UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea
Formule proscioglitive: il "dilemma" del loro
mantenimento alla luce della presunzione di non
colpevolezza
Il candidato Il relatore
Luschi Marcella Chiar.ma Prof.ssa
Benedetta Galgani
‘’Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà’’. (Aldo Moro, Roma, 22 febbraio 1978)
Indice
Introduzione ... 4
Capitolo primo L’istituto delle formule proscioglitive ... 7
1. Gli esiti, di carattere proscioglitivo, del processo penale. ... 7
1.1 La peculiare fisionomia della sentenza di assoluzione. ... 16
1.2 L’analisi storica della sentenza di assoluzione. ... 16
1.3 Le formule proscioglitive nel codice Vassalli... 35
2. Lo scopo delle formule specifiche di proscioglimento nel contesto del vigente codice ... 36
Capitolo secondo La presunzione di non colpevolezza: connotazione attuale del principio tra il riferimento costituzionale e quello internazionale ... 42
Introduzione ... 42
1. L’avvento del principio nell’ordinamento italiano e l’introduzione in Costituzione. ... 43
2. La presunzione di non colpevolezza in ambito europeo e internazionale. ... 60
3. Le nuove coordinate della presunzione di innocenza ... 71
3.1 La presunzione di innocenza quale regola di giudizio... 73
3.2 Il rapporto con le formule di proscioglimento. ... 79
3.3 Il divieto di presentare il soggetto come colpevole : il rapporto tra processo penale e collettività. ... 81
Capitolo terzo Le specifiche formule proscioglitive. ... 88
1. Considerazioni preliminari ... 88
2. Il fatto non sussiste ... 91
3. L’imputato non ha commesso il fatto ... 93
5. Il fatto non è previsto dalla legge come reato. ...101
6. Il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra ragione. ...106
6.1 Il difetto di imputabilità ...106
7. Il Comma secondo dell’articolo 530 c.p.p. ...116 8. L’applicazione concreta delle formule proscioglitive: il problema della gerarchia. ...119 9. Gli effetti extra penali della sentenza di assoluzione e il ruolo delle formule in tale contesto. ...128 9.1 Il giudizio civile e amministrativo per le restituzioni e il
risarcimento del danno. ...129 9.2 Il giudizio disciplinare davanti alla pubblica autorità. ...134 9.3 Efficacia della sentenza penale di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi. ...140
Conclusioni ... 144 BIBLIOGRAFIA ... 150
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Introduzione
Il presente contributo ha ad oggetto la sentenza di assoluzione e, in particolar modo, la fisionomia della stessa che si rivela peculiare: infatti il giudice per assolvere l’imputato deve utilizzare, tassativamente, una delle formule prescritte dal Legislatore all’articolo 530 c.p.p. delle quali deve essere dato conto nel dispositivo della sentenza. Tali locuzioni, che appaiono come formule sacramentali atte a indicare il motivo dell’assoluzione, sono: ‘’ il fatto non sussiste, ‘’l’imputato non ha commesso il fatto’’, ‘’il fatto non costituisce reato’’, ‘’ il fatto non è previsto dalla legge come reato’’ ‘’il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra ragione’’. Come è evidente il dispositivo si distingue da quello della sentenza di condanna, poiché, oltre a contenere il comando del giudice, reca in sé una parte di motivazione.
Il tratto distintivo è costituito dal fatto ordinamento italiano è il solo a prevedere formule assolutorie, che invece altri ordinamenti non contemplano.
Il primo obiettivo che lo studio si pone è quello di comprendere, attraverso l’analisi storica delle formule, quali esigenze ne hanno giustificato l’introduzione prima e il mantenimento poi. Questa operazione è compiuta avendo riguardo al contesto culturale, che si trasforma nel passaggio delle codificazioni: l’analisi affronta il primo codice unitario, il codice Rocco fortemente influenzato dal regime autoritario ed esamina l’impatto che sul medesimo ha avuto la Carta
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Il filo conduttore è la particolare attenzione rivolta alle ripercussioni che la sentenza di assoluzione comporta non solo nella sfera giuridica dell’imputato quanto piuttosto nella sua dimensione sociale: è interesse del medesimo ‘’ritornare’’ in società con la dimostrazione della sua totale estraneità alla fattispecie criminosa che gli era stata contestata. Quanto appena sostenuto trova riconoscimento costituzionale nell’articolo 27 cost., disciplinante il principio della presunzione di innocenza, che diventa il parametro per valutare l’istituto in esame. Dirimente sarà comprendere se locuzioni assolutorie nate in un contesto privo del riferimento costituzione siano compatibili o creino, invece, problemi di legittimità costituzionale. A tal proposito ci si soffermerà sul reale significato della presunzione di non colpevolezza, tenendo conto delle più recenti interpretazioni provenienti non solo dall’ordinamento interno ma anche da quello sovranazionale.
Il secondo obiettivo consiste nel verificare se l’istituto in esame è idoneo, in concreto, a soddisfare le necessità per il quale era stato creato, a questo proposito verranno analizzate le singole ipotesi assolutorie, sottolineando il necessario rapporto con la teoria generale del reato, dalla quale non si può prescindere. Per rendere attuale lo studio la ricerca dell’effettiva utilità verrà calata nella vigenza del codice attuale, tenuto conto delle successive modifiche che al medesimo sono state apportate: l’attenzione è stata rivolta, in particolar modo, a quegli istituti strettamente connessi alla sentenza di assoluzione quali il regime delle impugnazioni e le disposizioni che regolano l’efficacia extra penale della sentenza.
Lo scopo finale, al termine dell’elaborato, sarà quello di dirimere l’interrogativo che ha stimolato lo studio stesso : se il mantenimento di
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specifiche formule proscioglitive ha ancora una finalità e se tale finalità è compatibile con le più recenti interpretazioni della presunzione di non colpevolezza.
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Capitolo primo
L’istituto delle formule proscioglitive
SOMMARIO: 1. Gli esiti terminativi, di carattere proscioglitivo, nel processo
penale. – 1.1 La peculiare fisionomia della sentenza di assoluzione. – 1.2 L’analisi storica della sentenza di assoluzione. – 1.3 Le formule proscioglitive nel codice Vassalli. – 2. Lo scopo delle formule specifiche di proscioglimento nel contesto del vigente codice.
1. Gli esiti, di carattere proscioglitivo, del processo penale.
Essendo finalità propria del processo penale quella di accertare la liceità di una certa condotta e la sua commissione ad opera di un soggetto, esito inevitabile non potrà che essere l’emissione, ad opera del giudice, di un provvedimento1, che, avendo contenuto definitorio,
assumerà la forma della sentenza, deputata a chiudere una fase od un grado del processo penale. Tale sentenza potrà avere un duplice contenuto: di assoluzione o di condanna. La sentenza di assoluzione rientra nella onnicomprensiva dizione ‘’sentenze di proscioglimento’’, nella quale ricadono anche quelle decisioni conosciute, fin dalla codificazione del 1865, come sentenze di non luogo a procedere, la cui caratteristica è quella di non contenere un accertamento sul fatto storico, bensì di statuire su di un aspetto meramente processuale. Tale tipologia di sentenze, definite di rito, è conseguenza stessa della fisionomia del procedimento penale2, il quale risulta essere una
scansione di atti, l’uno presupposto e conseguenza dell’altro,
1 L’art 125 c.p.p. dispone che : ‘’La legge stabilisce i casi nei quali il provvedimento del
giudice assume la forma della sentenza, dell'ordinanza o del decreto. ‘’
2 ‘’Questo, come ogni fenomeno rilevante per il diritto, è disciplinato da norme
giuridiche, il rispetto delle quali ne garantisce il risultato. E’ lo stesso giudice l’organo al quale è demandato di verificare la sussistenza dei requisiti necessari per l’instaurazione e la prosecuzione del procedimento (…)’’.
