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Il contadino russo sull'orlo della collettivizzazione: l’immagine della campagna nel dibattito politico ed economico in Urss (1924-1929)

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Università degli Studi di Roma La Sapienza Dipartimento di Storia, Antropologia, Arte e Spettacolo

Dottorato di ricerca in “Storia dell’Europa” Ciclo XXXII

IL CONTADINO RUSSO SULL’ORLO DELLA COLLETTIVIZZAZIONE

L’immagine della campagna

nel dibattito politico ed economico in Urss (1924-1929)

Giorgia Zino

Relatore: Coordinatore corso di dottorato: Prof. Roberto Valle Prof. Alessandro Saggioro

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3 SOMMARIO Premesse 7 PARTE I 13 GLI STRUMENTI Capitolo I

La storiografia sui rapporti tra città e campagna in Urss 15

1. La storiografia “politica” 16

2. La critica revisionista in Occidente e la storia sociale 20

3. La rivoluzione archivistica e gli studi socioculturali sulla collettivizzazione 27

4. La svolta culturale e l’ideologia come discorso 36

Capitolo II

Lo spazio russo-sovietico e la dimensione coloniale 43

1. Il concetto di colonialismo interno 48

2. La questione del colonialismo sovietico 57

3. L’Unione Sovietica come impero coloniale 59

4. La campagna sovietica come colonia interna 64

PARTE II IL CONTESTO

Capitolo III

Obščestvo e narod : l’immagine del contadino russo dopo l’emancipazione 71

1. “Alla ricerca dell’anima contadina” 71

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4 PARTE III

LA RAPPRESENTAZIONE Capitolo IV

Rukovodstvo e opora :

L’alleanza tra città e campagna nella rappresentazione bolscevica 89

1. La gerarchia sociale e la rukovodstvo del proletariato 89

2. La metafora del moto rivoluzionario 92

3. Le caratteristiche della massa contadina 97

4. Il dibattito sulla sottovalutazione dei contadini 105

Capitolo V

Lo scambio economico e il dibattito sulle vie di sviluppo 117

1. L’inviolabilità della smyčka per la sopravvivenza dello Stato proletario 117 2. Il dibattito sull’accumulazione primitiva e la via buchariniana della peredelka 120

3. Edificazione del socialismo e differenziazione sociale 136

4. Le due vie dello sviluppo agricolo russo 143

5. Il dilemma dello sviluppo nella formula del kto-kogo? 153

Capitolo VI

Il dramma dell’egemonia:

Il contadino nella dinamica delle forze sociali dopo la rivoluzione e la definizione di classe

a fini egemonici 157

1. I contadini come classe oscillante 157

2. Il dilemma leninista del kto-kogo? 161

3. La peredelka economica come missione civilizzatrice 168

4. Il ruolo dell’educazione 174

5. La lotta di classe come strumento discorsivo di intervento 181

Conclusioni 195

BIBLIOGRAFIA 205

1. Fonti secondarie 205

2. Fonti primarie 217

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Premesse

Gli anni ‘20 del XX secolo sono tra i periodi più studiati della storia russa e sovietica. Essi possiedono il fascino che tutti i momenti di transizione esercitano sugli storici, poiché è qui che nella maggior parte dei casi è possibile trovare le risposte alle grandi domande che i grandi eventi si trascinano dietro. Gli anni ‘20 rappresentano gli anni di mezzo tra la Rivoluzione d’ottobre, la sua trasformazione in guerra civile e la cosiddetta “seconda rivoluzione di Stalin”, ovvero la svolta verso la collettivizzazione e l’industrializzazione che il leader politico intraprese dopo la sconfitta di tutte le opposizioni e che caratterizzò il sistema politico, economico e culturale del nuovo stato ben oltre la sua morte.1 La svolta del 1929 rappresentò per il regime la fine delle idee pluraliste ed inclusive

che la rivoluzione aveva portato in campo politico e culturale. Per il villaggio russo rappresentò non solo la fine della “tregua” stabilita dalla Nuova politica economica, ma l’inizio dell’atto finale di quella che Andrea Graziosi ha chiamato la “grande guerra” che contrappose bolscevichi e contadini a partire dal 1918, e che aveva come obiettivo l’assicurazione degli approvvigionamenti.2

La collettivizzazione forzata, la dekulakizzazione e le loro conseguenze sono una delle pagine più nere della storia sovietica. L’effettiva efferatezza della sua implementazione è stata a lungo tenuta sotto silenzio dalle autorità e poi successivamente rientrata a far parte della critica allo stalinismo.3

Riguardo alle interpretazioni storiografiche classiche, queste si possono generalmente suddividere tra quelle che sottolineano i fattori politici, sociali ed economici che portarono alla svolta. Nel primo caso, la collettivizzazione sarebbe il risultato dell’ultima vittoria della corrente staliniana sulla destra del partito guidata da Bucharin, Rykov e Tomskij nel 1928, ultimo espediente dell’abile Stalin per

1 Per l’interpretazione dello stalinismo come “seconda rivoluzione” vedi Robert C. Tucker, «Stalinism as Revolution from Above», in Stalinism. Essays in Historical Interpretation (New York: W.W. Norton & Company, 1977), 77–108. Sulla diatriba storiografica riguardo alla rivoluzione staliniana come rivoluzione “dall’alto” o “dal basso” sarà dedicata gran parte del capitolo I.

2 Vedi Andrea Graziosi, La Grande Guerra Contadina in Urss: Boloscevichi e Contadini (1918-1933) (Edizioni scientifiche italiane, 1998).

3 Cfr. Evel Economakis, «Soviet Interpretations of Collectivization», The Slavonic and East European Review 69, n. 2 (1991): 257–81.

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8 garantirsi il sostegno della maggioranza del partito ed eliminare ogni seria alternativa alla sua leadership dopo la morte di Lenin.4 Tra le motivazioni di carattere sociale, molti storici hanno

sottolineato il ruolo di vari gruppi di interesse fuori dal partito interessati a uno stravolgimento dei rapporti di forza tra città e campagna in favore di una rapida industrializzazione, i quali favorirono via via lo spostamento della linea del partito e influirono sulla brutalità della sua applicazione.5 Infine,

sebbene la motivazione economica – la necessità per il regime di garantirsi ingenti riserve di grano – sia sottesa ad ognuna delle interpretazioni della svolta, ci sono studi di storia economica che si soffermano esclusivamente su questo aspetto elevandone l’importanza, sottolineando le varie ragioni dell’urgenza per il partito a partire dal 1927 di intraprendere un’industrializzazione accelerata.6

Tutte queste interpretazioni rivelano e chiarificano vari aspetti e vari fattori coinvolti nella drammatica svolta del 1929, ma non approfondiscono molte delle contraddizioni inerenti al processo di collettivizzazione, soprattutto per quanto riguarda la brutalità della sua esecuzione e alle sue conseguenze. L’inefficienza della politica del partito nelle campagne negli anni ‘30 a livello di costi economici, sociali ed umani è infatti ormai nota.7 A fronte di questi costi, essa portò ad un drammatico

deterioramento degli standard di vita della popolazione rurale, mentre lo stato dell’agricoltura non si riprese mai completamente. Per quanto riguarda l’industrializzazione, che subì in effetti uno sviluppo senza precedenti nei primi piani quinquennali, non esistono prove che essa non potesse essere raggiunta altrimenti. Ad ogni modo, il mero calcolo economico e la predilezione per un rapido sviluppo dell’industria pesante non sono sufficienti a spiegare l’assassino, la deportazione e la distruzione del modo di vivere di milioni di cittadini o, se lo sono, deve esistere un corollario culturale che possa giustificare pratiche tanto repressive. In grandi linee questa è la questione di base che ha

4 Questa interpretazione si fa generalmente risalire a Moshe Lewin. Vedi Contadini e Potere Sovietico dal 1928 al 1930 (Franco Angeli, 1972).

5 Si veda in particolare il lavoro di Sheila Fitzpartick, Robert Davies, Lynne Viola, Roberta Manning e altri, ai cui lavori in merito è dedicata gran parte della rassegna storiografica nel capitolo 1.

6 Per queste interpretazioni vedi Alec Nove, An economic history of the USSR, 2o ed. (London: Penguin Books, 1989). Inoltre, come si vedrà nel capitolo I dedicato alla rassegna storiografica, sull’analisi economica della collettivizzazione si è dedicata inizialmente gran parte della generazione dei grandi storici sovietici dopo il 1956, i cosiddetti istoriki agrarniki. 7 Sui costi della collettivizzazione, soprattutto umani ma anche materiali vedi Massimo Livi-Bacci, «On the Human Costs of Collectivization in the Soviet Union», Population and Development Review 19, n. 4 (1993): 743–66.

