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I Dicta di Francesco D'Assisi negli Opuscula di Wadding

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale

in Filologia e letteratura italiana

Tesi di Laurea

I Dicta di Francesco d’Assisi negli Opuscula di Wadding

Relatore

Ch. Prof. Antonio Montefusco Correlatori

Ch. Prof. Michele Lodone Ch. Prof. Anna Maria Rapetti

Laureanda

Teresa Voltolina Matricola 854101 Anno Accademico 2019 / 2020

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This dissertation is part of a project that has received funding from the European

Research Council (ERC) under the European Union’s Horizon 2020 research and

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Sommario

Introduzione: ... 3

I.I DICTA DI FRANCESCO D'ASSISI………5

1. La necessità di uno studio dedicato ai Dicta………5

1.1 Kajetan Esser………... 7

1.2 Giovanni Miccoli……… 9

1.3 Carlo Paolazzi ... 17

2. L’applicazione dei criteri: Dalarun e Conti ... 22

2.1 Conti: ... 22

2.2 Dalarun ... 24

II. LUCA WADDING: CONTESTO STORIOGRAFICO E BIOGRAFIA ... 30

1. La storiografia francescana moderna ………..31

1.1 La storiografia francescana specchio delle divisioni dell'Ordine………31

1.2 La storiografia XIV – XVI. ... 34

1.3 La nascita della storiografia francescana erudita. ... 37

1.4 La storiografia cappuccina ... 44

2. Luca Wadding ... 46

2.1 Gli anni della formazione presso la penisola iberica. ... 46

2.2 I ruoli di Wadding presso la Santa Sede ... 50

2.3 Le opere ... 56

2.4 Il Collegio Sant’Isidoro ... 64

2.5 La biblioteca e l’archivio di Sant’Isidoro. ... 67

III I DICTA DI FRANCESCO D’ASSISI ... 74

1 Gli Opuscula B.P. Francisci Assisiatis (1623) ... 74

1.1 La struttura e il contenuto dell’opera ... 74

1.2 Le ristampe e le traduzioni degli Opuscula ... 83

2 Il metodo critico del Wadding. ... 86

2.1 Le fonti ... 87

2. 2 La ripartizione dei Dicta. ... 103

2. 3 Le manipolazioni del Wadding. ... 110

3. I segni di lettura del Wadding. ... 129

3.1 l’analisi dei manoscritti isidoriani ... 129

3.2 Le riproduzioni fotografiche ... 134

CONCLUSIONI ... 155

APPENDICE: ... 160

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Introduzione:

I numerosi interrogativi sorti attorno ai dicta di Francesco d’Assisi sono fortemente sentiti dagli studiosi di filologia francescana, i quali ne considerano fondamentale la risoluzione. Come si illustrerà nel primo capitolo, negli ultimi decenni sono stati molti i filologi e gli storici che hanno avanzato diverse ipotesi circa la natura di questi testi dettati e hanno proposto precisi criteri volti a verificarne l’autenticità. Tuttavia, oltre a non adoperare degli adeguati strumenti filologici, si tratta di ragionamenti ancora abbozzati e, soprattutto, meramente teorici, esuli da qualsiasi applicazione concreta.

La presente tesi si propone di avviare uno studio analitico sui dicta a partire dal lavoro di Fra Luca Wadding: quest’ultimo individuò e assemblò 186 logia di Francesco nel terzo tomo della sua edizione degli B. P. Francisci Assisiatis Opuscula.

Prima di entrare nel merito della questione, appare necessario l’approfondimento della figura dell’erudito. L’indagine sui logia degli Opuscula risulta strettamente dipendente tanto dal contesto storico e storiografico, entro cui si colloca l’opera, quanto dalla biografia del suo autore: per comprendere le azioni del filologo non si può prescindere dal periodo storico in cui visse, dai luoghi in cui soggiornò, dalla formazione culturale, dagli incarichi e soprattutto dalle opere che ebbe modo di studiare approfonditamente. Perciò, per avvicinarsi al metodo critico del Wadding bisogna partire dall’inquadrarne la biografia. Allo stesso tempo, per poter comprendere il reale significato della raccolta dei detti, è necessario descrivere il periodo storiografico entro cui si inserisce l’opera che li contiene.

Il secondo capitolo inizierà con una rapida presentazione della storiografia moderna francescana: l’interesse nei confronti di quest’ultima deriva dal fatto che l’erudito estrapolò molti degli scritti o dei detti francescani dalle compilazioni dei secoli dal XIII al XVII. Inoltre, le vicende di quell’epoca portarono il frate alla costante volontà di dimostrare l’elevato livello di erudizione dell’Ordine: da questo scopo non sarà immune nemmeno la sua edizione degli scritti.

Seguirà lo studio della biografia del Wadding. In essa il focus verterà sulla descrizione degli incarichi di scrittore e di censore che il frate assunse nel corso della sua carriera ecclesiastica presso la Santa Sede: per poterli assolvere egli

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dovette consultare un’ingente quantità di materiale, il quale sarà influente nella stesura delle sue opere monumentali.

L’elenco dei numerosi manoscritti, incunaboli, stampe cinquecentesche e seicentesche, che l’irlandese assemblò presso la biblioteca di Sant’Isidoro, occupa un tassello irriducibile all’interno della mia analisi: si tratta di entrare nel “laboratorio” del filologo e rintracciare i testi che aveva a disposizione; quelli che consultava sistematicamente; le opere che teneva in maggiore considerazione; nonché il programma formativo ed educativo che esigeva per gli studenti del collegio.

Fondamentale sarà, al fine di avviarsi verso il nucleo centrale della tesi, la descrizione analitica dei tre tomi di cui è composta l’edizione degli Opuscula. Come si esporrà, il tenore encomiastico coinvolge anche la sezione dedicata ai detti, in perfetta sintonia con il costante proposito del francescano di celebrare la santità nonché l’elevato livello culturale dell’assisiate.

A questo punto, si cercherà di delineare il metodo critico del frate irlandese a partire dall’analisi puntuale di ciascun logia, cercando di individuarne la provenienza esatta. Più precisamente, si partirà dall’ipotesi che prevede che l’irlandese abbia ricavato i dicta non da cedole di diffusione autonoma, ma dalle Legende duecentesche, ufficiali e non, e dalle compilazioni dei secoli successivi.

Nel corso dello svolgimento di questa ricerca si presterà attenzione alle diverse opere in cui compaiono tali pronunciamenti, in modo tale da poter avere un quadro completo della loro diffusione. Inoltre, una puntuale collazione tra le diverse versioni esistenti permetterà di enunciare con certezza quali compilazioni abbia scelto l’erudito per la stesura di ogni singolo elaborato.

Per questo motivo si allegherà alla tesi un’appendice. In quest’ultima, per ogni detto, verranno indicate le opere che lo includono, siano esse Legende duecentesche o compilazioni menzionate dal filologo nella sua edizione; e si metterà ben in evidenza, mediante l’ausilio di un breve commento, il testo che l’erudito valorizzò come fonte.

La focalizzazione sulle fonti non è fine a se stessa. Al contrario, l’individuazione delle opere scelte da Wadding si connota come una strada privilegiata nello studio delle reali intenzioni del frate: la provenienza delle sentenze riveste perciò

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un’importanza non secondaria al fine di delineare il programmatico scopo della raccolta. Nel dettaglio, si tratta di comprendere le ragioni che lo hanno spinto a cercare e ad assemblare questi testi; e di ipotizzare i motivi ispiratori della struttura della raccolta, specialmente in merito alla suddivisione dei dicta in otto categorie. Si tenterà, poi, di cogliere le modalità di intervento messe in atto dall’irlandese. Perciò, verrà analizzato il grado di manipolazione a cui egli soppose ogni singolo testo della fonte e, soprattutto, si indagherà circa la sistematicità e la tipologia di alterazioni: l’intento è quello di individuare la presenza o meno di una pianificazione sottostante che abbia guidato le azioni del Wadding.

Tale approfondimento sui dicta verrà completato dalla consultazione di alcuni manoscritti conservati presso la biblioteca di Sant’Isidoro. La presenza di annotazioni e di segni di lettura riconducibili al fondatore del Collegio potrebbe essere utile a confermare la tipologia di fonti o di compilazioni consultate da quest’ultimo; e allo stesso tempo, offrirebbe la possibilità di assommare preziose informazioni sugli studi; sul metodo di lavoro e sulla familiarità del frate francescano con particolari compilazioni

I. I DICTA DI FRANCESCO D’ASSISI 1. La necessità di uno studio dedicato ai dicta.

Nel corso del XX secolo, alcuni studiosi hanno tentato di avviare un esame sui logia del Santo Assisiate, abbozzando diverse ipotesi e proponendo alcuni criteri volti a verificarne l’autenticità. In tre occasioni si è deciso di accoglierne alcuni in una specifica sezione delle edizioni degli scritti del frate.