O. Dominioni, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, Giuffrè,1974, pp. 5,6
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sottoposto a sua volta a regole, per cui la legittimità della statuizione del giudice a statuire nel merito presuppone il rispetto delle stesse; laddove il giudice ravvisi la violazione di regole processuali3, sarà
impossibilitato a statuire nel merito. La distinzione tra sentenza di assoluzione e sentenza di non luogo a procedere non è sempre stata presente: infatti, nella codificazione del 1913, l’unica sentenza prevista al termine del giudizio era quella di assoluzione, alla quale erano ricondotte tutte le ipotesi che avrebbero potuto dare vita all’esito proscioglitivo, sia che attenessero al merito sia che, invece, fossero mera espressione di un divieto in capo al giudice a proseguire il processo. Questa scelta era nata dopo l’esperienza del codice del 1865, che distingueva genericamente tra pronuncia di assoluzione e sentenza di non luogo a procedere ma, quest’ultima, aveva una fisionomia tale da creare non poche perplessità: essa, infatti, oltre a racchiudere ipotesi, quali l’estinzione4 dell’azione penale per prescrizione o per
altro motivo, doveva essere pronunciata anche nel caso in cui fosse stata esclusa l’esistenza del fatto oggetto di imputazione, oppure, ove si fosse riscontrato che questo non era qualificato come reato dalla legge. Contraddittorio era il tenore processuale della formula proscioglitiva del non farsi luogo a procedimento in contrasto con l’oggetto, inevitabilmente sostanziale, della decisione: l’esistenza del fatto e la sua ascrivibilità ad una fattispecie incriminatrice rappresentavano, e rappresentano tutt’oggi, certamente il cuore
3 Le regole a cui si fa riferimento possono essere di carattere meramente processuale
un esempio in tal senso è il divieto del ne bis in idem per il quale non si può procedere nei confronti di un soggetto, per il medesimo fatto già accertato con sentenza definitiva, perciò, nel caso in cui si avesse a verificare questa situazione il giudice non potrebbe più statuire nel merito; ma possono derivare da scelte di politica criminale secondo le quali, per alcune fattispecie incriminatrici, si può procedere solo in presenza di determinate condizioni , quale la querela di parte.
4 L’estinzione del reato è tuttora pronunciata, ai sensi dell’attuale articolo 531 c.p.p.,
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dell’imputazione5. Confrontando con attenzione le singole ipotesi che
avrebbero condotto ad una sentenza di non luogo a procedere, ci accorgiamo come la scelta del legislatore del 1865 rispondesse ad una logica del tutto peculiare: quella di fare menzione esclusivamente del fatto oggetto di reato nella sua materialità, non essendoci alcun riferimento al soggetto autore dell’evento. Questa opzione rappresentava il riflesso di uno specifico schema processuale, retaggio delle codificazioni preunitarie, che aveva influito sulla codificazione del 1865: la bipartizione tra inquisitio generalis e inquisitio specialis. Questa si sostanziava in una scansione logico-cronologia che doveva essere necessariamente seguita nell’acquisizione di conoscenze sui fatti dedotti in imputazione: in primo luogo avrebbe dovuto essere verificato l’evento nella sua materialità e la sua configurabilità come fattispecie penale, al di fuori di qualsiasi sua ascrivibilità all’azione di un soggetto6; soltanto se questa analisi avesse dato esito positivo, si
sarebbe potuto procedere al secondo momento dell’indagine, che avrebbe avuto ad oggetto l’accertamento sull’esistenza e le generalità del soggetto agente. Tuttavia, nel codice del 1865 l’unica traccia che residuava di siffatta bipartizione risiedeva nella distinzione tra sentenza di non farsi luogo a procedimento e sentenza di assoluzione, dovendo essere usata la prima per indicare l’inesistenza di un fatto nella sua materialità o per manifestare l’impossibilità di ascriverlo ad alcuna ipotesi incriminatrice, con la conseguenza di non poter procedere oltre.
5 F. Morelli, Le Formule proscioglitive: radici storiche e funzioni attuali, G.Giappichelli
editore, 2014, p. 17
6 R. Orlandi, Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata, in Riv.
it. dir. e proc. pen. 1996 p 574 ripercorrendo le tappe storiche di tale distinzione, ne individua ,quale fondamento, un duplice ordine di ragioni. Il primo di carattere logico: l’accertamento penale doveva seguire l’ordo naturalis degli accadimenti, dal fatto si risale alla responsabilità dell’autore, accertare preliminarmente quest’ultima sarebbe stata fatica sprecata. Il secondo, invece, di carattere politico-costituzionale: la necessità di provare la veritas criminis rappresentava un limite ed un freno a possibili intemperanze del potere inquisitorio.
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Il permanere della distinzione tra inquisitio generalis e inquisitio specialis dava adito ad una serie di contraddizioni : in primo luogo, la posizione della sentenza di non luogo a procedere, collocata ad esito del giudizio, in un momento, quindi, in cui la scansione procedurale si era del tutto sviluppata e, soprattutto, dopo che erano stati affrontati dal giudice tutte le questioni, comprese quelle inerenti la responsabilità del soggetto. Una tipologia di pronuncia questa, che sarebbe stata giustificabile ad esito dell’istruzione probatoria, ma che male si adattava al termine del giudizio: in questo contesto veniva utilizzato un provvedimento avente l’obiettivo di comunicare all’esterno la totale esclusione del soggetto il quale, tuttavia, era stato sottoposto a giudizio e non avrebbe trovato nella sentenza di non luogo a procedere alcun riferimento alla sua innocenza. Proprio trattando di questo peculiare aspetto, è possibile scorgere l’importanza che può rivestire l’esito liberatorio nella sfera sociale dell’imputato7. In verità, parte
della dottrina faceva discendere dall’adozione della pronuncia di non farsi luogo a procedere conseguenze differenti rispetto a quelle che sarebbero derivate, dal punto di vista del del ne bis in idem8,
dall’assoluzione: infatti, l’aver il giudice proclamato, con la sentenza di non luogo a procedere, l’inesistenza del fatto, avrebbe impedito qualsiasi successivo giudizio in relazione al medesimo accadimento, pur nei confronti di un soggetto differente. Veniva, in questo modo, a crearsi una preclusione erga omnes, contrariamente a quanto sarebbe accaduto con la decisione assolutoria con la quale, invece, la preclusione sarebbe stata riferita solo al soggetto contro il quale si era
7 F. Morelli op. cit. p. 38
8 S. Longhi, Delle formule di proscioglimento delle ordinanze e delle sentenze penali,
in Riv. pen., 1900 vol. LI (della IV serie), p 131 sosteneva : ‘’ quando invece il giudizio negativo trae la sua origine d’essere esclusivamente da circostanze attinenti l’imputato (…) il fatto in se stesso rimane integro e sempre suscettibile di ulteriore procedimento contro persone diverse dall’imputato (…). ‘’
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proceduto, essendo possibile esercitare l’azione penale nei confronti di un soggetto diverso. A smentire questa tesi era, tuttavia, lo stesso articolo 518 c.p.p. abr. , il quale attribuiva l’effetto del giudicato, nello stesso modo, alla sentenza di non luogo a procedere e a quella di assoluzione9. La seconda difficoltà, derivante dalla distinzione generica
tra sentenza di non farsi luogo a procedimento e sentenza di assoluzione, era costituita dalla circostanza che la disciplina della prima non contemplava l’ipotesi in cui, esaurita l’istruttoria, residuassero dubbi sul fatto, al contrario della sentenza di assoluzione la quale, già all’epoca, equiparava la piena prova dell’innocenza alla totale mancanza della prova; proprio per tale motivo il giudice preferiva utilizzare, in caso di dubbio permanente, la sentenza di assoluzione anche se il dubbio fosse caduto sull’esistenza del fatto e, quindi, la sentenza da adottare sarebbe stata quella di non farsi luogo a procedimento. Peraltro, sussisteva un ulteriore motivo che, in caso di dubbio, conduceva il giudice ad emettere un pronuncia di assoluzione : soltanto con quest’ultima sarebbe stato possibile riferirsi all’imputato, ponendo l’accento sulla circostanza che il medesimo non fosse riuscito a dimostrare del tutto la propria estraneità ai fatti. Era già sentita, all’epoca, la necessità di differenziare la posizione di quei soggetti i quali non erano stati condannati, in quanto non si era riusciti a provarne la reità, rispetto a quelli dei quali era stata pienamente provata l’assoluta estraneità ai fatti contestati10. Non bisogna ignorare,
tuttavia, la posizione di alcuni autori11, i quali riconducevano la scelta
9 L’articolo 518 c.p.p. abr. recitava: ‘’L’accusato assolto, o riguardo al quale siasi
dichiarato di non essersi fatto luogo a procedimento, non potrà più essere sottoposto a processo né accusato, per medesimo fatto.’’
