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La pedagogia “ufficiale” al soccorso dello Stato: il dibattito sulla superiorità dell’educazione pubblica su quella privata

La pedagogia al servizio della politica nel Piemonte di fine Settecento

2. La pedagogia “ufficiale” al soccorso dello Stato: il dibattito sulla superiorità dell’educazione pubblica su quella privata

Il tema dell’Émile che, con ogni probabilità, alimentò più di ogni altro il dibattito pedagogico nel Regno di Sardegna fu quello rela- tivo al valore dei collegi. Rousseau non aveva esitato a definire “risibles” le scuole pubbliche, giudicandole incapaci di fornire un’educazione funzionale sia al benessere personale degli allievi sia a quello della collettività. I motivi dell’inadeguatezza degli istituti

12. G. Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di Sua

Maestà il re di Sardegna, Torino, Maspero, 1851, vol. xxi, p. 700. Le scuole della Regia Opera della Mendicità Istruita erano state fondate nel 1743, con l’obiettivo di insegnare, oltre al catechismo, anche le prime elementari conoscenze della lettura, scrittura, calcolo aritmetico. Sulle loro origini vedi il pur datato C. Carrera, Brevi

cenni sulla Opera della Mendicità Istruita in Torino, dalla sua origine sino all’anno 1878. Raccolti dal segretario della Medesima Carlo Carrera, Torino, Vincenzo Bona, 1878; sulla

storia ottocentesca della r.o.m.i.cfr. G. Chiosso, La gioventù “povera e abbandona- ta” a Torino nell’Ottocento. Il caso degli allievi-artigiani della Mendicità Istruita (1818-

1861), in J.M. Prellezo(a cura di), L’impegno di educare. Studi in onore di Pietro Brai-

do, Roma, Las, 1991, pp. 375-402, ora in Id., Carità educatrice e istruzione in Piemonte.

Aristocratici, filantropi e preti di fronte all’educazione del popolo nel primo ’800, Torino,

scolastici andavano ricercati, secondo il philosophe ginevrino, nel contesto politico dell’epoca: dato che la pubblica istruzione trova- va la sua ragione d’essere nella formazione dei cittadini, avrebbe dovuto poggiare su un’idea di patria e di appartenenza che, però, le monarchie assolutistiche della fine del Settecento avevano di fatto smantellato, in nome dell’obbedienza e della sottomissione al monarca. Dato che gli Stati europei non erano in grado di educare cittadini che amassero la loro terra e desiderassero sacrificarsi per lei, le scuole avevano perso buona parte della loro utilità.13

Di qui derivava la scelta di Rousseau di affidare Emilio alle cure di un precettore che lo educasse al di fuori del suo contesto socia- le, con l’obiettivo di costruire non un buon cittadino, ovvero un buon suddito, ma un uomo felice, in grado di rientrare in società privo di pregiudizi e di impegnarsi per cambiarla.

Le accuse al sistema scolastico coevo, ancora più del consiglio di posticipare l’insegnamento della religione alla maggiore età, valsero a Rousseau la duplice condanna del parlamento e dell’arcivescovo di Parigi. E fu espressamente per sfuggire al tribunale laico, e non certo al giudizio di Christophe de Beaumont, che l’autore dell’Émi-

le fu costretto a lasciare precipitosamente la Francia alla volta della

Svizzera, dove la sua opera ricevette, però, le stesse sanzioni.14

La condanna dell’opera di Rousseau era proprio dovuta ai suoi contenuti politici, anche se tanto la censura laica, quanto quella eccle- siastica insistettero sulla pericolosità sociale dell’Émile: mettendo in dubbio il valore educativo della società coeva, dalla quale Rousseau sceglieva di allontanare il suo discepolo, il philosophe minava, infatti, alle basi il patto sul quale era fondata la convivenza civile.

Del resto, alla fine del Settecento, l’educazione era intesa soprat- tutto come dovere verso la collettività e non come diritto per l’in- dividuo. Allora – come oggi – “educato” significava “in grado di stare in società”, prima ancora che “colto” o “istruito”.

13. J.J. Rousseau, Émile ou de l’éducation, La Haye, Jean Neaulme, 1762, libro i. 14. Sulle vicende della pubblicazione dell’Émile e sulle condanne inflitte al suo autore cfr. J.J. Rousseau, Œuvres complètes, IVÉmile, Éducation, Morale, Botanique,

Paris, Gallimard, 1969, con introduzioni di J.S. Spink, C. Wirz, P. Burgelin, H. Gou- hier, R. de Vilmorin, B. Gagnebin e, in particolare, vol. iv, pp. 1856-1863. Sulla for- tuna dell’opera vedi M. Grandière, L’Ideal pédagogique en France au XVIIIesiècle,

Non a caso, la componente più importante dell’educazione era quella morale. Ben oltre la metà del

xix

secolo, educare avrebbe fatto generalmente rima con moralizzare, correggere, insegnare i buoni costumi, nell’accezione ancora oggi utilizzata nel linguaggio comune.