Tuttavia, si tratta di congetture rimaste a un livello teorico. In aggiunta, oltre alla mancanza di un’applicazione concreta di questi principi, è da evidenziare l’assenza di un vero e proprio approccio critico e filologico: le proposte metodologiche che analizzerò, coinvolgono esclusivamente considerazioni di carattere tematico. L’urgenza di un’indagine approfondita sui dicta è oggi fortemente percepita dagli storici e dai filologi: una consapevolezza di tale portata emerse nel corso del Congresso Verba Domini Mei, che ebbe luogo nel 2002.

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Questa esigenza fu talmente sentita che, nel corso della discussione finale, venne collocata tra le questioni di fondo da risolvere. Sarebbe l’importanza che la traditio oralis rivestiva nel Medioevo e per Francesco stesso, a imporre uno studio minuzioso a riguardo. In primo luogo, occorrerebbe individuare i logia originali separandoli da quelli apocrifi; altrettanto importante risulterebbe l’individuazione di una collocazione adeguata all’interno delle edizioni critiche, corrispondente alla loro natura.1 Il contributo delle autorità partecipanti non si limitò alla constatazione dei risultati da raggiungere: bensì, nel corso degli interventi, alcuni studiosi accennarono a possibili vie da percorrere; altri ne approfittarono per abbozzare alcune intuizioni riguardanti tale questione.2

A tal proposito, particolarmente interessanti appaiono i suggerimenti offerti da Enrico Menestò. Quest’ultimo tentò di definire il carattere dei detti: egli notò l’affinità esistente tra gli stadi di formazione e di redazione delle sentenze del Santo assisiate con quelli del Cristo. Secondo lo storico, il processo di trasposizione alla forma scritta dei pronunciamenti di Gesù sarebbe avvenuto attraverso tre fasi, equivalenti al procedimento redazionale che coinvolse quelli dell’assisiate:3«la prima è quella che coincide con la vicenda storica sua e dei suoi discepoli; la seconda è quella della primitiva comunità, formatosi dopo la resurrezione e la pentecoste, che le raccolse tramite l’insegnamento; la terza è quella dei quattro evangelisti, che tra gli anni 60 e 90 misero per iscritto il materiale della tradizione evangelica».4 Perciò, in entrambi i casi la fissazione delle sentenze avrebbe avuto luogo in un momento storico in cui la generazione dei testimoni era ancora in vita. Autorevole, a sua volta, è il metodo volto alla verifica dell’autenticità presentato dallo studioso. Primariamente, egli risultò persuaso della necessità di sottoporre a un preciso esame critico tutte le fonti contenenti i dicta. Si tratta di un criterio condiviso dai più: basti pensare al ragionamento enunciato, nel corso dello stesso congresso, da Paolazzi, il quale propose di basarsi sulle edizioni critiche delle Legende.5

1 I relatori che intervennero alla tavola rotonda dal titolo Verso una nuova edizione critica degli Opuscula?

sono Luigi Pellegrini, Leonard Lehmann, Ferdinando Uribe, Attilio Bartoli Langeli, Thaddéa Matura, Cesare Vaiani, Enrico Menestò, Giovanni Grado Merlo, Antonio Ciceri. Cf. Cacciotti 2003, pp. 481 – 493.

2 Cf Cacciotti 2003 p. 90. 3 Cf. Menestò 2003, p.70. 4 Ibid.

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A tale operazione lo studioso affiancò due fasi fondamentali. L’esame della tradizione manoscritta delle Legende e la costruzione di uno Stemma Codicum permetterebbero l’individuazione dei manoscritti più attendibili tra quelli che li includono. La seconda fase prevederebbe il riconoscimento dei segnali di autenticità sia esterni sia interni: tra questi rientrerebbe a pieno titolo l’indagine dei mezzi stilistici, espressivi e lessicali. 6

1.1 Kajetan Esser

Fu solamente con l’edizione degli scritti di Francesco d’Assisi curata da Kajetan Esser che la rilevanza dei pronunciamenti del Santo venne considerata tale da inserirli in una sezione specifica. In generale, il lavoro di Esser rappresentò un progresso, non solo in riferimento all’editio princeps, ma anche rispetto alle edizioni di Lemmens e di Boehemer: con essa ci si avvicinò, sebbene in maniera non ancora decisiva e puntuale, all’applicazione di un metodo critico.7

Nel 1968 si decise di affidare a un gruppo di esperti la realizzazione di una nuova edizione critica degli scritti del Santo assisiate. Alla guida del lavoro venne posto Esser, il quale fu affiancato dai tre confratelli David Flood, Engelbert Grau e Remy Oliger, e, in un secondo momento, Luis Falcon e Edmund Kurten. Il primo intervento che essi dovettero adempire fu la recensione di duecentocinquantasei codici manoscritti. Rispettosa fu soprattutto l’analisi che l’editore applicò ai singoli Opuscula: ad esempio, cercò di studiare la tradizione manoscritta della Regula Bullata e riuscì a provare l’autenticità della breve Lauda.8

Tuttavia, diversi editori odierni ne hanno sottolineato le criticità. In primo luogo, Esser non avrebbe svolto la fase lachmanniana della recensio in maniera compiuta: sarebbe stato questo il motivo per cui egli non riuscì a individuare i legami tra le famiglie, nonché a giungere a una oggettiva certezza circa la versione originale del testo stesso. 9

6 Cf. Menestò 2003 pp. 265 – 266. 7 Ivi., p. 253.

8 Ivi., p. 267

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Il risultato del loro lavoro sfociò in tre edizioni, con il titolo Die Opuscula des HL. Franziskus Von Assisi: la prima uscì nel 1976; seguì, l’Editio Maior del 1978 e nello stesso anno comparve l’Editio Minor.10

A questo punto, si rimanda ad altra sede per l’analisi dettagliata dell’opera: ai fini del presente lavoro risulta interessante la sezione contenente i dicta, intitolata Opuscula dictata.

Sotto questa titolazione, Esser decise di collocare tre dicta e quattro epistole: si tratta, in tutti i sette casi, di testi già presenti negli B. P. Francisci Assisiatis Opuscula. Secondo l’ordine stabilito dall’editore, compaiono i seguenti testi: La Benedizione a frate Bernardo (BenBern); La Benedizione a santa Chiara e sorelle (BenCl); La Lettera ai Bolognesi (EpBon); La Lettera a s. Chiara sul digiuno (EpCl); La famosa Lettera a donna Jacopa (EpJac); La Lettera ai frati di Francia (EpFranc); Il Testamento di Siena (TestSen) e infine il brano De vera et perfecta laetitia (VPLaet).11 Egli realizzò un breve commento introduttivo a ciascun elaborato, al fine di illustrare, se presenti, i testimoni e gli interventi apportati al testo; segue, immediatamente in successione, il testo latino e la sua traduzione italiana.12

Come si evince da questo elenco, l’editore decise di collocare in una stessa sede i tre logia e le lettere. Inoltre, l’erudito si impegnò a metterne in rilievo il valore: le numerose testimonianze del Francesco dettatore e l’importanza stessa che il Santo attribuiva alla comunicazione orale avrebbero reso assolutamente non trascurabili tali testi. Ancora, egli cercò di individuare la loro procedura compositiva, giungendo alla seguente conclusione: Francesco si sarebbe limitato a esprimere il nucleo centrale del suo messaggio, lasciando ampia libertà nella trasposizione alla forma scritta. Questo fu il motivo per cui egli si dichiarò persuaso esclusivamente dell’autenticità del contenuto, considerando la forma dipendente dalle scelte dei trascrittori.13

Tuttavia, numerose furono le critiche rivolte a Esser, molte delle quali causate dalla presenza dei detti all’interno dell’edizione. In primo luogo, fu soprattutto il titolo

10 Ivi., p. 268.

11 Cf. Esser 1982, pp. 550 -560. 12 Ivi., p. 56.

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dell’opera ad essere giudicato negativamente, nonostante Esser lo avesse scelto in quanto designante «sia quanto Francesco ha fissato per iscritto sia quanto ha fatto scrivere sotto dettatura.»14 Secondo gli odierni studiosi il risultato ottenuto sarebbe opposto, dal momento che il titolo cozzerebbe con il contenuto. A tal proposito, Jacques Cambell aveva già espresso le sue perplessità in riferimento alla raccolta del Wadding: a detta dello studioso, non solo il termine opuscolo definirebbe un’opera letteraria di notevole lunghezza, ma soprattutto la sua applicazione a un’opera che include sia scripta sia verba risulterebbe assai inappropriata. Lo stesso identico ragionamento venne esplicitato da Stanislao da Campagnola: egli aggiunse anche la constatazione del fatto che il termine “operette” indicherebbe esclusivamente un componimento di tipo ascetico – morale.15