10 Questa esigenza trovò spazio nella sentenza di assoluzione ad opera delle
codificazioni successive, le quali, inserirono nel dispositivo una locuzione atta a comunicare proprio il permanere del dubbio sul soggetto.
11 Tra questi: S. Giacomelli, Le formule terminativa liberatorie e il progetto del nuovo
codice di procedura penale in Giur. It., 1912 p. 169 dichiarava come la presunzione d’innocenza comportasse l’equiparazione perfetta di tutti i non condannati, non
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di non far trasparire il dubbio nella formula adottata ad un, seppur embrionale, principio di non colpevolezza. Come si evince da questa breve analisi, non poche erano le problematiche relative alla sentenza di non luogo a procedere, problematiche che portavano fino alla scelta, come nel caso esaminato, di preferirle la sentenza di assoluzione; pertanto, fu deciso di eliminare la distinzione nella codificazione successiva.
La bipartizione tra le due formule generiche del ‘’non doversi procedere’’ e dell’assoluzione viene riproposta12, invece, nel codice
Rocco, nel quale la sentenza di non luogo a procedere assunse una fisionomia simile a quella dell’attuale codificazione: l’articolo 479 c.p.p. abr. , prevedeva la pronuncia di non doversi procedere nei casi in cui il reato fosse estinto, l’azione penale non doveva essere promossa o non doveva essere proseguita oltre all’ipotesi in cui, per queste stesse situazioni, la prova fosse risultata insufficiente; infine, doveva essere pronunciata anche in caso di perdono giudiziale. Se questa distinzione generale era stata auspicata sotto il vigore del già del codice previgente, tornarono, tuttavia, quelle incertezze che erano state alla base dell’eliminazione di una distinzione tra formule generiche. A creare perplessità era, in particolar modo, l’ipotesi dell’estinzione del reato13 che , se pur inserita tra quelle in grado di portare ad una
sentenza di non luogo a procedere, era ritenuta da molti una decisione
importando il motivo del proscioglimento ‘’giacché il dubbio, in forza della presunzione così intesa, vale certezza’’.
12 Dichiaratamente in contrasto con la reintroduzione di tale bipartizione fu Dosi, La
sentenza penale di proscioglimento, Giuffrè, 1955 p. 32 ss., il quale riteneva la distinzione, opportuna ad esito di istruttoria, mentre sosteneva ‘’ detta formula non ha una ragion d’essere dal momento che un giudizio si è già avuto’’.
13 Le cause di estinzione del reato si differenziano da quelle di estinzione della pena,
in quanto le prime operano prima dell’emissione di una sentenza definitiva di condanna, esse, previste dal codice penale , si sostanziano in ipotesi quali: la morte del reo, l’amnistia, la remissione di querela, la prescrizione del reato, l’oblazione nelle contravvenzioni, la sospensione condizionale della penale, ed il perdono giudiziale per i minorenni.
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sul merito, in quanto presupponeva un accertamento positivo circa la sussistenza del fatto e la sua imputabilità al soggetto, essendo infatti necessaria la configurabilità di una fattispecie incriminatrice per poterne ravvisare l’estinzione.
Si giunge, infine, alla codificazione vigente, nella quale la fisionomia delle sentenze proscioglitive e della stessa sentenza di non luogo a procedere non si discosta da quella del codice Rocco, essendo analoghe le cause che tuttora conducono a tale tipo di sentenza14. La sentenza di
non doversi procedere viene disciplinata dall’articolo 529 c.p.p., il primo degli articoli dedicati alle formule proscioglitive, il quale ne dispone la pronuncia nei casi in cui: l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita e, al comma secondo , quando la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità fosse insufficiente o contraddittoria. Si annovera inoltre la causa estintiva del reato, la quale, se pur inserita nel separato articolo 531 c.p.p., deve essere dichiarata tramite sentenza di non luogo a procedere15.
L’articolo 531 primo comma c.p.p. non desta particolari problemi, disciplinando quelle ipotesi in cui, mancando una condizione di procedibilità, al giudice sarà impedito procedere oltre; egli, infatti, si dovrà astenere da ogni statuizione sulla punibilità limitandosi a dichiarare l’absolutio ab istantia. La mancanza di un riferimento espresso alle condizioni di procedibilità sarebbe, secondo autorevole dottrina16, un precisa scelta del Legislatore: in tal modo, è possibile far
rientrare nella disposizione anche fattispecie non riconducibili alle
14 Ad eccezione dell’ipotesi del perdono giudiziale , il quale, riguardando il minore di
anni diciotto non potrà che trovare applicazione nell’ambito del tribunale dei minorenni.
15 A differenza del progetto preliminare del 1978 che la prevedeva quale ipotesi
assolutoria , se pur disciplinata separatamente, collocata subito dopo le altre ipotesi.
16 E. Marzaduri sub art 529, in M. Chiavario ( coordinato da) , Commentario al nuovo
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condizioni di procedibilità propriamente dette, tra le quali l’errore di persona, la presenza di un soggetto già sottoposto a medesimo giudizio17 o la presenza di un segreto di Stato. Tutte queste ipotesi,
quindi, unite alle condizioni di procedibilità in senso stretto, mostrerebbero il valore dell’espressione ”sentenza di non doversi procedere’’ : ‘’come nella sostanza si è già notato, ai sensi dell’articolo 529 c.p.p. il giudice dichiara sempre il proprio dovere di non procedere a statuizioni sulla punibilità del fatto , essendogli invece imposta una pronuncia di absolutio ab instantia’’ 18. Il comma secondo dell’articolo
531, c.p.p. invece, impone la pronuncia della sentenza di non doversi procedere anche quando ‘’ la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria’’, mutando l’impostazione del codice Rocco, sotto il vigore del quale la giurisprudenza formatasi era univoca nel ritenere che spettasse all’imputato l’onere di provare l’irregolarità della condizione di procedibilità eventualmente richiesta. Questa impostazione non risulta ad oggi accettabile, non tanto in ragione della presunzione di non colpevolezza la quale, infatti, resta estranea a pronunce che non hanno ad oggetto il merito della colpevolezza stessa, quanto nella misura in cui il giudice è tenuto -prima di poter procedere- a verificare che siano rispettate tutte le condizioni procedurali, vaglio che dovrà avere esito negativo anche quando permanga il dubbio a riguardo.
17 Lo stesso articolo 649 comma secondo c.p.p. dispone che ‘’se ciò nonostante viene
di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo’’.
