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Il ruolo della donna nella normativa italiana

Capitolo IV: Aspetti giuridici e normativa di riferimento

4.3 Il ruolo della donna nella normativa italiana

Con il termine violenza si intende comunemente l’essere violento, ossia ricorrere alla forza per imporre la propria volontà a danno di altri, o anche un’azione aggressiva, sopraffattrice, esercitata con mezzi fisici o psicologici.

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Tuttavia, come più volte ricordato, in passato questa concezione è stata soggetta a numerose eccezioni, soprattutto per quanto riguardava gli abusi commessi all’interno della famiglia nei confronti delle donne: infatti, molte delle azioni che oggi possiamo definire “violente” non erano considerate tali alcuni decenni fa nel nostro Paese, e ancora oggi in altri Paesi. Il Codice Rocco, elaborato e promulgato nel 1930 durante il regime fascista, è tuttora (sia pure attraverso importanti modifiche) il testo normativo di base per la legislazione penale italiana. La parte che i giuristi hanno modificato con maggiori difficoltà, proprio perché maggiormente condizionata dalla tradizione, era quella relativa ai diritti individuali.

Tra questi un particolare interesse veniva rivolto al mantenimento del sistema familiare patriarcale in cui la donna era “sposa e madre esemplare”, creatura soggetta ed obbediente al suo destino biologico ossia, alla funzione riproduttiva esaltata come missione per il bene della Patria.

In virtù di tale concezione della donna all’interno della famiglia, il Codice Penale Rocco nella versione originaria non contemplava il reato di violenza sessuale qualora ne fosse vittima la moglie. Dagli anni trenta agli anni settanta, infatti, vi è stato un indirizzo dottrinale/giurisprudenziale che riconosceva nel matrimonio la fonte di obblighi di mutua assistenza fisica e morale, fra questi includendovi quelli relativi alla reciproca dedizione sessuale. Di conseguenza, l’unione carnale in tale situazione era considerata un diritto, mentre il reato di violenza carnale veniva relegato ai soli casi di costrizione del coniuge ad atti sessuali estranei ai fini procreativi del matrimonio come quelli “contro natura”. Tale dottrina/giurisprudenza affermava che, tra soggetti legati da vincolo coniugale, per quanto riguarda i rapporti “normali”, non vi poteva mai essere un delitto contro la libertà sessuale, poiché la tutela di quest’ultima non trovava giustificazione in una situazione in cui il contatto carnale costituisce il sostrato della relazione matrimoniale. Inoltre per il Codice Penale del 1930 i reati di violenza sessuale e incesto erano rispettivamente parte “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” (divisi in “delitti contro la libertà sessuale” e “offese al pudore e all’onore sessuale”) e “Dei delitti contro la morale familiare”. Così mentre si affermava che la violenza sessuale non offendeva principalmente la persona, coartandola nella sua libertà, ma ledeva una generica moralità pubblica, si dimostrava che il bene che si voleva proteggere e tutelare non

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era tanto la persona quanto il buon costume sociale secondo il quale la donna non era libera di disporre di alcuna libertà nel campo sessuale .Altro reato contro la morale era il “Ratto a fine di matrimonio” e il “Ratto a fine di libidine” (entrambi gli articoli del codice penale abrogati definitivamente con la legge sullo stupro del 1996). Il codice distingueva il ratto a seconda del fine che il rapitore si proponeva e puniva meno gravemente chi rapiva a scopo di matrimonio (matrimonio riparatore: norma abrogata nel 1981, cioè pochissimi anni fa) e più gravemente chi rapiva a fine di libidine, ritenendo evidentemente che privare della libertà una donna e coartarne la volontà allo scopo di sposarla fosse meno grave. Va notato che nel ratto a fine di libidine era prevista una aggravante se il reato era commesso nei confronti di donna legalmente sposata: la tendenza era quella di tutelare l’“oggetto” moglie, di “proprietà” del marito. Risulta evidente come nel codice era rappresentata la concezione dell’inferiorità della donna.

Gran parte dei cambiamenti nelle legislazioni (italiana e straniera) sui reati relativi alla violenza sessuale sono dovuti al movimento femminista. A partire dagli anni settanta ci furono molti processi per stupro; in diversi Stati il movimento di liberazione delle donne creò i primi centri per vittime di violenza sessuale; questo movimento fu guidato dell’Organizzazione Nazionale per le Donne (NOW). In Italia è alla fine degli anni ’80 che numerose associazioni di donne avviano esperienze dapprima di conoscenza e accoglienza delle domande di aiuto di donne vittime di violenza e successivamente aprono servizi che si specializzano nell’aiuto di donne in difficoltà ed ai minori; ma fino alla metà degli anni ’90 le istituzioni italiane non applicavano nessun tipo di politica contro la violenza di genere.

