• Non ci sono risultati.

CAPITOLO III I DATI DEL FENOMENO: UNA ANALISI COMPARATIVA

3.5 Alcune riflessioni sui dati ISTAT

I dati italiani mostrano una distorsione che spingerebbe a pensare che all’aumentare del livello di istruzione le donne siano a rischio maggiore di subire violenza.

Tuttavia, gran parte dei mutamenti sociali che coinvolgono la famiglia, tanto più quando sono ad elevato rischio di essere stigmatizzati, sono adottati prima dalle classi sociali più elevate ed istruite e solo dopo un certo lasso di tempo si diffondono anche nelle categorie sociali più svantaggiate, si pensi a quanto accaduto in Italia con il divorzio. Si ricorda, quindi, che è stata la diffusione dei dati del 2006 a creare una cassa di risonanza mediatica al fenomeno della violenza nella coppia.

Non è quindi da escludere che le donne più istruite evidenzino solo una minore reticenza a dichiarare di essere vittime e, soprattutto, a riconoscere la violenza. L’altra variabile di controllo che aumenta il rischio di subire violenza, a parità delle altre, è la violenza subita nella famiglia di origine. Il meccanismo di trasmissione intergenerazionale della violenza è per il momento l’unico fattore di rischio su cui i ricercatori concordano: crescere in famiglie violente, assistendo o subendo violenza, aumenta il rischio di subire violenza da adulte nelle donne e aumenta il rischio di diventare perpetra-tore per gli uomini.

Avere introdotto l’età alla relazione, invece dell’età all’intervista, conduce a risultati in linea con la teoria: all’aumentare dell’età alla relazione si riduce il rischio di subire violenza.I tempi di insorgenza della violenza non necessariamente combaciano con l’età alla relazione, tuttavia sono senz’altro più vicini rispetto all’età all’intervista soprattutto per le coppie che sono insieme da molti anni.

I dati a disposizione, dunque, pur con le cautele dovute alla possibilità che i partner attuali siano selezionati e che l’età alla relazione continui a non essere l’età all’insorgenza della violenza, sembrano però indicare che non si sia di fronte a un aumento della violenza di coppia, semmai l’opposto. Del tutto inaspettatamente l’aver subito ferite nei precedenti episodi di violenza non mostra alcun potere predittivo. Al contrario, più anziane si è al primo episodio di violenza, maggiore è la propensione a cercare l’aiuto e il supporto di professionisti. Vale forse la pena sottolineare che tutte le variabili introdotte sono antecedenti temporalmente alla richiesta di aiuto agli operatori sanitari. Le ferite cui ci si riferisce sono state inferte

61

in episodi precedenti, la presenza di figli che subiscano o assistano alla violenza fa pure riferimento alla storia di vittimizzazione della donna, e non necessariamente all’ultimo – temporalmente – episodio di violenza.

La presenza di figli ha un qualche potere esplicativo che vale la pena commentare: se la donna non ha figli è più propensa ad aprirsi con operatori sanitari rispetto alle donne che subiscono violenza ma hanno figli; d’altro canto, le donne che hanno figli che assistono a violenza, o le subiscono a loro volta, esibiscono una probabilità decisamente superiore di parlare degli episodi violenti a professionisti sanitari. Un approccio degli operatori sanitari non giudicante che tenti quindi di comprendere le difficoltà, emotive e logistiche, che impediscono a chi subisce violenza di interrompere una relazione violenta, appare determinante.

Sebbene risulti confortante il pensiero che la violenza di coppia non sia in aumento, si evidenzia, però, la necessità di offrire supporto specializzato a chi è stata vittima di violenza per un lungo periodo e che, per questo, è a maggiore rischio di presentare uno stato di salute precario a causa degli effetti cumulati nel tempo della violenza. Che siano proprio le donne più anziane a decidere di rivolgersi più spesso a medici, operatori sanitari, infermieri e assistenti sociali come detto in apertura non è inusuale: è proprio chi è vittima di violenza frequente e protratta nel tempo a fare più spesso uso dei servizi sanitari, ma non di servizi specificamente rivolti alle donne maltrattate. Gli incidenti per i quali ci si rivolge al pronto soccorso o a un medico sono poi spesso celati. Le ricerche hanno mostrato che una correlazione fra una maggiore richiesta di aiuto e l’età anziana delle vittime di violenza può essere spiegato con le presumibili maggiori difficoltà di tipo economico che le donne più anziane affrontano, o hanno dovuto affrontare ai tempi della violenza subita.

In questa dinamica l’aspetto più controverso emerso dalle analisi è che alle donne più giovani si associa una minore propensione a confidarsi con professionisti del settore sanitario.

Non è dato sapere se ciò sia legato a minore fiducia piuttosto che a maggiori opportunità di risoluzione della violenza senza aiuto professionale esterno; ciononostante, poiché gli effetti della violenza nella coppia sulla salute sono ben documentati, sarebbe di fondamentale importanza approfondire le ragioni che sembrano allontanare le giovanissime dai professionisti sanitari, quando invece

62

mostrano un’elevata probabilità di condividere la violenza che subiscono con figure diverse.

Le ricerche, anche recenti, tendono ad associare un elevato livello di istruzione alle richieste di aiuto ed a una maggiore propensione a rivolgersi all’esterno in seguito alla vittimizzazione subita. Un primo punto tuttavia da sottolineare è che le donne vittime di violenza appaiono tutt’altro che passive contrariamente a quanto prevede, invece, la teoria dell’impotenza appresa (Walker 2000): le donne si attivano per cercare strategie efficaci di risoluzione della violenza, non si isolano e tendono a parlare con qualcuno di quanto hanno subito (si ricorda, infatti, che è oltre il 60%la probabilità che le donne più anziane, e oltre il 75% quella delle più giovani, si rivolgano a qualcuno). Sfortunatamente uno dei più grandi limiti di queste analisi è di indicare quante donne chiedano aiuto informale o formale, senza però offrire alcuna indicazione in termini di qualità dell’aiuto ricevuto. I dati che sono stati presentati, al contrario, mostrano una elevata propensione fra le donne che nel 2006 avevano tra i 16 e i 24 anni a chiedere aiuto all’esterno, salvo nel caso dei professionisti sanitari, verso i quali potrebbero nutrire diffidenza, forse anche nel timore di essere incolpate o biasimate.

Alcune ipotesi esplicative che meriterebbero di essere indagate da future ricerche attribuiscono la scelta di supporti informali delle donne più giovani alla maggiore facilità con cui possono interrompere una relazione violenta, o al desiderio di evitare – o non riconoscersi – l’etichetta di vittima di maltrattamento.

Sono queste le ragioni per cui gli operatori del sistema sanitario andrebbero formati in modo da condurre delle valutazioni di una a certa validità anche in contesti solo in apparenza inusuali, come il reparto di ortopedia, o uno studio dentistico.

Molto spesso la donna richiede aiuto per gli effetti o i disturbi correlati al trauma della violenza subita, senza riferirsi esplicitamente ad essa. Alcuni indicatori possono suggerire all’operatore l’esistenza della violenza non dichiarata ed in presenza di essi è sempre opportuno indagare.