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Lo spazio russo-sovietico e la dimensione coloniale

4. La campagna sovietica come colonia interna

Certo è che, se si elimina la discriminante nazionale e si considera il colonialismo interno dal punto di vista del potere, dell’economia e della cultura non russe ma sovietiche, potenzialmente tutta la popolazione tranne la burocrazia comunista diventa periferia. Come si a lungo discusso nella prima parte di questo capitolo, la natura totalitaria dello stalinismo è stata messa profondamente in discussione dalla storiografia occidentale a partire dagli anni ’70, per via del fatto che esistevano gruppi interessati ad appoggiare sinceramente il regime. Nonostante questo, la lealtà al regime poteva essere messa in discussione in ogni momento, per individui e interi gruppi sociali compresa la stessa burocrazia comunista, e questo rendeva di fatto l’intera popolazione sovietica estranea al potere, e viceversa. Se inoltre si considera la dottrina marxista-leninista come mission civilisatrice invece che

65 come pura ideologia, come indicato per esempio nuove tendenze storiografiche sullo stalinismo che abbiamo revisionato nella prima parte di questo capitolo,145 è chiaro che in uno stato prevalentemente

agricolo con una classe operaia avente scarsa coscienza di classe tutto il paese appare politicamente incivilizzato. In questo senso pare opportuna la formula di Etkind anche per il contesto sovietico, di uno stato che colonizza sé stesso e il suo stesso popolo, politicamente e culturalmente.

All’interno del popolo, tuttavia, è possibile riconoscere categorie più svantaggiate dal progetto sovietico e soprattutto stalinista. Dal punto di vista giuridico ed economico, ai contadini sovietici cominciò ad essere riservato dalla fine degli anni ’20 un trattamento discriminatorio particolare come restrizioni alla mobilità per la privazione del passaporto interno, periodiche requisizioni di grano a partire dal 1918,146 collettivizzazione forzata, deportazioni, carestie. Tra i tanti episodi di “guerra di

classe” che hanno segnato lo stile di convivenza in Unione Sovietica, la dekulakizzazione è stata quella che ha avuto carattere più violento, massivo e duraturo, creando un solco incolmabile tra la società contadina e il nuovo regime. Lanciata definitivamente da Stalin nel giugno 1929, la “liquidazione dei kulaki come classe” infatti non prevedeva solo l’espropriazione di chi era effettivamente classificato come kulak e dei loro “fiancheggiatori” (podkulačniki), ma piuttosto valse come parola d’ordine di ogni tipo di violenza contro un nemico potenzialmente rappresentato dall’intero mondo contadino.147

145 Hedin, «Stalinism as a Civilization». Vedi in generale l’ultimo paragrafo della prima parte di questo capitolo “La svolta culturale e l’ideologia come discorso”.

146 Roj Medvedev ha brillantemente fatto notare lo stretto legame esistente tra il comunismo di guerra, derivante dai decreti economici e politici emanati dai bolscevichi nella primavera 1918, e la successiva campagna di collettivizzazione. Secondo lo storico la guerra civile non era un evento necessario e fatale, ma si sarebbe potuta evitare adottando politiche diverse che avrebbero cambiato anche il corso delle relazioni tra stato e contadini. Roj A. Medvedev, Dopo la rivoluzione.

La primavera 1918 (Pgreco, 2017).

147 Nel maggio del 1929, il Sovnarkom aveva passato un decreto che formalizzava la nozione di “azienda agricola kulaka” (kulackoe chozjajstvo) come avente almeno una delle seguenti caratteristiche: uso di manodopera; uso di un mulino, di un birrificio, altre attrezzature di lavorazione o un veicolo a motore; noleggio periodico di attrezzature o mezzi agricoli; coinvolgimento in attività commerciali, prestito di denaro, intermediazione o altre fonti di reddito non salariale. Vedi

Kollectivizacija sel’skogo chosjajstva. Važnejšie postanovlenija Kommunističeskoj partii i sovetskogo pravitel’stva, 1917-1935 (Mosca: Accademia delle Scienze URSS, 1957), 163. Secondo l’ultimo punto, ogni contadino che vendeva il

suo surplus sul mercato poteva essere automaticamente classificato come kulak. Nel 1930 questa lista fu estesa, includendo coloro che affittavano impianti industriali o affittavano terra ad altri contadini, mentre agli ispolkomi (comitati esecutivi dei soviet) degli enti locali fu dato il diritto di aggiungere qualsiasi criterio di definizione del kulak a seconda