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La sentenza di non luogo a procedere pronunciata ai sensi dell’articolo 531 c.p.p. in caso di estinzione del reato, ha invece sollevato un acceso dibattito derivante, principalmente, dalla sua qualificazione quale pronuncia di tipo processuale piuttosto che di pronuncia di tipo sostanziale. Se nel vigore del codice Rocco la riflessione fu attenta, fino a condurre al progetto preliminare del 1978, nel quale veniva inserita tra le ipotesi assolutorie per sottolinearne la natura sostanziale, nel codice vigente essa è di nuovo collocata tra le cause di non luogo a procedere. Tuttavia, dalla lettura degli atti preparatori al progetto preliminare del 1988 non emergono elementi utili per dissipare gli interrogativi in merito alle ragioni di questa scelta: furono addotte esigenze eminentemente pratiche - ritenute idonee ad ostacolare l’inserimento delle causa estintiva del reato nella sentenza di assoluzione - che sembrano possano essere ricondotte alla precisa volontà di sottrarre tale ipotesi alle regole di giudizio proprie della sentenza di assoluzione, in particolar modo, a quella del comma secondo. Quello che traspare è che il Legislatore non si sia adeguatamente soffermato sulla natura sostanziale o processuale della pronuncia di estinzione del reato, concentrandosi esclusivamente sull’effetto che tale sentenza avrebbe prodotto sul processo, ovvero la paralisi dello stesso; in questo modo, vengono ridotte sotto la formula del ‘’non doversi procedere’’ decisioni che dal punto di vista contenutistico non sono omogenee tra loro, in quanto mentre la sentenza pronunciata perché l’azione penale non poteva essere iniziata o perseguita impedisce qualsiasi statuizione riguardo la punibilità del fatto, la causa estintiva incide sulla punibilità del fatto che, però, è esclusa. Sembra, quindi, che il Legislatore abbia voluto accumunare
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ipotesi in cui ‘’il giudice si è vista preclusa, per cause nemmeno omogenee tra loro, l’adozione di altre formule decisorie” 19.
1.1 La peculiare fisionomia della sentenza di assoluzione.
La distinzione tra ipotesi proscioglitive non si appunta solamente su quella, generica, tra sentenze di non farsi luogo a procedere e sentenze di assoluzione, ma fa parte della nostra tradizione giuridica operare una distinzione tra le varie ipotesi in grado di dar vita alla sentenza di assoluzione. La vera peculiarità sta, invero, nell’aver il Legislatore previsto che, nel dispositivo della sentenza, debba essere indicata quale sia la causa dell’assoluzione e che questa debba essere espressa tramite formule ad hoc create dal Legislatore stesso; in tal modo la sentenza di assoluzione viene ad assumere una fisionomia singolare, se paragonata alla sentenza di condanna: la prima, infatti, è composta di un dispositivo che non contiene solamente un comando, ma parte di esso viene a ‘’riassumere’’, tramite le formule liberatorie, la motivazione della sentenza.
1.2 L’analisi storica della sentenza di assoluzione.
Imprescindibile, per cercare di fare luce sull’effettiva funzione della sentenza di assoluzione, è l’analisi storica, nonché l’indagine delle diverse codificazioni. A questo proposito occorre prendere in esame la prima codificazione unitaria, entrata in vigore nel 1865, la quale è calata, essendo particolarmente risalente nel tempo, in un contesto privo sia dei parametri costituzionali, sia di una marcata sensibilità a temi strettamente connessi all’istituto in esame, quali la presunzione di innocenza e il diritto di difesa. Inoltre, in tale impianto codicistico il
19 O. Dominioni, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale,
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sistema che vigeva era quello così detto a ‘’formule generiche’’, poiché era presente, in merito alle sentenze liberatorie, solo la duplice alternativa tra il non farsi luogo a procedimento e l’assoluzione, mancando, invece, un elenco di formule specifiche le quali indicassero immediatamente, nel dispositivo, la causa che aveva portato a prosciogliere l’imputato. L’analisi, tuttavia, del primo codice unitario si rivela fondamentale e, anzi, possiamo sostenere che il momento di passaggio da un codice ''senza formule'' - quello appunto del 1865- a un codice connotato dalle medesime - quello del 1913 – è decisivo per comprendere quali esigenze condussero all’introduzione delle formule proscioglitive e se, nella prospettiva attuale, queste continuino a permanere.
Nella prima codificazione unitaria non era previsto che nella sentenza di proscioglimento, pronunciata ad esito di giudizio, venissero utilizzate specifiche formule; tuttavia, era prescritta l’enunciazione dei motivi nel dispositivo ex articolo 250 c.p.p. abr. , disciplinante l’ordinanza di non farsi luogo a procedimento, da pronunciarsi ad esito di istruzione preparatoria20. La presenza di formule così dettagliate aveva una
ragione ben precisa: ‘’risiedeva nella volontà di rendere percepibili, alla sola lettura del dispositivo, gli effetti che l’ordinanza era destinata a promanare nel circuito penale’’21. Si rendeva, infatti, necessario
conoscere, già dal dispositivo, la causa per la quale il giudice aveva pronunciato il non farsi luogo a procedimento, poiché, nel solo caso di insufficienza di indizi a carico dell'imputato era possibile riprendere il procedimento penale nei confronti dello stesso, ove fossero
20 Questo recitava: ‘’ Se la camera di consiglio riconosce che il fatto non costituisce
un reato , o che non risultano sufficienti indizi di reità contro l’imputato o che l’azione penale è prescritta o altrimenti estinta, lo enuncerà espressamente nell’ordinanza colla quale dichiarerà di non farsi luogo a procedimento (…)’’
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sopravvenute nuove prove22. La riapertura del procedimento penale
era possibile soltanto nel caso in cui, il non farsi luogo a procedimento, fosse dipeso dall'inadeguatezza della macchina giudiziaria a sostenere con prove adeguate l'imputazione23. La funzione delle formule era
quella di orientare gli effetti del provvedimento di non farsi luogo a procedimento, diventando queste superflue se utilizzate nella sentenza pronunciata a esito del giudizio, dato che la sentenza di assoluzione, una volta intervenuto il giudicato, diventava definitiva quale che fossero le motivazioni, quindi anche in caso di incompletezza del quadro probatorio. Conclusosi il dibattimento, nel primo codice unitario, nel caso fossero residuati dubbi e incertezze, questi non avrebbero potuto confluire nella sentenza di assoluzione: l’impossibilità di assolvere con un elevato grado di certezza non aveva conseguenze giuridiche, l’esito era il proscioglimento tramite una sentenza idonea a produrre giudicato; questa scelta rappresentava ''un inevitabile corollario della presunzione d'innocenza nelle sue più embrionali espressioni’’ 24. Perciò, ad esito di giudizio dibattimentale,
la sola suddivisione operata in ambito di proscioglimento era quella tra la sentenza di non farsi luogo a procedere e quella di assoluzione25.
Un ulteriore aspetto che è necessario affrontare è la rilevanza della sentenza di assoluzione in ambito civilistico e, in subordine, quanto questo rapporto sia o meno influenzato dall’uso di formule specifiche. Questo rapporto era disciplinato dall'articolo 6 c.p.p. abr. , che
22 Articolo 266 c.p.p. abr.: ''L'imputato riguardo al quale si sarà dichiarato il non
farsi luogo a procedimento per mancanza di insufficienti indizi di reità non potrà più essere molestato per lo stesso fatto salvo che non sopravvengano nuove prove a suo carico , siccome è detto nell'articolo 445 (…)’’
23 Diversamente da quanto accade nella codificazione vigente: l'articolo 434 c.p.p.
prevede la revoca della sentenza di non luogo a procedere nel caso sopravvengano o si scoprano nuove fonti di prova che da sole o unitamente a quelle già acquisite possano determinare un rinvio a giudizio, indipendentemente dalla formula adottata.
24 F. Morelli op. cit. p. 13
25 Con la specificità che abbiamo già avuto modo di vedere trattando della sentenza
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impediva al danneggiato la proposizione della domanda di risarcimento in sede propria quando, con sentenza definitiva, si fosse dichiarato non farsi luogo a procedimento per l’inesistenza del fatto dedotto nell’imputazione, o quando l’imputato fosse stato assolto per non aver commesso il reato né avervi concorso. Quello che la norma prescriveva non era che il giudice civile dovesse tenere conto delle risultanze della sentenza penale, ma che non potesse attivarsi nelle ipotesi disciplinate26. Il riferimento della norma agli specifici motivi del
proscioglimento ‘’rendeva del tutto impraticabile la teorizzazione dell’influenza diretta delle formule sulle sorti dell’azione civile” 27; non
era infatti possibile fare riferimento alle formule dell'assoluzione e del ''non farsi luogo a procedimento'' in quanto queste risultavano generiche e racchiudevano anche ipotesi non ostative al giudizio civile. La mancanza di un collegamento diretto tra le formule proscioglitive e l’azione civile obbligava il giudice a ricercare nella motivazione le cause del proscioglimento e verificare se esse rientrassero nelle ipotesi disciplinate dall’articolo 6 c.p.p. abr., meccanismo, quest’ultimo, fortemente criticato dalla dottrina dell’epoca28. Sembra nascere
proprio da qui l’esigenza di specifiche formule proscioglitive, funzionali, quali locuzioni preconfezionate, ad indicare le varie cause proscioglitive, nonché di conseguenza i loro effetti extra penali29.
