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I MESSAGGERI DELL'ATTESA L'uso delle nuove tecnologie da parte dei richiedenti asilo per la costruzione di reti sociali

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Academic year: 2021

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FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

SOCIOLOGIA E MANAGEMENT DEI SERVIZI SOCIALI

I MESSAGGERI DELL’ATTESA

L’uso delle nuove tecnologie da parte dei richiedenti asilo

per la costruzione di reti sociali

RELATORE: Prof. Gabriele Tomei

CANDIDATA: Francesca Ricci

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INDICE

Introduzione pag. 1

CAPITOLO PRIMO: Il contesto sociale di riferimento: dal globale al locale

Premessa pag. 4

1. Transnazionalismo pag. 4

2. Diaspora pag. 9

3. Il circo politico-mediatico intorno alle migrazioni pag. 14

4. Il contesto locale pag. 20

5. Il tempo dell’attesa pag. 25

CAPITOLO SECONDO:

Il capitale sociale dei richiedenti asilo nell'era delle nuove tecnologie

Premessa pag. 28

1. Tecnologia e società pag. 29

2. Il paradigma tecnologico della Rete pag. 33

3. I richiedenti asilo tra network capital e capitale sociale pag. 35

4. Lo smartphone tra le mani di un richiedente asilo pag. 41

CAPITOLO TERZO:

Le reti sociali dei richiedenti asilo

Premessa pag. 49

Nota metodologica pag. 50

1. Strumenti di analisi: la Social Network Analysis e le reti ego-centrate pag. 53

2. I risultati della ricerca pag. 58

2.1 Il profilo dei richiedenti asilo intervistati pag. 58

2.2 La dimensione delle reti sociali a sostegno dei richiedenti asilo pag. 74 2.2.1 Chi sono gli alter: tempi e modi della relazione con ego pag. 75 2.2.2 Le correlazioni tra le variabili nella rete degli alter di ego:

ipotesi e approfondimenti pag. 87

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4. Un focus sui gruppi WhatsApp dei richiedenti asilo a Livorno pag. 109

4.1 I gruppi religiosi pag. 111

4.2 I gruppi di sostegno tra richiedenti asilo pag. 114

4.3 I gruppi politici pag. 120

4.4 I gruppi familiari: dal villaggio alle rimesse pag. 122

4.5 I gruppi della scuola pag. 125

4.6 I gruppi di inclusione sociale: sport, tempo libero, teatro, volontariato pag. 127

Conclusioni pag. 133

Bibliografia pag. 137

Sitografia pag. 142

Ringraziamenti pag. 143

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Introduzione

Per i richiedenti asilo le nuove tecnologie sono importanti, fondamentali e talvolta cruciali per il mantenimento delle relazioni nel Paese di origine e per la costruzione di reti sociali nel Paese di destinazione. Le nuove tecnologie comprendono: le applicazioni sullo smartphone con le quali si creano gruppi di discussione tramite chat, i siti web, i messaggi, le video chiamate, le foto, tutto ciò che viene trasmesso attraverso un unico mezzo, lo smartphone. Lo smartphone è uno strumento essenziale per i richiedenti asilo perché consente sia un accesso facilitato alle notizie e alle informazioni per la salvaguardia e la costruzione di una nuova vita nel Paese di destinazione sia una comunicazione affettiva continua e fondamentale con la famiglia e gli amici rimasti nei luoghi di origine. Il primo capitolo di questa tesi si sviluppa attraverso i concetti di “diaspora” e “transnazionalismo” che favoriscono e incoraggiano l’utilizzo delle nuove tecnologie per una visione globale e locale dei processi migratori che parte dal continente africano e arriva in Europa, attraverso attività transnazionali, informali e paradigmatiche dentro le quali si muovono migliaia di persone. Una diaspora continua, mediatica e globale che transita, aspetta e si localizza. Il secondo capitolo è dedicato all’incontro tra tecnologia e contesti sociali. La combinazione di questi due elementi è la condizione di partenza per la costruzione della rete di relazioni. Una ragnatela di legami che si creano per mezzo di un unico oggetto - lo smartphone - che diventa lo strumento di comunicazione più accessibile e più utilizzato dai richiedenti asilo per la trasmissione di capitale sociale. La veicolazione di risorse materiali e immateriali diventa presupposto per le relazioni umane che nascono e si mantengono attraverso l’uso delle nuove tecnologie. Il terzo e ultimo capitolo è dedicato alla ricerca quanti-qualitativa utilizzata per scoprire, comprendere, analizzare e interpretare la quantità, il tipo e la valenza delle relazioni esistenti tra i nostri attori sociali e gli altri contatti della rete. La metodologia di ricerca impiegata è la Social Network Analysis e la forma delle reti ego-centrate, che mettono in evidenza la relazione degli attori denominati ego con una rete di contatti fondamentali denominati alter. Il campione è composto da 30 ego che, a loro volta entrano in relazione con una moltitudine di alter dando vita a una rete articolata di rapporti e relazioni di vario genere: dai legami familiari alle reti amicali sino a reti di sostegno specifiche. L’esame delle correlazioni tra le caratteristiche di ego, gli attributi degli alter e le variabili di rete, tipiche di questo impianto metodologico, ci aiuteranno a esaminare la domanda di ricerca su come e quanto le nuove tecnologie influenzino il benessere personale e sociale di un richiedente asilo dopo l’arrivo in Italia. Lo studio e l’analisi delle reti ci permette di scattare una fotografia delle relazioni mediate dalle nuove tecnologie in entrambi i contesti di appartenenza: il Paese di origine e le città di destinazione, generando forme e modelli di “transnazionalismo tecnologico”. Lo smartphone, nel tempo dell’attesa, diventa luogo di comunicazione, di ricordi e di speranze per un futuro migliore.

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2 Un focus particolare è dedicato alla creazione di gruppi WhatsApp e alla potenza delle reti informali per migliorare le condizioni di vita dei richiedenti asilo attraverso la condivisione e lo scambio di messaggi. La partecipazione ai social groups è legata alle motivazioni e agli argomenti per i quali il gruppo è stato creato. Nascono gruppi a sostegno della fede religiosa, gruppi a tema politico, gruppi familiari, gruppi dedicati all’inclusione sociale e a sostegno della propria condizione di richiedente asilo. Le chat di gruppo diventano, per ogni partecipante, un luogo di azione e costruzione della vita quotidiana. All’interno di questo spazio virtuale si mantengono gli affetti, si resta in contatto con il proprio villaggio, si costruiscono legami con la comunità locale e si cerca aiuto fuori e dentro la propria cerchia sociale. Le attività messe in campo attraverso la digitalizzazione delle azioni quotidiane riempiono il tempo dell’attesa, del soggiorno europeo mediato e mediatizzato con l’uso della tecnologia, e vengono utilizzate per colmare la distanza e arginare le difficoltà. I nuovi migranti, senza documenti, si muovono nel villaggio globale, in un perenne presente traboccante di attesa. Dai corpi sui barconi ai messaggi in Rete, il richiedente asilo è l’immagine della contraddizione contemporanea, nella quale il progresso tecnologico è appannaggio della comunicazione virtuale e non dei mezzi di trasporto. I richiedenti asilo per la loro condizione giuridica vivono in un “limbo” esistenziale di eterna attesa. Questo elemento influenza e condiziona la vita quotidiana di ciascuno dei ragazzi intervistati e così nasce e si protrae l’attesa per il permesso di soggiorno, per l’esito della commissione, per un eventuale ricorso, per un lavoro qualsiasi, per una casa, per rivedere la propria famiglia, per imparare la lingua, per essere accettati, per integrarsi. L’accesso alle risorse digitali sembra proteggere e migliorare la vita dopo l’arrivo in Italia. Anche i nuovi programmi di accoglienza europei prevedono una carta telefonica da assegnare ai richiedenti asilo, appena arrivati a destinazione. Il titolo di questa tesi: “I messaggeri dell’attesa” nasce e cresce a Livorno dalla mia esperienza lavorativa all’interno di una Onlus (Arci Solidarietà), ente gestore di alcuni CAS - centri di accoglienza straordinaria. Questo mi ha permesso di entrare in contatto con i partecipanti, somministrare trenta questionari a ventisette uomini e tre donne e realizzare diciassette interviste. I partecipanti sono richiedenti asilo ospiti nei centri di Arci Solidarietà, Cesdi: centro servizi donne immigrate, impresa sociale Opera Trinitaria srl e un progetto SPRAR di Caritas Diocesana. Molto è stato detto dai media, circa l’arrivo dei profughi e la loro presenza in Europa, ma ancora poco è stato detto da loro. I richiedenti asilo non sono un gruppo omogeneo, hanno posizioni ideologiche, linguistiche, sociali e culturali molto differenti. Le esperienze che, in questa delicata situazione, li rendono uguali sono il lungo viaggio, la convivenza nelle strutture di accoglienza, la condizione giuridica di partenza e il fatto di possedere uno smartphone. Questa ricerca vuole mettere sotto osservazione l’uso del dispositivo digitale, non solo come “arma di distrazione di massa”, ma anche come strumento di condivisione, sostegno e

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3 inclusione. Nonostante un certo tecno-ottimismo che riconosce le nuove tecnologie come strumento di inclusione sociale, c’è ancora molta strada da percorrere perché l’integrazione sociale si compia e questo non potrà certo avvenire solo attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie.

