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CAPITOLO TERZO Le reti sociali dei richiedenti asilo

4. Un focus sui gruppi WhatsApp dei richiedenti asilo a Livorno

4.2 Gruppi di sostegno tra richiedenti asilo

I gruppi WhatsApp creati per offrire e chiedere sostegno reciproco nascono una volta che i richiedenti asilo sono stati inseriti nel circuito di accoglienza. Altre ricerche menzionate precedentemente (Radio Asilo e Radio Profugo, 2012 e 2013) hanno dato risalto alla comunicazione informale tra richiedenti asilo per il passaggio delle informazioni, l’aiuto e il sostegno reciproco. La rete informale che si crea all’interno di questi gruppi ha un valore sociale significativo perché ha la capacità di riunire una categoria specifica di individui con storie di vita simili e con i medesimi bisogni da soddisfare; inoltre, per la sola caratteristica di essere virtuali, i gruppi di sostegno tra richiedenti asilo comprendono persone che vivono in Italia e in Europa, dando loro un carattere sovranazionale e transnazionale per il genere di attività e meccanismi che riescono ad attivare. L’informalità della rete riesce a cogliere aspetti esistenziali e sociali che in altri contesti, soprattutto istituzionali, non riescono a emergere. La comunicazione tra pari riesce, talvolta, a fotografare in maniera più vera la realtà della situazione che si intende indagare. L’importanza dei gruppi di sostegno mi è apparsa subito chiara, essi rappresentano una rete di relazioni molto estesa, indice di un bisogno di socialità e socializzazione che va ben oltre i confini degli Stati nazionali e che cerca nelle nuove tecnologie uno strumento concreto per la risoluzione di questioni pratiche. Un richiedente asilo si trova a combattere con difficoltà linguistiche, culturali, burocratiche che, non sempre la rete formale dell’accoglienza riesce a risolvere. I meccanismi burocratici, le lunghe attese per la commissione territoriale e le difficoltà a inserirsi socialmente nel nuovo contesto sono il pane quotidiano di ogni richiedente asilo. La fragilità, la sofferenza, l’incertezza e le condizioni di disagio diventano lo spazio di condivisione comune per la risoluzione dei problemi; nascono così comunità che stringono

115 legami forti ma che sono incapaci di venire a contatto con l’ambiente esterno per la risoluzione delle difficoltà. La nascita di questi gruppi è naturalmente favorita da un utilizzo sempre più diffuso dei dispositivi digitali e delle applicazioni connesse. WhatsApp diventa veicolo di risorse materiali e immateriali. Lo status giuridico, gli obiettivi, le istanze, le paure e le speranze sono la condizione di partenza per la creazione dei gruppi di sostegno e mutuo aiuto dei richiedenti asilo in tutta Europa. E. K., 32 anni, Costa d’Avorio, in Italia dal 2015, partecipa a 4 gruppi WhatsApp, uno di questi è il gruppo “Senza nome” con 33 partecipanti:

In questo gruppo parliamo di tutto e niente. Se una persona ha una preoccupazione la “mette” sul gruppo e cerchiamo, parlando, di trovare una soluzione insieme. Ci sono dentro richiedenti asilo che vivono in Italia e in Francia e amici rimasti in Costa d’Avorio. L’amministratore è un ragazzo che si è trasferito dall’Italia in Francia e quando si è trovato lì ha creato questo gruppo. L’aiuto è più affettivo che materiale. Anche se una volta, un ragazzo che vive in Francia è stato aiutato dentro al gruppo e ha trovato lavoro (intervista n. 7).

K., 20 anni, dal Gambia, partecipa a 6 gruppi, uno di questi, creato da lui, è “Ghetto Boys”, con 57 partecipanti:

Eravamo tutti bambini giocavamo sempre insieme poi ognuno di noi ha cominciato a viaggiare in tante diverse città e non possiamo più vederci come prima. Con questo gruppo, finalmente, possiamo parlare e restare in contatto. I partecipanti sono gli amici africani che vivono in Germania, Malta, Italia. Siamo tutti richiedenti asilo. Parliamo spesso della situazione del Paese che ci ospita: come si vive in Germania o a Livorno. Io parlo spesso della mia città, Livorno; gli altri parlano della loro. Discutiamo su come si vive in Italia, cosa bisogna fare per trovare lavoro, per ottenere il documento. Ci sono cinque, sei persone nel gruppo che vivono in Italia da qualche anno e sanno meglio di me come si vive, senza problemi. Queste persone danno molti consigli su come dobbiamo comportarci. Io ne faccio parte da un anno e il consiglio più utile, mi è stato dato da un ragazzo che vive a Milano da quattro anni e ha ottenuto il documento. Lui lavora e conosce tante cose dell’Italia. Lui sa consigliarmi sempre bene (intervista n. 13).