66 L’argomento della campagna sovietica come colonia interna dello stato è in qualche modo presente in letteratura, anche se ad oggi mancano contributi che affrontano la questione nello specifico dell’analisi discorsiva. Forse lo studio più esplicito sul caso è quello di Gouldner sullo stalinismo, ma come si è visto l’autore affronta il tema soltanto dal punto di vista socioeconomico e in modo piuttosto sbrigativo, con argomentazioni enunciative più che investigative del fenomeno. Sebbene l’immagine che offre di un partito comunista culturalmente alieno alla stragrande maggioranza della Russia, che impone sfavorevoli tassi di scambio ai contadini in nome dell’intera ristrutturazione della società sia molto brillante, e fornisca un utile punto di partenza per l’analisi di questo tipo particolare di relazione, Gouldner si limita a darle il nome, non si allaccia a nessuna tradizione di pensiero, non approfondisce oltre la questione né si interroga sugli strumenti più adatti alla sua comprensione.

Per quanto riguarda la storiografia, alcuni importanti storici hanno accennato alla natura coloniale della politica interna Russa, ma non hanno mai elaborato nello specifico questa tesi.148

Inoltre, come si è visto nella prima parte di questo capitolo, alcuni storici sovietici hanno parlato esplicitamente di colonialismo interno o di “seconda schiavitù” in riferimento alla collettivizzazione delle campagne e alla dekulakizzazione. Soprattutto gli studi storiografici condotti all’indomani dell’apertura degli archivi sono i maggiori sostenitori dell’argomento.149 Tuttavia, come abbiamo

visto, anche se questi studi si riferiscono ampiamente ai contadini come colonia interna non solo dal punto di vista materiale ma anche culturale, neanche questi autori mettono al centro della ricerca questo tipo particolare di relazione.

In generale, la distanza culturale tra l’élite istruita, europeizzata e prevalentemente urbana e le masse rurali, non toccate dall’europeizzazione e per lo più analfabete è stata ampiamente rimarcata,

delle particolari condizioni del territorio. Vedi Robert Conquest, Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia

terroristica (Fondazione Liberal, 2004).

148 Vedi per esempio Fernand Braudel, Capitalism and Material Life: 1400-1800 (London: Weidenfeld, 1967), 62; Marc Ferro, Colonization: A Global History (London: Routledge, 1997), 49; Lieven, Empire, 257; Timothy Snyder, Terre di

sangue: l’Europa nella morsa di Hitler e Stalin (Milano: Rizzoli, 2011), 440.

149 Vedi soprattutto Viola, Stalin e i ribelli contadini, 17, 62–63, 88, 400, 412; Lynne Viola, The Unknown Gulag: The

Lost World of Stalin’s Special Settlements (New York: Oxford University Press, 2007), 4, 15, 79, 186; Fitzpatrick, Stalin’s Peasants, 4, 128–51.

67 almeno a partire dalla tradizione intellettuale slavofila. In una delle migliori elaborazioni culturali di questo divario, Michael Černiavsky ne individua l’origine a partire dal regno di Ivan IV e la nascita di un nuovo concetto di stato.150 L’identità russa che ne emerse comprendeva due diversi progetti

identitari che nel tempo sono stati rappresentati come opposizione tra città e campagna. Il primo, l’élite che poi avrebbe amministrato lo stato, per via della sua ipertrofia non riuscì mai ad integrare le masse, conservando per lungo tempo un senso di appartenenza prevalentemente dinastico e extranazionale di identificazione con le élite occidentali, slegato da una conoscenza locale ed intima della vita nelle aree rurali che costituivano gran parte del territorio russo. Il progetto identitario del

demos, per cui la cultura, la lingua e la moda occidentale non aveva alcuna rilevanza, aveva anch’esso

un’idea astratta dei confini dello stato poiché si interessava esclusivamente alle questioni locali e da queste ricavava la sua interpretazione del mondo.151

Esistono ricerche degne di nota sulla rappresentazione della classe contadina russa da parte dell’élite, che usano i metodi della storia intellettuale. Nonostante la separazione tra i due progetti identitari russi, esiste infatti un ampio accordo tra studiosi e critici letterari sul fatto che definire il contadino russo sia una questione profondamente legata alla definizione del sé, e in ultima analisi della Russia stessa. Uno dei contributi più interessanti appartiene a Cathy Frierson, che in Peasant

Icons affronta il dibattito intellettuale russo intorno alla questione contadina nei primi trent’anni dopo

l’emancipazione. L’autrice inquadra l’oggetto del suo studio all’interno di una cornice discorsiva egemonica che, pur non facendo alcun riferimento esplicito alla condizione coloniale, somiglia molto alla premessa teorica di Orientalismo di Said. Frierson, infatti, riguardo agli intellettuali russi impegnati nel dibattito scrive:

Si trattava un gruppo di istruiti membri della società che si confrontava con qualcosa che trovava inquietante e strano - i contadini - un territorio sconosciuto che intendeva conquistare attraverso la descrizione, attraverso la lingua, attraverso i testi che ne avrebbero facilitato la comprensione.152

150 Michael Cherniavsky, Tsar and people: studies in Russian myths, 2o ed. (New York: Random House, 1969), 51. 151 Hosking, Empire and nation in Russian history, 8.