Nell’introduzione all’Educazione continuata, Robbio di San Raf- faele forniva una definizione di educazione che non lasciava dubbi: secondo lo scrittore sabaudo essa serviva a insegnare all’uomo a evitare i tre vizi capitali indicati da S. Bernardo, ovvero “il piacer molle, il piacer vano, il piacere amaro. Al primo appartengono le morbidezze, e le delizie del senso; al seguente i ventosi pensieri dell’orgoglio, e i castelli in aria della gonfia ambizione; al terzo, che più si sarebbe stentato ad indovinare, il tossico amaro e pur gradi- to del cupo odio, della diffidenza, del bieco livore, e d’ogni altra perturbazione affannosa”.15

Gli ultimi decenni del Settecento, specialmente grazie al dibatti- to scaturito in seguito alla pubblicazione di opere come l’Émile o il

De l’Homme de ses facultés et de son éducation di Helvétius, rivelarono

sino in fondo le implicazioni attribuite alla componente etica del- l’educazione. Essa era investita di una duplice finalità, individuale e sociale, ma tra le due la formazione morale del soggetto era per tradizione quella più importante, in quanto destinata a offrirgli le conoscenze e le capacità per guadagnarsi nel corso della vita terre- na la salvezza eterna. Coincideva quindi con l’educazione del buon cristiano, cattolico o protestante che fosse.

In questo modo, la formazione del fedele aveva finito per essere identificata con la formazione del cittadino. L’assunto su cui pog- giava tale coincidenza era che un uomo dotato di saldi principi morali e religiosi non poteva che applicarli a partire dai suoi simi- li, ovvero all’interno del proprio contesto sociale.

Educare il cristiano equivaleva, dunque, a educare il cittadino, o meglio, in una fase storica in cui la stragrande maggioranza del- l’Europa era governata da monarchie, il suddito. E fu proprio su questo secondo aspetto che si concentrarono le attenzioni degli specialisti dell’educazione, molto spesso più preoccupati di garanti- re l’ordine sociale sulla terra che di procurare all’individuo la sal-

vezza futura. Così, la religione venne adottata e proposta in manie- ra strumentale come mezzo educativo dagli Stati assoluti, con sod- disfazione della maggior parte degli uomini di Chiesa, appagati dall’importanza riconosciuta all’istituzione ecclesiastica, più che alla fede, e preoccupati di non «invaghir» la gioventù «di pensieri, o scrutini non solamente inaddattati, ma di cose ancora troppo sin- golari, e nuove, e così per lo più pericolose».16

L’istruzione, che costituiva la parte essenziale dell’educazione, era chiamata a lavorare nella stessa direzione: lo studio era importante non solo come mezzo di acquisizione delle «scienze», «ma eziandio della disciplina del ben vivere, principalmente per quello che riguar- da la religione e i buoni costumi».17Per questo, le Costituzioni per

l’Università del 1729, al fine di garantire ai giovani «un’ottima educa-

zione», avevano prescritto agli insegnanti di «stabilire ne’ loro cuori quel timor santo di Dio, il qual è principio della vera sapienza».18

La raccomandazione venne ripresa alla lettera dalle Costituzioni del 1772, secondo cui “fondamento e base della vera sapienza è il santo timor di Dio, e il verace culto verso il padre de’ lumi”. Per questo, “debbono alla cristiana educazione de’ giovani studiosi principalmente volgersi le nostre cure, così che venga negli animi loro giovanili per tempo impresso il puro affetto della religione, senza cui anche le più sublimi cognizioni potrebbero essere non solo inutili, ma eziandio perniciose”.19

Per rendere l’istruzione funzionale agli interessi dello Stato era necessario in primo luogo sottoporla a un controllo rigoroso. A tal fine, i riformatori erano chiamati a frequentare giornalmente l’uni- versità e «praticare quelli altri mezzi o pubblici, o segreti, che vi saprà suggerire la circospetta, e prudente vostra accortezza».20Le 16. Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi ast), Istruzione pubblica, Regia Univer-

sità, mazzo 6, fascicolo 19, Progetto per un miglior governo de’ studi della Savoia, e delle altre materie dipendenti dalla università. L’anonimo progetto di riorganizzazione

degli studi è datato 1768.