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9 portato a partire dagli anni ’90, a seguito cioè dell’apertura degli archivi russi e della scoperta di gran parte delle atrocità commesse durante la collettivizzazione, allo spostamento della prospettiva storiografica sul piano socioculturale.

L’obiettivo della presente ricerca è quello di porre l’attenzione sulla dimensione culturale della collettivizzazione come fattore che contribuisce e concorre a spigare il fenomeno, ricercando però strumenti metodologici nuovi. A questo scopo, ci si è avvalsi del concetto di colonialismo interno, una metafora che non esclude le interpretazioni di carattere politico ed economico, ma che anzi evoca sia l’efferatezza delle politiche repressive che la motivazione economica che ne è alla base, ma introduce l’elemento della distanza culturale e gli conferisce importanza fondamentale. Come si vedrà nella sezione teorica, questo concetto ha diverse origini e affiliazioni disciplinari. Riguardo al caso russo, la ricerca sulla dimensione coloniale del potere è molto ampia e tocca diversi aspetti (etnico, nazionale, sociale, geografico). Tra questi la letteratura si è recentemente soffermata sulla dimensione sociale e geografica della delimitazione del potere imperiale in Russia, che diversamente da altri contesti vede storicamente nella divisione tra città e campagna l’antinomia fondamentale (protivopoložnost’) della società russa.

Questa è ciò nella storiografia sociale è stato chiamato il “nesso rurale”, l’asse fondamentale della storia russa intorno al quale hanno gravitato gran parte dei suoi problemi fin dall’abolizione della servitù della gleba e la cui perpetuazione ha crescentemente acuito l’intensità del dramma nel suo atto finale: la collettivizzazione forzata e la dekulakizzazione.8 Tuttavia, mentre in letteratura

esistono interventi significativi sulla rappresentazione della classe contadina nel periodo zarista, riguardo alla dimensione culturale del dibattito sulla classe contadina durante la Nep, che pure fu il filo conduttore di tutta l’elaborazione ideologica e del confronto politico in quel periodo, non ci sono studi specifici. Per lo più, questa è stata limitata allo studio dell’ideologia marxista-leninista, considerata un’importazione occidentale o tuttalpiù occidentalista, isolandola quindi dal contesto culturale autoctono.

8 L’espressione è di Moshe Lewin, Storia Sociale dello Stalinismo (Einaudi, 1988), 13–22. Vedi anche Andrea Graziosi,

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10 Coerentemente con la premessa teorica che si richiama al concetto di colonialismo interno, questo studio intende dare uno spazio significativo e determinante all’analisi di questa dimensione culturale nel contesto del dibattito politico all’interno del partito. Come insegnano Gramsci e Foucault, e gli studi sul discorso coloniale che ne derivano, nelle relazioni di potere coesistono sempre elementi materiali e elementi culturali, alimentandosi a vicenda. Per cui la necessità pratica che è alla base della dominazione si alimenta nel tempo della sua giustificazione morale, i cui tratti sono definiti dall’incontro con il dominato sul quale viene costruita una identità che lo rende irrimediabilmente portato alla dominazione e dalla autorappresentazione del dominante come soggetto più adatto a questo compito. Man mano che la rappresentazione viene perpetuata questa permea completamente il modo di pensare i soggetti della relazione e la relazione stessa, finché il confine fra dimensione materiale e culturale del potere svanisce completamente. In particolare, si cercheranno quindi di evidenziare i caratteri di base della rappresentazione che la leadership aveva dell’heartland contadino tra la morte di Lenin e la svolta del 1929, gli elementi di continuità e di discontinuità con la tradizione di pensiero precedente e quanto questa rappresentazione influì sulla teoria e sulla pratica politica.

L’obiettivo dell’analisi non è quello di elencare le rappresentazioni in quanto tali, ovvero in senso puramente descrittivo, né di illustrare il nesso fra queste e la loro funzione di definizione dell’identità, argomento che pure verrà toccato. In linea con l’approccio discorsivo, l’analisi si concentrerà sul nesso che lega rappresentazione e pratica politica, ovvero la misura in cui le costruzioni rappresentative hanno ispirato le politiche verso la campagna poiché influivano sulla rappresentazione dinamica del rapporto con la città. Questa impostazione metodologica influisce ovviamente nella selezione delle fonti che si limiteranno alla natura politica: non tutto che è stato detto sulla campagna e sul suo rapporto con la società, ma il momento e il modo in cui tali rappresentazioni servirono come base teorica per lo sfruttamento e l’imposizione di un modello alieno. A questo scopo, si analizzeranno le fonti convenzionali della sovietologia e della storia politica in quanto esse costituiscono le voci classiche dell’analisi del discorso pubblico (articoli, pamphlet, report di conferenze e congressi). In particolare, saranno le posizioni della maggioranza del partito la loro evoluzione in merito alla situazione delle campagne ad essere analizzate maggiormente.

Il lavoro è diviso in tre parti fondamentali. La prima parte iscrive la ricerca all’interno del panorama accademico. Essa è dunque dedicata all’esposizione critica degli strumenti che sono alla base dello studio: la letteratura storiografica, la teoria e la metodologia che saranno utilizzate e tenute

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11 in considerazione nell’analisi dei documenti. Questa parte contiene i primi due capitoli, il primo sullo stato dell’arte della storiografia e il secondo sul concetto di colonialismo interno riferito allo spazio russo-sovietico.

La seconda parte si propone di illustrare il contesto intellettuale dal quale emerse la rappresentazione dominante del contadino russo, e lo sviluppo della rappresentazione binaria della società russa dall’abolizione del servaggio alla Nep sia nell’elaborazione intellettuale che nelle sue effettive ripercussioni nelle politiche messe in pratica per rimediare alla questione dell’arretratezza della campagna. Questa è una parte cruciale poiché contiene le premesse culturali dell’analisi e allo stesso tempo serve per tracciare una linea di continuità tra la Nep e la Russia prerivoluzionaria.

La terza parte dello studio contiene l’analisi delle fonti per il periodo di riferimento della ricerca, ovvero la letteratura fondamentale della leadership del partito riguardo all’alleanza con i contadini e lo sviluppo politico ed economico della Nep. Questa parte è divisa in tre capitoli. Il IV capitolo è dedicato all’esposizione degli aspetti politici fondamentali della rappresentazione del rapporto tra partito e classe contadina e delle caratteristiche base attribuite a quest’ultima, che serviranno da guida per l’ulteriore esposizione. Il V capitolo riguarda la rappresentazione dello scambio economico tra città e campagna dal 1924 fino alla svolta verso la collettivizzazione forzata. Il VI capitolo è dedicato alla questione dell’egemonia legata alla conquista della classe contadina e della campagna. In particolare, si discuteranno la rappresentazione dell’edificazione socialista come forma particolare di missione civilizzatrice volta alla trasformazione profonda del mondo contadino russo, e quindi delle radici dell’arretratezza di tutto il paese, e si riporterà il caso della strumentalizzazione della questione della differenziazione sociale nelle campagne a fini egemonici, tracciando un quadro discorsivo che legandosi alla diatriba sullo sviluppo economico portò la dottrina del partito al collegamento logico con la dekulakizzazione.

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PARTE I

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15 Capitolo I

La storiografia sui rapporti tra città e campagna in Urss

Come tutto ciò che l’ha riguardata, la storia dell’Unione Sovietica è stata da sempre un campo di studi molto politicizzato, la storia dell’ascesa dello stalinismo in particolare. Oltre la cortina di ferro la ricerca in materia ha risentito delle tensioni politiche e ideologiche che esistevano tra i due blocchi. Pertanto, i dibattiti storici e metodologici che hanno scandito la storia della disciplina sono stati fortemente condizionati dal clima della guerra fredda. In Unione Sovietica le restrizioni ideologiche erano ovviamente ancora più forti che nelle accademie occidentali, e per molto tempo i dettami del partito hanno impedito una qualsivoglia ricostruzione dei fatti che differisse minimamente dalla versione ufficiale. Un fattore importante nell’evoluzione della disciplina era costituito dall’accesso alle fonti, limitato soprattutto agli storici occidentali ma anche agli studiosi sovietici. Per questo motivo la situazione politica all’interno del paese oggetto di studio ha condizionato ampiamente anche la storiografia da parte occidentale, oltre ad essere determinante per lo sviluppo della ricerca storica in Unione Sovietica.