Da queste interviste emerge sia la necessità di condividere i problemi comuni con coloro che vivono le stesse difficoltà sia il bisogno di restare in contatto, laddove il legame è interrotto a causa della migrazione. La mutualità e la reciprocità sono la caratteristica fondamentale di questo genere di gruppi che attraverso le chat mantengono passato e presente in un continuum temporale. D., 23 anni, dal Ghana, è in Italia dall’estate del 2015

116 e partecipa attivamente a 3 gruppi WhatsApp; uno di questi è “Ghanians in Italy”, con 42 partecipanti creato da un ragazzo ghanese che vive a Torino. I partecipanti sono tutti richiedenti asilo provenienti dal Ghana:

Lo ha creato una persona che è in Italia da 15 anni. Lui è mio amico su Facebook ma non lo conosco personalmente. Gli ho dato il mio numero per farmi aggiungere. Ci sono dentro ghanesi che già conoscevo e che ora vivono in Italia, con alcuni ragazzi del gruppo ho anche contatti individuali. Siamo solo ghanesi e parliamo di come dobbiamo comportarci in Italia perché siamo stranieri. Ci sono persone anziane nel gruppo che danno consigli a noi giovani, appena arrivati. Il primo consiglio è quello di imparare la lingua, la cosa più importante, altrimenti non possiamo fare nulla. Dobbiamo andare a scuola e stare tranquilli perché stiamo aspettando il documento e quindi anche se gli operatori dei centri fanno qualcosa che non ci piace non dobbiamo lamentarci. Non è il nostro Paese e qualche italiano è razzista e quindi dobbiamo capire che non possiamo avere tutto ciò che vogliamo. Qualche persona nel gruppo dice che è meglio stare in un solo Paese europeo, non spostarsi e imparare la lingua, invece di andare in giro. Ci sono persone che si sono spostate e questo non ha portato niente di buono alle loro vite (intervista n. 10).

A. C., 29 anni, dal Gambia, ha creato un gruppo “Boys in Europe” con 16 partecipanti.

“Boys in Europe” l’ho creato io perché quando sono arrivato in Italia ho visto tante cose e dovevo comunicarle agli amici, prima del loro arrivo, per dirgli come dovevano comportarsi, per aiutarli a comportarsi bene. Siamo tutti richiedenti asilo provenienti dal Gambia, del mio villaggio e di alcuni villaggi vicini. Ora siamo tutti sparsi per l’Europa. Quando ho saputo che molti di loro erano arrivati in Europa, ho pensato di creare il gruppo per comunicare tra noi. Da altri amici riuscivo a sapere, mano a mano, chi entrava in Europa e andava in Germania, Malta, Spagna. Io dico sempre al gruppo che siamo in Italia e che dobbiamo comportarci come vediamo fare intorno a noi, per avere una vita migliore, altrimenti la nostra vita sarà difficile. Comportarsi bene vuol dire avere una relazione giusta con tutte le persone. Non fare le cose contro la legge. Questo è molto importante, siamo qui per migliorare la nostra vita e dobbiamo rispettare le regole. Spesso in Africa si fanno cose che qui non si possono fare, ad esempio per la strada le persone urlano, ma qui siamo in Europa e non si può urlare in mezzo alla strada. Non si può urlare e disturbare le altre persone. Alcuni di noi hanno l’abitudine di non parlare in modo gentile e così disturbano tutta la comunità. Questo non è giusto, è contro la legge secondo me. Gente del gruppo dice che si sta meglio in Germania, un altro amico si trova bene a Malta perché ha trovato lavoro. Per me è importante l’Italia perché sono loro che mi hanno salvato (intervista n. 9).

117 I. Z., 18 anni è arrivato in Italia dal Burkina Faso nell’estate del 2017 e partecipa a un solo gruppo WhatsApp dal nome “De Jeunesse de Kou” che significa “I giovani del corso”, con 17 partecipanti.