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PRIMO CAPITOLO

Il contesto sociale di riferimento: dal globale al locale

Non c’è più grande dolore della perdita della terra natia.

Euripide, 431 a.C

Premessa

In questo capitolo cercheremo di affrontare i temi del transnazionalismo, il fenomeno della diaspora e forniremo qualche cenno sul contesto locale ovvero l’Italia in quanto terra di approdo di migliaia di persone in cerca di asilo. Con qualche cenno biografico dei soggetti intervistati ci proponiamo di raccontare le loro identità diasporiche come “contro-storie”, a supporto di ciò che viene definito globalizzazione dal basso. La globalizzazione si sposta dalle “alte sfere” della finanza e dell’informazione per scivolare nei villaggi, nelle baraccopoli africane, luogo di partenza delle nuove diaspore di esseri umani, che attraversano il deserto su pick-up stracolmi di passeggeri, salgono su barconi fatiscenti per giungere, se riescono, sulle coste italiane. Le diaspore contemporanee e il transnazionalismo sono una forma di politica culturale (Clifford, 1999) che si oppone ai concetti di nazionalismo e assimilazione, tanto cari ai governi europei e nazionali. L’attenzione mediatica sui flussi migratori è altissima; i media si trasformano in interlocutori “privilegiati” che si pongono in mezzo tra le popolazioni in arrivo e la comunità locale. La comunicazione mediatica eccessiva e non sempre attenta crea e favorisce la costruzione dei cosiddetti simboli di stigma, segni attribuiti a persone racchiuse in categorie sociali prestabilite e che hanno particolare efficacia nell’attrarre l’attenzione verso qualche discrepanza che svaluta l’identità (Goofman, 2003: 60). Se da una parte i media sviliscono le identità e le vite dei nuovi migranti, dall’altra l’innovazione tecnologica si sostituisce al contesto sociale permettendo ai nuovi migranti di soddisfare bisogni fondamentali e riempire il tempo indefinito dell’attesa per ottenere uno status giuridico certo e un’identità rinnovata.

1. Transnazionalismo

Il termine transnazionalismo rappresenta un nuovo approccio teorico per comprendere l’identità dei migranti che mantengono forti legami con la comunità di origine. Un percorso dove i migranti costruiscono campi sociali e nel quale si rintracciano i contesti originari e le condizioni attuali. Il transnazionalismo non si muove in maniera binaria, ossia non definisce i luoghi di partenza e di

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5 arrivo come spazi chiusi e indipendenti l’uno dall’altro. Il transnazionalismo si muove dal basso con l’intervento degli suoi attori. Il transnazionalismo è culturale, sociale, politico; attraversa i confini geografici. Le relazioni che si instaurano sono fluide e dinamiche, localizzate e globali allo stesso tempo. Una struttura sociale che comprende le famiglie, coloro che non migrano, i Paesi di passaggio e le organizzazioni socio-politiche che si occupano di migrazione. Il transnazionalismo è sostenuto e talvolta creato dall’ingresso delle nuove tecnologie nelle società contemporanee. La tecnologia, per sua natura, valica i confini territoriali ed entra nel campo delle relazioni sociali e culturali in grado di generare attività transnazionali. Il nuovo paradigma, figlio degli anni Novanta, incontra le nazioni sul terreno del nazionalismo, sovvertendo le misure restrittive dei governi, dei muri e dei fili spinati. I confini degli stati nazione non riescono a adattarsi alla nascita dei nuovi campi sociali. Nel campo sociale le persone si legano in quanto “forme di essere” e “forme di appartenenza” (Levitt, P. e Glick Schiller, 2004: 1002-1039). I modi di essere sono le relazioni sociali effettive e simboliche all’interno del campo, mentre le forme di appartenenza sono azioni visibili e concrete legate alla propria identità. La caratteristica della dualità contraddistingue la figura del migrante, in grado di vivere la simultaneità dei legami e portare le due società di riferimento nello stesso campo sociale.

Quando un tale abbandona una comunità dopo averci abitato per diversi anni, lascia dietro di sé un’identificazione personale, spesso con annessa una biografia complessa di cui fanno parte anche le supposizioni riguardo al come “finirà”. Nella comunità in cui viene a trovarsi, quel tale svilupperà una biografia delle menti degli altri, potenzialmente un ritratto completo che comprende una versione di quello che era prima e il retroterra da cui è venuto. Naturalmente, può darsi che sorga una discrepanza tra queste due specie di conoscenza, talora come una doppia biografia; quelli che la conoscevano in passato e quelli che la conoscono ora pensano, ciascuno a modo suo, di sapere tutto della persona (Goofman, 2003: 97).

Il trasmigrante è colui che sviluppa e mantiene multiple relazioni – familiari, economiche, sociali, politiche e organizzative – che si estendono attraverso le frontiere (Glick Schiller, Basch e Blanc-Szanton, 1992: 1). A livello locale, i trasmigranti si appropriano dei costumi e degli stili di vita propri delle società occidentali: dall’uso dei mezzi di comunicazione sino ai bisogni alimentari soddisfatti dalle multinazionali del cibo, pur mantenendo anche i propri usi e costumi, sia alimentari che religiosi. Ed è proprio la molteplicità di collocazioni sociali che questi trasmigranti assumono, sia nella società di origine sia in quella che li ospita, a rendere questo fenomeno trasversale alle classi sociali e quindi propenso a muoversi dal basso (Basch, Glick Schiller, Szanton Blanc, 1994: 7). La doppia appartenenza del migrante non è condizione passeggera e trova la sua stabilità nell’uso delle nuove tecnologie come strumento di adesione, confronto e relazione con e tra i due

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6 mondi. Si arriva così all’edificazione di uno stato virtuale, del villaggio globale (McLuhan, 1964) nel quale i nuovi media riducono distanze siderali, permettono comunicazioni in tempo reale e rendono il mondo un posto piccolo come un villaggio. Il transnazionalismo è sicuramente una forma di adattamento di cui i migranti sono protagonisti dentro il contesto della globalizzazione, differente dai processi di assimilazione che tendono a snaturare cultura e tradizioni originarie. Assistiamo così al rafforzamento e alla precisa volontà di rivendicare la doppia appartenenza, la doppia presenza e anche la “doppia assenza” (Sayad, 2002). L’affermazione di pratiche e legami transnazionali non implica certo la mancata integrazione nella società ricevente, anzi i meccanismi sociali del co-sviluppo, secondo il quale i problemi del pianeta devono essere affrontati in maniera congiunta tra Nord e Sud del mondo, possono costituire una strategia originale che combina le prospettive e gli investimenti nel contesto di partenza e l’integrazione nel contesto di approdo. Il co-sviluppo è una strategia di cooperazione internazionale mirata alla valorizzazione dell’individuo e delle sue capacità in linea con il principio alla base delle attività transnazionali svolte dai migranti, che comprendono azioni politiche, economiche, sociali e culturali che interessano i due Paesi di appartenenza. Distribuire risorse dall’alto ai Paesi in via di sviluppo non ha avuto gli effetti sperati. Con la globalizzazione e l’aumento degli spazi transnazionali, la cooperazione internazionale assume un carattere decentrato ed è diretta allo sviluppo locale attraverso il coinvolgimento di istituzioni, enti, associazioni e della società civile tutta. Il concetto di co-sviluppo si fonda, così, sulla valorizzazione delle abilità e capacità della popolazione migrante che, una volta trasferita in un Paese ricco, può favorire lo sviluppo nel proprio Paese di origine. Il migrante è così soggetto transnazionale in grado di trasferire merci, denaro, elementi culturali e sociali tra vari Paesi: quello di origine, quello di arrivo e quello di transito. Si può sostenere che i fenomeni transnazionali non sono in contrapposizione alle dinamiche di radicamento e inserimento nella società di destinazione, ma che a una più spiccata e riuscita integrazione nei contesti di arrivo corrisponde un maggiore sviluppo di capacità, competenze e attività transnazionali. L’antropologo sociale Steven Vertovec (Vertovec, 2004) mette in luce alcuni significati di transnazionalismo tra cui possiamo identificare: il transnazionalismo come morfologia sociale orientato allo studio di un nuovo tipo di migrazione che attraversa le frontiere; il transnazionalismo come tipo di consapevolezza riferita a esperienze comuni che traggono origine da una diaspora; il transnazionalismo come miscela culturale di stili, istituzioni sociali e pratiche quotidiane; il transnazionalismo in quanto canale di flussi di capitale, sia di grandi corporazioni transnazionali sia delle piccole e rilevanti rimesse inviate dai migranti ai familiari e conoscenti nel Paese d’origine; il transnazionalismo come spazio politico che si estende attraverso i confini e coinvolge singoli individui, intere comunità (o villaggi) e organizzazioni non governative; il transnazionalismo come ricostruzione della nozione di luogo. Ciascuna delle sei