Ugualmente, è stata oggetto di critiche anche la denominazione Opuscula dictata: la denuncia ha riguardato soprattutto l’alto grado di l’ambiguità. Secondo diversi filologi, dal momento che la maggior parte degli scritti di Francesco prese forma sotto dettatura, la distinzione tra opuscula dictata dagli opuscula scripta non avrebbe ragione di esistere.16

In secondo luogo, venne ampiamente disapprovata l’eterogeneità dei contenuti del capitolo.17 Tuttavia, è ipotizzabile che Esser stesso non possedesse un’intelligibilità tale da poter individuare e, di conseguenza, applicare dei validi criteri nei confronti dei questi testi. La sua incertezza è ulteriormente visibile nella scelta di includere nell’edizione, definiti come Opuscula dubbi o sicuramente incerti, altri due dicta editi dal frate francescano: si tratta dell’Oratio in infirmitate,18 e del testo denominato De Ordine Minorum.19

Infine, è assente la definizione di un metodo critico prestabilito, volto a provare la storicità dei detti: Il frate tedesco non si preoccupò di illustrare le ragioni per cui decise di accogliere un logion piuttosto di un altro 20

14 Ivi, p.12. 15 Cf. Uribe 2003, p. 461. 16 Ivi., p 487. 17 Cf. Paolazzi 2003, p. 81. 18 Cf. Esser 1982, p. 156. 19 Ivi. p. 158. 20 Cf. Paolazzi 2003, p. 81.

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1.2 Giovanni Miccoli

Il contributo maggiore alla questione dei dicta si deve a Giovanni Miccoli, grazie al quale gli interrogativi inerenti ad essa, iniziarono ad essere presi in considerazione con una più solida impostazione critica. Il merito maggiore da attribuirgli è quello di aver avviato una strada metodologica percorribile, seppur ancora ipotetica.

Per prima cosa, lo storico espresse la necessità di giungere alla definizione della natura dei detti; egli delineò con precisione le principali ipotesi da verificare: «di fronte ai discorsi diretti di Francesco, frequentemente, riportati nelle biografie non ci si può non domandare, infatti, se si tratta di un artificio letterario, se, invece, tali pronunciamenti corrispondono a delle parole effettivamente pronunciate da lui, e che i compagni avrebbero, poi, puntualmente, tramandato; oppure, infine, se non siano altro che la stesura, formalmente manipolata a seconda dello stile, nonché dell’intento dei biografi di lezioni o di pensieri concettuali espressi dall’assisiate. Sono fermamente persuaso che le biografie offrono copiosi esempi di tutte e tre queste condizioni. Solo una paziente analisi critica caso per caso potrà venire, almeno in parte a capo della questione. Non potremo dire alla fine di possedere alcuni nuovi scritti di Francesco, ma parole e discorsi suoi formatosi in modi, e conservati a uno stadio di elaborazione, che in realtà corrispondono sostanzialmente a quanto è avvenuto con testi che la tradizione manoscritta ha inglobato a un certo momento tra gli scritti suoi.»21

A tal proposito, Miccoli suggerì alcuni criteri validi a stabilire l’autenticità dei logia e applicabili nei confronti di ogni singolo scritto. Secondo lo storico, la prima fase consisterebbe nella verifica della presenza, anche solo parziale, dell’elaborato in questione all’interno delle quattro collezioni di scritti. (il Portiunculabuch; il codice assisiate 338; la compilazione avignonese e il codice volterrano.) 22

In questa direzione operò anche Pellegrini: quest’ultimo era convinto della funzionalità dello studio della circolazione degli scritti del Santo, prima della sistematica raccolta del Wadding. Essendo le Legende e le compilazioni costruite sulla base di queste trascrizioni, lo studio della loro trasmissione e, soprattutto, della tradizione manoscritta permetterebbe di comprendere il loro reale utilizzo da parte

21 Cf. Miccoli 1997 p. 48. 22 Ivi., p. 51.

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dei biografi. Di conseguenza, la comprensione della tormentata storia minoritica risulterebbe dipendente da questo ricerca.23

Dell’insufficienza di tale indagine era consapevole Miccoli stesso: d’altronde, tali collezioni si caratterizzano proprio per essere incomplete. Perciò, occorrerebbe sommare un secondo parametro di indagine: l’attinenza del contenuto del testo al carisma di Francesco. A questo punto, per avvalorare l’incisività di tale giudizio, lo studioso riportò l’esempio del logion del De vera laetitia: nonostante la sua assenza nelle Legende e nelle quattro collezioni, la certezza della sua storicità sarebbe data dalla perfetta coincidenza tematica con gli ideali di Francesco d’Assisi.24

Lo storico fornì una attenta descrizione del fulcro essenziale del pensiero francescano. In sintesi, lo studioso pose l’accento sull’originalità della proposta cristiana del religioso d’Assisi. Egli individuò nel sequi vestigia Christi il concetto che riassumere adeguatamente l’ideale di vita francescano: il Santo, infatti, con la sua esistenza, avrebbe richiamato all’essenzialità della presenza di Cristo nella storia. Ecco, dunque, che i suoi comportamenti e i suoi ideali deriverebbero da questa consapevolezza.

Un ulteriore elemento fondamentale per l’esperienza francescana sarebbe rappresentato dalla croce: il vertice della vita di Gesù sarebbe coinciso con l’incarnazione, raggiungendo il compimento nella passione e morte. Perciò, l’imitazione della radicalità del Messia sarebbe divenuta possibile mediante la discesa di Dio sulla terra. Di conseguenza, il Signore facendosi povero, umile e sofferente avrebbe svelato la strada da percorrere, contrastando, la mondana logica del potere e del possesso. Perciò, la conduzione di un’esistenza secondo le vestigia Christi equivarrebbe al vivere secundum formam sancti Evangelii: ogni scelta di Francesco, in modo particolare la povertà, dovrebbe andare letta in tale cornice.25 L’applicazione di tali criteri portò lo storico a risultati assai diversi rispetto a quelli raggiunti dell’editore tedesco. Miccoli, nella sua edizione, decise di raggruppare gli otto dicta, a suo parere autentici, in una sezione specifica: a questa non attribuì l’ambiguo titolo Opuscula Dictata, bensì scelse l’intestazione più precisa “parabole, Logia, detti”. Tale titolazione ricorda, seppur lontanamente, la scelta

23 Cf. Pellegrini 2003, pp. 425 – 427. 24 Cf. Miccoli 1997, pp. 50 – 51. 25 Ivi, pp. 45 – 47.

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editoriale del Wadding: è stato quest’ultimo a suddividere i pronunciamenti in diverse categorie, tra cui compaiono le parabole. Nonostante ciò, lo studioso decise di non servirsi della stessa suddivisione, riportando i testi senza alcuna ripartizione. Per ogni pronunciamento inserì: il titolo, il testo da lui compendiato; e, nella pagina a fianco, la sua traduzione. Ogni detto analizzato risulta corredato di un breve commento: quest’ultimo, a esclusione della sintetica esposizione delle leggende in cui è incluso e delle principali divergenze tra le versioni, è interamente dedicato alla dimostrazione dell’autenticità. Tuttavia, come si tenterà di illustrare, l’editore non si limitò all’utilizzo dei criteri precedentemente descritti, bensì adoperò anche nuove argomentazioni.26

Secondo l’ordine di edizione, il primo testo presentato è la Parabola della donna nel bosco resa gravida dal re. A detta dello studioso, in primo luogo, il contenuto si connoterebbe come decisamente francescano: il Santo mediante tale parabola avrebbe dimostrato la cura della Provvidenza nell’occuparsi del nutrimento e del sostentamento dei suoi figli. Immediata risulterebbe anche la coincidenza puntuale con la credenza evangelica; esemplificativi, a tal proposito, sarebbero i seguenti passi: Mt 6 24 «ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà così assai più per voi, gente di poca fede?»; e Mt 6 33 «cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.» A questa corrispondenza, Miccoli aggiunse la constatazione della presenza di elementi appartenenti alla cultura formativa del Santo: tra questi la letteratura cortese e cavalleresca. Sebbene l’editore si dichiarò convinto dell’originalità del pronunciamento, ciò non avvenne anche in merito al contesto delle Legende, consistente nel dialogo con Innocenzo III. Miccoli riteneva l’episodio semplicemente un’aggiunta degli agiografi, impegnati a cercare nuovi fondamenti capaci di avvalorare il dialogo tra Francesco e il Papa.27