È stato creato per avere consigli sulla situazione difficile che viviamo qui in Europa. Ci sono persone dall’Africa: Burkina Faso, Gibon, Algeria e altre che vivono in Italia. Io purtroppo non so scrivere, quindi nel gruppo cerco di imparare a scrivere in italiano dagli amici che sono qua da più tempo. Lo ha creato Arafat che vive in Algeria e mi ha inserito nel gruppo tramite un amico. La lingua del gruppo è il bissat, la lingua del Burkina Faso. Arafat ci saluta ogni giorno, lui non vuole venire in Italia. Arafat è per me una guida e ci consiglia sempre di seguire ciò che viene detto dagli italiani che ci ospitano (intervista n. 5).

T. M., 19 anni, dal Senegal e in Italia dall’estate del 2016. Partecipa a 3 gruppi WhatsApp,

tra questi il gruppo “ASC Walidaan Kaf Officiel”, con 60 partecipanti. Questo gruppo di sostegno raggruppa alcuni richiedenti asilo ma è stato creato da persone influenti rimaste in Africa come supporto ai giovani migranti.

ASC Walidaan è un’associazione sportiva del Senegal dove giocavo prima di venire qui. Nel gruppo siamo sia uomini che donne, c’è il presidente, alcune persone rimaste in Senegal e quattro richiedenti asilo in Italia. Mi ha inserito il presidente della società di calcio. Non parliamo solo di sport, ma anche della religione e della vita in generale. Il presidente della società ha creato questo gruppo da quando siamo arrivati in Italia. Noi quattro eravamo calciatori della squadra. Questo gruppo facilita la comunicazione tra noi e ci fa sentire ancora parte della squadra. Gli altri tre giocatori sono a Milano e io a Livorno. Noi che siamo venuti in Europa nel gruppo raccontiamo che la vita qua non è per niente facile, dal Senegal allora ci dicono di rispettare le persone e di essere bravi. Bravo significa essere forte, sempre (intervista n. 4).

M., 22 anni, dal Benin, fa parte di 2 gruppi di sostegno tra richiedenti asilo: il primo si chiama “BBC Information”, composto da 29 persone:

È stato creato da cinque amici che vengono dal Benin, ci siamo incontrati e abbiamo deciso di creare un gruppo per informare gli altri amici che sono lontani da noi e vivono in Francia, Germania, Marocco. Ci diciamo come va il mondo in generale, parliamo delle guerre, come funziona la migrazione, cosa succede nei posti in cui viviamo, Napoli, Roma, Livorno, discutiamo di politica. Nessuno litiga nel gruppo, c’è solo scambio di idee. Un altro dei nostri argomenti preferiti è il calcio. Con questi amici abbiamo fatto il viaggio insieme, poi in Sicilia ci hanno diviso. Con il tempo

118 abbiamo inserito nel gruppo le persone nuove che sbarcavano in Sicilia. Se vuoi puoi entrare anche te nel gruppo. Diamo il numero a uno degli amministratori e ti inserisce. Si chiama Y. e vive a Milano. Si entra con il passaparola. I ragazzi del gruppo sono tutti africani, richiedenti asilo (intervista n. 1).

L’altro gruppo, più numeroso, 172 partecipanti, si chiama “Asahi”. La capacità di rete di questi gruppi esprime e soddisfa, in parte, il bisogno di inclusione, l’appartenenza a una comunità, anche se in maniera virtuale. Per quanto riguarda il fenomeno migratorio la virtualità colma la distanza e ha finalità ben specifiche come l’aiuto reciproco e lo scambio di informazioni pratiche, difficili da raccogliere in via formale. La natura di questo genere di gruppi è omogena, ovvero i partecipanti sono legati da caratteristiche comuni, per cui ciò che si respira all’interno è un senso di fiducia verso l’altro e i suoi consigli. Rispetto al gruppo “Asahi”, l’intervistato racconta:

Lo ha creato un amico che vive a Roma, è un gruppo che parla solo delle migrazioni, degli africani e di chi ha lasciato il proprio Paese ed è venuto in Europa. Secondo me è stato creato per capire come si vive in Italia. Io sono entrato nel gruppo tramite un amico. Mi ha detto che poteva essere utile. Ad esempio parliamo di come comportarci davanti alla commissione o ai Carabinieri; che a Roma rilasciano molti permessi di soggiorno e io racconto come invece funziona a Livorno (intervista n. 1).