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7 definizioni elencate rientra tra le attività che i richiedenti asilo per mezzo delle nuove tecnologie e non solo, costruiscono sui territori, aprendo la strada ai percorsi di integrazione messi a disposizione dai contesti di accoglienza e fornendo loro gli strumenti per la costruzione delle reti informali. Un transnazionalismo caratterizzato, per sua natura, dalle attività materiali e immateriali dei suoi protagonisti, i migranti, che con le loro azioni quotidiane sono generatori continui di fenomeni transnazionali dal basso. L’opportunità di creare reti informali per il miglioramento del proprio benessere è una di queste. Oggi i flussi migratori più consistenti provengono dal Sud del mondo, ci troviamo di fronte a intere popolazioni che fuggono da povertà, guerre e disperazione. Uno spostamento demografico che scaturisce dal divario economico e sociale tra Nord e Sud del pianeta. Un movimento dal basso, dal Sud, che ha urgente bisogno di una partecipazione dal Nord, dall’alto, dove vivono e governano le istituzioni che avrebbero il dovere di colmare il divario che hanno creato. Nel transnazionalismo i rapporti sono spesso informali, escono fuori dal controllo degli Stati e si alimentano di reti sociali pur restando ancorati agli Stati stessi. La percezione dello spazio è sempre meno definita e racchiusa nei confini statali. Lo spazio diventa sociale e comprende legami affettivi, economici, attività, valori, rituali religiosi e interazioni tra migranti e popolazione locale. Gli individui che operano nello spazio sociale nel quale migrano sono esposti a un certo tipo di aspettative e ai modi di vita del contesto nel quale vengono a trovarsi. Le reti sociali si modellano e si trasferiscono, spesso, in gruppi virtuali, amplificando ed estendendo così il concetto di rete e di spazio. Lo spazio non è equivalente al luogo, ma si estende oltre i confini fisici; lo spazio diventa il gruppo transnazionale caratterizzato dagli elementi dello scambio, della solidarietà e della reciprocità, dove circolano beni, persone e informazioni (Faist, 2000). La rete sociale, nell’era tecnologica, entra nella Rete, si mette on line. Le nuove tecnologie, in particolare l’uso dello smartphone, aiutano e incrementano questa circolarità; ci basti osservare le piazze delle città italiane che dispongono di una rete wi-fi per comprendere l’entità e l’intensità delle attività di comunicazione che hanno per protagonisti i richiedenti asilo in cerca di rete e protezione internazionale. Il migrante che sperimenta pratiche transnazionali ha la capacità di andare e tornare frequentemente dal Paese di origine a quello di destinazione sviluppando interessi in entrambi, mentre ai richiedenti asilo è preclusa questa possibilità di spostamento fisico e quindi le pratiche quotidiane di scambio, condivisione e trasferimento delle risorse avvengono, solamente, attraverso l’uso del dispositivo digitale. Il transnazionalismo che comprende le attività dei richiedenti asilo è una pratica quasi del tutto concentrata all’interno dei dispositivi digitali: dall’invio delle rimesse, all’attività politica, alla trasmissione culturale, alla costruzione sociale dei rapporti. Nel terzo capitolo, affronteremo in maniera approfondita il tema delle attività transnazionali svolte dai gruppi WhatsApp. La migrazione, a livello globale, è certamente iniqua, dettata da diseguaglianze

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8 economiche, sociali e politiche ed è in grado di trasformare le economie, il modo di governare degli Stati nazionali e i modi di vivere delle comunità locali. Basti pensare al sistema delle rimesse, alla nascita nelle città di arrivo di interi quartieri dediti a un certo tipo di commercio e, non in ultimo, alle politiche sull’immigrazione e accoglienza sancite dai governi europei e non solo. Il trasmigrante, in un’ottica di co-sviluppo, è un attore sociale locale sia del luogo di partenza sia del luogo di arrivo e la nuova identità è il risultato di una frammentazione di intere popolazioni che, in cerca di fortuna, fuggono dal proprio Paese e cercano nel nuovo ambiente il volto dell’integrazione. La partenza dalle terre di origine e l’arrivo nei nuovi contesti comporta perdita e assunzione di connotati originali e differenti. I richiedenti asilo rientrano a pieno titolo nelle caratteristiche transnazionali di Vertovec: la mobilità sociale, le rimesse, la diaspora di intere popolazioni, la differenziazione culturale, la nascita dello spazio politico fuori dai confini nazionali e la ridefinizione di luogo, non più solo spazio fisico, ma virtuale. Un transnazionalismo post-moderno, per natura contraddittorio, nel quale sopravvive sia la dinamica dei “barconi” sia il progresso tecnologico legato alla comunicazione on line. Sono state create, in questi anni, applicazioni digitali per le richieste di salvataggio in mare aperto (AlarmPhone), molto utilizzate dai profughi provenienti da Siria e Iraq, zone nelle quali il divario digitale non è così profondo come nelle regioni dell’Africa Subsahariana e quindi la possibilità di possedere uno smartphone durante la traversata non è così remota. La partenza e la fuga dal proprio Paese è la prima azione da compiere affinché il transnazionalismo abbia origine. Il viaggio che ne consegue è descritto nel “diario di bordo” di un giovane partito dal Gambia per raggiungere le coste italiane.

Il 20 giugno 2015 sono diventato uno dei tanti profughi salvati nel Mar Mediterraneo. Mi hanno portato in Sicilia e il giorno dopo in Toscana, a Livorno. Ho trascorso più di 2 anni in viaggio per raggiungere l’Italia, se avessi preso un volo il viaggio dal mio Paese sarebbe durato cinque ore, ma il mio è stato un viaggio diverso, non quello in cui prepari i vestiti nuovi, valigie, una fotocamera e dove saluti la tua famiglia, se ancora ne hai una. Un viaggio dove si soffre tutto il giorno per avere un bicchiere d’acqua. Un viaggio dove poliziotti e banditi ci hanno venduto come degli oggetti. Un viaggio dove ringraziamo Dio se veniamo picchiati solo due volte al giorno perché quattro è il minimo che ci tocca. Un viaggio dove lo sfruttatore dà un bastone a un figlio per picchiare i genitori o ai genitori per picchiare i propri figli oppure dove arrivano i banditi con la pistola per uccidere tutti. Un viaggio dove sorelle e fratelli vengono obbligati a fare l’amore tra loro o tra genitori e figli, altrimenti torna la pistola, la stessa con cui abbiamo visto uccidere i nostri compagni di viaggio. Un viaggio dove più di cinquanta persone sono costrette a trascorrere un mese in una stanza di quattro metri per quattro. Un viaggio dove si mangia un panino per tutto il giorno e nello stesso posto si fanno i propri bisogni. Un viaggio dove si indossa per tutto il tempo una sola maglietta e un solo paio di pantaloni. Un viaggio dove la notte fa molto freddo e la gente accende il fuoco per sentire caldo e quando sta per finire si bruciano gli ultimi ricordi rimasti: foto, libri e certificati di scuola. Un viaggio dove quando fa caldo si beve la propria urina. Un viaggio