Lo status di vera e propria disciplina accademica della storiografia sovietica è stato fortemente messo in discussione dalla comunità scientifica, soprattutto fuori dall’Unione Sovietica e dalla Russia.9 In realtà, come si sosterrà nel corso di questa rassegna, la graduale apertura del regime allo

studio della storia ha consentito l’emergere di importanti figure di storici, che non solo hanno potuto fare autentica ricerca anche sul tema sensibile della politica del partito verso la campagna, ma si può dire che abbiano influenzato in modo abbastanza significativo il parallelo sviluppo della storiografia occidentale sullo stesso tema.

9 Cfr. Gwidon Zalejko, “Soviet Historiography as a ‘Normal Science,’” in Historiography Between Modernism and

Postmodernism: Contributions to the Methodology of the Historical Research, ed. Jerzy Topolski (Amsterdam: Rodopi,

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16 Per quanto concerne soprattutto l’ambito accademico anglosassone, che costituirà la parte principale della rassegna, si può dire che la storiografia sul tema segue lo stesso percorso evolutivo che ha caratterizzato lo studio della storia della Nep e dello stalinismo nel suo insieme. A detta degli stessi protagonisti dei dibattiti teorici e metodologici che hanno determinato il corso della disciplina dal secondo dopoguerra a oggi, questa storiografia può essere grossomodo suddivisa in tre grandi filoni, a loro volta segnati da due svolte paradigmatiche importanti.10

La prima svolta paradigmatica si è avuta nel corso degli anni ’70 e ’80, quando la corrente cosiddetta “revisionista” sfidò il modello totalitario allora prevalente, contestò l’approccio “politologico” allo studio della storia sovietica e propose invece un approccio più vicino ai metodi della storia sociale. A partire dagli anni ’90, invece, l’allora dominate modello revisionista fu messo in discussione da nuovi approcci che tentavano di spostare l’attenzione dalla dimensione sociale a quella socioculturale, proponendo quindi maggiore interdisciplinarietà relativamente al fatto che il lavoro storico fosse sostenuto dall’impianto analitico e concettuale degli studi culturali. In questo capitolo verranno presentate in dettaglio le varie correnti e i principali studi sulla collettivizzazione e sulle sue premesse che ne hanno fatto parte, da entrambi i lati della cortina di ferro.

1. La storiografia “politica”

Nell’Unione Sovietica di Stalin, la storia della genesi della collettivizzazione, come quella della collettivizzazione stessa, è stata a lungo oscurata dal velo di esaltazione, falsificazione e silenzio che caratterizzava l’intera produzione del sapere da parte della macchina propagandistica. La versione della storiografia ufficiale era abbastanza semplice, nonché l’unica disponibile. La collettivizzazione, in linea con i precetti leninisti di un partito di rivoluzionari di professione, faceva parte di una “rivoluzione dall’alto” (revoljucija sverchu) pianificata e attuata dalle autorità centrali con il pieno sostegno della totalità dei contadini poveri (bednjaki) e la maggioranza dei contadini medi

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17 (serednjaki), in piena coerenza con la teoria leninista delle forze motrici della rivoluzione.11 Le

correnti dentro al partito e i dibattiti sull’alleanza con i contadini che avevano animato gli anni della Nep erano ridotti a eresie ideologiche. Per giustificare parte delle atrocità compiute nelle campagne a partire dalla crisi degli ammassi e poi durante la collettivizzazione venivano registrati ed ammessi una serie di “eccessi” nell’esecuzione degli ordini, ma si facevano risalire al fanatismo di singoli funzionari locali, o di estremisti di sinistra di ispirazione troskista.12 L’unica resistenza contadina a

cui si faceva cenno era imputata ai kulaki o ad altre forze controrivoluzionarie. Ad esempio, gli ufficiali o i soldati che avevano protestato contro l’uso violento della coercizione o le massicce requisizioni di grano erano dipinti come “opportunisti di destra”. Riguardo alla carestia del 1932-33 e alle enormi perdite che ne derivarono, queste semplicemente non venivano riconosciute.13

Nella concezione stalinista, la storia faceva parte del grande progetto di costruzione del socialismo, al seguito delle arti e della letteratura, e a questo scopo doveva educare le masse lavoratrici ad una visione del loro mondo derivata dal marxismo-leninismo. Lo storico, quindi, diventava un funzionario di partito il cui fine non era tanto la ricostruzione dei fatti, quanto la legittimazione del potere e la giustificazione della realtà in quanto forma superiore di vita comune, per mezzo dell’ideologia e attraverso la sua canonizzazione in testo incontestabile.

La narrazione storica stalinista ebbe in realtà più successo di quanto spesso non si riconosca, anche fuori dai confini sovietici. Nel secondo dopoguerra e con l’inasprirsi della rivalità tra est e ovest, essa divenne la raffigurazione dominante nei circoli accademici occidentali della cosiddetta Sovietologia, ma con una connotazione morale invertita e delegittimante per il potere sovietico. In

11 Come si vedrà in particolare nel IV capitolo, durante gli anni che precedettero la collettivizzazione successivi alla morte di Lenin la teoria delle forze motrici della rivoluzione fu insistentemente usata da tutti i leader bolscevichi per giustificare l’intervento diretto del partito nelle campagne.

12 In linea con la posizione di Stalin espressa nel marzo del 1930, quando in un articolo sulla Pravda condannava “l’eccessivo zelo” con cui si stava implementando la collettivizzazione delle campagne nell’inverno del 1929-1930. Cfr. Iosif V. Stalin, «Dizzy with Success», in Works, vol. 12 (Moscow: Foreign Languages Publishing House, 1955), 197– 205.

13 Per un esempio della storiografia ufficiale nel periodo stalinista vedi Storia Del Partito Comunista (Bolscevico)

Dell’U.R.S.S. Breve Corso. [1938] (Edizioni di cultura sociale, 1939), commissionato da Stalin perché fungesse da testo

storico unico, soppiantasse la moltitudine di pubblicazioni sulla materia e inserisse le vicende del nuovo stato in una chiara cornice marxista-leninista. Fu il libro più diffuso in Urss fino alla critica del XX Congresso nel 1956.

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18 modo esattamente speculare alla formula della “rivoluzione dall’alto”, l’Unione Sovietica veniva dipinta da questi studiosi come un’entità in cui il potere si irradiava in modo perfettamente gerarchico e disciplinato dall’alto verso il basso.14 Rispetto invece alla celebrativa immagine stalinista

dell’imminente avvento di una società senza classi, in occidente la società sovietica veniva già data per morta e descritta come una massa unica, inerte, passiva e uniformemente paralizzata dal terrore di partito.

Come nell’auto-rappresentazione sovietica, l’essenza del sistema staliniano veniva vista nelle sue differenze con le democrazie occidentali, capitaliste e liberali. Se un termine si applicava a uno non valeva per l’altro, se non nella sua forma contraria. Sul fronte occidentale, però, esisteva un termine di paragone molto potente: l’analogia tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista appena sconfitta in guerra. Questi studiosi, infatti, facevano discendere l’analisi e l’interpretazione delle dinamiche dello stalinismo dalla più ampia teorizzazione di “dittatura totalitaria”. I tratti comuni del modello consistevano in una ideologia, un partito unico spesso guidato da un leder incontrastato, una polizia politica, il monopolio dei mezzi dell’informazione, il monopolio delle armi e una economia diretta dal centro.15 In questo quadro la Nep e le sue particolarità erano viste come un periodo di

vacillazione intermedio e una possibile deviazione dall’ideologia ortodossa, poi attuata da Stalin. Il modello totalitario identificava chiaramente il sistema sovietico come il male, e lo stato come minaccia per il mondo libero. Pertanto, contestare il carattere totalitario dell’Unione Sovietica significò per molto tempo mettere in discussione il concetto di bene e male, facendo così una scelta di campo.

