to cominciare la carriera scolastica apprendendo l’italiano, eserci- tandosi su un testo “che racchiudesse le principali massime del vivere civile e cristiano” e sui “doveri dell’uomo”.74 Bisognava,

infatti, evitare che i giovani, presi dalla curiosità, si gettassero in “qualche vaga e tumultuaria lettura” avviandoli verso “autori incor- rotti” e “tenere i giovani in un continuo esercizio e fatica, princi- palmente nei giorni feriali, perché il menomo vizio che ad insinuar si venisse nell’animo loro sarebbe capace di far perdere in un momento tutto il frutto delle più savie istruzioni compartite”. Inol- tre, bisognava “vietare loro ogni lettura di libri teatrali, romanze- schi, poeti italiani e simili, che sono gli avvelenatori della gioventù unitamente all’intervento ai teatri ed i vani abbigliamenti”.75

71. Ivi, pp. 22-24. 72. Ivi, p. 37. 73. Ivi, pp. 44-54. 74. Ivi, pp. 71-77. 75. Ivi, pp. 132-133.

Sebbene né il progetto di Galeani Napione né quello dell’anoni- mo estensore del Piano siano mai stati messi in pratica, il governo provò comunque a mettere mano a una riorganizzazione del sistema scolastico, come dimostrano alcuni documenti conservati tra le carte del tempo: si tratta di due circolari, preparate dal ministero dell’in- terno in vista della riapertura delle scuole nell’autunno del 1799.76

La prima delle due circolari era volta a indirizzare i comuni nella scelta degli insegnanti, per i quali richiedeva “religione” e fedeltà politica, ma insisteva anche, in maniera del tutto inedita, sulla neces- sità di averli dotati di cultura e di metodo, oltre che di amorevolezza nei confronti dei discenti. Il secondo documento, invece, conteneva un progetto organico di scuola, in cui la scelta dei docenti rientrava in un piano complessivo di riorganizzazione del sistema scolastico sabaudo. Il piano prendeva le mosse proprio dalla tesi secondo cui sarebbero stati proprio gli insegnanti, privi di saldi principi etici, a rendere possibile la propagazione dello spirito rivoluzionario, per sconfiggere il quale era, quindi, necessario provvedersi di personale competente e soprattutto affidabile dal punto di vista morale, prima ancora che politico. Particolarmente pericolosi erano considerati i precettori, “persone perlopiù di costumi corrotti, di uno spirito insu- bordinato e disorganizzato da mire ambiziose e da massime tenden- ti a distruggere la Religione, il Trono e la pubblica felicità”. Così si spiegava l’esigenza delle indagini sulla loro moralità.

Partendo dal presupposto che erano pochi gli studenti che pro- seguivano gli studi dopo le classi di latinità, si prescriveva che nei comuni con più di 300 abitanti un maestro insegnasse a leggere, scrivere e a fare di conto, mentre in quelli con più di 1000 abitanti era incaricato pure dell’insegnamento della geometria pratica e dell’agricoltura. Il latino era riservato esclusivamente ai comuni con più di 3000 abitati, ma solo per quegli studenti che avevano già appreso l’italiano.

Il progetto riprendeva le proposte più avanzate degli ultimi anni dell’Antico Regime e anticipò di alcuni decenni l’assetto attribuito

76. Le due circolari sono conservate entrambe in ast, Corte, Carte di epoca france-

se, serie ii, mazzo 10, Provvidenze generali, e sono tutte e due senza data. R. Berardi ha dimostrato in modo convincente che risalgono entrambe all’autunno del 1799 (R. Berardi, L’istruzione della donna in Piemonte. Dall’assolutismo dinastico al cesarismo