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9 dove il viaggiatore dorme nella stessa camera con le mucche. Un viaggio dove il viaggiatore mangia carta con lo zucchero e se ci fossero anche solo spaghetti con il sale, sarebbe il cibo migliore. Un viaggio dove l’unica medicina per i malati è la pallottola di una pistola, dove gli handicappati non riescono a correre per scappare dai banditi e dove i sordi vengono picchiati con un bastone più grande. Un viaggio dove nessuno prepara la colazione di domani perché, ogni notte, c’è solo il cinque per cento di possibilità che ci sia domani. Un viaggio dove forse scoppierà una bomba nascosta o verranno i banditi a ucciderci e a prendere le nostre cose, oppure gli sfruttatori verranno a prendere i ragazzi per venderli e farli prostituire o semplicemente per farli lavorare nei campi, senza pagarli. Un viaggio dove i viaggiatori scrivono i numeri di telefono sui loro vestiti, per essere rintracciati, una volta morti. Un viaggio dove i banditi calmano la loro rabbia sparando per strada ai viaggiatori di colore come me. Un viaggio dove i banditi si vantano per la quantità di persone che hanno ucciso. Un viaggio dove i viaggiatori si sentono più sicuri a dormire nei cimiteri che per strada. Un viaggio dove i ragazzi sotto i quindici anni si divertono a lanciare spazzatura e pietre sulla gente di colore. Un viaggio dove siamo stati costretti a mangiare cibo marcio, altrimenti tornava la pistola. Un viaggio dove ci hanno obbligati a ridere mentre ci picchiavano. Un viaggio dove è vietato ridere per strada, e se lo fai i tuoi denti vengono rimossi con una pinza. Tutto questo accade in Libia (B. J., testimonianza diretta, 2016).

Con questa testimonianza introduciamo il concetto di diaspora contemporanea contrassegnato dallo spostamento in massa di popolazioni sofferenti e in cerca della terra promessa. Una migrazione che parte dai singoli villaggi, si sposta nel deserto e si arresta in Libia per accumulare denaro e poi ripartire, via mare, verso l’Europa.

Provate a immaginare di trascorrere due settimane seduio uno sull’altro, sopra un pick-up, nel deserto, con cinquanta gradi, dove si mangia e si beve una volta sola al giorno e se il pick-up va fuori strada tutti muoiono (B. J., testimonianza diretta, 2017).

2. Diaspora

Diaspora e transnazionalismo sono fenomeni che comunicano tra loro, se grandi movimenti di persone provocano attività transnazionali, queste, a loro volta, facilitano lo spostamento in massa. Le diaspore rimodellano gli Stati e sono caratterizzate da un movimento cospicuo di un popolo dal centro di uno Stato verso la sua periferia o fuori dallo Stato stesso (Safran, 1991: 82-85). Ciò che lega i componenti della diaspora è la memoria collettiva circa il ritorno nel proprio Paese e l’idea di non essere accettati nel Paese ospitante. È stato così per i Greci e per il popolo ebraico. Nella tesi di Clifford (Clifford, 1994: 302-338), invece, la diaspora si riferisce a uno spostamento di massa cosciente e fenomeni di attaccamento e adattamento multi-livello nella società locale di insediamento. Le caratteristiche degli attuali flussi migratori – globalizzati, frammentati e organizzati dal basso, composti in buona parte da soggetti mobili e impegnati in migrazioni circolari

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10 e soggiorni temporanei – trovano corrispondenza in quella particolare condizione esistenziale che consiste, per usare un ossimoro, nel “risiedere nello spostamento” (Clifford, 1999). Il movimento migratorio di coloro che scappano dalle guerre, dalla fame e dalle persecuzioni in atto negli Stati africani e nel Paese di arrivo acquisiscono lo status giuridico di richiedente asilo può essere considerato una diaspora. I numeri parlano chiaro: nel 2016 sono sbarcati, solo sulle coste italiane, oltre 180 mila persone, senza tener conto degli sbarchi verso le altre coste che si affacciano sul Mediterraneo e delle migrazioni interne. Il Sud del mondo sta cercando una via di uscita e pensa di trovarla in Europa, pur scontrandosi con l’impalcatura di una fortezza che ne ostacola l’arrivo, con la chiusura delle frontiere da parte di alcuni governi europei e la non apertura di canali umanitari. Il 1951 è una data lontana e importante, nella quale viene redatta la “Convenzione di Ginevra sullo Status dei Rifugiati”: il primo accordo internazionale che introduce la definizione generale del termine “rifugiato” e prescrive agli Stati contraenti alcuni standard minimi nel trattamento di coloro che sono stati riconosciuti come rifugiati dalle autorità nazionali ai sensi della Convenzione. Una sorta di Magna Carta dei rifugiati. “Rifugiato” all’articolo 1 della Convenzione è colui che:

Temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, per tale timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole ritornarvi, per il timore di cui sopra.

L’articolo 33, inoltre, impone agli Stati contraenti di:

Non espellere o respingere - in qualsiasi modo - un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

Tale principio di non respingimento è stato incluso in maniera esplicita o implicita nelle norme delle Costituzioni e delle leggi sugli stranieri di vari Stati. Inoltre, rientrando nell’ambito del diritto internazionale consuetudinario, il principio di non respingimento è vincolante per tutti i Paesi. Prima di divenire rifugiato e avere le tutele che la Convenzione di Ginevra e il successivo Protocollo di New York del 1967 impongono, colui che arriva in Europa è un richiedente asilo che ha il diritto di fare domanda di protezione internazionale. L’esito della richiesta può arrivare anche dopo anni e intanto la diaspora non si arresta. Transnazionalismo e diaspora restano forme di resistenza alle condizioni oppressive della globalizzazione. I popoli si muovono dai Paesi poveri del

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11 Sud del mondo in cerca di un benessere economico e sociale sia individuale sia collettivo, che include anche coloro che non sono partiti. Lo status di richiedente asilo si scontra con una sorta di anarchia normativa dovuta a uno vuoto procedurale della Convenzione di Ginevra rispetto alla determinazione dello status di rifugiato, così ogni nazione trova le procedure più appropriate al proprio apparato amministrativo o alla propria Costituzione. A questo si aggiunge l’impossibilità da parte dei richiedenti asilo di esercitare la pressione politica necessaria e di assolvere a quel ruolo di

advocacy riscontrabile in altre tipologie di migranti (Zamagni, 2003). Alle condizioni incerte e

precarie che contraddistinguono la vita di ogni richiedente asilo si affiancano relazioni e reti sociali, locali e globali, tipiche delle comunità diasporiche e delle attività transnazionali. A sostegno della creazione di una struttura sociale in continuo divenire ci sono il progresso tecnologico e la presenza dei social network che sostengono la costruzione di comunità e identità nuove sulla base di quelle vecchie (Sassen, 2008), a sottolineare sia l’apporto delle nuove tecnologie nei confronti delle pratiche transnazionali sia l’interazione e la trasformazione delle identità di ciascuno nei nuovi contesti di appartenenza. La comunicazione mediata dalle nuove tecnologie facilita e accresce i legami all’interno della diaspora dei richiedenti asilo. Sono in atto due processi sociali: la stratificazione e la “glocalizzazione” delle culture. Il primo processo indica l’interazione e la contaminazione tra l’ambiente tradizionale e familiare della comunità migrante con la comunità locale, che comporta contaminazioni culturali importanti per lo sviluppo sociale di entrambe le comunità. Il termine “glocalizzazione” indica, invece, l’applicazione a livello locale dei prodotti e dei servizi creati dalla globalizzazione, come l’utilizzo del web per la creazione di specificità locali modellate su canoni globali (think global, act local). I migranti, attraverso lo scambio e la condivisione di pratiche transnazionali hanno l’opportunità di costruire un progetto sociale e culturale che contenga una società dall’aspetto duplice dove convivono le proprie radici e la fascinazione del luogo sconosciuto, non sempre accogliente, ma nuovo e tutto da scoprire. Il luogo di incontro dei due spazi sociali è virtuale e legato alle opportunità create dalle nuove tecnologie: la diaspora delle immagini fluttua in Rete e crea occasioni di scambio, condivisione e doppia appartenenza. Le persone si spostano e si insediano portando con sé le proprie tradizioni, le proprie emozioni e il proprio bagaglio culturale. Solitamente, lo sbarco sulle coste italiane avviene senza la valigia dei vestiti e dei ricordi, caduti in mare, durante la traversata. Per recuperare una foto, il suono di una voce, un messaggio d’affetto, la tecnologia diventa indispensabile. Il telefono si trasforma in contenitore di ricordi, tradizioni e culture, lì possiamo scoprire la storia del villaggio, le relazioni affettive, i compagni di viaggio salutati a Lampedusa. Più il tempo passa, più i messaggi e le comunicazioni aumentano e la rete di relazioni si allarga anche alla popolazione locale, creando un’aurea di multiculturalismo che si trascina fuori dalla Rete ed è reale. Ciò che emerge in questa