68 Nonostante le ampie premesse teoriche illustrate in questo capitolo, tuttavia, non esistono analoghi studi riguardo al dibattito intellettuale sovietico riguardo alla questione contadina nel contesto della collettivizzazione. All’indomani della rivoluzione è infatti riscontrabile una continuità con la secolare separazione culturale tra élite e narod tipica della società russa, così come la collettivizzazione ha riproposto e forse inasprito le condizioni materiali della relazione diseguale tra città e campagna. Allo stesso tempo, la cultura marxista-leninista imposta come nuova mission

civilisatrice e la successiva ristrutturazione della società secondo il progetto di modernizzazione

sovietico, hanno apportato considerevoli novità intellettuali al discorso sul contadino. A mio parere queste novità restano ad oggi insufficientemente esplorate. In particolare, manca un’analisi culturale della relazione di potere tra lo stato e la società contadina, e sulla sua rappresentazione da parte della cultura stalinista, secondo il terreno ben tracciato del colonialismo interno intra-etnico.

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PARTE II

IL CONTESTO

Noi tutti amanti del narod lo consideriamo una teoria, e sembra che nessuno di noi lo ami per quello che è veramente, ma solo come ognuno di noi lo ha immaginato. Inoltre, se in un futuro il narod russo risultasse essere diverso da ciò che avevamo immaginato, noi tutti, a dispetto del nostro amore per lui, ci rinunceremmo immediatamente senza rimpianti.

71 Capitolo III

Obščestvo

e

narod

: l’immagine del contadino russo dopo l’emancipazione

1. “Alla ricerca dell’anima contadina”

Sebbene l’interesse della élite colta verso la campagna russa e la popolazione contadina abbia origini certamente anteriori al 1861,153 la riforma che pose fine al servaggio costituì uno spartiacque

nel modo in cui gli intellettuali cominciarono a rappresentare non soltanto la classe contadina, ma l’intera società russa, la sua identità, il suo destino e le sue dinamiche. Senza bisogno di entrare nel merito dei dibattiti politici e storiografici sul significato e le conseguenze pratiche delle riforme degli anni ‘60, è noto come gli intellettuali dell’epoca fossero uniti dalla convinzione di star vivendo un autentico momento di eccezionale transizione storica. In una lettera a Černyševskij, lo storico Alexandr Pypin descrisse l’emancipazione dei servi della gleba come “il più grande evento nella storia interna russa dai tempi di Pietro”.154 Lo stesso atteggiamento si ritrova nelle parole di Alexandr

Vasil'evič Yakovlev, un attivista di origini nobiliari, per il quale

l’emancipazione dei contadini ha reso la Russia una tabula rasa su cui è possibile scrivere qualsivoglia futuro […] tutto ciò che è stato fatto adesso verrà impresso nella vita futura della Russia; ogni errore, ogni decisione irragionevole cadrà come una grave maledizione sulla generazione attuale.155

153 Vedi Donald Fanger, «The Peasant in Literature», in The Peasant in Nineteenth-Century Russia, a c. di Wayne S. Vucinich (Stanford: Stanford University Press, 1968), 231–263; Derek Offord, «The People», in History of Russian

Thought, a c. di William Leatherbarrow e Derek Offord (New York: Cambridge University Press, 2010), 241–61.

154 Citato in Frierson, Peasant Icons, 7.

155 Aleksandr Vasilʹevič Yakovlev, “Associaciia i Artel’,” in Russkie Obščestvennye Voprosy, ed. Pavel Aleksandrovič Gaideburov and Evgenija Ivanovna Konradi (San Pietroburgo, 1872), 264, 300.

72 Questo senso esagerato di possibilità e di nuovo inizio è caratteristico di ciò che Lotman e Uspenskii hanno definito come la “polarità della cultura russa”,156 e della concezione da parte degli intelligenty di vivere in una congiuntura storica fondamentale, nella quale tutto dipendeva dalla

divisione binaria temporale tra vecchio mondo, precedente all’emancipazione dei servi, e quello nuovo che ne sarebbe emerso.