Nello stesso periodo in Unione Sovietica si ebbe invece una prima apertura nel campo della scienza storica, a seguito della svolta del XX Congresso del PCUS e del discorso segreto di Chruščëv nel 1956. Per la prima volta gli storici sovietici poterono accedere agli archivi di stato e di partito. Tra la fine degli anni ‘50 e gli anni ‘60 una grossa mole di informazioni prima sconosciute sulla

14 Cfr. George M. Enteen, «Recent Writings about Soviet Historiography», Slavic Review 61, n. 2 (2002): 357–63. 15 I lavori che più spesso sono accostati alla scuola del modello totalitario e che ne costituiscono i manifesti fondatori sono, tra gli altri, How Russia Is Ruled (Harvard University Press, 1953) di Merle Fainsold e Totalitarian Dictatorship

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19 collettivizzazione e le decisioni che portarono ad essa venne rivelata attraverso la pubblicazione di documenti d’archivio e delle storie nazionali e locali che videro la luce in Urss.16 Tra la generazione

di storici sovietici che visse la transizione e che si occupò specificatamente della collettivizzazione e delle suo origini (i cosiddetti istoriki agrarniki) spiccano i nomi Viktor Danilov, Nikolaj Ivnickij, Marija Bogdenko e Il’ja Zelenin. Questi storici contestavano la questione del supporto della classe contadina alla collettivizzazione, evidenziando in modo particolare che l’uso della forza e l’opposizione delle campagne iniziò già nell’inverno del 1928 durante la crisi degli ammassi, contraddicendo quindi la versione stalinista per cui la partecipazione alle fattorie collettive un anno e mezzo più tardi fosse avvenuta per volontà dei contadini medi.17 Grazie ai resoconti di Abramov e

Ivnickij uscirono i primi lavori sul retroscena politico, sul dibattito in seno al Politburo, e si identificarono le tappe salienti nel processo decisionale della collettivizzazione fino alla decisione del dicembre del 1929, quando tutti gli avversari di Stalin erano stati eliminati.18 A Marija Bogdenko

invece si devono le prime documentazioni accurate sull’uso diffuso ed efferato della violenza durante

16 Per una discussione dettagliata delle serie di documenti pubblicati sulla collettivizzazione vedi Sheila Fitzpatrick e Lynne Viola, a c. di, «Guide to Document Series on Collectivization», in A Researcher’s Guide to Sources on Soviet

Social History in the 1930s (Armonk, NY: Sharpe, 1990), 105–31. In particolare vedi Marija L. Bogdenko, Stroitel’stvo zernovych sovchoz v 1928-1929 gg. (Mosca, 1958); Viktor P. Danilov, Sozdanie material’no-techniceskich predposylok kollectivizacii sel’skogo choziaistva v SSSR (Mosca, 1957); Viktor P. Danilov, a c. di, Očerki istorii kollektivizacii sel’skogo chozjaistva v soiuznych respublikach (Mosca, 1963); Viktor P. Danilov, a c. di, Istorija Sovetskogo krest’janstva i kolchoznogo stroitel’stva v SSSR (Mosca, 1963); Nikolaj I. Nemakov, Kommunističeskaja partija - organizator massovogo kolchoznogo dviženija (Mosca, 1966). Per una rassegna abbastanza esaustiva dell’attività

storiografica sovietica sulla collettivizzazione nei primi anni ’60 vedi Lynne Viola, «Soviet Historiography and the Collectivization of Agriculture», Soviet Studies in History 29, n. 2 (1990): 3–8.

17 Cfr. Nikolaj A. Ivnickij, «O kritičeskom analize istočnokov po istorii načal’nogo etapa splošnoj kollektivizacii»,

Istoričeskii archiv 2 (1962); Nikolaj A. Ivnickij, «O načal’nom etape splošnoj kollektivizacii», Voprosy istorii 4 (1962);

Marija L. Bogdenko, «K istorii načal’nogo etapa splošnoj kollektivizacii sel’skogo chozjaistva SSSR», Voprosy istorii 5 (1963). Per la versione staliniana vedi Iosif V. Stalin, «A Year of Great Change», in Works, vol. 12 (Moscow: Foreign Languages Publishing House, 1955), 124–41.

18 Cfr. Boris A. Abramov, «O rabote komissii Politburo СK Vkp(b) po voprosam splošnoj kollektivizacii», Voprosy

istorii 1 (1964); Nikolaj A. Ivnickij, «Istorija podgotovki postanovlenija СK Vkp(b) o tempach kollektivizatsii sel’skogo

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20 la campagna del 1929-30 e la critica del tentativo di Stalin di far ricadere la responsabilità sui funzionari locali.19

Tuttavia, la libertà di questi anni era legata alla critica del culto di Stalin ed aveva confini ben definiti. Questi delimitavano il terreno della ricerca all’individuazione di capri espiatori e ad alcune critiche velate sulla gestione delle campagne. La relazione tra la campagna e il potere sovietico in sé stessa, le sue basi, il suo funzionamento pratico così come i suoi principi ideologici fondanti, non vennero mai contestati, alla stregua dell’intero sistema. Nonostante ciò, da questo fervore risultò una florida stagione degli studi storici che ebbe importanti ripercussioni anche oltre la cortina di ferro.

2. La critica revisionista in Occidente e la storia sociale

La mole di studi storici sovietici scaturita dalla destalinizzazione, soprattutto se considerata insieme alla pubblicazione di alcuni documenti d’archivio, pose infatti le basi per una profonda rivalutazione del modello totalitario in seno alle accademie occidentali.20 La disponibilità di nuovo

materiale stimolava e al tempo stesso complicava la ricerca storica. Così come era successo in Unione Sovietica nella prima metà degli anni ’60, anche in occidente si cominciarono a mettere in discussione le certezze della Sovietologia. Qui, però, il rinnovamento suscitò maggiore dibattito metodologico.21

19 Cfr. Marija L. Bogdenko, «Kolchoznoe srtoitel’stvo veznoj i letom 1930 g.», Istoričeskie zapiski 76 (1965). Vedi anche Nikolaj A. Ivnickij e Jurij A. Poliakov, «Nekotorye problemy istorii kollektivizacii v SSSR», Voprosy istorii 3 (1965). 20 La possibilità di accesso agli archivi in Unione Sovietica per i ricercatori stranieri aumentò sensibilmente nel corso degli anni ’60, e crebbe progressivamente nei due decenni successivi. Questa però era limitata per lo più alla pubblicistica, mentre la consultazione di materiale politico confidenziale fu assolutamente vietata ai cittadini non-sovietici fino alla

glasnost’, mentre l’archivio centrale del partito era completamente fuori portata. Tuttavia, le raccolte di documenti

pubblicate durante la destalinizzazione fornirono per molto tempo un punto di riferimento fondamentale nella disciplina. Vedi Sheila Fitzpatrick e Lynne Viola, a c. di, A Researcher’s Guide to Sources on Soviet Social History in the 1930s (Armonk, NY: Sharpe, 1990).

21 Sheila Fitzpatrick, una delle voci più autorevoli della critica revisionista, sottovaluta esplicitamente il ruolo degli eventi storici e delle nuove fonti nell’evoluzione delle scuole storiografiche anglo-americane, individuando invece il merito delle svolte metodologiche nel ricambio generazionale all’interno delle università («Revisionism in Soviet History», 89–90.)

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21 Accanto all’utilizzo delle nuove fonti si cercavano nuove prospettive di analisi “revisioniste”, in un clima di forte rottura con il passato.

Ciò che maggiormente si criticava dell’impostazione totalitarista era che questa non rispecchiava tanto la realtà sovietica, quanto piuttosto la morale manichea e la logica binaria tipica del primo periodo della guerra fredda.22 Si denunciavano i generosi finanziamenti da parte di varie

agenzie e fondazioni governative occidentali, soprattutto statunitensi, e il monopolio della disciplina da parte degli scienziati politici più che degli storici.23

Un aspetto cruciale del modello totalitario che veniva contestato dai revisionisti era il tema dominante e onnicomprensivo del conflitto tra autorità statale e società (načal’stvo contro narod), scenario familiare dell’intera storiografia Russa. Questa impostazione presupponeva l’idea che la società e la vita sociale sovietica fossero perfettamente atomizzate, rese completamente impotenti e passive dalla coercizione dell’apparato, e quindi tralasciabili rispetto alla più importante direttrice politica della ricerca.24 I revisionisti proponevano un approccio “dal basso” dello studio della storia

sovietica, elevando la società a qualcosa di più del mero oggetto delle politiche di partito, che pure non era visto come un’entità monolitica. Ponendo in secondo piano il ruolo dell’ideologia e della macchina terrorista per la sopravvivenza del regime, la nuova generazione di storici gettava quindi luce sulla complessità dell’interazione dinamica tra stato e società, suggerendo che qualcuno anche al di fuori del Politburo doveva necessariamente guadagnare qualcosa dalla sua esistenza.25

In altre parole, quello che si proponeva con queste critiche era una maggiore libertà di ricerca rispetto agli imperativi politici della guerra fredda, una riappropriazione da parte degli storici di professione dello studio della storia russo-sovietica e, cosa più importante dal punto di vista

In realtà, è difficile immaginare il successo della scuola revisionista nei decenni successivi senza considerare il cambiamento del clima politico della guerra fredda o l’accesso alle nuove fonti per la storia sociale.

22 Cfr. Lynne Viola, «The Cold War in American Soviet Historiography and the End of the Soviet Union», The Russian

Review 61, n. 1 (2002): 25–34.