17. Costituzioni di Sua Maestà per l’Università di Torino, in Torino, nella Stamperia Reale, 1772, p. 100.

18. Regolamenti del Magistrato della riforma per l’Università di Torino annessi alle

Costituzioni di sua maestà, 1729, p. 5.

19. Regolamenti del Magistrato della riforma annessi alle Costituzioni di sua maestà, 1772, pp. 1 e sgg.

prescrizioni delle Costituzioni non rimasero sulla carta, ma serviro- no a instaurare un apparato di censura attento, tra l’altro, a non turbare i rapporti con la Santa Sede, specialmente dopo la firma dei concordati del 1727 e del 1741. Ne fecero le spese noti docen- ti dell’Ateneo torinese, tra cui Francesco Antonio Chionio, Gio- vanni Battista Agostino Bono e Carlo Denina.21

Erano molte le ragioni che spingevano le monarchie a cercare l’appoggio del clero. La prima era rappresentata dal sostegno che la religione offriva al controllo delle coscienze e alla salvaguardia della concordia sociale. La seconda era di natura, per così dire, organizzativa: era, infatti, impensabile per lo Stato sabaudo recluta- re i docenti senza fare ricorso a personale ecclesiastico, specialmen- te per l’istruzione elementare, della quale si era disinteressato sino a quel momento.

Ciò era vero non solo in Piemonte, ma anche nei Paesi che stava- no tentando di impiantare un sistema scolastico nazionale, come l’impero asburgico, e per quelli che lo stavano progettando, come la Prussia e la Russia, che non per nulla furono gli ultimi a mettere al bando la Compagnia di Gesù. E non avrebbe potuto essere diversa- mente, poiché solo il clero disponeva di insegnanti preparati e dispo- sti a percepire salari poco elevati, a cui potevano, però, ovviare con la vita di comunità ed, eventualmente, con benefici di varia natura.

Di fatto, nel corso del Settecento, l’istruzione e l’educazione divennero materie politiche, impossibili da affrontare con legge- rezza. Di conseguenza, il problema della formazione dei costumi, che rappresentava il fulcro del dibattito, accalorò educatori, uomi- ni di lettere e amministratori pubblici, in quanto coinvolgeva que- stioni sociali di vitale importanza. Ciò fu vero anche nel Regno sabaudo, dove esso si incentrò su alcuni temi in particolare, offren- do soluzioni originali nel panorama europeo.

In primo luogo, il problema dell’educazione morale influì sui contenuti e sulle conclusioni a cui pervenne in Piemonte il dibatti- to sulla tipologia migliore di istruzione. Il confronto era tra l’edu- cazione pubblica e l’educazione privata. Per “educazione pubblica” si intendeva all’epoca l’istruzione impartita all’interno delle scuole,

21. Sul ruolo della censura nella vita culturale sabauda cfr. L. Braida, Il commercio

mentre il termine “educazione privata” veniva utilizzato per defini- re l’insegnamento impartito in famiglia ad opera dei genitori o, come avveniva più frequentemente, dei precettori.22“Pubblico” e

“privato”, quindi, non erano riferiti a chi erogava l’istruzione – anche perché il ruolo dello Stato rimaneva all’epoca molto margi- nale nella gestione effettiva delle scuole –, ma facevano riferimen- to al contesto in cui aveva luogo l’apprendimento: pubblica era l’istruzione impartita collettivamente a più studenti, privata quella rivolta a un solo discepolo, nella sua abitazione o presso il docente. Lo spazio pubblico acquistava, dunque, pieno significato in oppo- sizione allo spazio privato o domestico, rappresentato dalla casa.23

Il problema della scelta tra istruzione scolastica e istruzione domestica, che era avvertito da oltre un secolo in tutta Europa, aveva assunto particolare importanza nella seconda metà del Sette- cento, in quanto intercettava alcune questioni ideologiche e cultu- rali molto attuali e pressanti.24La prima era legata alle espulsioni e

alla soppressione pontificia della Compagnia di Gesù, che compor- tarono la necessità di ridefinire praticamente l’organizzazione dei sistemi scolastici – perlomeno a livello di istruzione secondaria – e di decidere a chi competesse l’onere e l’onore della loro gestione.