A questo stato d’animo si accompagnava la necessità di cercare nuove definizioni e nuovi modelli interpretativi per la realtà che sarebbe stata, di produrre nuova conoscenza, soprattutto riguardo a quella parte di società e di territorio che risultava più trasformata dalle riforme. In questo contesto, l’espressione “questione contadina” entrò crescentemente a far parte del lessico di intellettuali, attivisti e commentatori di ogni genere, il cui interrogativo fondamentale riguardava il modo migliore di modernizzare la Russia attraverso il rinnovamento del suo antiquato mondo rurale, considerato in un modo o nell’altro la chiave del futuro. Nei decenni post-emancipazione, un’intera generazione di scrittori, critici, pubblicisti, etnografi, economisti, esperti ed artisti indirizzò verso la campagna e verso i contadini che la abitavano l’oggetto del suo interesse, della sua ricerca, incontrando sempre di più il favore del pubblico cittadino, che plasmava la sua immagine dell’heartland russo attraverso quelle suggestioni.157 Prendere conoscenza del mondo contadino in

un contesto di trasformazione sociale ed economica implicava anche un processo di autodefinizione culturale. Se gli individui che si consideravano autorevoli nel descrivere il villaggio russo ci si riferivano esplicitamente come a una cultura distinta e separata, allo stesso tempo cercavano in essa un’immagine accettabile della Russia e del proprio destino.

Su premesse molto simili a queste, nel suo Peasant Icons Cathy Frierson traccia lo sviluppo delle rappresentazioni dell’élite russa sulla popolazione contadina dall’emancipazione fino agli anni ’90 del XIX secolo, identificando un numero sorprendentemente limitato di “immagini” ben costruite e dettagliate che finirono per riassumere l’essenza contadina nel discorso pubblico. Queste immagini funsero da personaggi nella commedia del villaggio russo che finì per dominare l’immaginazione

156 Cfr. Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij, «Il ruolo dei modelli duali nella dinamica della cultura russa», in La

cultura nella tradizione russa, XIX-XX secolo (Torino: Einaudi, 1980), 242–77.

157 Cfr. Jeffrey Brooks, «Readers and Reading at the End of Tsarist Era», in Literature and Society in Imperial Russia,

73 degli abitanti delle città.158 Frierson sostiene che durante i decenni immediatamente posteriori

all’emancipazione si assiste alla progressiva disgregazione dell’immagine della popolazione contadina come realtà omogenea (il narod) in almeno quattro immagini del contadino non più come massa ma come individuo, anche se ugualmente iconografiche e archetipe. 159

Quello di narod, che nella lingua russa risente della stessa ambiguità del tedesco Volk significando allo stesso tempo il “popolo come nazione” e il “popolo come plebe”, è un concetto che dominò gran parte della produzione intellettuale del XIX secolo nel contesto della definizione dell’identità nazionale russa.160 Rispetto alla semplice dicotomia città-campagna caratteristica della

riflessione precedente sul rapporto tra élite e ceti subordinati, nella prima parte del XIX secolo emersero elementi distintivi molto più specifici relativi al rapporto con lo stato, al livello di istruzione e in generale al grado di “occidentalizzazione”. Iniziò quindi quella distinzione nell’immaginario

intelligentnyj tra la società colta, occidentalizzata e attiva nella vita della nazione e “gli altri”, la

Russia autoctona, che fu alla base del lungo dibattito sul modello di sviluppo e sull’integrazione sociale che è l’oggetto del presente studio. Questa coscienza della divisione della società russa tra

obščestvo e narod travalicava anche le divergenze tra slavofilismo e occidentalismo. Infatti, per

quanto l’idea del contadino russo di Aksakov e di Chomjakov si differenziasse da quella di Herzen o di Belinskij, tutti si trovavano d’accordo nel sostenere la distinzione culturale tra contadini e

obščestvo.161

Come riportato da Frierson, in questo immaginario condiviso della società colta il narod si distingueva principalmente per il suo carattere passivo e la sua semplicità, derivata non soltanto nella materialità della condizione sociale, ma soprattutto dal dato culturale di non essere stato esposto alla

158 Il riferimento al teatro è presente anche nell’opera di Edward Said ed è implicita nel concetto di rappresentazione. Non conoscendone e non vivendone la realtà in prima persona, per la popolazione cittadina erudita era più facile riferirsi alla campagna come a un palcoscenico, aggrappandosi a figure stereotipate, così come per la popolazione metropolitana rispetto agli abitanti dell’Oriente. Cfr. Said, Orientalismo, 69.