Nel diritto penale italiano attuale il reato di violenza sessuale viene disciplinato dall’art. 609 bis c.p. (introdotto dalla L. 15 febbraio 1996 n°66): “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”.

Tra le novità introdotte dalla legge n. 66 del 1996, vi è il passaggio dai reati contro la morale ed il buoncostume ai reati contro la persona (“Dei delitti contro la libertà personale”), accentrando in tal modo la punibilità del gesto come offesa alla persona anziché alla morale pubblica. La fattispecie incriminatrice è inserita, infatti, tra i delitti contro la libertà personale. In sostanza, il concetto di libertà sessuale non può

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essere considerato come interesse collettivo alla continenza sessuale, bensì come aspetto particolarmente significativo dell’autonomia personale. Si assiste così all’introduzione di un concetto di rapporto sessuale adeguato al costume ed alla cultura sociale e morale del ventunesimo secolo, che restituisce alla vittima di simili delitti la piena dignità, garantendole la piena tutela della volontà di disporre del proprio corpo a fini sessuali.

Diverse pronunce della Corte di Cassazione hanno infine stabilito - in assenza di una esplicita previsione legislativa - che la fattispecie delittuosa di cui l'art 609 bis può essere integrata anche in presenza vincolo coniugale. Tuttavia la punibilità del reato di violenza sessuale tra coniugi non è ancora un dato scontato, espressione di una civiltà moderna. In molti Paesi permane infatti la convinzione, resistente ad ogni cambiamento, che tale reato non possa realizzarsi all’interno di una coppia sposata, o, qualora si realizzi, non sia punibile, data l’esistenza di una oggettiva causa di non punibilità. Per quanto riguarda la violenza al di fuori della sfera sessuale, in passato per il Codice Rocco la violenza fisica intra familiare era punibile (e lo è tuttora) come “abuso di correzione o di disciplina” (art. 571 c.p.) e “maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” (art. 572 c.p.). La questione dell’abuso di correzione dipendeva dal fatto che nel codice civile, parte del diritto di famiglia, fino al 1975 il capofamiglia era uno solo (l’uomo) e aveva potere di picchiare - per fini correttivi e di disciplina - chiunque si trovasse ad abitare presso il suo domicilio. Lo stesso codice civile fu in effetti, anch’esso, elaborato e promulgato in epoca fascista ed era in aperto contrasto con la costituzione che invece sancisce la parità giuridica e morale dei coniugi. Un primo passo avanti venne compiuto proprio nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia (Legge 19 maggio 1975 n. 151), che affermava il principio della parità quale regola dei rapporti tra coniugi: sanciva infatti che “con il matrimonio i coniugi acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”, soprattutto in riferimento alla gestione della residenza e del patrimonio familiare, nonché alle decisioni che riguardano i figli. Ciononostante la scarsa chiarezza degli articoli del codice penale di fatto continuava a consentire moralmente l’uso di violenza domestica consumata sulle donne a difesa dei valori della famiglia. L’esempio più estremo riguardava gli abusi sulle compagne “infedeli”, sulle quali era “comprensibile” (quando non legittimo) esercitare violenza anche grave; basti

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ricordare il famigerato “delitto d’onore”, abrogato solo nel 1981, per il quale erano ridotte notevolmente le pene nel caso in cui l’uxoricidio fosse avvenuto nella “circostanza” di una relazione illegittima della partner. Oggi si parla di maltrattamento ogniqualvolta vi siano “atti lesivi dell’integrità fisica o psichica o della libertà o del decoro della vittima, nei confronti della quale viene posta in atto una condotta di sopraffazione sistematica o programmatica” (art. 572 c. p.).

Con il termine “violenza fisica”, quindi, si intende non solo un’aggressione fisica grave, ma ogni contatto fisico che mira a spaventare e controllare. Dunque, picchiare con o senza l’uso di oggetti, ma anche spintonare, tirare i capelli, dare schiaffi, pugni, calci, strangolare, ustionare, ferire con un coltello, torturare, urlare, etc. Attualmente, anche la violenza assistita è considerata una forma di violenza fisica diretta.

Da ricordare, inoltre, che la L.154/2001 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari) stabilisce un'ulteriore forma di tutela con l'esplicita previsione dell'allontanamento da casa del parente dal quale si temono gravi violenze fisiche (in precedenza la donna picchiata era obbligata a restare nello stesso posto in cui vive il marito esponendosi a ogni forma di ritorsione).

Altre forme di violenza, meno riconosciute ma non per questo motivo meno diffuse, sono la violenza psicologica, la violenza economica e lo stalking.