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12 comunicazione continua, on line, tra i due mondi è l’attaccamento alla propria cultura, pur nella distanza geografica, e la volontà di integrarsi ed essere felici nel nuovo mondo. La cultura sta nella costruzione delle differenze. L’immagine della diaspora può essere evocativa di una nazione e di una casa nella quale ritornare (Safran, 1991) o corrispondere alla costruzione di codici e memorie culturali condivise per chiedere di restare. I nuovi migranti - richiedenti asilo - vivono nella prospettiva di un futuro europeo. La terra natale è il luogo amato ma condannato a miseria e sofferenza; un luogo familiare che, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, può essere aiutato e sostenuto anche da lontano.

Una parte significativa dei migranti contemporanei continua, in effetti, ad alimentare circuiti di interscambio e di relazione con il Paese di origine, attraverso azioni finanziarie e economiche, pratiche sociali e politiche, attività più propriamente culturali, comunicative e simboliche (Ceschi, Riccio, 2007: 305 - 316).

Anche la Commissione Europea su Migrazioni e Sviluppo, nel 2005, comunica un primo riconoscimento del ruolo delle diaspore come motore dello sviluppo dei Paesi di origine. Tale ruolo è collegato anche ai processi di integrazione:

Il coinvolgimento personale dei migranti nello sviluppo del loro Paese di origine facilita, a sua volta, la loro integrazione nel Paese di residenza (Ceschi, Riccio, 2007: 305 - 316).

I migranti sono coinvolti nei processi sociali, all’interno dei quali riescono a intrecciare reti e mantenere relazioni multiple che collegano le loro società di origine, quelle di approdo e molto spesso altre località dove sono presenti altri gruppi di connazionali. Nascono campi sociali, dove la duplice vita dei migranti si esprime attraverso la padronanza di due o più lingue e l’adozione del sistema delle rimesse da inviare al proprio villaggio o a propri connazionali in situazioni di difficoltà, in altri Paesi europei. Gli spazi sociali che si generano dalla contaminazione culturale sono luoghi multidimensionali dove si intrecciano attività sociali, politiche, economiche e affettive, confermando la “connettività” riscontrabile nel presente globale (Tomlinson, 2001). Le azioni transnazionali che i migranti intraprendono attraverso i confini statali riguardano tutte le sfere della vita umana: la sfera economica, attraverso il trasferimento delle rimesse; la sfera sociale che include la costruzione di relazioni e reti di scambio, condivisione e contatto nonché la trasmissione continua delle conoscenze e i legami inter-sociali, comunitari e familiari; la sfera politica con attività volte alla partecipazione e a forme di pressione sulla sfera del potere nel Paese di origine; la sfera

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13 religiosa per il mantenimento della fede e della coesione della comunità dei fedeli; la sfera culturale e simbolica attraverso la rappresentazione e la trasmissione di valori e significati connessi alla propria comunità di appartenenza, all’identità diasporica e all’uso dei social media. Il semplice collegamento con la famiglia attraverso lo smartphone presenta i requisiti per essere considerata attività transnazionale, in quanto azione umana dispiegata attraverso i confini degli Stati.

Mio figlio lo vedo su WhatsApp, mi piace molto questa cosa. Ha due anni e io sono venuto via quando aveva solo otto mesi. Ora vive con la mia famiglia e lo vedo tramite lo smartphone di mia madre e mio padre (intervista n. 6).

La comunità migrante utilizza i social media come veicolo di scambio all’interno della propria diaspora ed è in grado di usare entrambi i versanti della migrazione nella duplice società di appartenenza composta da connazionali, popolazione autoctona, istituzioni, scuole e associazioni locali.

Se i soggetti che interagiscono si trovano in madrepatria e nel Paese ricevente avremo una dimensione relazionale estroversa, mentre se le relazioni sono confinate a un gruppo di connazionali la dimensione della relazione appare introversa (Ceschi S., Riccio B., 2007: 305 - 316).

Un tipico esempio di scambio e condivisione all’interno della comunità migrante attraverso l’uso attivo dei social media è la partecipazione a gruppi virtuali. La diaspora si muove dentro la Rete e cerca di costruire dall’interno forme nuove di socialità. Un primo esempio di social group, è il gruppo denominato “Smile Gambia”.

Il gruppo è stato creato da un amico, molto intelligente a scuola, lui si trova in Gambia e lo ha creato per i ragazzi di Busumballa, il mio villaggio. In seguito, ha aggiunto tanti numeri che non conosco. Abbiamo fatto amicizia, due ragazzi che si sono conosciuti nel gruppo poi si sono addirittura sposati. Dentro, ci sono richiedenti asilo che vivono in Africa, Italia, Germania, Malta e due ragazzi emigrati in America. Parliamo di tutto: amore, amicizia, scuola. Qualcuno dà consigli, altri raccontano la vita negli altri Paesi di emigrazione, ad esempio a Malta dicono sia difficile ottenere il permesso di soggiorno e facile trovare lavoro senza contratto, in Francia la stessa cosa, in Germania ci sono soldi e la vita è facile, ma per avere il permesso di soggiorno ti devi impegnare molto; quelli che vivono in America uno studia e l’altro lavora (intervista n. 8).

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14 La diaspora può generare, tra i suoi attori, pratiche di tipo transnazionale, che successivamente, per la loro natura morbida, attraversano i confini degli Stati e si nutrono delle reti sociali informali costruite dagli individui con le nuove tecnologie. La comunicazione digitale alimenta la diaspora e rischia di intrappolare il richiedente asilo in una sorta di torre d’avorio capovolta che ripara e protegge, dove si aspetta, connessi, l’esito della commissione territoriale per l’istanza di asilo. Con le nuove tecnologie, sembra alzarsi la soglia di resistenza nel Paese straniero e l’attesa, che può durare anni, diventa più sopportabile. Questa nuova diaspora a metà tra il desiderio di spostamento e la paura di non essere accettati, non sogna, in maniera preminente, di tornare nella propria terra quando la distanza e i rapporti affettivi con le origini vengono continuamente colmati e mitigati dall’uso della tecnologia. Ci si sente un po’ a casa se ogni sera riusciamo a collegarci con una video chiamata e il flusso delle immagini e dei messaggi vocali è quotidianamente presente nelle nostre vite. Le stesse tecnologie che rappresentano, per il richiedente asilo, un’ancora di salvezza affettiva e una rete di sostegno sociale sono utilizzate per veicolare odio razziale e discriminazioni. Gli strumenti del comunicare sono una medaglia a due facce, capace da un lato di incentivare la solidarietà e favorire i legami, dall’altro di creare fratture e alzare il conflitto sociale.

