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Lo spazio russo-sovietico e la dimensione coloniale

1. Il concetto di colonialismo interno

A grandi linee, una colonia interna è una colonia che esiste all’interno dei confini di uno stato che la colonizza. Il termine si usa per descrivere disuguaglianze strutturali, politiche ed economiche, all’interno dei confini di uno stesso stato, e per descrivere lo sfruttamento di gruppi minoritari all’interno di una stessa società, considerate simili alla relazione tra colonie e madrepatria nel colonialismo propriamente detto. Dal punto di vista culturale, il termine connota l’egemonia di una data cultura all’interno dei confini nazionali, reali o immaginati.

Nonostante la forza suggestiva di questa immagine, però, la letteratura su questo concetto non è stata in grado di formulare un’interpretazione organica e condivisa nel corso degli ultimi decenni. Oggigiorno questa raccoglie piuttosto innumerevoli modelli interpretativi relativi a svariati contesti di applicazione, risultato di studi condotti in differenti ambiti disciplinari che hanno toccato aree

49 appartenenti ai cinque continenti in diversi momenti storici. Ciò ha portato alla formulazione di diverse tesi su ciò che vada inteso per colonialismo interno e sull’analisi dei contesti a cui via via questo veniva applicato. In questa parte si cercherà di offrire un quadro il più possibile sintetico dell’evoluzione di questo concetto.

Non a caso, alcune delle sue prime formulazioni sono da ritrovarsi proprio tra alcuni importanti studiosi russi nel corso del XIX secolo. Tra questi, storici come Afanasij Ščapov, Sergej Solov'ëv e Vasilij Ključevskij96 hanno analizzato la storia russa attraverso il prisma della colonizzazione,

identificando l’espansione nazionale con quella territoriale, affermando che la Russia aveva costituito se stessa attraverso un incessante processo di colonizzazione interna, fino a smarrire la differenza tra le colonie e lo stesso centro metropolitano.97

Il termine fu utilizzato da Lenin nello stesso periodo, riguardo agli effetti dello sviluppo industriale dell’impero zarista alla fine del secolo. Secondo le sue parole, il sistema di relazioni di scambio che si erano venute a creare ricalcava le stesse caratteristiche che esistevano negli imperi d’oltremare delle potenze europee occidentali, ma in Russia questo era avvenuto all’interno dei confini imperiali creando una frattura tra il settore industriale e l’agricoltura. Riferendosi alle aree di maggiore produzione di frumento destinato all’esportazione,98 scrive:

L’enorme sviluppo della produzione agricola nella zona in questione - si spiega con la circostanza che le regioni steppose periferiche sono divenute, nel periodo posteriore alla riforma, una colonia della Russia europea centrale, già da tempo colonizzata. L’abbondanza di terre libere vi ha attirato numerosi colonizzatori, che hanno ampliato rapidamente i seminativi. Il largo sviluppo dei seminativi mercantili è stato possibile solo grazie allo stretto legame economico di queste colonie alla Russia centrale, da una parte, e con i paesi europei importatori

96 Vedi in particolare Afansij Ščapov, «Zemstvo i raskol», in Sočinenija (San Pietroburgo, 1906); Sergej Solov’ëv, Istoria

Rossii s drevneišich vremen [1851-1879], vol. 2 (Mosca: Mysl’, 1988); Vasilij Ključevskij, Kurs russkoj istorij [1906- 1922], vol. 1 (Mosca, 1956).

97 La tesi del colonialismo interno russo inteso come “auto-colonizzazione” (self-colonization) è centrale in Aleksander Etkind, Internal Colonization: Russia’s Imperial Experience (Oxford: Polity Press, 2011)., che ripercorre l’evoluzione del tema proprio nella storiografia russa.

98 In particolare, si riferisce ai governatorati di Kherson, Bessarabia, Tauride, Don, Ikaterinoslav, Saratov, Samara e Orenburg. Vedi Vladimir I. Lenin, Lo Sviluppo del Capitalismo in Russia, vol. III, Opere Complete (Roma: Editori Riuniti, 1956), 248.