23 Cfr. Fitzpatrick, «Revisionism in Soviet History».

24 Cfr. Sheila Fitzpatrick, «New Perspectives on Stalinism», Russian Review 45, n. 4 (1986): 357–73. 25 Cfr. Abbott Gleason, «“Totalitarianism” in 1984», The Russian Review 43, n. 2 (1984): 145–59.

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22 metodologico, lo spostamento del fulcro della ricerca dalle vicende interne al partito alle strutture sociali sottostanti, dalla storia politica alla storia sociale.

I primi importanti lavori interamente dedicati alla questione contadina negli anni ’20 e ‘30 non appartengono pienamente a questa nuova corrente metodologica, ma contengono comunque delle critiche sostanziali al modello totalitario. Ciò che si contestava, in particolare, era la descrizione semplicistica del processo decisionale nel sistema sovietico, che presupponeva unanimità di vedute ed estremo verticismo nell’elaborazione del programma politico, e in generale la rappresentazione del potere. In effetti, nei primi decenni della guerra fredda l’uso sinonimico di parole come “capo”, “governo”, “partito”, “Politburo” e “Stalin” era piuttosto frequente tanto nel dibattito politico come in quello accademico. Sulla collettivizzazione, si faceva generalmente fede alla versione storiografica stalinista, se pur con il segno morale invertito, di un risultato inevitabile, deducibile da una ferrea e monolitica guida ideologica del partito, e si enfatizzava quindi la continuità con la dottrina marxista-leninista e la predilezione per lo sviluppo industriale. A partire dagli anni ’60 questa versione cominciò finalmente a complicarsi.

Il primo studio interamente dedicato al dibattito politico sulle vie di sviluppo della campagna che vide la luce in occidente è Contadini e Potere Sovietico26 di Moshe Lewin, pubblicato in Francia

nel 1966 e tradotto in inglese due anni più tardi. L’opera parte dalla crisi degli ammassi dell’inverno 1927-28. In netto contrasto con la storiografia tradizionale dell’epoca, Lewin trattò la questione come una semplice manifestazione di realpolitik in cui diverse correnti politiche si scontrarono nel cercare una soluzione pratica ad una situazione di crisi reale. Stalin ebbe la meglio per via della sua più efficiente politica di alleanze e per la sua mancanza di scrupoli, ma non per questo la collettivizzazione rappresentava un epilogo predestinato e inevitabile. Al contrario, Lewin dimostrò come all’interno del gruppo dirigente sovietico esistessero alternative, soffermandosi soprattutto sul gruppo di Bucharin, pluralismo ed elasticità in base alla situazione politica contingente. Nella prima parte dell’opera, Lewin tentò di costruire una storia sociale delle aree rurali e di descrivere meticolosamente la vita contadina durante gli anni della Nep. Questa trattazione resterà per lungo

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23 tempo la rappresentazione più dettagliata esistente sulla realtà delle campagne in occidente, insieme ad altri scritti di Lewin sull’argomento.27

Un secondo contributo degno di nota all’interno della cornice del “primo revisionismo” occidentale sull’argomento è quello di Robert Davies. Lo storico britannico, dopo aver collaborato con Edward Carr alla monumentale Storia della Russia Sovietica,28 concentrò i suoi studi sulla genesi

della politica della collettivizzazione forzata nel suo The Socialist Offensive.29 Per farlo seguì lo stesso

percorso intrapreso da Lewin quattordici anni prima, ovvero partendo dalla crisi dei cereali come momento drammatico che mise in crisi l’equilibrio della Nep, ed esaminò le decisioni e le azioni del partito. Tuttavia, mentre Lewin aveva puntato il dito contro Stalin accusandolo direttamente per l’orgia di violenza compiuta durante la collettivizzazione, Davies spinse l’analisi ben oltre il dibattito in seno al ristretto gruppo del Politburo e mise in luce le responsabilità degli ufficiali del partito che operavano localmente.

Secondo lui, la vittoriosa risoluzione della crisi dei cereali attraverso “metodi amministrativi” piuttosto che avvalendosi dei “delicati manovramenti del mercato”, aveva consolidato tra gli ufficiali locali il ricorso alla coercizione nelle risoluzioni delle controversie con i contadini. Davies descrisse questi funzionari come “uomini con un’istruzione formale limitata, e certamente senza alcuna conoscenza economica, le cui precedenti esperienze di crisi erano state acquisite durante gli acerrimi scontri di classe della guerra civile”.30 Mentre la leadership del partito dibatteva, la campagna contro

l’ala destra del partito e l’entusiasmo generale della stampa sovietica verso la collettivizzazione incoraggiarono gli ufficiali distrettuali “ad adottare piani più ambiziosi”,31 lasciando le autorità

27 Tra questi vedi per esempio la raccolta Lewin, Storia Sociale dello Stalinismo.

28 Vedi Edward H. Carr e Robert W. Davies, Foundations of a Planned Economy. 1926-1929 (New York: MacMillian, 1971).

29 Vedi Robert W. Davies, The Socialist Offensive: The Collectivisation of Soviet Agriculture, 1929-1930, vol. 1, The Industrialization of Soviet Russia (MacMillian, 1980).

30 Ibid., 398. 31 Ibid., 113.

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24 centrali a confrontarsi con risultati che eccedevano le loro aspettative, ma indisposte ad ogni obiezione che potesse tacciarli di deviazionismo di destra in un clima di caccia alle streghe.

Questa era l’essenza della critica di Davies al modello totalitario. Egli descrisse quindi il periodo di massima accelerazione della collettivizzazione forzata di fatto come una “rivoluzione dal basso” ad opera dei funzionari di medio livello del partito, le cui azioni e convinzioni furono talmente incisive da influenzare le autorità centrali in un momento di crisi. Tuttavia, pur appropriandosi del linguaggio della storia sociale, da un punto di vista metodologico la sua attenzione rimane concentrata in gran parte sull’amministrazione statale, strutturando la narrazione attraverso l’esame delle decisioni, direttive e dibattiti del PCUS. In questo senso la trattazione di Davies si potrebbe meglio descrivere come una storia sociale del partito e delle azioni intraprese per porre in essere la collettivizzazione. In ogni caso, il merito di questo resoconto sta nell’aver rivolto l’attenzione al ruolo delle forze intermedie nel processo decisionale, in seguito ampiamente riconosciuto, aumentando il numero degli attori coinvolti nel processo decisionale e gettando luce sulla complessità delle relazioni tra stato e società nel momento di costruzione del sistema staliniano.

Pochi anni più tardi Shelia Fitzpatrick scatenò un acceso dibattito in seno alla storiografia occidentale, chiedendo una riconsiderazione radicale del periodo stalinista e una rottura totale con il modello totalitario. In particolare, si esprimeva insoddisfazione verso tutti quegli studi che affermavano il primato della politica e si sosteneva al contrario la necessità di approfondire lo studio della società sovietica. In un discorso tenuto al Terzo Congresso Mondiale di Studi Slavi nel 1985, Fitzpatrick denunciò che l’unico tipo di processo sociale discusso dagli studiosi precedenti era quello relativo alle reazioni della società sovietica rispetto alle politiche statali, affermando che invece “i processi sociali non correlati all’intervento statale sono praticamente assenti in letteratura”.32

Questo nuovo approccio richiedeva l’utilizzo delle nuove fonti a disposizione, più adatte all’investigazione sociale (giornali, riviste, collezioni di documenti, pamphlet, memorie di operai) contro quelle tradizionali della storia politica (dichiarazioni ufficiali, leggi, scritti politici di

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25 personaggi di partito e membri dell’opposizione, memorie di emigrati e dissidenti).33 Poi invitò gli

storici sociali a ripensare le categorie sociali del periodo stalinista, ad affrontare la questione della mobilità sociale e, in terzo luogo, ad esplorare la prospettiva della società sovietica “dal basso”. Sullo stato della disciplina, Fitzpatrick affermava che gli storici sociali di prima generazione come Lewin e Davies non avevano ancora alterato in modo significativo l’immagine del regime stalinista come unico autore del cambiamento sociale, ma avevano dimostrato solo che il governo sovietico aveva solo un controllo limitato sulle politiche che avviava.34

Il manifesto di Fitzpatrick provocò molte critiche tra gli storici dell’Unione Sovietica, in primis da parte della prima ondata di revisionisti che si erano spesi contro il modello totalitario. Tra questi, per esempio, Alec Nove difese l’attenzione ai processi sociali di storici come Moshe Lewin e Robert Davies, che affrontavano ampiamente le implicazioni sociali delle politiche staliniste.35 Alcuni

revisionisti di seconda generazione, invece, differivano da Fitzpatrick riguardo alla direzione che la disciplina dovesse intraprendere, insistendo sulla necessità di mantenere lo sguardo sul rapporto tra Stato e società nell’era di Stalin e che per comprendere la società gli storici dovessero continuare a studiare il terrore politico e le sue origini.36

Nonostante la chiamata di Fitzpatrick al revisionismo radicale, molti storici che si proclamavano revisionisti di seconda generazione continuarono infatti ad incorporare lo stato nelle loro trattative, anche se nella forma della storia sociale. Tra gli studi sulla collettivizzazione e il rapporto tra il nuovo regime e le aree rurali, per esempio, lo studio di Lynne Viola The Best Sons of

the Fatherland più che un esempio di storiografia sociale dal basso, rappresenta un’analisi

interessantissima del ruolo dei gruppi intermedi nell’implementazione della collettivizzazione.37 In

33 Vedi nota 7 sulle nuove fonti a disposizione degli storici occidentali. Per le fonti della storia sociale vedi Fitzpatrick e Viola, Researcher’s Guide.