Una persona compie violenza psicologica verso un’altra quando la minaccia, insulta verbalmente, ricatta; può consistere nell’infliggere umiliazioni pubbliche o private, controllare le scelte individuali e le relazioni sociali fino al completo isolamento, ridicolizzare e svalutare continuamente, fare violenza contro animali domestici o oggetti personali di valore affettivo per la vittima, mettere il/la partner in cattiva luce. Anche la deprivazione affettiva può essere una forma di violenza psicologica; le conseguenze che comporta sono infatti simili. È la tipologia più difficile da riconoscere, soprattutto da parte della vittima. Possono far riferimento a questo tipo di violenza i reati d’ingiuria (ex art. 594 c. p.), di violenza privata (ex art. 610 c. p.), di minaccia (ex art. 612 c. p.), di lesioni, quando cagionano una malattia del corpo o della mente (ex artt. 582 e 583 c. p.), di abuso di mezzi di correzione e disciplina (ex art. 571 c.p.) di maltrattamenti in famiglia (ex art. 572 c.p.) e di sequestro di persona (ex art. 605 c.p.). Un'altra forma di violenza e controllo (nell’ambito delle relazioni di coppia) consiste nel sottrarre o limitare ogni tipo di risorse della donna che

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potrebbero permetterle di svincolarsi dalla relazione, tra cui la gestione del suo denaro. Per violenza economica si intende “l’insieme delle strategie che privano la donna della possibilità di decidere o agire autonomamente e liberamente rispetto ai propri desideri e scelte di vita”; di solito chi la attua priva la donna del suo stipendio, impone le decisioni circa l’uso del patrimonio familiare, la obbliga a lasciare il lavoro, a firmare documenti, contrarre debiti, o prendere parte a truffe contro la sua volontà. Spesso tale violenza non viene riconosciuta perché scambiata per una normale gestione (maschile) dell’economia familiare; anche in questo caso, l’origine di tale misconoscimento deriva dallo squilibrio nella relazione tra i generi, inclusa la responsabilità nella gestione del patrimonio familiare. Attualmente, nella categoria di violenza economica possono rientrare i reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare (nella forma di malversazione dei beni familiari, ex art. 570 c.p. comma 2, n.1), maltrattamenti in famiglia (ex art. 572 c.p.) e quello di violenza privata (ex art. 610 c.p.). Lo Stalking (persecuzione) sebbene abbia sempre fatto parte del comportamento umano, solo recentemente è stato riconosciuto come reato in Italia dal DL 23 febbraio 2009 n°11 (convertito in legge con modifiche dalla L.23 aprile 2009 n°38) che ha introdotto l'art. 612 bis (all'interno della sezione “dei delitti contro la libertà morale”). L'art. 612 bis, rubricato “Atti persecutori”, statuisce “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa...”.

Il ritardo, rispetto ad altri Paesi, è evidente: psicologi e sociologi hanno cominciato ad occuparsi di stalking a partire dagli anni ‘80, quando vittime delle molestie furono personaggi di spicco dello Star System hollywoodiano e dello sport.

Gli “atti persecutori”, o stalking, tendono a manifestarsi frequentemente dopo la separazione della coppia. Un fenomeno diffusissimo negli esiti delle relazioni con maltrattamento, in quanto il partner violento non vuole rinunciare alla sua preda. Può

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assumere aspetti diversi: telefonate continue, anche mute, a ogni ora del giorno e della notte; tempeste di messaggi al cellulare ora minacciosi ora amorosi, ora contenenti particolari ingiunzioni; pedinamenti; presenza costante sotto casa, davanti al luogo di lavoro o in qualsiasi altro posto dove abitualmente la vittima si reca; irruzioni sul luogo di lavoro; aggressioni fisiche; uso di altre persone come tramite di messaggi offensivi; richiesta continua e ossessiva ad amici e parenti sui movimenti del/della partner; non corresponsione degli alimenti stabiliti dal giudice; etc.. Si può prolungare per mesi, o anche anni, molti “persecutori” minacciano le loro vittime e nel 30% circa dei casi hanno realmente esercitato violenza su di esse; si tratta dunque ancora una volta di una forma di violenza che si accompagna ad altre tipologie e che può avere delle conseguenze rilevanti su chi la subisce.

Dal gennaio 2018, grazie alla legge 4/18 “Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici”, gli orfani di femminicidio avranno diritto, fino ai 26 anni, al gratuito patrocinio senza limiti di reddito. Figli e figlie potranno cambiare cognome, se il padre sarà condannato in via definitiva. Nel caso di rinvio a giudizio, l’eventuale pensione di reversibilità della madre sarà corrisposta ai figli/e, per i quali è previsto anche un fondo economico, oltre all’assistenza gratuita medico-psicologica e all’attribuzione della quota di riserva prevista per le categorie protette.Le condizioni previste sono garantite per tutte le bambine e i bambini, a prescindere dall’esistenza o meno del vincolo matrimoniale tra il padre e la madre.