Perfettamente fedele alla proposta francescana sarebbe anche non fui latro unquam. La corrispondenza tematica sembrerebbe inequivocabile: la mendicità, tematica centrale del breve detto, risulterebbe l’unica via percorribile al fine di realizzare la Sequela Christi. 28

26 Cf. Miccoli 2002, pp. 508 – 512. 27 Ivi., pp. 508 – 510.

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Collocato in terza posizione vi è il discorso al Capitolo delle Stuoie. In questo caso, la solida dipendenza di questo pronunciamento con l’ideale francescano ed evangelico sarebbe manifestata non solo dal contenuto, ma anche dalla scelta terminologica. Dal punto di vista tematico, l’insistenza sulla via simplicitatis non apparirebbe isolata: al contrario, richiamerebbe molti dei suoi scritti. Allo stesso tempo, la simplicitas risulterebbe l’unica strada che i Vangeli contrapporrebbero alla sapienza del mondo. Ancora, questo stretto legame si mostrerebbe per mezzo di alcuni elementi d’intertestualità: i tre termini di sfumatura volgare unus novellus pazzus concorrerebbero a provarne l’autenticità. In primo luogo, essi ricalcherebbero un’espressione contenuta in 1 Cor 1 («ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti, quello che è debole per il mondo Dio lo ha scelto per confondere i ricchi»29) e 1 Cor 4,10 («noi siamo pazzi a cagion di Cristo»30). In particolare, l’aggettivo novellus nasconderebbe un ulteriore riferimento alla Sequela Christi e, di conseguenza, l’intenzione del Santo frate di rincarnare la radicalità dell’esistenza di Cristo.31 Nel dettaglio, sulla base di due definizioni, presenti l’una nel dizionario della lingua italiana edito da Tommaseo e da Bellini 32 e l’altra contenuta nel grande dizionario della lingua italiana curato dal Battaglia,33 Miccoli intese tale aggettivo come connotante l’atteggiamento di una persona che ne imita un’altra. Dunque, il termine novellus offrirebbe un’ulteriore prova di autenticità: secondo lo storico, sarebbero stati la forza espressiva e la particolarità di quest’ultimo a spingere i biografi a registrarlo.34

Assolutamente nuova è l’argomentazione impiegata al fine di provare la storicità del Testamento di Siena. Oltre al solito criterio di aderenza agli ideali francescani,35egli esplicitò un’ulteriore osservazione: rifacendosi al ragionamento espresso da Goetz, affermò che, a causa dei contrasti circa l’osservanza del

29 Ibid. 30 Ibid.

31 Ivi., p. 516 – 518.

32 «novello si dice di una persona o cosa che ha delle somiglianze con una persona o cosa» Ivi., p. 518. 33 «novello si dice di una persona o cosa che rinnova o riproduce in sé i caratteri, le caratteristiche, i tratti,

soprattutto morali, psicologici, intellettuali e fisici di qualche di qualche personaggio celebre della storia: si comporta in modo analogo (…) ne ha assunto e ne assume le caratteristiche» ibid

34 Ibid.

35 Miccoli ne riassume il contenuto illustrandone i tre punti essenziali: «amore reciproco tra i fratelli, amore

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Testamento, si prospetterebbe improbabile pensare alla creazione arbitraria di un secondo documento.36

Anche nella trattazione del dictum di Ez 3, 18 lo storico si avvalse di nuovi ragionamenti. Egli non mancò di evidenziare il legame con i più autentici ideali francescani: per cui dietro a tale testo si nasconderebbe il costante invito ad attuare un comportamento di sottomissione e di servizio rivolto al prossimo. Tuttavia, l’elemento che egli valorizzò maggiormente sarebbe rappresentato dall’inalterabilità del messaggio centrale e autentico del pronunciamento, persistente nonostante le modifiche verso un significato più pacifico presenti nella Legenda Maior e nella Vita Secunda. Sarebbe stata la rilevanza della sentenza a rendere impossibile la manipolazione del significato originale.37

La stessa valutazione fu sviluppata persino nei confronti del testo servi inutili. Anche in questo caso, lo storico si soffermò sulla significativa risolutezza del messaggio originale nel rimanere immutato. Nel dettaglio, Celano riportò letteralmente il pronunciamento nella sua versione autentica; tuttavia, egli gli donò un’accezione differente da quella originale, intendendo la sentenza come l’atto di umiltà di un Santo costantemente teso alla perfezione. Miccoli, vide nell’incisività della dichiarazione la ragione della sua invariabilità formale e lessicale.38

In aggiunta, il significato originale presentato sarebbe lo stesso contenuto anche nel Testamentum, nella Regula Prima e nelle Admonitiones: con esso Francesco avrebbe ammonito i frati ad attribuire ogni bene esclusivamente a Dio; nonché egli avrebbe espresso l’occorrenza di ricollocarsi nella direzione indicata dal Vangelo.39 Per quanto riguarda il testo Summa obedientia, il passaggio che, per la sua radicalità avrebbe portato il testimone a raccogliere tale pronunciamento, consisterebbe nella definizione del più alto grado di obbedienza come «divina inspiratione inter infideles itur.»40 Considerando la costante esortazione del Santo a divenire servi di tutti, la vocazione cristiana raggiungerebbe il più perfetto compimento nella missione tra i pagani, al di fuori di ogni comodità e rifugio.41 Al contempo, poi, il

36 Ivi., pp. 519 37 Ivi., pp. 520 – 522. 38 Ivi., pp. 528 – 530 39 Ivi., pp. 524 – 526. 40 Ivi., p. 528. 41 Ivi., pp. 532 – 534.

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concetto di obbedienza includerebbe al suo interno quello di povertà:42 quest’ultima, invero, acquisterebbe la definizione di «piena sottomissione, mancanza di garanzia, esclusione dagli strumenti del potere.»43

Tuttavia, il dictum, a cui l’editore dedicò maggiore attenzione fu il logion De vera et perfecta laetitia, nella versione contenuta in una compilazione fiorentino della prima metà del trecento rinvenuta da Bughetti.44 Circa la storicità di questo celebre dialogo Miccoli non ebbe alcuna incertezza: «il De vera letitia è così profondamente francescano nei suoi concetti e nel suo stesso andamento discorsivo che ogni dubbio al riguardo risulterebbe frutto di inconsistenti forzature critiche».45 Ciò, a detta sua, sarebbe vero al punto che coloro i quali non ne riconoscono la storicità, dimostrerebbero di non aver colto il messaggio francescano nella sua essenza. 46

Anzitutto, il parallelismo con la proposta cristiana di Francesco sarebbe immediatamente riscontrabile: in esso verrebbe descritta l’accettazione serena della croce, concepita come il compimento ultimo della sequela Christi.47

D’altronde, la centralità di tale principio nel Santo sarebbe testimoniata dalla sua ricorrenza in diversi luoghi degli scritti. Ad esempio, nell’Admonitio V, Francesco avrebbe identificato la vera gioia con la possibilità di portare la croce cristiana:48 «ma in questo possiamo gloriarci: nelle nostre infermità e nel portare sulle spalle,

42 Ivi., p. 532. 43Ibid.

44 Esistono due versioni di questo dictum: la versione degli Actus e dei Fioretti, e quella inclusa nella

compilazione della prima metà del 1330. Fu Bughetti, nel 1927 ad accorgersi della presenza del detto in una sezione di tale codice che assemblava episodi della vita di Francesco d’Assisi e pericope di diversa provenienza. Le due stesure non coincidono alla perfezione. Innanzitutto, una prima sostanziale differenza coinvolge il contesto: nei Fioretti e negli Actus Beati Francisci, Frate Leone è invitato a scrivere sotto la pioggia, nel gelo invernale mentre i due frati percorrono a piedi la strada da Perugia a santa Maria degli Angeli; nella pericope inserita all’interno del codice fiorentino, invece, il racconto è trascritto da frate Leonardo d’Assisi e il Santo e il suo compagno si trovano già a Santa Maria degli Angeli: in questo modo l’intera narrazione assume i connotati di una parabola esemplare, decisamente connotata dal punto di vista educativo. Tuttavia, le divergenze maggiormente significative sono concentrate nello sviluppo dell’episodio ambientato davanti alla porta del convento: nei Fioretti, infatti, Francesco non viene riconosciuto e il portinaio non appartiene all’ordine dei francescani; al contrario, nella seconda versione, il guardiano è un frate francescano, il quale, pur riconoscendo il Santo, lo respinge(«Vade, tu es unus simplex et idiota») Ivi., pp.538– 548.