Fu in occasione dell’approvazione del nuovo codice che riemersero, con tutta la loro forza, le criticità e le perplessità in merito all'istituto
26 Ciò indipendentemente dal fatto che il danneggiato si fosse costituito o meno
parte civile nel processo penale.
27 F. Morelli op. cit. p. 72
28 S. Giacomelli op. cit. p. 179 parlava, riferendosi all’articolo 6 c.p.p. abr. di
‘’difettosa disposizione’’
29 S. Giacomelli ivi p. 180 si chiedeva ‘’ Come distinguere a primo sguardo le decisioni
dovute a uno di quei motivi che salvano l’azione di danno , da quelle che l’azione di danno precludono?’’ arrivando a concludere ‘’ ci troveremo di fronte alla solita difficoltà delle formole terminative, le quali dichiarino il perché del
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delle formule proscioglitive, tanto che era oramai indubbio come non fosse più possibile mantenerne la conformazione previgente e fosse necessario, nel nuovo progetto di codificazione, mutarne la fisionomia. Più precisamente, le possibilità che si prospettavano al Legislatore dell'epoca erano due: la totale eliminazione delle formule, con la sola indicazione, quindi, della mancata condanna del soggetto, oppure la previsione di formule specifiche che il giudice avrebbe dovuto tassativamente pronunciare nel momento del giudizio. Le argomentazioni a favore di quest’ultima impostazione erano già emerse nell’ambito della codificazione del 1930: degna di nota era, in particolare, la tesi di coloro che individuavano il comando del giudice nel solo dispositivo, mentre alla motivazione attribuivano la mera funzione di verificare la bontà del ragionamento logico, in ottica di garanzia del soggetto30; il dispositivo, quindi, doveva essere anche
idoneo a indicare gli effetti che questo comando comportava e per farlo avrebbe dovuto contenere parte della motivazione, se pur tramite formule che la sintetizzavano. Dunque, era avvertita la necessità di comunicare con certezza gli effetti della sentenza al di fuori dell’ambito penale, senza dover far uso della ben meno sintetica e chiara motivazione (oltre che del tutto soggetta all’arbitrio del giudice). Non mancarono, comunque, perplessità di natura tecnica: si fece largo la preoccupazione di dover agganciare un eventuale sistema di formule proscioglitive ad una ben salda teoria del reato, essendo già all’epoca evidente come fosse impossibile prescindervi senza il rischio di far diventare le formule indifferenti all’imputazione; era necessario, quindi, non solo che fossero ben chiari gli elementi costitutivi del reato, ma quale fosse soprattutto la conseguenza della loro mancanza.
30 S. Giacomelli ibidem riteneva la motivazione una parte della sentenza non
corrispondente alla giurisdizione e, quindi, deputata a contenere solo la prova raziocinativa del dispositivo.
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Progressivamente all’interno del dibattito, si impose quella che nel tempo è diventata una vera e propria questione culturale in merito alle formule proscioglitive. Come abbiamo già avuto modo di notare dall’analisi del codice previgente, accanto alle esigenze eminentemente tecniche vi era sempre l’attenzione ‘’all’aspetto sociale’’ della sentenza o, meglio, alle conseguenze che essa avrebbe prodotto in relazione alla sfera collettiva del soggetto. Nelle discussioni che precedettero l’entrata in vigore del codice del 1913 questo aspetto fu approfondito e si concretizzò nella preoccupazione di rendere noti alla collettività i motivi dell’assoluzione, immediatamente dopo la pubblicazione della sentenza; come se la collettività, pur non ricoprendo un ruolo giuridico, fosse meritevole di tutela. Tale esigenza era maggiormente sentita nelle ipotesi in cui il soggetto era assolto per insufficienza di prove e tale circostanza, cioè quando l’innocenza non era stata provata con assoluta certezza, era ritenuto necessario che venisse comunicata all’esterno tramite una formula ad hoc. Se a prevalere furono gli argomenti a favore dell’inserimento nel dispositivo di specifiche formule proscioglitive, prima della redazione del codice del 1913 videro la luce due progetti preliminari di tutt’altro tenore, nei quali non vi era alcuna traccia di detto istituto. Nel progetto proposto nel 1905, l’articolo 461 c.p.p. recitava ‘’se la sentenza sia di proscioglimento, il giudice pronuncia l’assoluzione, o dichiara il non farsi luogo a procedimento’’; di analogo tenore l’articolo 487 c.p.p. comma due del successivo progetto redatto nel 1911, il quale conteneva come unica aggiunta la dizione ‘’senza indicarne i motivi’’. L’unica distinzione, quindi, tra le due formule proscioglitive era finalizzata a distinguere le ipotesi di assoluzione nel merito da quelle in rito, in particolare in quest’ultimo caso si poneva l’accento sulle cause che ostacolavano il giudizio; questa suddivisione trovava la sua giustificazione nel fatto che la sentenza di non farsi luogo a procedere
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non aveva carattere irrevocabile, essendo sempre possibile riaprire la vicenda processuale nel momento in cui fossero venute meno le cause di improcedibilità.
Le motivazioni alla base delle scelte operate nei due progetti preliminari erano sia di carattere tecnico, sia etico-culturale. Dal primo punto di vista, gli autori dei progetti non ritenevano sufficiente un elenco tassativo di formule per coprire tutte le situazioni che avrebbero potuto dare vita ad una sentenza di assoluzione; veniva, invece, dato rilievo alla motivazione ritenuta a tale scopo più idonea, oltre che maggiormente efficace nell’indicare le ripercussioni della sentenza in sede di giudizio civile. In relazione alle motivazioni di carattere culturale, esse si fondavano su quei principi che avrebbero dovuto ispirare la nuova codificazione, uno su tutti la presunzione di non colpevolezza; conclusione naturale di tale impostazione ideologica era quella di escludere radicalmente l’ipotesi di inserire una ‘’formula dubitativa’’ nel dispositivo, una formula cioè che avrebbe comunicato il dubbio sulla responsabilità del soggetto, del tutto incompatibile con l’assoluzione. I progetti preliminari non videro mai la luce e nel progetto finale del codice Finocchiaro-Aprile fu dato seguito alle istanze che manifestavano l’esigenza di specifiche formule proscioglitive; venne redatto, perciò, il primo codice di rito che prescriveva l’indicazione, nel dispositivo della sentenza, di formule assolutorie specifiche e tassative. Un cenno doveroso va, in prima battuta, all’articolo 27431 c.p.p. abr. contenente la disciplina della
sentenza di non doversi procedere da pronunciarsi a chiusura della fase istruttoria: anche in tale sentenza figuravano specifiche formule
31 ‘’ Il giudice istruttore, o la sezione di accusa, nella rispettiva sentenza , dichiara,
non doversi procedere , enunciandone espressamente la causa nel dispositivo , se riconosca che il fatto non sussiste, o che l’imputato non lo ha commesso o non vi ha concorso , o che il fatto non costituisce un reato, o che l’azione penale è prescritta , o altrimenti estinta , o che non può essere promossa o proseguita.’’