50 di grano dall’altra. Lo sviluppo dell’industria nella Russia centrale e lo sviluppo dell’agricoltura

mercantile nelle regioni periferiche sono inscindibilmente connessi e si creano reciprocamente un mercato. Dal mezzogiorno i governatorati industriali ricevono cereali, smerciandovi i prodotti delle loro fabbriche, e fornendo alle colonie manodopera, artigiani (trasferimento di piccoli industriali nelle zone periferiche), mezzi di produzione (legname, materiali da costruzione, attrezzi, ecc.).99

Dopo la Rivoluzione d’ottobre, Nikolaj Bucharin penetrò più profondamente nella questione dell’assoggettamento delle zone rurali ai distretti industriali in Russia, fino ad elaborarne una teoria su scala storica universale: la teoria della “città-mondo” e della “campagna-mondo”.100 Le sue

argomentazioni fornirono i fondamenti teorici per la necessità di una alleanza (smyčka) tra operai e contadini contro il capitalismo non solo in Russia, ma a livello internazionale. Se i grandi paesi industriali erano le città dell’economia mondiale e le colonie e semi-colonie ne erano la campagna, seguiva logicamente che l’unione del proletariato industriale della città-mondo con i contadini della campagna-mondo in un grande fronte rappresentasse la formula per la rivoluzione mondiale. Anche il suo contemporaneo Evgenij Preobraženskij usò il concetto di colonizzazione interna, anche se in modo decisamente diverso. Essendo uno dei principali oppositori di Bucharin nel lungo dibattito degli anni ‘20 sul modello di modernizzazione che avrebbe dovuto intraprendere l’Unione Sovietica, Preobraženskij vedeva il colonialismo interno come una politica da perseguire al fine di accumulare capitale per lo sviluppo dell’industria pesante, alle spese della classe contadina e del settore industriale.101

Partendo dalle stesse premesse dei teorici russi e in particolare di Lenin, qualche anno dopo Antonio Gramsci descrisse la situazione del Mezzogiorno italiano come quella di una colonia interna dello stato, ridotto allo stato di colonia agraria di sfruttamento dalla borghesia industriale del Nord.102

99 Lenin, III:249.

100 Vedi Stephen F. Cohen, Bucharin e la rivoluzione bolscevica: biografia politica, 1888-1938 (Milano: Feltrinelli, 1975), 153. Vedi anche Nikolaj I. Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo (Roma: Samona & Savelli, 1966). 101 Evgenij A. Preobraženskij, Dalla NEP al socialismo (Milano: Jaca book, 1971).

102 “Alcuni temi della quistione meridionale” Lo Stato operaio, gennaio 1930. In Antonio Gramsci, La Questione

51 Anche se da una posizione politica radicalmente diversa, l’ideologo del corporativismo rumeno Michail Manoilescu elaborò nel 1940 un modello quantitativo di colonialismo interno per il suo paese su basi teoriche analoghe a quelle di Lenin e Gramsci. Traendo la sua posizione dall’analisi delle relazioni commerciali interne, l’economista cercò di dimostrare come le aree urbano-industriali sfruttassero l’entroterra rurale all’interno dei confini nazionali, evidenziando il netto contrasto che esisteva tra la ricchezza della città e la miseria della campagna.103

Durante il periodo stalinista in Unione Sovietica e in generale dalla II guerra mondiale, il concetto di colonialismo interno si prese una lunga pausa, per poi riapparire subito dopo proprio per elucidare i legami esistenti tra totalitarismo e colonialismo. In Le origini del totalitarismo Hannah Arendt elaborò la sua teoria del “boomerang coloniale”, per cui la violenza sperimentata delle potenze europee nelle loro colonie aveva finito per tornare all’origine e integrare il totalitarismo in Europa con i suoi fondamenti teorici e pratici.104 Pochi anni dopo, Aimé Césaire formulò un concetto simile,

il trauma inverso dell’imperialismo, che lui identificava nell’olocausto.105

A partire dalla metà degli anni ’60, il concetto entrò a far parte del linguaggio dei dipartimenti universitari di scienze sociali, prima di tutto nel contesto latino-americano. Secondo un gruppo di studiosi attivo soprattutto in Messico, la natura dei movimenti di indipendenza nazionale in America Latina nel XIX secolo, la perpetuazione di sistemi economici e amministrativi basati sul precedente impianto coloniale e le loro evoluzioni dopo l’indipendenza, avevano prodotto tipi di relazioni sociali che riproponevano lo stesso schema di emarginazione e sfruttamento dei gruppi indigeni durante periodo coloniale.106 A parte le singole specificità dei casi studio analizzati, ciò che è importante è

103 Michail Monoilescu, «Le triangle économique et social des pays agricoles: La ville, le village, l’étranger»,

Intentationale Agrarrundschau 6 (1940): 16–26.