La seconda rimandava al tema della natura dell’uomo e dell’in- fluenza esercitata dalla società sul suo sviluppo. Su di essa grava- vano le teorie relative all’uguaglianza naturale degli uomini e al loro bisogno di vivere con i propri simili. A quanti, come Rousseau, credevano che l’“uomo naturale” andasse preservato rispetto al- l’“uomo civile”, per evitare che venisse corrotto e salvaguardarne la bontà innata, si opponeva buona parte dei pensatori cattolici, con-

22. A questo proposito vedi da P. Delpiano, Istruzione domestica e istruzione pubbli-

ca nel Piemonte del Settecento, in “Quaderni di storia dell’Università di Torino”, 6

(2001), n. 5, pp. 2-53, in particolare il paragrafo 1, Pensieri sull’educazione.

23. Per il dibattito su spazio pubblico e privato, molto acceso in età moderna, si vedano, tra l’altro, R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, Bolo- gna, Il Mulino, 1976 (1° ed., 1959); J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1984 (1° ed., 1962); D. Goodman, Public Sphere and Private Life:

toward a Synthesis of Current Historiographical Approaches to the Old Regime, in «Histo-

ry and Theory», 31 (1992), n. 1, pp. 1-20.

24. Cfr. J.C. Caron, I giovani a scuola: collegiali e liceali ( fine XVIII-fine XIXsecolo), in

G. Levi-J.-C. Schmitt(a cura di), Storia dei giovani, 2, L’età contemporanea, Roma- Bari, Laterza, 1994, pp. 161-232.

vinta dell’esigenza di intervenire precocemente per liberare l’indi- viduo dal peccato e offrirgli gli strumenti per conseguire la felicità terrena e ultraterrena.

In questo contesto, il dibattito intorno all’educazione e all’istru- zione pubblica sollevato dalla pubblicazione dell’Émile di Rousseau e dalla chiusura dei collegi dei gesuiti in Francia avrebbe potuto riaprire il problema dell’insegnamento privato, fornendo indiret- tamente valide argomentazioni a quanti diffidavano della scuola di Stato, e ribadire il valore dell’educazione familiare.

A giudicare dallo spazio attribuito all’istruzione privata nella let- teratura specialistica piemontese si direbbe che, così come avveniva in Francia e nell’impero asburgico negli stessi anni, il precettorato avesse conservato un peso significativo nel sistema educativo, soprattutto per l’età prescolare o dei primi anni di scuola, e all’inter- no dei ceti sociali elevati, per i quali l’insegnante privato continuava a rappresentare un elemento di distinzione.25Inoltre, anche quando

decidevano di far studiare i propri figli in una scuola pubblica, molte famiglie nobili continuavano a farli accompagnare da un precettore che vegliava sulla loro condotta. Allo stesso modo, non erano venu- ti meno coloro che criticavano l’ingerenza dello Stato in una man- sione, quella dell’insegnamento, tradizionalmente attribuita al clero, e che avevano per questo preferito far educare i propri figli all’inter- no di qualche seminario in Piemonte o all’estero, specialmente in Francia, nei collegi retti da ordini religiosi.

Tuttavia, in Piemonte, i fautori dell’istruzione scolastica furono nettamente più numerosi dei sostenitori del precettorato. In ogni caso, gli uni e gli altri si schierarono compatti contro le teorie di Rousseau contrarie ai collegi, il cui valore, invece, rimase fuori discussione almeno sino allo scoppio della Rivoluzione francese. Animati dal desiderio di difendere la propria tradizione, gli scrit- tori educativi piemontesi introdussero nel dibattito temi stereotipa-

25. Vedi il quadro delineato per la Francia da D. Roche, Il precettore, educatore pri-

vilegiato e intermediario culturale, in Id., La cultura dei Lumi. Letterati, libri, biblioteche

nel XVIIIsecolo, Bologna, Il Mulino, 1992 (1° ed., 1988), pp. 421-446, e Id., Le précep-

teur dans la noblesse française: instituteur privilegié ou domestique?, in Problèmes d’histoire de l’éducation. Actes des séminaires organisés par l’École française de Rome et l’Università di Roma La Sapienza ( janvier-mai 1985), Roma, École Française de Rome, 1988, pp. 13-

36. Per il Piemonte cfr. il già citato saggio di P. Delpiano, Istruzione domestica e istru-

ti: tutti gli autori concordavano nell’attribuire all’educazione dome- stica una maggiore cura del discepolo, con benefici effetti sulla sua salute. Nello stesso tempo non c’era chi non concordasse con Rob- bio di San Raffaele quando sosteneva che nell’educazione domesti- ca “lo studio vi suol essere più languido, la mensa troppo squisita, le piccole indisposizioni vere, o furbescamente allegate dal figlio, trop- po compatite e temute”.26Il tutto a svantaggio della maturazione del

fanciullo, il quale, soffocato dalle attenzioni dei genitori e non sti- molato dal confronto con i coetanei, correva il rischio di essere fre- nato nel suo sviluppo caratteriale e intellettuale.