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liberatorie, tuttavia , non trovavano alcuna giustificazione di tipo tecnico, in quanto la sentenza di non luogo a procedere comportava i medesimi effetti quale che ne fosse stata la causa che aveva portato alla sua pronuncia; la stabilità del provvedimento di non luogo a procedere non dipendeva in alcun modo dalla formula adottata. Potremmo al più dire che alcune ipotesi proscioglitive potevano essere meno ‘’aperte’’ di altre alla possibilità di riattivazione del procedimento e, per questo, una differenziazione tra le varie formule avrebbe comunicato una maggior stabilità della decisione; questa tesi era, tuttavia, confutata dal tenore letterale dell’articolo 295 c.p.p. abr., il quale non faceva alcuna distinzione basata sulla diversità delle formule adottate nel provvedimento. Per quanto riguarda, invece, la fase decisoria del giudizio, l’articolo 421 c.p.p. abr. riconduceva ogni ipotesi compatibile con l’esito liberatorio alla sentenza di assoluzione, non differenziando in alcun modo le ipotesi di proscioglimento in rito da quelle di proscioglimento nel merito; la mancata distinzione generica tra le due sentenze era compensata dall’innovativa introduzione, nel suo dispositivo, delle cause che avevano dato vita ad un giudizio assolutorio, nelle quali il giudice doveva inderogabilmente far rientrare la propria decisione. Tassativa risultava la pronuncia tramite una delle formule previste, in quanto era stato il Legislatore stesso a creare un elenco di formule volutamente esaustivo, capace cioè di racchiudere tutte le ipotesi che avrebbero potuto condurre ad un esito assolutorio. La scelta del Legislatore di non lasciare all’arbitrio del giudice la creazione delle formule era ben precisa ed era la conseguenza diretta del dibattitto che veniva portato avanti fin dalla prima codificazione unitaria. La decisione di inserire formule tassative derivava proprio dalla volontà di non doversi più affidare all’arbitrio e alle valutazioni del giudice, situazione che si sarebbe riprodotta nel momento in cui, in mancanza di specifiche formule, fosse stato necessario far riferimento
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alla motivazione per scorgere le cause dell’assoluzione. A conferma di ciò risulta la circostanza che, all’epoca della redazione del codice Finocchiaro-Aprile, furono proposte elaborazioni alternative32, ma
queste furono vagliate e scartate. Con l’introduzione di formule specifiche e predeterminate il Legislatore intendeva accuratamente individuare le ipotesi assolutorie e, conseguentemente, definirne gli effetti. A questo, dobbiamo aggiungere anche un dato, non prettamente giuridico, e cioè la volontà di fornire maggiore sicurezza e certezza alla società, la quale, in questo modo, sarebbe stata in grado di attribuire, fin dalla lettura del dispositivo, una significato morale alla sentenza. L’art 421 c.p.p. abr. tendeva a riflettere, quindi, ‘’i singoli elementi annoverati nella struttura del reato, o che componevano le fattispecie determinanti la punibilità ed, infine, la procedibilità’’33
sempre allo scopo di ottenere una maggiore esaustività possibile. La disposizione in esame si componeva di espressioni capaci di evocare la struttura del reato: essa prendeva le mosse dal dato oggettivo, disciplinando l’ipotesi in cui ‘’ il fatto non sussiste’’, spostandosi successivamente sul soggetto e quindi verso l’eventualità che ‘’l’imputato non ha commesso il fatto o non vi ha concorso’’ ; la distinta ipotesi de ‘’il fatto non costituisce reato’’ era invece idonea evocare ogni ipotesi avesse impedito la configurazione dell’illecito penale, dalla carenza, quindi, dell’elemento soggettivo fino alla mancanza di una fattispecie incriminatrice nella quale far rientrare il fatto. Autonome
32 S. Longhi, Delle formule di proscioglimento delle ordinanze e delle sentenze penali ,
in Riv. pen., 1900, vol. LI (I della IVserie), pp. 144 ss.: riteneva che nel dispositivo dovesse essere contenuta la causa che aveva dato vita all’assoluzione, egli, tuttavia, sottolineava come formule prestabilite fossero troppo generiche e incomplete tanto da ravvisare la necessità di enunciare la specifica causa , la quale, nel caso concreto, avesse dato vita all’assoluzione.
Ben si comprende come avrebbe potuto fare ciò solo il giudice, essendo di questo il compito di applicare la legge in concreto e quello del legislatore prevedere leggi generali e astratte.
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enunciazioni erano poi previste per le ipotesi di estinzione dell’azione e di improcedibilità.
Si presentava peculiare l’ipotesi in cui il soggetto fosse stato esente da pena, data la presenza di elementi in grado di escluderne la punibilità; secondo alcuni Autori34, infatti, questa eventualità costituiva
un’autonoma formula di proscioglimento.
Tuttavia, non era in questa particolare ipotesi che si accertava una tendenza del Legislatore a voler differenziare la posizione del soggetto, che non era riuscito a dimostrare la completa estraneità ai fatti contestati. Per la prima volta questa necessità è codificata, tramite l’introduzione di una formula ad hoc, in seguito definita ‘’formula dubitativa’’, che trovò sede elettiva nel secondo comma dell’articolo 421 c.p.p. abr., il quale espressamente prevedeva che: ‘’se non risultano sufficienti prove che il fatto sussista, o che l’imputato lo abbia commesso o vi abbia concorso, o non risultano sufficienti le prove della sua colpevolezza, si pronuncia sentenza di assoluzione per insufficienza di prove’’. La formula si presentava, già dal punto di vista tecnico, contraddittoria.
Essa era incompatibile con la fisionomia delle formule contenute nel primo comma e, più in generale, risultava contradittoria con il fine ultimo dell’istituto; lo scopo, infatti, era quello di raggiungere una maggior certezza riguardo agli esiti liberatori, essendo le formule conformate in questo modo per essere maggiormente esaustive, mentre l’assoluzione per insufficienza di prove rendeva necessario ricorrere alla motivazione per conoscere in relazione a quali elementi di prova non era stata ritenuta sufficiente. Di questo siffatto sintagma non si ravvisava neanche l’utilità, poiché non era finalizzato a
34 A. Cordova, sub art 421, in Commento al codice di procedura penale, Unitas,1925,
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determinare una diversità di effetti, visto che questa formula non produceva alcuna conseguenza peculiare rispetto alle ipotesi contenute nel comma primo: sempre di assoluzione era la sentenza che il giudice doveva emanare35. Gli effetti della formula si dispiegavano
non tanto da un punto di vista tecnico-giuridico, quanto sulla reputazione del soggetto e sulla collettività in cui questo era inserito: infatti, l’assoluzione per insufficienza di prove comportava notevoli
conseguenze di tipo morale, più che giuridico.
Le posizioni divergevano, poi, tra quanti36 ritenevano necessaria una
differenziazione tra i soggetti, i quali erano stato assolti per insufficienza di prove volte a accertarne la responsabilità, e coloro i quali, invece, erano riusciti a dimostrare la loro totale estraneità ai fatti; a sostegno di tale esigenza venivano addotte argomentazioni quali la tutela della collettività, la quale, si sosteneva, doveva essere ‘’messa in guardia’’ da un soggetto ritornato, sì, a far parte della società tramite una sentenza di assoluzione, ma soltanto perché l’accusa non era riuscita a provarne la responsabilità37. Coloro i quali sostenevano la tesi
contraria, si appellavano alla presunzione di non colpevolezza, in una sua concezione più matura, già trapelata nella codificazione
35 P. Tuozzi, Il nuovo codice di procedura penale commentato , Vallardi, 1914, p. 472
scrive a riguardo che: ‘’non è con codesta formula che la sentenza diveniva meno definitiva , ma essa serviva solo per esprimere lo stato d’animo del magistrato che, in questo caso, non veniva coartato dalla necessità di una pronuncia netta di assoluzione.’’
36 Tra questi E. Ferri, Sociologia criminale, Bocca 1900, p. 734,735 già scriveva a
riguardo ‘’ non saprei vedere, come un individuo, che dopo la lunga trafila del processo scritto e del dibattimento, rimane gravemente indiziato d’essere autore di un delitto, possa tuttavia esigere dalla società una dichiarazione di completa innocenza.’’