104 Arendt, Le origini del totalitarismo, 216, 237, 311. Il concetto è stato poi ripreso più volte dalla Arendt, vedi per esempio il saggio Sulla violenza (Parma: Guanda, 1996), 58–59.

105 Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, a c. di Miguel Mellino (Verona: Ombre corte, 2014), 55.

106 Vedi per esempio Pablo Gonzalez-Casanova, «Internal colonialism and national development», Studies in

Comparative International Development 1, n. 4 (1965): 27–37; Rodolfo Stavenhagen, «Classes, Colonialism, and

Acculturation», Studies in Comparative International Development 1, n. 6 (1965): 53–67; Eugene Havens e William L. Flinn, a c. di, Internal colonialism and structural change in Colombia (New York: Praeger publishers, 1970).

52 che il concetto di colonialismo interno cominciò qui ad essere sviluppato teoricamente come un paradigma sociologico nei paesi decolonizzati.

Nello stesso periodo, altri scienziati sociali reinventarono il concetto di colonialismo interno con l’intento di applicare il linguaggio coloniale ai problemi interni delle nazioni metropolitane. Il sociologo americano Robert Blauner, per esempio, considerò alcuni aspetti della situazione degli afroamericani negli Stati Uniti, come la ghettizzazione e le sommosse urbane, come processi di colonizzazione interna.107 Mentre il sociologo britannico Michael Hechter usò il concetto di

colonialismo interno in un libro che rivisitava il processo di unificazione e modernizzazione della Gran Bretagna alla luce dei rapporti diseguali esistenti tra la popolazione britannica e le periferie celtiche di Irlanda, Scozia e Galles.108 Hechter parte da una critica del modello “diffusionista”109 dello

sviluppo nazionale, per il quale le regioni centrali e periferiche di uno stato tenderebbero all’omogeneizzazione culturale a seguito dello sviluppo industriale e del concomitante aumento di interazione tra nucleo e periferia, da cui scaturirebbe una comunanza di caratteri e la rottura dei legami sociali tradizionali su cui poggiava l’identità etnica separata. A questo modello, il sociologo contrappone il suo schema di colonialismo interno, che si verifica nei casi in cui il nucleo domina la periferia politicamente e la sfrutta dal punto di vista materiale. L’ondata diseguale della modernizzazione industriale, lungi da sfociare in una convergenza di strutture sociali, cristallizza la distribuzione ineguale delle risorse e di poteri tra i due gruppi attraverso la sua sempre più sofisticata istituzionalizzazione, in cui il gruppo dominante provvederà all’assegnazione dei ruoli sociali di maggior prestigio ai propri membri negandola agli individui dell’altro gruppo. Tale sistema di stratificazione, definito “divisione culturale del lavoro”, contribuirà allo sviluppo di una precisa e antagonista identificazione etnica dei due gruppi.

107 Robert Blauner, «Internal Colonialism and Ghetto Revolt», Social Problems 16, n. 4 (1969): 393–408; Robert Blauner,

Racial Oppression in America (NY: Harper and Row, 1972).

108 Michael Hechter, Il colonialismo interno: il conflitto etnico in Gran Bretagna, Scozia, Galles e Irlanda: 1536-1966 (Torino: Rosenberg & Sellier, 1979).

109 Si tratta di una generalizzazione fatta dallo stesso Hechter, a cui si riferisce come una corrente caratterizzata da un insieme di “componenti derivanti dal lavoro dei sociologi del secolo XIX, altre dagli strutturalisti-funzionalisti contemporanei, altre ancora dai politologi impegnati a fondo nella teoria delle comunicazioni”. 14.

53 Rivisitando il concetto classico, Hechter neutralizza la distanza geografica tra la madrepatria e le sue colonie, considerata la caratteristica chiave del colonialismo britannico e di quello europeo occidentale in generale. Tuttavia, come i sociologi latinoamericani e gli studiosi di relazioni interetniche negli Stati Uniti, pur introducendo la variabile di classe come base del funzionamento del colonialismo interno, nel suo caso studio ha ancora bisogno di basarsi sulla differenza etnica per far funzionare il suo modello. Dopo di lui, il passo successivo fu la decostruzione della differenza etnica dentro il quadro del colonialismo interno, in modo da svelarne le potenzialità analitiche all’interno di un mosaico etnico strutturato dalla reificazione culturale del potere.