34 Fitzpatrick, «New Perspectives on Stalinism», 373.

35 Cfr. Alec Nove, «Stalinism: Revisionism Reconsidered», Russian Review 46, n. 4 (1987): 412–17.

36 Vedi per esempio Roberta T. Manning, «State and Society in Stalinist Russia», The Russian Review 46, n. 4 (1987): 408.

37 Vedi Lynne Viola, The Best Sons of the Fatherland: Workers in the Vanguard of Soviet Collectivization (New York: Oxford University Press, 1987).

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26 questo libro, l’autrice esamina l’esperienza dei cosiddetti 25.000 (dvadcatipjatitysjačniki), volontari reclutati dal Comitato Centrale tra il proletariato delle maggiori città industriali per partecipare alla collettivizzazione e per servire come prima squadra dirigente delle fattorie collettive durante il primo piano quinquennale.

Attraverso l’analisi della campagna di reclutamento e dell’attività dei volontari nelle campagne, lo studio di Viola gettò nuova luce sulla capacità di mobilitazione da parte dello stato, il che dimostrò che la “rivoluzione dall’alto” di Stalin godeva in effetti di una forte base di supporto nella classe operaia. Perfettamente in linea con il metodo della seconda ondata revisionista, quello di Viola è il primo lavoro che si concentra su uno specifico gruppo di attori provenienti dai “ranghi bassi delle truppe d’assalto nella rivoluzione del primo piano quinquennale”, piuttosto che sulle decisioni prese nelle alte sfere del partito.38 La conclusione è che senza questi settori sociali della popolazione,

prevalentemente urbani, la rivoluzione non avrebbe potuto avere luogo.

Lo stesso argomento è sostenuto ampiamente da Fitzpatrick riguardo alla società staliniana nel suo complesso, e rappresenta in un certo senso l’assunto di base della storia sociale revisionista di questi anni. Affermare in occidente che i programmi staliniani della collettivizzazione e del primo piano quinquennale avessero una “componente proletaria”, non soltanto contraddiceva la tesi totalitaria di una società inerte e passiva, ma presupponeva anche che le politiche staliniane godevano di effettivi beneficiari nella struttura sociale, e che numerose persone in Unione Sovietica possedevano ambizioni e risentimenti che contribuirono a creare la base sociale di supporto per le politiche staliniane e la successiva intellighenzia sovietica.39

38 Viola, 5.

39 Vedi Sheila Fitzpatrick, The Cultural Front: Power and Culture in Revolutionary Russia (Bloomington, In., 1978); Sheila Fitzpatrick, Education and Social Mobility in the Soviet Union (Cambridge University Press, 1979).

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3. La rivoluzione archivistica e gli studi socioculturali sulla collettivizzazione

Nel frattempo, gli eventi storici procedevano velocemente e in parallelo ai dibattiti accademici, influenzandone il corso. La glasnost’ di Gorbaciov, e successivamente il crollo dell’Unione Sovietica, ebbero importantissime ripercussioni sulla ricerca storiografica, in quanto numerosi documenti precedentemente secretati furono resi accessibili a ricercatori russi e occidentali. Di conseguenza, la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 videro la pubblicazione di importanti studi sullo stalinismo, inclusa la collettivizzazione delle campagne.

In Unione Sovietica, segnali di questa nuova apertura si videro già dal 1986, con la pubblicazione del primo volume di una nuova storia dei contadini sovietici che, seppur seguendo una linea ortodossa, faceva per la prima volta riferimento a molte questioni precedentemente tabu come la carestia del 1932-33.40 Già nel 1987 i problemi della collettivizzazione venivano apertamente

discussi in molti giornali e riviste da parte sia della generazione di storici degli anni di Chruščev (istoriki agrarniki) che di studiosi più giovani.41 Grazie al nuovo clima di apertura, ormai gran parte

degli storici revisionisti sovietici condannava la collettivizzazione sotto aspetti precedentemente inesplorati. Sebbene alcuni continuassero a sostenerla in linea di principio, le modalità della sua implementazione e il suo sviluppo furono largamente condannate. Soprattutto si negava ormai completamente la tesi del supporto contadino alla collettivizzazione, derivata dalla propaganda staliniana, mentre si rinnovava l’interesse per l’analisi della struttura sociale nelle campagne. In questi anni si cominciò a mettere seriamente in discussione la scientificità del ricorso alle categorie classiche di bedniak, serednjak e kualk, che vennero progressivamente indicate come strumentali dal punto di vista propagandistico e di significato più politico che propriamente socioeconomico, secondo il grado

40 Istorija krest’janstva SSSR: istorija sovetskogo krest’janstva (Moskva: Nauka, 1986). La parte riguardante la carestia si trova in vol.2 pag. 256-265.

41 Per un resoconto generale dell’attività storiografica sovietica durante la glasnost’ in lingua inglese vedi Robert W. Davies, Soviet History in the Gorbachev Revolution (Bloomington, In., 1989), 46–58; Takayuki Itō, a c. di, Facing up to

the past: Soviet historiography under perestroika (Sapporo: Slavic Research Center, Hokkaido University, 1989); Evel

Economakis, «Soviet Interpretations of Collectivization», The Slavonic and East European Review 69, n. 2 (1991): 257– 81.

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28 di opposizione al potere centrale.42 Tichonov arrivò addirittura a negare completamente l’esistenza

del kulak nelle campagne.43

In particolare, furono proprio gli anni della Nep ad essere oggetto di riflessioni e di riesame nel periodo della perestroika. Questo nuovo interesse era dipeso non soltanto dalle nuove possibilità espressive e di ricerca offerte dalla glasnost’, ma anche dall’analogia che prese piede nel dibattito pubblico di economisti e giornalisti tra gli anni ’20 e le necessità del riformismo socialista nella seconda metà degli anni ’80. Lo stesso Gorbačiev aveva giocato con questo parallelo al XXVII Congresso del partito nel 1986, quando propose l’introduzione di “una specie di prodnalog leninista nelle condizioni attuali”.44 Insieme alla rivalutazione complessiva di questo precedente storico,

vennero ricercati alcuni aspetti particolari della Nep anche a livello storiografico. In particolare, la riabilitazione di alcuni personaggi economici e politici aprì la strada alla valutazione di visioni e percorsi alternativi del socialismo, che rimpiazzarono l’ortodossia degli anni di Brežnev. Tra le figure scientifiche, la riabilitazione delle autorevoli voci del “Partito laburista dei contadini” nel 1987, gli economisti agrari Alexander Čajanov e Nikolaj Kondrat’ev, incentivò il riesame della struttura sociale delle campagne menzionato precedentemente anche nel tentativo di esplorare le alternative al

42 Vedi V. Tikhonov in Kommunist, 1989, 5, 101; Gennadij A. Bordiugov e Vladimir A. Kozlov, «Povorot 1929 i al’ternativa Bucharina», Voprosy istorii KPSS 8 (1988); Viktor P. Danilov e Nikolaj A. Ivnickij, a c. di, Dokumenty

svidetel’stvujut. Iz istorii derevni nakanune i v chode kollektivizacii (I927-I932 gg.) (Moskva, 1989). Come si vedrà nelle

pagine seguenti, quello della definizione strumentale delle categorie sociali della campagna tra il 1929 e il 1929 rimane tutt’oggi uno dei campi di studio più esplorati dagli storici russi.

43 Literaturnaja gazeta, 3 Agosto 1988.

44 Pravda, 26 febbraio 1986. Il prodnalog, o imposta in natura, fu il primo atto della Nuova politica economica inaugurata da Lenin nel 1921.