45 Ivi., p. 538. 46 Ibid. 47 Ivi., p. 539. 48 Ivi., p. 540.

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ogni giorno, la croce del nostro Signore Gesù Cristo».49 Una perfetta equivalenza rispetto agli Scritti coinvolgerebbe anche il lessico. A tal proposito, Miccoli si soffermò sui due aggettivi “simplex et idiota”:50 essi corrisponderebbero all’espressione, ignorans sum et idiota, con cui il Padre Serafico descrisse se stesso nella Epistola toti Ordini51 e all’aggettivo idiota del Testamentum. 52

Allo stesso tempo, un profondo rimando al messaggio evangelico trasparirebbe da diversi passaggi.53 Lo studioso, a tal proposito, ricordò il discorso di Cristo sulle beatitudini54 e la frase paolina contenuta in 2 Cor 4: 8 – 12.55

Oltre a questi ragionamenti, egli sottolineò l’immodificabilità del senso originario del pronunciamento, il quale prescinde dalle manipolazioni a cui fu soggetto. Il suo significato più autentico rimarrebbe inalterato nonostante le divergenze tra le varie versioni. Lo studioso, da un lato, prese in considerazione la discontinuità tra il testo degli Actus e dei fioretti rispetto a quello della compilazione fiorentina; dall’altro, analizzò un episodio della Compilatio Assisiensis e della Vita Secunda. In esso, Francesco, rifiutato nel corso di un Capitolo, in quanto simplex et idiota, incarnerebbe la sottomissione serena della sofferenza, presentata come il connotato del vero frate minore.56

Dopo averne argomentato ampiamente l’autenticità, l’editore si soffermò a dimostrare la rilevanza del De vera et perfecta laetitia per gli studi storici. Il colloquio testimonierebbe la consapevolezza da parte di Francesco delle due diverse deliberazioni che andavano formandosi nell’ordine: da una parte, alcuni frati ritenevano che esclusivamente i successi pastorali fossero capaci di una reale incidenza nel mondo; dall’altro, Francesco e ad altri frati innalzavano il valore della testimonianza. Allo stesso modo, dal testo trasparirebbe un’ulteriore dicotomia caratterizzante il francescanesimo: un gruppo sempre più numeroso di frati iniziò a

49 Ivi., p. 400. 50 Ivi., p. 542. 51 Ivi., p. 380. 52 Ivi., p. 250. 53 Ivi., p. 540.

54 Le beatitudini fanno parte di un lungo sermone di Gesù, di cui sono la parte più celebre. Esse si trovano

in Mt 5, 1-12: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.»

Ibid.

55 «siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati, siamo sconvolti ma non disperati, perseguitati ma non

abbandonati, colpiti ma non uccisi» Ibid.

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manifestare la convinzione dell’urgenza di munirsi di strumenti culturali. Ciò contrastava, apertamente, con l’insegnamento dell’assisiate, il quale definiva se stesso simplex et idiota. 57

Infine, il valore storico del detto consisterebbe nel suo essere una tangibile dimostrazione del modo di dettare e, al contempo, di predicare di Francesco.58 Il merito del Miccoli non è sicuramente da sottovalutare. Egli fu il primo ad aver avviato un’indagine approfondita sui dicta. Le sue considerazioni, tuttavia, non sono ancora state oggetto di una verifica puntuale: soprattutto, in riferimento all’operazione di Wadding, il primo che, mediante la sua raccolta, sollevò la questione.

2.2 Carlo Paolazzi

Sull’impulso dello storico, anche l’italianista francescano Carlo Paolazzi59decise di inserire nella sua edizione tre logia francescani.60 Sebbene egli dichiarò di essersi limitato a riproporre i tre dicta precedentemente pubblicati da Esser, tuttavia, lasciò trasparire alcuni importanti criteri per verificarne la storicità. In primo luogo, definì i detti collocandoli in una posizione intermedia tra gli scritti del Santo e le sue biografie; da ciò ne conseguirebbe che il merito della loro conservazione andrebbe agli agiografi, i quali li inclusero nelle Legende.61

Interessante sarebbe il secondo criterio, al quale invece Miccoli aveva fatto ricorso in modo occasionale: si tratta del paragone di ogni scritto con il «modus cogitandi, loquendi et scribendi.» 62

La dettagliata descrizione dello stile di Francesco, fornita dallo studioso in un’altra sede, permette di definire i termini di confronto.

57 Ivi., p. 548. 58 Ivi, p. 546.

59 Paolazzi, allievo di Franca Brambilla Ageno, ha una formazione differente rispetto a Miccoli: il frate

minore è un filologo di formazione; il secondo, invece, è uno storico del cristianesimo, non limitatamente al medioevo, ma in un’ottica più ampia.

60 Cf. Paolazzi 2009, p. 630. 61 Cf. Paolazzi 2002, p.27. 62 Ivi. p. 20.

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Secondo Paolazzi, l’’importanza da attribuire alle caratteristiche stilistiche del Santo sarebbe dovuta al forte senso etico che la parola rivestiva per l’assisiate. Tale caratteristica deriverebbe, a sua volta, da una perfetta conformità al messaggio evangelico, perciò ogni discorso o scritto del Santo si configurerebbe come specchio dell’espressione divina:63 esemplificativo sarebbe il passaggio contenuto in Mt 12. 36 - 37.64

Lo stile del Santo risulterebbe totalmente aderente a questo principio: la compiuta dipendenza, contenutistica e lessicale, al Vangelo. Basterebbe pensare al rigoroso rispetto del comandamento riguardante l’attribuzione esclusiva a Dio dei termini di Bonus, Pater e Magister.65

la parola per il Santo deve essere volta esclusivamente ad annunciare il verbo di Dio: ecco dunque il motivo per cui nei suoi elaborati non sarebbe presente nessun aspetto personale, bensì tutto sarebbe inserito nella prospettiva delle leggi divine. Ciò spiegherebbe anche l’assenza di qualsiasi tipo di citazione erudita, colta o storica: Francesco non menzionerebbe nessun sistema teorico o storico differente da quello divino. Quanto enunciato fino a questo punto dipenderebbe anche dal rifiuto della scienza morta: Francesco opporrebbe allo studio fine a se stesso la lettura vissuta della Parola.66

Oltre alla notevole influenza delle Sacre Scrittura, concorrerebbe a delineare lo stile dell’assisiate anche la sua formazione: la sua cultura popolare trasparirebbe, seppur implicitamente, dai suoi scritti, come si evince dalla sintassi prevalentemente paratattica.67

È importante sottolineare che Paolazzi non fu l’unico a proporre tale indagine. Come lui, Nino Scivoletto, intuendo la stretta affinità esistente tra i detti e gli scritti di Franscesco, intravide nell’analisi puntuale, stilistica e lessicale, dei testi la più autorevole via percorribile.68

63 Cf. Paolazzi 2002, p. 22 - 23.

64 «Io vi dico che di ogni parola oziosa che gli uomini avranno detto, ne renderanno conto nel giorno del

giudizio: poiché in base alle tue parole sarai condannato» Ivi., p. 25

65 Secondo l’analisi delle concordanze lessicali operata da J.F Godet e G. Mailleux, infatti, Francesco nei

suoi scritti avrebbe attribuito in 141 casi tali aggettivi a Dio. Ivi., p. 26.