159 Cfr. Frierson, Peasant Icons, 12.

160 Vedi Hans Rogger, National consciousness in eighteenth-century Russia (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1960).

74 “civilizzazione” europea. L’aggettivo prostoi (semplice) completava frequentemente il sostantivo

narod per indicare esplicitamente il suo riferimento alla popolazione contadina. Alternativamente,

allo stesso scopo veniva usato l’aggettivo černyj (oscuro) che connotava la semplicità derivata dall’isolamento culturale occidentale con la stupidità, la spontaneità e l’incoscienza. Infatti, il narod veniva ritratto come fondamentalmente irrazionale, incosciente di sé stesso e della sua posizione storica e sociale, che nell’ottica degli intelligenty corrispondeva fondamentalmente a quella da loro attribuitegli. Da questa logica nacque la caratteristica particolarmente duratura attribuita al contadino russo come soggetto inerentemente apolitico. Inoltre, il narod occupava una posizione morale speciale dovuta al fatto di essere rimasto a lungo distante dalla cultura europea e dalla corruzione della città, per la sua semplicità e assenza di coscienza. La forza morale e spirituale della popolazione contadina risiedeva nella sua capacità di sopportare passivamente la sua condizione, gli donava la pazienza necessaria, mentre l’ignoranza di una migliore condizione lo dotava della compassione e dell’empatia verso il prossimo che pure la caratterizzava. Infatti, il narod era tale soltanto in relazione agli altri suoi membri, un’entità collettiva per vocazione e per natura. Quando nel 1862 Ivan Aksakov tentò di rispondere pubblicamente alla domanda che cos’è in narod?, espresse chiaramente quell’idea di unità e omogeneità che caratterizzava il mondo contadino non soltanto nelle convinzioni slavofile, ma nell’immaginario della stragrande maggioranza dei russi colti:

il narod è composto da entità separate, ognuna delle quali ha la sua propria vita, attività e libertà; presa separatamente, ognuna di queste non è il narod, ma insieme formano quel fenomeno integrale, quel nuovo personaggio che si chiama narod e in cui ogni individuo separato svanisce.162

Il contadino come individuo era quindi considerato come una parte di un tutto, mentre la popolazione rurale un unico corpo culturalmente omogeneo.

Le caratteristiche sopraelencate, quindi, accomunavano l’immagine del narod posseduta da intellettuali molto diversi tra loro, come slavofili, liberali, populisti e anche i grandi scrittori moralisti

75 dell’epoca post-emancipazione, Tolstoj e Dostoevskij.163 Seppure con aspirazioni e intenzioni

differenti, in questa fase della vita intellettuale russa gran parte della società, tesa alla volontà di cambiamento e impegnata nella scoperta della sua identità, volse lo sguardo al mondo contadino in quanto suo perfetto opposto culturale e sociale e lo elesse depositario dei suoi ideali. Pertanto, quella del narod diventò l’immagine più positiva e allo stesso tempo più indefinita tra le figure del mondo contadino. L’aura positiva intorno al concetto di narod risultava proprio dalla sua assenza di definizione, dall’assenza di individualità e quindi di conflittualità del concetto. In quanto massa umana semplice, omogenea ed ignorante si prestava perfettamente a ricevere le proiezioni idealistiche della società.

Non stupisce quindi che un incontro più ravvicinato con la realtà del mondo contadino non poteva che infrangere le costruzioni dell’immaginario. Dostoevskij era profondamente conscio di questa realtà dell’amore dei russi colti per il popolo, intuendo le possibili implicazioni negative di tale idealismo:

Noi tutti amanti del narod lo consideriamo una teoria, e sembra che nessuno di noi lo ami per quello che è veramente, ma solo come ognuno di noi lo ha immaginato. Inoltre, se in un futuro il narod russo risultasse essere diverso da ciò che avevamo immaginato, noi tutti, a dispetto del nostro amore per lui, ci rinunceremmo immediatamente senza rimpianti.164

L’emancipazione dei servi della gleba le conseguenze sociali che comportò rappresentarono il momento della presa di coscienza e della ricerca di nuovi approcci conoscitivi verso la campagna. Come Dostoevskij, altri membri della società si resero conto che l’immagine del narod così come era stata costruita non era più uno strumento utile, che non offriva alcuna guida o risposta per i bisogni e le domande pressanti del periodo dopo l’emancipazione, che richiedevano una conoscenza più