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29 progetto di collettivizzazione.45 L’anno successivo, la riabilitazione di Bucharin inaugurò un serio

dibattito sulle alternative politiche a Stalin prima della sua ascesa.46

L’apertura degli archivi e il crollo del comunismo accelerarono ulteriormente lo sviluppo della storiografia russa e occidentale sia sotto il profilo delle fonti che su quello delle direttrici di ricerca. Nei primi anni ’90, Danilov e Ivnickij, insieme ai loro allievi più giovani come Krasil’nikov e Kondrašin e in collaborazione con colleghi occidentali, iniziarono importanti progetti di studio del mondo contadino da cui uscirono importanti raccolte documentarie.47 La sempre maggiore

documentazione a disposizione intensificò la tendenza a portare alla luce aspetti precedentemente sepolti della storia sovietica, come le carestie dei primi anni ’30 e la deportazione di milioni di contadini in regioni remote del paese con lo status di “coloni speciali” (specpereselency).48

In questi anni, l’insistenza sull’immenso trauma causato dalla politica stalinista nei confronti di tutta la campagna portò alla diffusione del concetto di “decontadinizzazione” (raskrest’janivanie) per

45 Vedi per esempio Viktor P. Danilov, «Introduction: Alexander Chayanov as the Theoretician of the Co-operative Movement», in The theory of peasant co-operatives (Columbus: Ohio State University Press, 1991), xi–xxxv. In particolare si prese in considerazione l’idea di “collettivizzazione cooperativa”, che criticava la concentrazione orizzontale (fattorie intere) della produzione tipica della collettivizzazione così come sperimentata nella prima ondata del 1919, e invitava invece a seguire un procedimento verticale: graduale e sequenziale separazione dei settori di specializzazione dalle singole fattorie e la loro organizzazione come imprese pubbliche. Cfr. la traduzione inglese dell’opera pubblicata nel 1919 Aleksandr V. Čajanov, The theory of peasant co-operatives (Columbus: Ohio State University Press, 1991), 21.

46 Vedi Bordiugov e Kozlov, «Povorot 1929 i al’ternativa Bucharina»; Viktor P. Danilov, Vo stroitel’stva novogo

obshchestva. Istoricheskii opyt deiatel’nosti KPSS v perekhodnyi period (Moskva, 1988).

47 Tra queste si vedano in particolare Viktor P. Danilov, Roberta T. Manning, e Lynne Viola, a c. di, Tragedija sovetskoj

derevni. Kollektivizacija i razkulačivanie. Dokumenty i materialy. Tom 1 maj 1927 - nojabr’ 1929 (Moskva: Rosspen,

1999); Alexis Berelowitch e Viktor P. Danilov, a c. di, Sovetskaja derevnja glazami VChK, OGPU, NKVD, 1918-1939.

Dokumenty i materialy, 4 vol. (Moskva: Rosspen, 1998).

48 In particolare, si ricordano i lavori di Krasil’nikov sui “coloni speciali” della Siberia occidentale Specpereselency v

Zapadnoj Sibiri, 1938, 3 vol. (Novosibirsk, 1996); Serp i Moloch. Krest’ianskaja ssylka v Zapadnoj Sibiri v 1930-ye g. (Moskva: Rosspen, 2003). Viktor Kondrašin, il maggiore specialista russo delle carestie degli anni ’30, come i suoi

insegnanti Danilov, Zelenin e Ivnickij e in contraddizione con la maggioranza dei suoi colleghi ucraini sulla specificità dell'Holodomor, rifiuta qualsiasi intenzionalità genocida da parte di Stalin nei confronti della popolazione ucraina, considerando che essa colpì molte altre regioni contadine sovietiche, comprese le regione del Volga e la regione centrale delle Terre Nere, a maggioranza russa. Per Kondrašin queste carestie sono da considerarsi una “tragedia comune sovietica”, conseguenza diretta della collettivizzazione forzata e dei prelievi statali sproporzionati ai raccolti. Viktor V. Kondrašin, Golod 1932-1933 godov: tragedija rossiiskoj derevni (Moskva: Rosspen, 2008).

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30 caratterizzare le conseguenze di vasta portata e di lungo termine dell’offensiva stalinista sulla campagna russa. Coniato inizialmente da Viktor Danilov, il termine decontadinizzazione era pensato per rimpiazzare quello più consolidato di dekulakizzazione, implicando quindi un antagonismo non soltanto tra il partito e una piccola minoranza di contadini benestanti, ma tra la leadership e la società contadina nel suo insieme.49

Su questo tema si è concentrata gran parte dell’analisi storiografica post 1991 sia in Russia che in Occidente, dalla quale si può tracciare un graduale spostamento del focus della ricerca dal piano economico e sociale a quello politico e soprattutto culturale del confronto tra il partito e la comunità contadina, intesi come poli di due opposti progetti di modernizzazione. Lo storico russo Il’inych, per esempio, considera la decontadinizzazione come la tendenza generale dello sviluppo sociale del villaggio lungo tutti gli anni ‘30, che comportò la formazione di una comunità completamente nuova a seguito della distruzione traumatica delle forme tradizionali operata della collettivizzazione.50

Similmente, Oleg Chlevniuk ha definito la collettivizzazione come una sanguinosa campagna distruttiva che ha colpito la campagna sovietica a partire dal 1929 e che per essere attuata suggerì la ricerca di nemici interni, mentre anche lo storico di vecchia generazione Zelenin ha recentemente dichiarato che la collettivizzazione distrusse le basi dell’esistenza dei contadini in quanto tali.51

In ambito anglosassone, la nuova prospettiva dell’antagonismo culturale tra élite bolscevica e comunità rurale si è sviluppata soprattutto in relazione agli studi sulla resistenza contadina. Dopo l’apertura degli archivi molti studiosi tentarono di seguire l’appello di Fitzpatrick e studiare la società concentrandosi sulla classe contadina durante il momento di massimo confronto con le autorità

49 Cfr. Irina V. Gončarova, «Sovremennye konceptual’nye podchody v istoriografii kollectivizacii», Učenye zapiski

Orlovskogo gosudarstvennogo universiteta 1, n. 64 (2015): 21; Nicolas Werth, «Food Shortages, Hunger, and Famines

in the USSR, 1928-33», East/West: Journal of Ukrainian Studies 3, n. 2 (2016): 36. Sulla diffusione del termine in Russia vedi per esempio Il’ja E. Zelenin, «Osuščestvlenie politiki “likvidacii kulačestva kak klassa (osen’’ 1930-1932 gg.)”»,

Istorija SSSR 6 (1990); Il’ja E. Zelenin, «Kollektivizacija i edinoličnik (1933-pervaja polovina 1935 g.)», Otečestvennaja istorija 3 (1993); Viktor P. Danilov, Istorija krest’janstva Rossii v XX veke. Izbrannye trudy (Moskva: Rosspen, 2011).

50 Cfr. Vladimir A. Il’inych, «Raskrest’janivanie sibirskoij derevni v sovetskij period: osnovnye tendencii i etapy»,

Rossijskaja istorija 1 (2012).

51 Cfr. Oleg V. Chlevnjuk, Chozjain. Stalin i utverždenie stalinskoij diktatury (Moskva: Rosspen, 2010); Il’ja E. Zelenin,

Stalinskaja revoljutsija sverchu posle «velikogo pereloma». 1930-1939: politika, osuščestvlenie, rezul’taty (Moskva:

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31 sovietiche. La questione della resistenza contadina divenne uno dei temi dominanti e più degni di nota tra questi nuovi studi sulla collettivizzazione. Il primo contributo importante è proprio di Fitzpatrick, che in Stalin’s Peasants offrì un documentatissimo resoconto della società rurale sovietica e del suo rapporto con l’autorità dalla fine degli anni ’20 fino alla seconda guerra mondiale, esplorando la gamma di strategie che i contadini utilizzarono per far fronte al trauma inflitto dalla collettivizzazione, durante e successivamente alla sua implementazione.52 L’assunto di partenza

èerache i contadini debbano essere considerati alla stregua di un gruppo “subalterno” nella società sovietica, in virtù della “loro posizione come oggetti di aggressione e sfruttamento da parte di istituzioni e individui sovraordinati”.53 In linea con la metodologia recentemente elaborata da James

C. Scott nei suoi studi sulle strategie di resistenza contadina,54 Fizpatrick allargò il concetto oltre le

forme esplicite e organizzate di ribellione, per cui i metodi subalterni diventano tutti quei sistemi tramite cui “una persona che si suppone debba prendere ordini piuttosto che darli cerca di ottenere ciò che vuole”.55

Con le sue vaste ricerche sul caso,56 Fitzpatrick concluse che le strategie di resistenza dei

contadini durante la collettivizzazione potevano ricondursi prevalentemente a forme tradizionali di “resistenza quotidiana”, di forma più passiva che attiva. Queste, secondo l’elaborazione di James C. Scott, includono un repertorio di comportamenti che si riscontrano genericamente in ogni sorta di lavoro forzato in tutto il mondo e che consistono in pratica nelle varie forme di luddismo e inefficienza volontaria sul lavoro. Riguardo al caso in questione, Fitzpatrick sostenne che tali comportamenti abbiano fatto parte della relazione tra i contadini russi e i loro signori fin dall’epoca del servaggio,

52 Sheila Fitzpatrick, Stalin’s Peasants: Resistance and Survival in the Russian Village after Collectivization (Oxford University Press, 1994).