66 Ivi., pp. 30 - 35. 67 Ivi., p. 40.

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Lo studioso sottolineò quanto il profondo legame col Nuovo Testamento fosse determinante per i sui scritti: l’osservanza del vivere secundum formam sancti evangelii sarebbe stata tale da coinvolgere persino l’indirizzo lessicale.69

Un secondo filone lessicale sarebbe costituito dagli autori di spiritualità, quali, ad esempio, San Bernardo e Sant’Anselmo. Da questi ultimi, però, il frate si sarebbe limitato a estrapolare il lessico relativo alla contemplazione e alla meditazione, ad esempio: mundus; humilitatis; fortitudo; altitudo; amor; pulchritudo; humilitas; simplicitas; caro.70

Per quanto riguarda lo stile, le scelte del Santo scrittore rispecchierebbero la volontà di essere comprensibile a ogni uomo e, al contempo, di veicolare la bellezza donando una patina elegante al testo: intelligibilità ed eleganza sarebbero le caratteristiche principali dei suoi elaborati.71 Dunque, occorrerebbe considerare tutte le costanti dei suoi scritti in questa direzione: la prevalenza della paratassi; il frequente ricorso a elementi nominali, inseriti l’uno dopo l’altro; la quasi totale assenza del periodo interrogativo. Al fine di coinvolgere il lettore all’interno del messaggio inerente alla bellezza di una esistenza secundum formam evangelii, il frate si sarebbe servito anche dell’utilizzo reiterato di formule allocutive e appellative. Alla stesso scopo sarebbe dovuta l’attenzione che Francesco ebbe nei confronti della rima, fosse essa interna, incrociata e finale.72 Dunque, in sintesi, lo studioso stabilì, per qualsiasi elaborato attribuibile al frate, la seguente descrizione: «un discorso accessibile caritativamente a tutti e, tuttavia, teso al sublime per la verità che rivela, o per i fini a cui indirizza; un discorso carico di volgarismi e realismi, ma riplasmato nel quadro del serio e del trascendente; un discorso che avvicina e trascina, che istruisce ed esalta»73

Entrambi gli esperi hanno fornito rilevanti parametri, i quali si configurano come realmente applicabili. Nonostante ciò, dal momento che nessuno dei due si impegnò

69 Ivi., p. 117. 70 Ivi., p. 115.

71 Scivoletto fornì una precisa descrizione volta a definire qualsiasi elaborato attribuibile al Santo: «un

discorso accessibile caritativamente a tutti, e, tuttavia, teso al sublime per la verità che rivela, o per i fini a cui indirizza; un discorso carico di volgarismi e realismi, ma riplasmato nel quadro del serio e del trascendente; un discorso che avvicina e trascina, che istruisce ed esalta» Ivi., p. 122.

72 Ivi., p.121. 73 Ibid.

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in una concreta attuazione nei confronti dei dicta, la loro consistenza rimane ancor’oggi a un livello astratto.

Tuttavia, l’enunciazione dei criteri ritenuti validi dal Paolazzi non è fine a se stessa, bensì permette di approcciarsi, con maggiore consapevolezza, alle sue scelte editoriali.

Nella sua edizione Francisci Assisiensis Scripta il francescano decise accogliere i tre logia pubblicati da Esser: il De vera et perfecta laetitia; il Testamentum Senis Factum e la Benedictio Fratri Bernardi data. Al contempo, egli si dichiarò contrario alla titolazione Opuscula dictata, sostituendola con l’intestazione meno ambigua di Detti.74

Per ognuno dei tre episodi decise di fornire alcune fondamentali informazioni di critica testuale. La versione latina compendiata dallo studioso è seguito da un elenco delle Legende che inglobano il logion e dalla sua traduzione italiana.75

Secondo l’ordine di edizione, il primo detto è il De vera et perfecta letitia. In questo caso, come Miccoli, egli si dimostrò convinto tanto della sua autenticità quanto del suo profondo valore storico: il testo offrirebbe esempi chiarificatori del dettato francescano e delle tendenze esaltative di un determinato orientamento della letteratura agiografica. Inoltre, in esso sarebbero presenti implicite allusioni alla situazione dell’ordine.76

I ragionamenti svolti per provarne l’autenticità non forniscono elementi in più rispetto al Miccoli: egli si limitò a constatare la presenza in esso della concretizzazione totale della Sequela Christi fino all’apice della sottomissione alla croce.77

Segue il testo del Testamentum Senis Factum, edito nella versione della Compilatio Assisiensis. Circa l’autenticità di quella che l’autore definì «una sintetica e accurata esortazione ai frati minori a vivere nell’amore vicendevole»78 l’editore non avanzò alcun dubbio. In primo luogo, egli ne sottolineò i profondi legami con il Testamentum, l’Epistola Minorum e la Salutatio Virtutum: questi ultimi

74 Cf. Paolazzi 2009, p. 405. 75 Ivi., p. 406.

76 Ivi., p. 410. 77 Ivi., p. 411. 78 Ivi, p. 413.

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riguarderebbero l’obbligo di rispettare la povertà e la fedeltà alla Chiesa. Nel corso della sua analisi, egli offrì una diversa argomentazione ai ragionamenti illustrati da Miccoli: i compagni, gli unici ad aver tramandato il testo, considerando l’enorme valore del primo Testamentum, non avrebbero avuto motivi per ricrearne uno ulteriore.79

L’ultimo testo è quello a cui è dedicata maggiore attenzione: mi riferisco alla Benedictio Fratri Bernardo data. Nella scelta di pubblicarlo Paolazzi si discostò esplicitamente dalla posizione del Miccoli, secondo il quale si trattava di un apocrifo. 80

Tuttavia, l’editore considerò autentica solamente la versione tramandata dai memoriali dei compagni (la Compilatio Assisiensis e lo Speculum Perfectionis); e nutrì seri dubbi per quanto riguarda il testo incluso negli Actus B. P Francisci et sociorum eius. Nel dettaglio, egli riteneva questa versione decisamente contraria all’insegnamento francescano, dal momento che con la Benedizione degli Actus, Bernardo viene esonerato dal voto dell’obbedienza e viene proclamato padrone dei suoi fratelli. Per questo motivo, egli, e con lui molti altri studiosi,81 vi intravide l’influenza degli spirituali: sarebbe presente un evidente richiamo alla libertà evangelica, a cui quest’ultimi si appellavano con lo scopo di ricevere l’assoluzione dalle norme della Comunità.82

Al contrario, nel dictum della Compilatio Assisiesis e dello Speculum Perfectionis si riscontrerebbero diversi segnali di autenticità.83 Ad esempio, la dichiarazione iniziale di Francesco, la quale descrive Bernardo come un dono del Signore presenterebbe precise corrispondenze con il testo evangelico.84 La stessa identica corrispondenza si ravviserebbe nell’esposizione dell’azione di Bernardo, il quale, incarnando la più autentica perfezione evangelica, elargì tutto ai poveri.85

79 Ivi., p. 412.

80 Cf. Miccoli 2002, p. 510.

81 Esser, in un primo momento, lo considerò un testo spurio; in un secondo momento si corresse e lo incluse

negli Opuscula dictata. Cf. Esser 1982 pp. 556. Oltre a Miccoli, anche Dalarun negò l’autenticità della Benedizione. Cf. Dalarun 1996, pp. 45 – 47.

82 Cf Paolazzi 2009, p. 414. 83 Ibid.

84 Paolazzi rimanda a Joa 17, 6 («Tui erant et mihi eos dedisti») e a un passo del Testamentum («Et postquam Dominus dedit mihi de fratribus») ibid.

85 Paolazzi rinvia all’episodio del giovane ricco («si vis perfectus esse, vade et vende quae habes et da pauperibus») e a un passo del Testamentum («Et illi qui veniebant ad recipiendam vitam istam, omnia qua habere poterant dabant pauperibus») Ivi., p. 420.

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Per quanto riguarda la seconda porzione del testo, lo studioso si attenne all’analisi sintattica e lessicale, al fine di provarne l’autenticità. Dall’indagine emerse una perfetta simmetria con gli scritti di Francesco, che Paolazzi argomentò appellandosi a un esempio: il breve periodo «unde volo et precipio sicut possum» ricorderebbe un preciso precetto del Testamentum: «Et firmiter volo obedire Ministro Generali huius fraternitatis et alio guardiano quem sibi placuerit michi dare (…) ut non possim ire vel facere ultra obedientiam (…) quia Dominus est».86

2 L’applicazione dei criteri: Dalarun e Conti 2.1 Conti:

Nel secolo scorso due studiosi hanno tentato di verificare la validità delle loro ipotesi metodologiche, applicandole concretamente a ciascun logion. Sebbene, come si illustrerà, si è ancora ben lontani dal raggiungimento di un risultato autentico, tali studi offrono importanti piste di indagine.