A definire i canoni della polemistica anti-rousseauiana in Pie- monte fu soprattutto il barnabita Sigismondo Gerdil. Egli non incentrò la sua confutazione sulla necessità di dare all’educazione una base religiosa, che il philosophe, invece, trascurava, posticipando l’insegnamento del catechismo all’adolescenza. Le Réflexions di Gerdil muovevano, invece, dall’assunto di fondo dell’opera del ginevrino: l’educazione pubblica “n’existe plus, et ne peut plus exi- ster, parce qu’où il n’y a plus de patrie, il n’y a plus de citoyens”.27

Partendo da questa convinzione, secondo il cardinale savoiardo, Rousseau utilizzava l’Émile per proporre un “système de politique” prima ancora di una “théorie de l’éducation”.28

Infatti, anche se Rousseau dichiarava di non voler esplicitare le cause della disaffezione dei cittadini nei confronti della patria (“J’en sais bien la raison, mais je ne veux pas la dire; elle ne fait rien à mon sujet”), era chiaro che ne attribuiva la colpa alle monarchie assolute.29 Per questi motivi, Mentore sceglieva di educare il suo

discepolo al di fuori delle aule scolastiche, con un rapporto indivi- duale, che lo preservasse dalle nefaste influenze della società e del governo, in modo che fosse in grado, una volta adulto, di osservar- ne il funzionamento con distacco e di favorirne il cambiamento.

Al contrario, Gerdil ribadiva il valore dell’istruzione impartita nei collegi, “établissements louables, dont on a tiré beaucoup d’uti- lité”,30indicandoli come l’unico luogo in cui era possibile formare

26. B. Robbio diSanRaffaele, Apparecchio degli educatori, cit., p. 2. 27. J.-J. Rousseau, Émile, cit., libro i. G.S. Gerdil, Réflexions, cit., p. 173. 28. G.S. Gerdil, Réflexions, cit., p. 4.

29. J.-J. Rousseau, Émile, cit., libro i. G.S. Gerdil, Réflexions, cit., p. 173. 30. G.S. Gerdil, Réflexions, cit., p. 174.

lo spirito nazionale e patriottico. E se il teologo savoiardo poteva presentare le scuole pubbliche come le uniche in grado di costrui- re i futuri cittadini era perché esse fondavano il loro sapere su basi salde e soprattutto universali, ovvero sulla religione. L’insegna- mento religioso, per Gerdil, aveva certo valore di per sé, ma nel confutare l’opera di Rousseau, egli lo usava soprattutto in funzione antifilosofica, ovvero per rivendicare la superiorità della fede sulla ragione come strumento cognitivo e per denunciare le finalità sov- versive dei philosophes. Se, infatti, «la religion tend à l’union, parce que elle est fondée sur une autorité‚ qui captive les esprits, et qui les réunit dans la soumission qu’ils doivent aux oracles de la révéla- tion», la filosofia «n’est qu’un assemblage de différents systèmes nés en différentes têtes, qui se contredisent perpétuellement ou sur les principes, ou sur les philosophes».31Per questo, «la philosophie

est peu propre à établir l’uniformité de l’esprit patriotique qui doit animer, et à lier les différents membres de l’État pour n’en former qu’un seul corps».32

Se, quindi, la religione è il cemento di una nazione, non è impor- tante chi sia a diffonderla, ma è, invece, determinante che tanto l’istruzione pubblica, quanto quella privata siano fondate sull’inse- gnamento religioso, necessario sia a formare il buon cristiano sia a creare la coscienza nazionale, nonché un forte senso di appartenen- za allo Stato. Caratteristiche, queste ultime, che le scuole sabaude possedevano, secondo l’autore delle Réflexions, come dimostra, tra l’altro, il fatto che egli rivolgeva, in chiusura del libro, un accorato appello non agli amministratori, ma ai genitori, affinché rigettasse- ro il nuovo modello educativo rousseauiano per rimanere fedeli ai principi dell’educazione cristiana.

Francesco Alberti di Villanova, il secondo piemontese in ordine di tempo, dopo Gerdil, a prendere la penna contro Rousseau, de- dicò buona parte del suo Dell’educazione fisica e morale, o sia de’ dove-

ri de’ padri, delle madri, e de’ precettori cristiani nell’educazion de’ figliuoli, contro i principi del Signor Rousseau di Ginevra, proprio a