37 Questa esigenza veniva già espressa nella relazione alla camera sul progetto
definitivo del codice Finocchiaro-Aprile, tenuta dal relatore Stoppato che così proclamava: ’’ La sentenza quando le prove raccolte al pubblico giudizio non sono sufficienti a consentire la condanna, assolve; ma non si può sostenere che chi è assolto in queste condizioni meriti un trattamento eguale a colui che viene assolto per non aver commesso il fatto (…)’’. L. Mortara, G. Vacca, R. De Notaristefani, A. Stoppato, A Setti, S. Longhi, Commento al codice di procedura penale, Unione tipografico torinese, 1915, p. 307
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previgente38; seguendo questa impostazione non sarebbe bastato
enunciare il dovere di assoluzione pure nel caso in cui l’impianto accusatorio non avesse permesso una condanna, ma l’assoluzione del soggetto doveva essere ritenuta la sola alternativa possibile, in modo tale che quest’ultimo non avrebbe dovuto subire alcuna conseguenza pregiudizievole di tipo sociale39. La ‘’formula dubitativa’’ si poneva
nettamente in contrasto con questa visione della presunzione di non colpevolezza, poiché mirava proprio a rendere riconoscibile quel soggetto, non uscito del tutto estraneo al processo penale, nella comunità la quale, in questo modo, sarebbe stata in grado di differenziarlo dal ‘’gentiluomo’’40 uscito del tutto ‘’libero’’. E’ errato,
tuttavia, ritenere, che la scelta di quanti avessero voluto l’introduzione della formula dubitativa fosse dettata dalla mancata conoscenza della latitudine della presunzione di innocenza e degli effetti negativi che tale formula avrebbe comportato rispetto a tale principio. Al contrario, appare evidente la conoscenza della reale portata della presunzione di non colpevolezza: l’obiettivo che traspariva, fin dalla relazione alla Camera del progetto definitivo del codice del 191341, era quello di
ridurne la portata , nonostante che lo stesso principio fosse stato, almeno formalmente, accolto quale canone ispiratore non solo
38 Ritroviamo un risalente riferimento alla presunzione di innocenza in G. Borsani L.
Casorati, Codice di procedura penale Italiano commentato, Vol. V, L. di Giacomo Pirola, 1883, p. 51
39 L’unica che nei fatti permaneva, dato che dal punto di vista giuridico ogni formula
assolutoria portava le stesse medesime conseguenze.
40 Questo il termine preciso utilizzato dal Senatore Marinuzzi nella seduta di
redazione del progetto definitivo del codice, in L. Mortara ,A. Stoppato, G. Vacca, A. Setti, R. De Notaristefani, S. Longhi, Commento al codice di procedura penale, vol. III, Unione tipografico torinese, 1915, p. 124.
41 ‘’Si adduce che la formula dubitativa non si concilia con la presunzione di innocenza,
che assiste l’imputato finché non sia dichiarato colpevole. Rispondiamo subito che, ammessa pure la presunzione di innocenza, non si deve esagerarla nelle sue conseguenze ; ma bensì mantenerla nella sua stretta essenza e virtualità riflettente la ricerca processuale’’. Relazione alla camera del progetto finale del codice, in L. Mortara, A. Stoppato, G. Vacca, A. Setti, R.D Notaristefani, S. Longhi, Commento al codice di procedura penale, Unione tipografico-torinese, 1915, p. 306
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dell’istituto delle formule proscioglitive ma di tutto l’impianto codicistico. Il legislatore, quindi, non aveva intenzione di inserire una nuova regola di giudizio, ma voleva deliberatamente ottenere gli effetti pregiudizievoli che, dal punto di vista morale, tale formula avrebbe comportato: il reale scopo della formula, era quello di addossare, almeno in parte, le conseguenze dell’incertezza sulla propria responsabilità42. Si potrebbe arrivare a dire che, se non era possibile
condannare e quindi applicare una pena, con la formula dubitativa si arrivava a comminare una sanzione del tutto peculiare, la quale non avrebbe prodotto i propri effetti nella sfera giuridica del soggetto, ma nella sua sfera morale e sociale43. La consapevolezza degli effetti
pregiudizievoli, che tale peculiare formula comportava, traspariva anche dai, seppur deboli, strumenti di tutela approntati per colui che ne fosse stato il destinatario. Un primo rimedio era di tipo preventivo: non sarebbe stata possibile né la pronuncia di rinvio a giudizio, né dichiarare il non farsi luogo a procedimento per insufficienza di prove, se l’imputato non fosse stato interrogato sul fatto oggetto di imputazione, ovvero se tale fatto non fosse stato enunciato in un mandato, anche se rimasto senza effetto. Il secondo rimedio riguardava, invece, il potere di appellare la sentenza di assoluzione, possibilità che veniva escluso per tutte le ipotesi, salvo per quella di assoluzione per insufficienza di prove; in questo modo si permetteva al soggetto di cercare di ottenere un epilogo assolutorio diverso da quello dubitativo, proprio perché questo era ritenuto particolarmente lesivo.
42 G. Illuminati op. cit. p.129 arriva a sostenere che questa formula fosse un modo per
aggirare la regola di giudizio, che imponeva l’assoluzione anche in caso di insufficienza della prova, sminuendone, in tal modo, la portata.
43 Seguendo questa impostazione, si può arrivare a inserire la formula dubitativa, tra
quegli ‘’strumenti repressivi atipici’’ i quali, in un processo dagli esiti sempre più incerti e da una giustizia ritenuta incapace di fornire risposte adeguate, finiscono per risultare più pregnanti della pena intesa quale sanzione.
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Ulteriore aspetto che dobbiamo nuovamente affrontare con maggior attenzione, trattandosi della prima codificazione contenente formule proscioglitive, è quello dell’efficacia della sentenza penale nel processo civile, ai fini di comprendere se l’introduzione delle formule proscioglitive avesse davvero determinato un’innovazione necessaria44. Nel codice Finocchiaro Aprile il rapporto con la pretesa
risarcitoria veniva disciplinato dall’articolo 12 c.p.p. abr., il quale, similmente alla speculare disposizione contenuta nel precedente codice, non limitava il convincimento del giudice civile su alcuni aspetti già accertati dalla sentenza penale, ma poneva un vero e proprio ostacolo alla proposizione della domanda risarcitoria. La norma in esame disponeva che l’azione in sede civile non avrebbe potuto essere proposta, né perseguita o riproposta dinnanzi al giudice civile, nel caso in cui, a esito di giudizio con sentenza o verdetto irrevocabile, fosse stato dichiarato che: il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, ovvero, in caso di insufficienza di prove, il fatto sussiste o l’imputato lo ha commesso o vi ha concorso. In questo modo, essendo bloccata dal Legislatore la pretesa civilistica in presenza di determinate pronunce, le formule riuscivano nel loro intento, ossia quello di essere sufficienti per chiarire in quale ipotesi la sentenza penale di assoluzione precludesse il giudizio civile. L’articolo 12 c.p.p. abr. era costruito in modo tale da richiamare esso stesso le formule proscioglitive, rendendo superfluo il ricorso alla motivazione. Se ciò risulta esente da critiche, ancora un volta è il proscioglimento per insufficienza delle prove ad apparire contraddittorio, poiché ad esso risulta difficile applicare le medesime considerazioni. Non si può, infatti, applicare per
44 La funzione propria di questo istituto era stata, già nel passaggio tra i due codici,
ravvisata nella maggiore precisione nell’individuazione dei motivi alla base dell’assoluzione proprio ai fini della migliore determinazione degli effetti extra penali della sentenza.