Il primo procedimento messo in atto da Conti in riferimento ai dicta fu di classificazione. Lo studioso individuò tre categorie: la prima includerebbe i testi originali; un altro gruppo a sé formerebbero tutti quei detti autentici ma inclusi nelle diverse leggende in contesti totalmente differenti dall’originale; la terza categoria comprenderebbe tutti i brani considerati apocrifi.87

Per quanto riguarda i criteri per verificare l’originalità, oltre al paragone tra i concetti espressi dal detto e l’insegnamento di Francesco, le specificazioni da lui inserite si caratterizzano per un alto grado di novità. Secondo lo studioso occorrerebbe attuare un’indagine delle reali finalità tecniche e letterarie che spinsero gli studiosi a inglobare i pronunciamenti nelle Legende. In aggiunta, egli si dichiarò convinto dell’obbligatorietà di attenersi alla versione presente nella Vita

86 Ivi, p. 416.

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prima di Celano, nel caso in cui essa presentasse delle varianti rispetto alle altre biografie.88

A riguardo, per provare la fondatezza del metodo enunciato ne offrì una dimostrazione concreta. Egli si focalizzò sui detti appartenenti alla terza classe, dedicando agli altri gruppi un’analisi assai concisa. Per quanto riguarda la prima categoria, si limitò ad asserirne l’esistenza, senza includere una dimostrazione tangibile. Invece, il famoso “De vera et perfecta laetitia” è innalzato a esempio della seconda tipologia: sarebbe un caso emblematico di tutti i detti che, pur mantenendo la forma e il contenuto originari, verrebbero inseriti in un contesto di significato differente.89

Più approfondite sono le considerazioni relative al terzo gruppo. Innanzitutto, tali testi apocrifi sarebbero sorti seguendo specifiche finalità: si tratterebbe di elaborati strettamente collegati alle tendenze che si stavano affermando in seno all’ordine, in seguito alla morte di Francesco. Lo scopo principale sarebbe stato quello di legittimare precise disposizioni ascetiche, relative al rispetto letterale della Regola. Lo studioso riportò due esempi volti ad avvalorare la sua tesi: il primo sarebbe tale da poter essere esteso a tutti quei pronunciamenti concernenti la clericalizzazione dell’ordine; il secondo potrebbe applicarsi a tutte quelle sentenze inerenti alla storia redazionale della Regola. 90

Il contenuto della prima sentenza, valorizzata come esempio dal Conti, vede Francesco esortare i fratelli laici a mettersi al servizio dei chierici («similiter ut fratres laici qui servanti illis»).91A detta dello studioso, il contenuto del brano si rivelerebbe totalmente estraneo, se non apertamente avverso, al pensiero di Francesco: a riprova di ciò esisterebbe un passaggio della Regola, nel quale sarebbe espresso esattamente il concetto contrario: voi siete tutti fratelli. 92

Altrettanto articolata appare l’analisi del secondo episodio, la quale però coinvolge un numero maggiore di fattori: si tratta del discorso relativo alla storia redazionale della Regola, destinato ai ministri. Lo studioso, accingendosi a dimostrare la falsità

88 Ivi, p. 387. 89 Ivi, p. 388. 90 Ivi., p. 390. 91 Ibid. 92 Ivi., p. 385.

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di tale testo, introdusse il concetto di principio retrospettivo della storia:93 la predisposizione degli agiografi a ricostruire il passato sulla base delle difficoltà contemporanee, mediante il ricorso a un rivestimento analitico - letterario. Perciò, tali testi conterrebbero due elementi costituitivi: da un lato, vi sarebbe il nucleo storico, equivalente alla realtà autentica; dall’altro, il rivestimento analogico letterario, il quale comprenderebbe ogni elemento aggiunto con specifiche finalità. 94

L’estensione di questi principi a qualsiasi episodio concernente la creazione della Regola, sarebbe dovuta alla loro creazione da parte di un preciso gruppo di frati. Nel dettaglio, questi ultimi si dichiararono apertamente contrari alle Dichiarazioni Pontificie sulla Regola. Per avvalorare la legittimità della loro posizione avevano creato una serie di scritti, che egli attribuivano, falsamente, a Leone così da poterli avvalorare come fonti autorevoli (i cosiddetti scritti leonini).95

Il metodo proposto da Conti risulta notevolmente importante: egli fu il primo, tra gli studiosi incontrati, a dare maggiore peso al versante storico. Come ho già illustrato, nell’analizzare il contenuto dei testi, il filologo evitò una qualsiasi lettura neutra o che astraesse il brano al di fuori del contesto storico e ideologico di riferimento.

2.2 Dalarun

Il primo studioso ad aver messo in atto un approccio più strettamente filologico fu Dalarun. Sebbene quest’ultimo non si occupò direttamente dei Logia, la sua analisi rientra nell’interesse del presente lavoro sia per il puntuale metodo critico attuato sia per la presenza di un dictum all’interno degli episodi esaminati. Il metodo da lui enunciato poggia sull’operazione della collazione: secondo lo storico francese occorrerebbe soffermarsi sulle divergenze esistenti tra le versioni incluse nelle Legende di uno stesso episodio. Perciò, dopo aver individuato un preciso segnale di manipolazione, bisognerebbe interrogarsi circa la sua natura. Le ipotesi verificabili sarebbero tre: potrebbe trattarsi di una deformazione neutra; di un elemento

93 Ibid. 94 Ivi., p 386. 95 Ivi, p. 387.

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esclusivamente letterario oppure di un intervento orientato da una finalità ben precisa. Ne consegue, dunque, il fatto che l’analisi scrupolosa delle divergenze non sia fine a se stessa: bensì si configurerebbe come l’unico modo per indentificare gli elementi autentici e quelli considerati spurii.96

Il procedimento appena enunciato assume maggiore chiarezza con l’applicazione nei confronti dell’episodio dell’ultima benedizione di Francesco. Ai fini di comprendere il reale significato delle divergenze tra le lezioni, il filologo distinse gli agiografi passivi da quelli attivi. I primi si caratterizzerebbero per almeno uno dei seguenti comportamenti: la ripresa di una variante inclusa in una biografia precedente, la quale sia conforme alla personale visione dell’agiografo; l’utilizzo di passi proveniente da diverse versioni; e l’importanza attribuita agli aspetti stilistici e formali. A tale gruppo apparterebbero Giacomo Oddi, il quale compose La Franceschina; e Pietro Ridolfi, il quale scelse la versione degli Actus a causa della perfezione formale e dell’analogia con la benedizione biblica del figlio di Giuseppe. La definizione di agiografi attivi comprenderebbe i biografi che, nella manipolazione del testo, sarebbero guidati da precise finalità ideologiche. Tra questi Dalarun ricordò l’autore della Vita Beati Francisci, nella quale diversi passaggi svelerebbero la volontà di innalzare la figura di frate Elia. Un orientamento, quest’ultimo, che Celano avrebbe superato con la stesura del Memeriale in desiderio animae. La Legenda Maior, invece, vedrebbe il Bonaventura impegnato nella risoluzione ascetica dei conflitti interni. Dagli Actus trasparirebbe il proposito di innalzare a ruolo di guida un’autorità moralmente connotata. Infine, la Legenda Perusina si caratterizzerebbe per il raggiungimento di un equilibrio metaforico.97

Nel caso della Vita Prima l’inserimento di determinati elementi si spiegherebbe con facilità. Ad esempio, il fatto che la benedizione venga rivolta a frate Elia nasconderebbe l’influenza esercitata dallo stesso e da Gregorio IX nella composizione della biografia. Per quanto riguarda il dettaglio delle mani incrociate e dell’utilizzo della mano destra per la benedizione, provenienti dal modello biblico della benedizione di Giobbe ai figli di Giuseppe, lo studioso suggerì due ipotesi. La prima vedrebbe nel loro inserimento la mera volontà di completare il testo biblico.

96 Cf. Dalarun 1996, p. 41. 97 Ivi., p. 51.

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Oppure, e questa seconda ipotesi parrebbe la più attendibile, l’autore avrebbe voluto descrivere la successione di Elia come lungamente attesa dal Santo.98

Il fatto che il tema della guida stesse assumendo una rilevanza sempre più centrale sarebbe testimoniato dalla versione inclusa nella Vita s. Francisci di Giuliano da Spira, tra il 1232 e il 1235: in essa, l’autore aggiunse il dettaglio di un nuovo investimento di Elia al ruolo di Ministro Generale; nonché la definizione di quest’ultimo come l’autentico successore di Francesco.99

Con l’Anonymus Perusinus e con la Legenda Trium Sociorum, la concentrazione si sposterebbe sulle diverse considerazioni attorno alle stimmate. Ulteriori nuovi elementi presenterebbe la Compilatio Assisiensis: in tale versione, l’assisiate pone le mani sulla testa di Egidio, ma, una volta accortosene, si corregge, pronuncia la benedizione e nomina frate Bernardo a guida dell’Ordine. Infine, l’agiografo aggiunse il dettaglio riguardante il compiacimento da parte di tutti i frati presenti: dietro a questa scelta si nasconderebbe la volontà di giungere alla conciliazione del governo. Del resto, lo stesso intento trasparirebbe dalla direttiva, imposta a tutti i frati e ai Ministri Provinciali, di amare e onorare il primo frate.100

La Vita Secunda sarebbe un compendio della Vita Prima di Celano, a motivo di precisi eventi storici. Questa volta, l’autore non fu fedele al canovaccio biblico: ne è la prova la benedizione impartita per mezzo della sola mano destra. Di conseguenza, il nome di Elia non è menzionato, bensì compare solo un accenno alla predilezione rivolta a uno dei frati presenti. Non si tratterebbe di una scelta casuale, dal momento che nel 1239 il frate francescano in questione era stato, in un primo momento, dimesso, e, successivamente, scomunicato. 101

Sulla stessa linea si muoverebbe la versione della Legenda Maior, la quale, però, apporterebbe un passaggio ulteriore. In essa, il Santo non rivolge alcuna preferenza particolare a nessuno dei presenti e il gesto delle braccia incrociate è trasformato in un semplice segno della croce. Secondo lo storico francese tali dettagli non si delineerebbero come neutri: poiché le stimmate si sarebbero impresse nel corpo

98 Nel 1227, infatti, era stato posto a guida dell’Ordine Giovanni Parenti. Elia diverrà Ministro Generale

solamente nel 1237. Ivi., p. 42.