53 Fitzpatrick, 5.

54 Vedi James Scott C., Weapons of the Weak: Everyday Forms of Peasant Resistance (New Haven, 1985). 55 Fitzpatrick, Stalin’s Peasants, 5.

56 Il materiale portato all’attenzione da Stalin’s Peasants consiste in un vasto insieme di fonti archivistiche e pubblicistiche (riviste e giornali centrali e locali, gli archivi del Commissariato del Popolo per l’Agricoltura, del giornale contadino Krest'janskaja gazeta, e quelli delle regioni di Smolensk e Sverdlovsk) oltre a fare riferimento a varie pubblicazioni specializzate di storici russi e sovietici.

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32 spesso come episodi singoli o estemporanei. Nei primissimi anni ‘30, tuttavia, quando tra i contadini si diffuse la convinzione per cui lo stato sovietico si presentava come nient’altro che un nuovo padrone che attraverso l’istituzione del kolchoz esigeva una nuova barščina,57 simili comportamenti

raggiunsero livelli altissimi. Questo portò l’autrice a concludere che certamente i nuovi kolchozniki stessero coscientemente mettendo in pratica forme di resistenza subalterna, che si esprimevano in modo particolare attraverso azioni dimostrative di inerzia e apatia, rifiuto di seminare e riduzione della superficie coltivata. Confermata ampiamente dalla storiografia successiva, Fitzpatrick dimostra attraverso i report della polizia degli anni ‘30 che la stragrande maggioranza dei contadini “detestava fortemente Stalin, e lo incolpava personalmente per la collettivizzazione e per la carestia”, mentre se pur cercando di adattarsi alla nuova condizione questa veniva percepita generalmente come “seconda schiavitù”.58

In un lavoro sulla resistenza contadina di poco successivo, Lynne Viola rappresenta la società rurale come una forza fondamentalmente coesa nel periodo del massimo confronto con lo stato sovietico. In Stalin e i ribelli contadini, tradotto in italiano in una edizione a cura di Andrea Romano, l’autrice sostiene che fino ad allora gli studiosi occidentali non erano riusciti ad affrontare esaustivamente il tema della resistenza contadina e che ne avevano piuttosto perpetuato l’immagine di un gruppo sociale sostanzialmente “inerte, passivo, ridotto ad oggetto e reso storicamente immobile dal monolite totalitario”,59 o avevano minimizzato la resistenza contadina contro la collettivizzazione

a “rimostranze e lamentele di ogni tipo”.60

Viola discute le numerose forme di resistenza passiva menzionate dalla storiografia precedente, soffermandosi in particolare sul tema delle “conversazioni” e delle “voci” (narrazione quotidiana che

57 Lavoro obbligatorio e gratuito prestato dai contadini non liberi nelle terre del padrone (privato, statale o ecclesiastico che fosse) in vigore fino all’abolizione del servaggio nel 1861.

58 Ibid., 17, 67.

59 Lynne Viola, Stalin e i ribelli contadini (Soveria Mannelli: Rubettino, 1999), 19. Qui l’autrice si riferisce in particolare ai due principali studi politici sulla collettivizzazione (Lewin, Contadini e potere sovietico; Davies, Socialist Offensive.) già menzionati in questa rassegna.

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33 circolava nelle campagne, dove i simboli dell’apocalisse e della schiavitù venivano usati per caratterizzare lo stato e il nuovo regime) dalle quali però ricava un quadro nuovo e differente della società contadina. In più occasioni l’autrice fa riferimento a questa come a un’entità singola, usando parole come “solidarietà”, “omogeneità”, “unità” e “coesione” per descrivere le relazioni tra i contadini. Pur considerando le varie forme di resistenza attiva contro lo stato come il banditismo, l’incendio doloso e l’omicidio dei funzionari, Viola intende questa coesione della comunità contadina meno nel senso di un gruppo sociale politicamente unito contro lo stato e più in termini di “cultura”.

Conducendo la sua analisi attraverso il prisma della resistenza, l’autrice rileva tra i contadini sovietici un’unità culturale fatta di linguaggio, folclore, comportamenti e azioni spesso costruiti in antitesi allo stato-nemico, che fanno dell’incontro con il regime sovietico essenzialmente uno scontro tra culture antagoniste, dove i contadini lottano per preservare la loro identità ed il loro modo di vivere all’interno e contro una cultura dominante ed aliena.

Il radicamento di una forte cultura contadina è stato testimoniato anche da recenti studi sulla resistenza dei soldati contadini, contraddicendo la tesi propagandistica bolscevica degli anni ‘20 per cui l’irreggimentazione nell’Armata rossa avrebbe provveduto all’educazione politica dei contadini garantendone la lealtà nei confronti del regime. Nella sua storia sociale dell’Armata Rossa, Roger Reese sostiene che il regime stalinista non riuscì nell’intento di creare una forza militare ben addestrata, coesa e politicamente indottrinata che potesse funzionare come mezzo di costruzione ed esportazione del socialismo.61 In particolare, nel caso delle requisizioni del grano del 1928 e poi della

collettivizzazione, molti soldati erano riluttanti nel sostenere l’azione del regime nelle campagne per via della provenienza contadina di gran parte delle reclute, e questi soldati contadini non volevano partecipare alla distruzione violenta della struttura sociale nella quale erano cresciuti.62

61 Roger R. Reese, Stalin’s Reluctant Soldiers: A Social History of the Red Army, 1925-1941 (University Press of Kansas, 1996).

62 L’ambivalenza dell’Armata Rossa rispetto alla collettivizzazione rese comunque discutibile la lealtà dei soldati nei confronti dello stato e del partito, finché nella primavera del 1930 l’esercito fu essenzialmente ritirato come forza impiegabile nel processo della collettivizzazione. Fu probabilmente anche per questo motivo che il partito puntò molto sulle bande volontarie di operai presenti nelle città per portare avanti la collettivizzazione proprio tra il 1929 e il 1930. Vedi Viola, Best Sons.

(34)

34 Lo stesso tema è stato ripreso anche nel contesto accademico italiano in un interessante studio di Andrea Romano.63 La vicenda dei soldati-contadini è qui ripercorsa attraverso un largo uso degli svodki, i rapporti informativi redatti dagli organi politici dell’Armata Rossa sulla base delle lettere

che i familiari inviavano ai militari. Sotto richiesta delle autorità centrali, i rapporti dovevano riferire gli umori della popolazione in relazione ad eventi o decisioni politiche. Attraverso questa fonte l’autore dimostra come il rapporto epistolare tra i soldati di origine contadina e le loro famiglie divenne “un autentico strumento di espressione collettiva di opposizione” per via degli stretti contatti che ancora esistevano con la comunità di provenienza.64

L’interpretazione della popolazione rurale come comunità culturale piuttosto che socioeconomica cambia quindi completamente la questione della solidarietà contadina rispetto alla storiografia precedente, che per lo più l’aveva affrontata in termini di coscienza di classe e stratificazione interna. Una parte considerevole della storiografia recente ha quindi operato un cambio di prospettiva trattando la società contadina dal punto di vista di una comunità culturale sotto attacco, che come una comunità nazionale si caratterizza per un alto grado di segmentazione e stratificazione interna, la cui coesione è legata alla situazione e al contesto, ed emerge più frequentemente negli scontri con gli “estranei”.65 In questo senso, la collettivizzazione ebbe l’effetto di rinvigorire la

comunità contadina contro gli sforzi di uno stato che nell’intento di prelevarne le risorse vitali per la tenuta del progetto rivoluzionario finì per imbattersi in una “colonizzazione interna delle campagne”, puntando allo “sradicamento della cultura e dell’autonomia contadine e all’assimilazione forzata della cultura dominante”.66

La “decontadinizzazione” della società sovietica, nel senso di una battaglia culturale contro l’oscurità del villaggio contadino, è secondo quella che Irina Gončiarova ha chiamato la “prospettiva

63 Andrea Romano, Contadini in Uniforme: L’Armata Rossa e La Collettivizzazione Delle Campagne (L. S. Olschki, 1999).

64 Romano, 215.

65 Viola, Stalin e i ribelli contadini, 22. 66 Viola, 17.

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