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questa peculiare formula proscioglitiva il medesimo ragionamento ritenuto valido per le altre, cioè che queste impedivano la proposizione dell’azione civile al fine di evitare un contrasto di giudicati, evenienza che si sarebbe verificata se il giudice civile avesse avuto la possibilità di tornare sulla decisione già pronunciata dal giudice penale; quale contrasto, infatti, avrebbe potuto determinare una sentenza che, nei fatti, indicava solo l’impossibilità di formulare un giudizio di colpevolezza per insufficienza di prove? A contrario, in ambito civilistico, sarebbe forse stato possibile, essendo in quest’ultimo il metodo di assunzione delle prove divergente rispetto al processo penale, che il giudice arrivasse ad una convinzione sulla colpevolezza, alla quale in sede penale non si era pervenuti. Il profilo più critico è, tuttavia, la circostanza secondo cui la formula dubitativa finisce per contraddire la funzione stessa dell’istituto delle formule proscioglitive: se, infatti, la proposta risarcitoria viene ostacolata non da qualsiasi pronuncia, ma solo da ipotesi specifiche, è necessario conoscere la causa che ha portato all’assoluzione, operazione non più praticabile in caso di formula dubitativa. L’assoluzione per insufficienza di prove è, a differenza delle altre ipotesi liberatorie, incapace di comunicare all’esterno il motivo del proscioglimento, non essendo riportato nel dispositivo su quale elemento della fattispecie l’impianto probatorio si sia rivelato insufficiente per giungere ad attribuire la responsabilità. Si perveniva così al risultato opposto a quello che il legislatore auspicava con l’introduzione delle formule liberatorie: nell’ipotesi di assoluzione per insufficienza di prove, per individuare gli aspetti sul quale era residuato il dubbio in merito alla colpevolezza, era necessario ricorrere alla motivazione, ciò anche al fine di conoscere l’idoneità o meno della sentenza a bloccare la pretesa risarcitoria. In questo modo, la formula dubitativa si poneva in contrasto con la ratio stessa dell’istituto delle formule liberatorie, le quali sembravano, nel codice in esame, aver
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trovato una parte della propria giustificazione nei rapporti tra assoluzione e giurisdizione civile. Il codice di rito che seguì, emanato nell’ottobre 1930, fu notevolmente influenzato dal contesto storico, di stampo fascista e in antitesi al codice previgente di matrice liberale; era obiettivo dell’intero impianto codicistico, a detta dello stesso Guardasigilli A. Rocco, quello di porre un giusto equilibrio tra gli interessi dello Stato e quelli dell’imputato45.
Ben si può comprendere, quindi, come si accentuarono, anche rispetto alla materia delle formule proscioglitive, quelle istanze che ponevano l’attenzione sulla sicurezza sociale e, più in generale, sulla repressione dei reati, anche a discapito della tutela dell’imputato. A ben vedere, tuttavia, l’impianto delle formule proscioglitive fu mantenuto inalterato: il codice Rocco, infatti, confermò la previsione di specifiche formule ad esito del giudizio dibattimentale, le quali vennero trasfuse dal vecchio al nuovo codice. La differenza maggiore che si riscontra tra i due codici è la reintroduzione, nel codice Rocco, della distinzione generica tra le formule proscioglitive. Fu reintrodotta, così, la distinzione tra sentenze di non luogo a procedere e sentenze di assoluzione, facendosi rientrare nelle prime tutte le ipotesi di proscioglimento in rito.
Riguardo, invece, alle specifiche formule proscioglitive, esse vennero nella sostanza riprese dal codice abrogato e perfezionate, ma, se non si registrano particolari mutamenti nel passaggio tra i due codici, l’aspetto più interessante, ai fini del nostro studio, è come tale codificazione abbia dovuto fare i conti con la carta Costituzionale, entrata in vigore successivamente. Le criticità, quindi, che erano emerse nelle codificazioni previgenti e assolutamente non scomparse
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in quella in esame, risultavano accentuate: a contrapporsi alle scelte operate dal legislatore, infatti, non era più un principio, quale quello della presunzione di non colpevolezza, solo vagheggiato e del quale, parte della dottrina, ne sviliva la portata, ma un principio costituzionale, il quale doveva necessariamente rivestire importanza primaria. Fin dalla sua introduzione, la formula che si presentava maggiormente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione era l’assoluzione pronunciata per insufficienza di prove, ipotesi mantenuta dal legislatore nel codice Rocco, ma formulata in modo differente: l’articolo 479 c.p.p. abr. disponeva l’assoluzione per insufficienza di prove ma non imponeva più l’indicazione di quali tra gli elementi della fattispecie di reato non fossero stati sufficientemente provati, riconducendo semplicemente all’incertezza l’impossibilità di condannare, senza specificarne i motivi. Per altro verso, la disposizione si presentava innovativa rispetto all’analoga previsione contenuta nel codice abrogato; essa infatti al comma secondo equiparava la totale mancanza di prove alla prova positiva dell’innocenza. In questo modo il legislatore impediva di utilizzare la formula dubitativa in mancanza di qualsiasi prova della colpevolezza. La pronuncia di assoluzione per insufficienza di prove residuava, quindi, nell’ipotesi in cui il giudice, di fronte ad elementi sia a favore dell’ipotesi accusatoria, sia a favore della tesi difensiva, fosse stato incapace di affermare con assoluta certezza la colpevolezza dell’imputato46. Come fosse possibile
mantenere tale formula in un contesto quale quello costituzionale, nel quale vigeva il principio della presunzione di non colpevolezza, poteva
46 Più precisamente: ‘’ Presupposto necessario per il proscioglimento dell’imputato
con formula dubitativa è la sussistenza di elementi probatori positivi di tale efficacia, cioè, da essere, per se stessi, sufficienti per affermare la colpevolezza, ma tuttavia sono contrastati da altri elementi negativi , che senza distruggere i primi , siano atti a cagionare nell’animo del giudice uno stato di perplessità’’. G. Guarnieri Tipologia delle sentenze penali di proscioglimento, in Riv. it. Dir. e proc. pen, 1954, p. 53 .
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trovare spiegazione nella portata riduttiva che una parte della dottrina attribuiva al principio; residuava, infatti, ancora la convinzione che non si trattasse tanto di principio di innocenza, ma di non colpevolezza, per cui, fino alla sentenza di assoluzione che avrebbe mutato lo status del soggetto, l’ordinamento sarebbe rimasto neutro47. Analizzando,
invece, quella parte di dottrina contraria a tale impostazione, giova soffermarci sulla posizione di Alberto Ghiara48, il quale approfondì il
comportamento del Giudice delle Leggi: egli sottolineava come la Corte Costituzionale avesse evitato di affrontare in modo diretto ‘’ la questione concernente il principio accolto e la formula di assoluzione dubitativa ..bensì svolge considerazioni.. inerenti all’opportunità di mantenere tale formula ( piuttosto che alla legittimità costituzionale ) considerazioni che, per la loro intrinseca debolezza e per la scarsa influenza sulla questione di legittimità lasciano assai perplessi’’. L’Autore continuava illustrando come - ai rapporti tra assoluzione dubitativa e presunzione di colpevolezza - venisse dedicata solo un’espressione concisa, con la quale la Corte sosteneva che ‘’lungi dal confliggere con il principio di non colpevolezza, apertamente lo convalida, dappoichè tutte le sentenze di proscioglimento .. hanno in comune il riconoscimento dell’infondatezza dell’azione penale’’. Infine, riteneva come il Giudice delle Leggi avesse cercato di spostare l’attenzione sugli effetti pregiudizievoli che derivavano dall’adozione della formula dubitativa, come se illegittime dovessero risultare le norme che prevedevano tali effetti e che la soluzione risiedesse nell’eliminazione delle stesse; l’Autore respinge tale impostazione, facendo notare come, anche laddove queste norme potessero essere
47 Del tema si tratterà più ampiamente nel capitolo successivo.
48 Ghiara A. Presunzione di innocenza , presunzione di non colpevolezza, e formula
dubitativa , anche alla luce degli interventi della corte costituzionale, Riv. It dir. e proc. pen, 1974, pp. 93 ss.