3. Il circo politico - mediatico intorno alle migrazioni

Tra il 1960 e il 2015 il numero complessivo dei migranti è triplicato raggiungendo il 3,3% della popolazione mondiale. Oggi le persone che vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nate sono 250 milioni, una su 30. Se tutti i migranti fossero una nazione indipendente rappresenterebbero il quinto Paese più grande del mondo. Nel ventunesimo secolo, la maggiore sfida per i Paesi più ricchi del mondo è accogliere un afflusso di migranti estremamente vario (Metha, 2017: 102). Con l’arrivo di nuovi e dirompenti flussi migratori c’è stato anche un aumento della disuguaglianza economica all’interno delle società di arrivo. La globalizzazione ha prodotto effetti sia sulla migrazione sia sulla stratificazione sociale. Una mobilità agevolata dal progresso nel settore dei trasporti e della comunicazione migra verso i Paesi ricchi rappresentati dai media globali come un contenitore di opportunità. La diffusione di modelli di vita occidentali attraverso i mezzi di comunicazione di massa sembra favorire lo spostamento delle popolazioni povere del pianeta che, una volta a destinazione restano intrappolate in un sistema che riflette ancora un certo tipo di legame coloniale e non permette l’accesso a risorse, finalmente, a portata di mano. Nelle città dell’Occidente si creano nuove povertà e una crescente sperequazione economica e sociale. La stratificazione mostra la disuguaglianza strutturata di intere categorie di individui che hanno un accesso differenziato alle ricompense sociali in conseguenza del loro status. I soggetti che vivono

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15 una condizione socio-economica dominante godono di privilegi e vantaggi rispetto agli individui con uno status sociale più basso. La ricchezza del mondo è concentrata nelle mani di otto uomini che possiedono più di quanto possiede metà del pianeta. La ricchezza nelle mani di pochi comporta anche concentrazione di potere politico con conseguenti condizioni socio-economiche inique per le popolazioni più povere. Uno degli effetti più evidenti del disordine politico ed economico provocato dai Paesi ricchi nei confronti dei Paesi poveri è la fuga di migliaia di persone dalle proprie terre. E non importa se scappano da qualcosa o verso qualcosa, scappano verso l’Occidente portando con sé:

Lo spettro del caos e dell’illegalità che li hanno costretti ad abbondonare il proprio Paese

(Bauman, 2010).

Un fardello che accompagna il profugo nella sua nuova esistenza in Occidente, dove è più tollerato se è umile, sottomesso e rinuncia a chiedere un po’ della ricchezza del Paese in cui si trova. Il profugo rappresenta ciò che potrebbe succedere anche a noi se tutto nel nostro Paese cambiasse all’improvviso. Questo genera paura. Si potrebbe dire che l’Occidente non viene demolito dai migranti, ma dalla paura dei migranti. Le foto segnaletiche di delinquenti con la pelle scura suscitano in Occidente più paura dei criminali nostrani. Una paura primitiva che dirotta le scelte elettorali verso leader conservatori a favore di politiche anti-immigratorie. In Ungheria, nel novembre 2015, il primo ministro Orban ha dichiarato:

Tutti i terroristi sono fondamentalmente immigrati. Ogni singolo migrante rappresenta un rischio per la sicurezza pubblica e per il terrorismo (Metha, 2017).

Anche l’amministrazione Trump ha ridotto il numero dei profughi da accogliere negli Stati Uniti da 110.000 a 50.000 nel 2017, mentre il Libano nel 2016 ha ospitato più di 1,5 milioni milione di rifugiati a fronte di una popolazione di 6,2 milioni di abitanti. In pratica, i Paesi in via di sviluppo accolgono circa l’84% dei profughi. Nonostante l’impalcatura novecentesca costruita ad hoc dallo Stato-nazione con visti e passaporti, i profughi continueranno a scappare e i migranti ad arrivare in cerca di un futuro migliore. I Paesi poveri sono creditori dei Paesi ricchi e ora bussano alle nostre porte. A coloro che bussano, agli altri, la politica e i media in particolare riservano un trattamento speciale. La stampa gioca un ruolo cruciale nell’influenzare il clima sociale. Spesso i media usano un linguaggio costruito da stereotipi e tendono ad accostare al termine “richiedente asilo” l’aggettivo “illegale” e alla parola “migrazione” affiancano espressioni lessicali come “pericolo”,

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16 “allarme”, “emergenza”. È ormai consuetudine da parte dei media e della politica, l’uso continuo e discriminatorio del pronome noi per descrivere gli italiani come un gruppo compatto, integro e costruttivo e il termine loro per parlare dei migranti in quanto gruppo informe e disgregato. Questo linguaggio divenuto luogo comune è riuscito a dividere e frammentare la società; quella che vede nello straniero un fratello perché considerato come parte di una più generale comunità umana, e quella che lo indica come bàrbaros, il non-umano, pertanto il nemico con il quale non è possibile alcun tipo di interazione. La condizione dello straniero è infatti quella di colui che vive senza legami con le norme morali, i costumi e le tradizioni della società ospitante; egli si sente al di fuori, vi partecipa per gli aspetti generali e superficiali e ne è al tempo stesso lontano, se pensiamo ai legami particolari, familiari e comunitari. Tale condizione di marginalità diventa propizia per la sua affermazione di altro, di straniero che non si sente tenuto a vivere come coloro che di quella società condividono per nascita i codici e le regole. Ciò che ne consegue è la marginalità sociale. Nelle società complesse, dove i flussi migratori sono cospicui, le conseguenze nel lungo periodo sono una secolarizzazione della società stessa e, da parte dello straniero, una decisa individualizzazione. Infatti, lo sgretolamento dei legami sociali, familiari e religiosi che il migrante vive, allontanandosi dalla sua terra, lo caratterizzano oramai come un individuo più che come membro di un gruppo e lo classificano in modo permanente come uomo marginale che vive una continua condizione di estraneità. Egli vive una vera e propria dissonanza cognitivo-culturale relativa all’ambiente in cui si trova a interagire e che finisce per alimentare negli altri una conoscenza superficiale basata su stereotipi spesso alla base di veri e propri conflitti. Tutto ciò è sicuramente funzionale al sistema socio-economico in quanto afferma una condizione stabile nella quale agisce una classe dominante, la società ospitante e una classe dominata, gli stranieri (Cotesta, 2003). Lo straniero risulta il diverso, l’altro da noi. Lo straniero è arrivato e il suo arrivo circoscrive uno spazio obbligando il nativo a definirsi. Ogni cultura ha un’altra cultura, ogni persona ha un altro. Il senso dell’altro da

me viene costruito attraverso la storia e le sue lotte (Becce, 2016: 95). Dagli anni Novanta a oggi c’è

stata una sorta di specializzazione del razzismo, sia con la nascita di partiti xenofobi in giro per l’Europa, sia per la retorica della sicurezza intrapresa dai governi della sinistra. Quando il razzismo si istituzionalizza agisce indisturbato sulla cultura di un Paese proprio attraverso i mezzi di comunicazione. I media strategicamente danno spazio alle parole di odio della politica così da rendere popolare il politico di turno e trasformare l’hate speech in strumento del proprio successo. Un’egemonia culturale che non attiva una competizione adeguata: è più frequente ascoltare o leggere parole discriminatorie o offensive verso i migranti che leggere o sentire discorsi benevolenti. Eppure, ci sono molte organizzazioni antirazziste sul territorio alle quali il mondo dell’informazione potrebbe dare uno spazio parimenti adeguato. Il razzismo esiste e la

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17 comunicazione pubblica ha deciso di fotografare solo quella parte di realtà. Crea stigmi e stereotipi su situazioni già molto delicate provocando condizioni di ulteriore esclusione sociale. L’informazione che diffonde la notizia dell’arrivo dei migranti quale causa dell’aumento degli attentati terroristici di fatto aiuta il terrorismo e accresce il razzismo. Il terrorismo, per sua natura, cerca gente isolata e arrabbiata tra i suoi affiliati e il razzismo sa come alimentare esclusione e rabbia; i soggetti più fragili possono diventare facile preda del terrorismo. Tutto questo avviene sulla pelle dei migranti senza che questi possano cambiare le carte in tavola. Si potrebbe pensare che nell’epoca della globalizzazione l’uguaglianza tra esseri umani e il diritto di muoversi liberamente per trovare condizioni migliori siano cose ovvie, mentre l’umanità è suddivisa in maggioranze nazionali dotate di diritti e minoranze di stranieri illegittimi. I migranti diventano perfetti nemici simbolici: per l’informazione pubblica sembra esserci un’inclinazione o propensione a delinquere degli stranieri, ma a nessuno scienziato sociale verrebbe in mente di studiare, ad esempio, la propensione a delinquere dei professori (Dal Lago, 1999: 12). Oggi c’è la tendenza a etnicizzare ogni aspetto o conflitto sociale. Ricordiamo, in Italia, il decreto Dini del 1995 che ha avuto l’effetto di stigmatizzare i migranti come “problema sociale” da cui la società italiana dovrebbe essere protetta, sancendo il principio della chiusura delle frontiere e delle “espulsioni” come risposta all’emergenza. A seguire, nel 1998, la Legge Turco-Napolitano riconferma la logica della chiusura, dell’espulsione dei soggetti considerati pericolosi e soprattutto l’istituzione dei campi di detenzione per stranieri in attesa di espulsione. È in quegli anni che comincia, ad aumentare la presenza dei migranti nelle carceri, perché questi ultimi non possono usufruire delle misure alternative alla detenzione se privi di permesso di soggiorno e quindi oggettivamente discriminati per la mancanza di risorse economiche. Troviamo forme discriminatorie importanti verso il migrante che usa il “telefonino”, nonostante tutti lo usino in maniera ossessiva e in ogni luogo se il migrante lo possiede e lo usa in pubblico è spesso visto con sospetto. Lo smartphone si trasforma da status symbol a simbolo di stigma. Possedere un telefono cellulare viene accomunato a una condizione di agio alla quale, secondo molti, il migrante dovrebbe sottrarsi o non avere accesso viste le condizioni di marginalità nelle quali è costretto a vivere. A Livorno la piazza davanti al municipio è stata soprannominata, dai migranti ospiti in città, Piazza wi-fi. L’ex-ministro dell’integrazione, Cecile Kyenge, a Modena, nel 2017, dichiarava:

Nella mobilità e nelle migrazioni uno smartphone può fare la differenza tra la vita e la morte. Basta pensare alle mappe dettagliate dei luoghi, ai social network per restare in contatto con la famiglia nel Paese di origine, allo scambio di informazioni per non cadere nelle trappole dei trafficanti.

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18 Il wi-fi dei telefoni dei migranti, quindi, non può essere spento, diventa bene primario per la sopravvivenza dei contatti affettivi e familiari. La migrazione è un fenomeno sociale che non può fare a meno della tecnologia per resistere al tempo, alla distanza e avvicinarsi ai processi inclusivi. "Internet è un diritto umano", ha dichiarato la Kyenge. Siamo di fronte all’immigrazione 2.0 costellata di gruppi WhatsApp creati per soddisfare il bisogno di comunicare, prima di tutto, con chi è rimasto lontano, come se tenere tra le mani uno smartphone potesse sopperire alla mancanza di un abbraccio. Il telefono gioca un ruolo cruciale nella rappresentazione mediatica del richiedente asilo; descrizione questa che non tiene affatto conto della funzione vitale che le nuove tecnologie ricoprono nella vita del migrante sia dal punto di vista affettivo che pratico, e tanto meno intendono valorizzare la trasformazione sociale e culturale che la combinazione migrante - tecnologia porta con sé. Da parte dell’opinione pubblica, dei media e della politica serve lungimiranza, uno sguardo che punti lontano. Le immagini della cronaca tendono a colpire, ad abbacinare, e perciò – a prescindere dalle intenzioni soggettive di chi le confeziona – tendono a fomentare risposte precipitose. Solo uno sguardo esteso su orizzonti spaziali e temporali di ampio respiro, può aprire la via a una maggiore consapevolezza, e quindi a decisioni più fondate ed efficaci. Non si può far fronte alle grandi questioni del presente senza conoscere il passato (anche il passato remotissimo) e se non si dispone di un’immagine globale dei fenomeni. E questo è tanto più vero se l’obiettivo che ci si pone è una gestione sostenibile delle migrazioni. Un’intima sintonia lega infatti da sempre il camminare al pensare, e il migrare – cioè lo spostarsi lontano dai luoghi familiari – stimola una serie di attitudini decisive per l’evoluzione umana: la curiosità esplorativa, la flessibilità di comportamento, la disposizione a cooperare con i propri simili, la capacità di immaginare i connotati di ambienti sconosciuti.

Le radici delle straordinarie innovazioni tecnologiche moderne – incluso l’iPhone 7, di cui qualche lettore avrà forse appena preso visione su una qualunque pagina web – affondano nell’infaticabile incamminarsi dei nostri progenitori, nell’ostinato impulso dei nostri antenati a volgere verso il largo le prue di piroghe e di velieri (Barenghi, 2016).

La costruzione sociale del migrante come nemico è sempre in agguato, catalizzatore di conflitti materiali e simbolici, di retoriche nazionali, di campagne di comunicazione.

Non sono in questione i “fatti” riportati, ma le strategie narrative dei giornali, il loro modo di selezionare parole, verbi, forme sintattiche; il loro modo di cercare effetti pragmatici (…). L’informazione sull’immigrazione fornita dai giornali italiani è largamente impostata su stereotipi. Vi è una semplificazione dell’altro tutta giocata in termini di allarme sociale (Cotesta, 1999).

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19 Le diversità culturali che la migrazione porta con sé sono alla base dei conflitti sociali. I mezzi di comunicazione interpretano il rapporto tra società e culture e attraverso l’esibizione di immagini e la produzione di contenuti sono in grado di influenzare i conflitti etnici. In Occidente lo standard di libertà raggiunto è pari al potere di servirsi della vita degli altri come meglio si crede, forse per un senso di onnipotenza che non sempre si riesce a prevedere e che diventa la scintilla del conflitto etnico. Atti persecutòri verso gli stranieri sono fenomeni ricorrenti della storia europea, la caccia all’ebreo risale già alla metà del XIV secolo, quando vennero perseguitati perché additati come responsabili dell’epidemia della peste nera sino ad arrivare all’antisemitismo di fine Ottocento. La paura del diverso, dello straniero identificato come fonte di potenziale pericolo. Con il passare dei secoli la paura si secolarizza e la paura di massa si istituzionalizza. Oggi a veicolare la cultura della paura ci pensano i mezzi di comunicazione di massa. Le società locali sono permeate da stereotipi che per effetto dell’informazione di massa alimentano paure che diventano risorse sia per i media in cerca di sensazioni forti sia per la politica in cerca di consenso. La stampa, la televisione, i social network sono gli attori principali della tautologia della paura. L’esistenza di un canovaccio narrativo ricorrente rivela un meccanismo stabile di produzione mediale della paura.

Definisco come “tautologico” questo meccanismo quando la semplice enunciazione dell’allarme, ad esempio l’invasione di immigrati delinquenti, dimostra la realtà che esso denuncia. Il sociologo W.I. Thomas parte dal concetto di “definizione della situazione” secondo cui “se gli uomini definiscono le situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze (Dal Lago, 1999: 73).

Dentro a questo sistema tautologico la visione del cittadino vittima del sistema migratorio diviene risorsa politica per la fazione che vuol dar voce alla vittima e il gruppo che provvede a proteggerlo. Nell’epoca dei social network, il cittadino ricopre un ruolo strategico e assume la veste di predicatore morale e “definitore soggettivo di situazioni”. La piazza reale è sostituita dalla piazza virtuale, la comunicazione politica avviene attraverso Twitter in 280 caratteri e il tema dell’immigrazione e della legalità riempie l’agenda politica italiana e non solo. Mantenere i cittadini nella paura è un ottimo obiettivo politico e la logica della legalità un ottimo esempio di retorica politica. Lo stesso vale per il termine sicurezza che, etimologicamente, significa “assenza di preoccupazione volta a infondere fiducia e promuovere la cura verso l’altro” e che non può essere intesa solo come forma di controllo. Nella società disciplinare descritta da Foucault (Focault, 2010) la società si autocontrolla con dispositivi biopolitici e il potere ha accesso al corpo, anticipando il destino delle società ricche e potenti ossessionate dai pericoli e dalle minacce costruite a tavolino verso le quali viene dispiegata una tecnologia tanto invasiva quanto raffinata. Il controllo della