In questo senso, il concetto è stato usato dallo storico Eugene Weber, nel suo lavoro sulla modernizzazione della France profonde durante i primi anni della Terza Repubblica. Weber analizza come i contadini venivano “trasformati” in cittadini francesi attraverso un lento, complesso processo di politicizzazione delle campagne, la circolazione di idee, valori e modi di vivere provenienti dalle città all’interno delle aree rurali, un processo da lui definito la “colonizzazione della campagna da parte della città”.110 In questo modo, Weber riprende le formulazioni della tradizione bolscevica e

gramsciana e usa il concetto basandosi sul binomio città-campagna, piuttosto che sulla differenza etnica o nazionale, ma allo stesso tempo ne rileva il carattere culturale, nella misura in cui i due gruppi si considerano estranei l’uno a l’altro.

Ed è proprio sull’interpretazione di città e campagna come unità culturali differenti che si basa Alvin Gouldner, quando prende in considerazione il periodo stalinista come episodio di colonialismo interno.111 Secondo la sua tesi, per colonialismo interno si intende l’uso del potere statale da parte di

una “sezione” della società per imporre tassi di scambio sfavorevoli su di un’altra. Durante il periodo stalinista, le divisioni sociali cruciali sono da considerarsi ideologiche – quindi né nazionali né etniche – e legate al conflitto urbano-rurale. Gouldner afferma che i membri del Partito Comunista in Unione Sovietica non consideravano realmente la maggior parte della società russa come parte della loro stessa comunità morale e politica. Questa distanza culturale annullò di fatto il ricorso a principi di

110 Eugen Weber, Peasants into Frenchmen: The Modernization of Rural France, 1870-1914 (Stanford: Stanford University Press, 1976), 241, 485–96.

54 uguaglianza giuridica, e permise ai leader del partito di perseguire una politica deliberata di sfruttamento, ovvero di accumulazione primitiva socialista o di scambio diseguale. Questa interpretazione lega insieme aspetti dello stalinismo come la collettivizzazione, il terrore, le deportazioni di massa, i trasferimenti di proprietà, la dittatura personale e la crescita della burocrazia, intesi alla luce di “un élite al potere concentrata nei centri urbani che mobilita il suo potere statale con l’intenzione di dominare una società in gran parte rurale a cui si riferisce come un potere coloniale alieno”, e che “vede il contadino come l’indiano sovietico, e la campagna sovietica come una riserva continentale”.112

Una tale interpretazione, che diversamente da quella di Weber considera la relazione coloniale tra campagna e città sotto il segno dello sfruttamento economico, è stata richiamata successivamente da diversi autori in contesti differenti. Nel 1979 Bruce London elaborò la teoria del parassitismo delle

primate cities riferendosi al caso tailandese.113 Il termine è usato per descrivere paesi con città

sproporzionatamente grandi e sviluppate e dintorni meno avanzati, dove la primate city provoca seri problemi alla crescita economica delle aree circostanti, che finiscono per essere sfruttate per garantirle l’afflusso continuo di generi alimentari.114

Tra le più recenti e interessanti teorizzazioni del colonialismo interno oltre la dimensione etnica spiccano due autori russi, Boris Groys e Alexander Etkind, entrambi interessati alla relazione della Russia zarista con la sua stessa madrepatria (heartland), riproponendo la tesi dell’auto-colonizzazione introdotta dagli storici russi del tardo XIX secolo. Nel suo Utopia e cambiamento, Groys sostiene la natura coloniale della relazione della Russia con la sua madrepatria e definisce le riforme di Pietro il Grande come atto inedito di auto-colonizzazione del popolo russo:

Una parte [dei russi] pretendeva in qualche maniera di essere straniera nel modo più spaventoso e minaccioso possibile, e intraprendere di conseguenza una radicale persecuzione di tutto ciò

112 Gouldner, 13,46.

113 Bruce London, «Internal colonialism in Thailand: Primate city parasitism reconsidered», Urban Affairs Quarterly 14 (1979): 485–514.

114 Lo stesso argomento è stato richiamato in molti contesti fino alla sua più recente applicazione sulla classe contadina in Zimbabwe, vedi Munyaradzi Hwami, «Education of the Peasantry in Zimbabwe as Internal Colonialism», SAGE Open 4, n. April-June (2014): 1–10.