99 Ivi., p. 43. 100 Ibid. 101 Ivi., p. 45.

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dell’assisiate mediante la croce, il richiamo a queste ultime si presenterebbe inequivocabile. 102

Infine, un’operazione di manipolazione al servizio di una precisa ideologia connoterebbe l’episodio degli Actus, al punto che lo studioso definì tale testo un «ingegnoso reimpiego di tanti elementi anteriori, a servizio di una causa integralista».103 Ogni inserzione verrebbe estrapolata dall’una o dall’altra Legenda e inserita nel contesto in direzione di uno scopo ben preciso. Nel dettaglio, dalla Vita Prima sarebbe ricavata l’allusione biblica al patriarca Giacobbe. L’epistola contenente la testimonianza della partecipazione di Elia alla benedizione sarebbe desunta dalla Legenda Perusina. Dalla stessa agiografia l’ignoto autore avrebbe recuperato anche la specificazione dell’equivoco di Francesco, il quale pone la mano benedicente sulla testa sbagliata. Questa volta la confusione non è tra la testa di Egidio e quella di Bernardo, bensì il primo frate è sostituito da Elia. Inoltre, al cenno della mano destra si aggiunge quello della mano sinistra: per cui, ponendo le mani ad incrocio, il Santo consacra con la mano destra Bernardo e con la mano sinistra Elia. Ad ogni modo, le parole di lode e di benedizione sono indirizzate esclusivamente al primo, il quale viene definito primusgenitus. Sarebbe evidente, quindi, il duplice scopo di denigrare la persona di Elia e d’innalzare a ruolo di guida un’unica persona, scelta per la sua esemplare moralità e incorruttibilità.104

Da questa breve analisi, non è difficile intuire la conclusione a cui giunse Dalarun: dal momento che ogni tipo di aggiunta si profilerebbe come un bell’arazzo letterario, dovuto a precisi intenti, l’unica versione storicamente attendibile sarebbe quella inclusa nel Testamentum.105

Il secondo brano analizzato dal filologo è quello della cosiddetta profezia di San Damiano. Nonostante il ragionamento del filologo sia piuttosto ampio ed esaustivo, In questa sede si è preferito soffermarsi esclusivamente sulle considerazioni inerenti al dictum incluso nella versione della Legenda Trium Sociorum.

102 Ivi., pp. 48 -49. 103 Ivi., pp. 49 – 51. 104 Ivi., p. 52.

105 Lo studioso francese si riferisce al seguente passo del Testamentum «E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell’Altissimo Padre, e in terra sia ripieno della benedizione del diletto Figlio suo col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i santi. Ed io, frate Francesco, il più piccolo dei frati, vostro servo, come posso confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. Amen» Cf. Miccoli 2002, p. 300.

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In primo luogo, lo studioso notò nella Vita Prima un elemento molto interessante. Nella Legenda non compare il discorso di Francesco, tuttavia, essa presenta un salto temporale: dopo aver esposto la decisione di Francesco di restaurare San Damiano, l’autore passò direttamente a descrivere la futura fondazione dell’ordine femminile. Secondo lo storico tale anticipazione sarebbe dovuta a un procedimento di associazione di idee:106 «Tommaso, accennando al restauro della chiesetta, pensa meccanicamente alle monache che vi dimoravano nel momento in cui scrive, cioè nel 1228; è una libera associazione di idee.»107

La versione rimase inalterata anche nelle biografie successive, seppur con qualche minima differenza: nella biografia di Giuliano da Spira compare il dettaglio dell’espansione dell’Ordine in tutta Italia; nella Legenda versificata di Enrico di Avranches compaiono nuovi elementi, in realtà inutili per la narrazione della storia. Il procedimento inverso venne adottato da Bartolomeo da Trento, il quale sintetizzò l’episodio.108

Circa la presenza esclusiva del dictum all’interno della Legenda Trium Sociorum, il filologo offrì due spiegazioni. Da un lato, esso potrebbe coinciderebbe con un paio di versi in francese, i quali vennero sfruttati con il fine di congetturare il salto cronologico della Vita Prima. Dall’altro, e questa seconda motivazione apparirebbe più significativa, i compagni lo avrebbero inserito con lo scopo di testimoniare la volontà di Francesco, già nei primi tempi, di istituire il ramo femminile dell’Ordine. Perciò, i biografi avrebbero manifestato tutta la loro abilità: approfittando coscientemente del vuoto temporale presente in Celano, avrebbero inserito una profezia che fosse funzionale all’avvaloramento della loro ideologia.109 In questo caso, Dalarun non si espose circa l’autenticità del detto: egli era convinto che un’autentica certezza fosse raggiungibile esclusivamente mediante la costruzione di uno Stemma Codicum.110

Anche nell’analisi della Parabola della donna resa gravida dal re lo studioso attuò un confronto sistematico tra le diverse versioni, volto a distinguere gli elementi storicamente fondati da quelli contraffatti.

106 Ivi., p. 53. 107 Ibid. 108 Ivi., p. 54. 109 Ivi, p. 58. 110 Ivi., p. 59.

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La prima comparsa di tale parabola vide la luce in una raccolta di sermoni di Oddone di Cheriton, databile attorno al 1219.111 La rilevanza di questa data era già stata sottolineata dal Miccoli: quest’ultimo vedeva nela circolazione del testo ancor prima della morte del Santo, la testimonianza di una sua diffusione autonoma per mezzo di cedole.112

Successivamente, l’autore dell’Anonymus Perusinus decise riproporre la parabola collocandola in un preciso punto della narrazione: in tale sede essa si configura come il discorso di Francesco in risposta alle considerazioni di Innocenzo III, il quale aveva giudicato troppo dura e aspra la loro vita.113 Si ripresentò, in seguito, nella Legenda Trium Sociorum, nella quale ancora una volta si riscontra l’aggiunta di un nuovo elemento. Nel dettaglio, gli agiografi posero questo episodio in relazione a un sogno avuto da Innocenzo III: la visione di un uomo, dall’aspetto piccolo e miserabile, il quale reggeva la Chiesa di San Giovanni in Laterano.114 Lo storico francese, di fronte ai risultati della collazione, si pronunciò sicuro della storicità della parabola. Dal momento che Odone di Cheriton non avrebbe avuto nessuna ragione di inventare un exemplum e di attribuirlo al Santo, egli si asserì convinto della sua autentica riconducibilità a Francesco d’Assisi. Tuttavia, l’erudito francese negò la versione che vedeva il Santo pronunciarlo davanti al Pontefice. Si tratterebbe di un mero procedimento letterario, mediante il quale gli agiografi avrebbero voluto sottolineare l’insistenza da parte del Santo frate di fronte al Vescovo di Roma.115 Ancora, secondo i biografi la parabola avrebbe rafforzato il Padre Serafico nelle sue intenzioni: «E ciò rese ancor più forte il suo proposito di osservare, anche, in seguito la santissima povertà»116.

Il giudizio negativo in merito alla storicità di tale contesto si spiegherebbe, inoltre, con la sua assenza nel sermone di Oddone di Cheriton e nella Vita beati Francisci di Celano: se il racconto fosse stato realmente esposto davanti al Pontefice, questi ultimi ne avrebbero fatto menzione.117

111 Ivi., p. 61. 112 Cf. Miccoli 2002, pp. 508 – 509. 113 Ivi., p. 45. 114 Ivi., p. 61. 115 Ivi., p. 63. 116 Ibid. 117 Ibid.

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