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20 popolazione che compone lo sciame digitale è realizzato dal potere, in un’ottica foucaultiana. La comunicazione e i suoi mezzi si presentano sotto forma di libertà che si rovescia in controllo e lo smartphone diventa, prontamente, un confessionale, uno strumento di sorveglianza. I mezzi digitali hanno sì un enorme potere “emancipativo” ma sono anche totalizzanti e assoggettano l’uomo contemporaneo, riducendo gli spazi privati e la distanza dall’altro. Simultaneamente la crisi della rappresentanza e il disimpegno politico dei cittadini lasciano spazio al campo populista e la Rete diventa una cassa di risonanza dell’uomo isolato, dove i toni si inaspriscono in mancanza del contatto fisico. Nel regno dell’ultra modernità fabbrichiamo ignoranza con la scienza (Legendre, 2009: 9). Le innovazioni tecnologiche, indice e segnale, della capacità umana di progredire attraverso la scienza, si trasformano in strumenti di distrazione per divenire contenitori vacui e dispersivi, dove la ricerca del sapere lascia spazio alla via della noia e l’apprendimento e approfondimento vengono sostituiti da questioni frivole, stereotipate e superficiali. Nell’era delle immagini lo straniero è riconoscibile come uno stigma, sempre, in situazioni disperate, di soccorso, di raccolta. Nel corso della storia sono stati creati campi di concentramento, campi profughi, campi di identificazione ed espulsione, campi di reclusione e campi di soggiorno. Ogni volta ci preoccupiamo di riconoscere lo straniero, contenerlo, “accoglierlo”, così che il termine rischia di risultare ambiguo, se non ci occupiamo invece di conoscerlo. Del resto, i media e la politica continuano a riempire la parola straniero di stereotipi e lo collocano in uno spazio fisico o mentale ben preciso, per tenerlo lontano da noi perché pericoloso, estremista, terrorista. Nicholas Kristof (Kristof, 2015) sul “New York Times” ha ricordato che dopo l’11 settembre 2001 sono entrati negli Stati Uniti 785.000 richiedenti asilo, ma in questi ultimi 14 anni solo tre di loro sono stati incriminati per terrorismo. Inoltre, prosegue l’articolo, lo Stato islamico ha tutto l’interesse a creare timore e diffidenza verso i profughi e i migranti, perché la violenza a cui vengono sottoposti nei nostri Paesi che gli voltano le spalle è un terreno fertile per la radicalizzazione di futuri jihadisti. Accettare questa retorica, significa assecondare la narrativa dei terroristi. La violenza delle parole si trasforma in violenza sociale che si abbatte sui più fragili, sugli altri, gli stranieri, protagonisti di povertà nuove in netto contrasto con le società opulente che li accolgono.

4. Il contesto locale

La Costituzione italiana all’articolo 10 dichiara:

l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche

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21 garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

Il Regolamento di Dublino III in vigore dal 1 gennaio 2014 è, invece, la legge europea che impone l’esame delle richieste di asilo dei migranti al primo paese di sbarco.

Dal 1999 l’Unione Europea ha cercato di realizzare un sistema comune di asilo. Tuttavia, ancora oggi, una persona che entra in Europa non può decidere in quale Stato presentare la sua richiesta di asilo. Infatti, il principio generale alla base del regolamento Dublino III è che qualsiasi domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro, quello individuato come competente e la competenza per l’esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primo luogo sullo Stato che ha espletato il ruolo maggiore relativamente all’ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni. Quindi, la richiesta di asilo per un migrante proveniente da un Paese terzo deve essere fatta nel primo Paese dell’Unione in cui mette piede, solitamente Italia e Grecia, dove dovrebbe essere identificato dalle forze dell’ordine, lasciando uno spazio estremamente ridotto alle preferenze dei singoli. Esiste una banca dati centrale Eurodac in cui vengono registrati i dati e le impronte di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro o presenti richiesta di protezione internazionale. In sintesi, questa banca dati consente di stabilire in quale Stato membro sia avvenuto il primo ingresso in Europa di una persona richiedente asilo, laddove però sia stata identificata. Nel caso in cui l’identificazione non avvenga, come spesso accade oggi in Italia, talvolta basta semplicemente un biglietto del treno o uno scontrino per testimoniare il passaggio dal territorio italiano anche senza aver mai avanzato richiesta di asilo. Quindi, con la presentazione della domanda di protezione internazionale in un paese europeo, se in base al racconto del richiedente o ad altri elementi, come le impronte, emergono dubbi sulla competenza si apre una fase di accertamento, “fase Dublino”, che sospende l’esame della domanda di asilo. Si attiverà infatti un procedimento in base al quale le autorità, individuato il Paese dove il richiedente asilo è già stato segnalato, chiederanno alle relative autorità di prendersi carico della domanda e, se la risposta sarà positiva, verrà emesso un provvedimento di trasferimento verso quel Paese con il conseguente trasferimento effettivo del richiedente. Lo Stato membro competente è obbligato a prendere in carico il richiedente che ha presentato richiesta di protezione in un altro Stato. Ad esempio un cittadino straniero che è entrato in maniera irregolare in Italia e che poi si è recato in Germania dove ha presentato richiesta di asilo dovrebbe, in teoria, essere trasferito in Italia (Ammirati, 2015).

Questa legge obbliga l’Italia, in quanto “Paese di primo approdo”, ad accogliere tutti coloro che arrivano sulle nostre coste per esaminare le domande di asilo e dare loro accoglienza. L’Italia è Paese di emigrazione e terra di immigrazione. Le caratteristiche geografiche, ossia la posizione che si affaccia sul Mar Mediterraneo e le coste molto estese, indicano l’Italia come la prima frontiera da attraversare per l'ingresso in Europa. Già nel 1991 l’Italia fu terra della prima immigrazione di massa dall’Albania, altri picchi sono stati raggiunti nel 1999 e nel 2008. Nel 2009-2010, a seguito

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22 degli accordi stipulati dal governo Berlusconi con il governo di Gheddafi in Libia, gli arrivi, invece, si sono ridotti. Il trattato di “amicizia, partenariato e cooperazione” del 2008 tra Italia e Libia prevede un indennizzo di 5 miliardi di dollari in 20 anni da parte dell’Italia verso l’ex-colonia italiana con l’intento di “voltare pagina” rispetto al periodo dell’occupazione coloniale e avere in cambio un aiuto concreto per bloccare le partenze dei futuri immigrati verso le coste italiane. Dopo qualche anno, nel 2012,la Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia per aver esposto i migranti a trattamenti disumani in Libia, a causa dei respingimenti preventivi in mare. Un ulteriore picco migratorio è avvenuto nel 2011, con l’inizio della primavera araba, una serie di manifestazioni e proteste scoppiate in Nord Africa che, una volta concluse, hanno provocato lo sbarco sulle coste italiane di 24.000 tunisini, di cui solo 11.000 hanno ottenuto il permesso di soggiorno per protezione temporanea, mentre gli altri 13.000 sono andati altrove, senza alcun tipo di riconoscimento dal governo italiano. Degli 11.000 con riconoscimento, solo 600 sono entrati nella rete dell’accoglienza. Nel 2011 l’Italia non aveva ancora una rete di accoglienza efficace, benché nel 2008 ci fossero stati circa 37.000 arrivi di profughi. Nell’anno dei flussi dal Nord Africa, il governo italiano dichiara lo stato di emergenza sino ad arrivare nel 2014 con la seconda guerra civile in Libia e la crisi dei rifugiati siriani. In quello stesso anno, Italia ed Europa hanno raccolto il maggior numero di richieste d’asilo, soprattutto da Nigeria, Gambia, Mali, Senegal e Pakistan. A questo punto, la macchina dell’accoglienza viene affidata alle Prefetture e al Ministero dell’Interno e si adotta, solo marginalmente, per carenza di posti, il modello SPRAR – sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati – un percorso di accoglienza qualificato e collaudato, in cui è prevista la partecipazione dei comuni e degli enti locali. Nel frattempo, cresce e si sviluppa, in maniera diffusa e capillare su tutto il territorio nazionale un sistema di accoglienza straordinario gestito, in prima battuta, da prefetture e Protezione Civile, nel 2014 nascono i CAS – centri di accoglienza straordinaria – che operano nell’emergenza facendola diventare una consuetudine. Ancora oggi, il sistema dei CAS supera il modello SPRAR e a risentirne sono gli standard di ospitalità e accoglienza nazionali capaci di normative e controlli poco orientati alla ricostruzione di un’autonomia. Nel novembre 2017, l’Oxfam - il network contro la povertà - ha pubblicato un report dal titolo “La lotteria Italia dell’accoglienza” in cui denuncia, appunto, un sistema di accoglienza italiano guidato da un approccio emergenziale. Attualmente i CAS presenti sul territorio nazionale sono 136.477 e i progetti SPRAR sono 768 ricoperti da 664 enti locali.

Queste strutture temporanee attivate dalle prefetture per conto del Ministero dell’Interno reggono, nonostante l’ampliamento dei posti SPRAR, il sistema di accoglienza: il 78% di tutte le presenze, distribuite in oltre 7.000 strutture organizzative. Un quadro che ha portato, in tutta la penisola, alla moltiplicazione di enti privati,

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