55 che fosse russo, trapiantando tutto ciò che c’era di più moderno e occidentale all’epoca, cosa

che dei veri stranieri, se avessero seriamente tentato di conquistare la Russia, con tutta probabilità non si sarebbero presi la briga di fare. Come risultato di questa crudele vaccinazione, tuttavia, la Russia ha salvato sé stessa da una vera colonizzazione da parte di un’occidente superiore a lei sia tecnologicamente che militarmente.115

Seguendo la stessa linea argomentativa, Etkind afferma che lo stesso popolo (narod) russo costituisce il vero alter ego della Russia e primo sito di colonizzazione da parte di esiliati metropolitani e comunità straniere stanziate, contribuendo ad alimentare nel popolo russo un senso di estraneità a sé stesso mai del tutto terminato. Evidenziando la netta frattura tra la nobiltà occidentalizzata e i suoi subalterni, poi, Etkind sostiene che il complesso e rigido sistema degli stati sociali (sosloviia) sia stato inventato e reso necessario nella realtà coloniale interna russa come sostituto della razza, in modo da dividere chiaramente la società tra colonizzati e colonizzatori, mentre la legge sul taglio della barba per le classi alte serviva da marcatore fisico della differenza, come sostituto del colore della pelle.116

A questa operazione di colonizzazione interna, Etkind fa corrispondere una versione particolare di orientalizzazione, corollario culturale di ogni forma di imperialismo. Nella formulazione di Edward Said, l’orientalismo indica il modo in cui l’occidente ha conosciuto l’oriente, cercando di dominarlo prima di tutto a partire dalla capacità di determinare la sua immagine e i discorsi su di esso, fino a farne il luogo in cui risiedeva l’altro, il “diverso” attraverso cui la cultura europea ha acquisito per contrapposizione maggior forza e senso di identità, una “sorta di sé complementare e, per così dire, sotterraneo.”117 Se il distacco occidentale dall’oriente aiutò l’Europa a definire e conoscere meglio se

stessa, lo stesso processo di conoscenza prese una forma differente per una cultura che era essa stessa non del tutto europea. Il sé complementare e sotterraneo per la cultura russa era qualcosa di più consistente, più materiale e più integrato nella vita quotidiana, e quindi di non facile disambiguazione da se stessa. Così l’élite russa ha creato fantasie sui suoi servi contadini, l’oriente della periferia

115 Boris Groys, Utopiia i obmen (Mosca: Znak, 1993), 358. 116 Etkind, Internal Colonization, 102.

56 sociale dell’impero situato nel nucleo culturale e semianalfabeta della Russia etnica, considerato spaventoso, oscuro e intrinsecamente arretrato. Ma allo stesso modo trovava l’oriente in sé stessa, periferia dell’Europa, travestita da occidentale ma incredibilmente simile ai tratti asiatici che attribuiva al suo popolo subalterno. Le Lettere filosofiche di Chaadaev, per esempio, sono un perfetto esempio di questa inversa, auto-orientalizzazione dell’élite russa.118

Concludendo, il concetto di colonialismo interno è stato quindi usato per indicare situazioni di oppressione politica, economica e culturale su base etnica, geografica, ma anche sociale e persino riflessiva. Nelle sue varie formulazioni questo è stato declinato secondo svariati modelli interpretativi che hanno interessato aree appartenenti ai cinque continenti in diversi momenti storici.119 Pare quindi

che la letteratura in merito non fornisca certezze riguardo a un modello teorico condiviso e rigidamente applicabile di colonialismo interno. Tuttavia, il suo largo uso non deve mettere in discussione le potenzialità analitiche del concetto, ma piuttosto evidenziarne la forza descrittiva in sistemi di governo differenziati, segnati da forte disuguaglianza sociale ed economica, dove esiste un sistema centro-periferia con un centro dominante e una periferia dominata e orientalizzata dal discorso culturale egemonico, il tutto all’interno dei confini di un unico stato. Il caso del colonialismo interno russo, come abbiamo visto, ha rappresentato un campo di investigazione importante e particolare sia per quanto riguarda la forma zarista e, più recentemente, nel caso sovietico.

118 Nancy Condee, The imperial Trace: Recent Russian Cinema (New York ; Oxford: Oxford University Press, 2009), 27; Etkind, Internal Colonization, 17.

119 Per una rassegna esaustiva e abbastanza completa delle applicazioni del concetto di colonialismo interno nel mondo vedi Robert J. Hind, «The Internal Colonial Concept», Comparative Studies in Society and History 26, n. 3 (1984): 543– 68; Joseph L. Love, «Modeling Internal Colonialism: History and Prospect», World Development 17, n. 6 (1989): 905– 22; John Liu, «Towards an understanding of the internal colonial model», in Postcolonialism: Critical concepts in literary

and cultural studies, a c. di Diana Braun, vol. 4 (London: Routledge, 2000), 1347–1364; Peter Calvert, «Internal

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