I gruppi di sostegno sono utili anche per le persone rimaste al di là del Mediterraneo perché offrono l’opportunità di capire se intraprendere o meno il viaggio. O., 20 anni, dal Senegal, lavora come sarto e ha vissuto in molte regioni dell’Africa prima di partire per l’Italia. Il suo sogno è tornare in Marocco dove ha molti amici e la sua attività con i tessuti era fiorente. Partecipa al gruppo “100% SeneGambia” insieme ad altre 19 persone:

Lo ha creato un amico per riunire le persone che vengono dall’Africa e ora sono in giro per l’Europa. Ci aiutiamo soprattutto per capire come funzionano le procedure per i permessi di soggiorno e per sapere come ci troviamo in Europa. Il mio amico che ha creato il gruppo è rimasto in Senegal. Una volta quando ero in Libia avevo paura di venire in Italia, ora che sono qui tutti mi chiedono come ho fatto a superare questa paura. Io ho risposto che solo Dio mi ha aiutato a venire qua e con me tanti altri. Alcuni invece sono morti in mare. Il mio amico non vuole venire perché ha paura del mare e quando sono partito non aveva i soldi per il viaggio (intervista n. 2).

Anche S.K., 30 anni, dalla Costa d’Avorio, vive in Italia dall’estate del 2015, ha una moglie e due figli piccoli in Africa e il suo desiderio è quello di tornare a casa. S. è il creatore del gruppo “La squadra del 2005” con 15 partecipanti:

119 Ho creato questo gruppo per conoscere e parlare dei nostri problemi da richiedenti asilo, per aiutarci e capire se siamo in grado di trovare soluzioni di vita migliori, per capire i nostri bisogni. Noi vogliamo essere un gruppo speciale in grado di aiutarsi. Ci sono ragazzi rimasti in Africa, siamo tutti amici. Ho inserito due ragazzi che vivono in Spagna, conosciuti durante il viaggio. I ragazzi in Africa ci chiedono come funziona la vita in Europa, come stiamo. Noi diciamo che è dura e difficile ed è meglio non venire. Gli facciamo cambiare idea. Anche io vorrei tornare là, se solo avessi le possibilità (intervista n. 11).

B.J., 20 anni, dal Gambia appartiene al gruppo “ChalaMilla” con 68 partecipanti. Il gruppo prende il nome da un rapper gambiano che è scappato in Italia e ora è un richiedente asilo che vive in Puglia:

Quando vivevo in Gambia ho scritto una canzone che un amico ha inviato a Chala Milla, lui l’ha presa e ha cantato la mia canzone. In Gambia Chala Milla era famoso, anche se non lo conoscevo personalmente. Quando sono arrivato in Italia mi ha mandato questa canzone su WhatsApp (intervista n. 8).

Il tema della musica, molto presente tra i giovani africani richiedenti asilo, da semplice svago diventa il collante sociale di questo gruppo; gli stimoli culturali e il senso di appartenenza a una comunità entrano, ancora una volta, nelle reti di sostegno, trasformando gli spazi di condivisione virtuali in luoghi interculturali.

A.M., 20 anni, gambiano, fa parte di un gruppo, “Manchester United”, con 13 partecipanti. In questo gruppo non si parla della vita in Italia; la ricerca di un sostegno è solo di tipo affettivo e legata ai ricordi e alla vita passata:

Lo ha creato un amico che vive in Italia, è un richiedente asilo, ma non so in che città si trova. Lo ha creato perché alcuni ragazzi sono rimasti in Gambia e altri sono qua. Parliamo solo del nostro passato in Gambia, mai della vita che facciamo qua (intervista n. 16).

Al contrario, M. F., 19 anni, dal Mali, appartenente al gruppo “C’est la Famille”, con 19 partecipanti, racconta:

Il gruppo lo ha creato un amico che vive in Mali, mi ha inserito però non mi interessa. I partecipanti sono tutti richiedenti asilo. Ho tante cose da fare, non è utile per me, siamo solo stranieri. Qualcuno scrive consigli su come vivere, di essere educati con le altre persone. Viviamo tutti in città diverse, non conosco tutti i partecipanti, a parte il mio amico U. che vive con me nel centro e dice che questo

120 gruppo è importante, ci serve per parlare tra noi e per non stare sempre senza fare niente nelle nostre stanze (intervista n. 14).

Dalle parole di M. emergono particolari importanti della vita del richiedente asilo; intanto la difficoltà a raggiungere alcuni obiettivi se si frequentano soltanto cluster omofili all’interno dei quali la mancanza di risorse esterne non riesce a soddisfare bisogni e a migliorare le condizioni di vita. Talvolta, questi gruppi di sostegno possono risultare chiusi e poco efficaci ai fini dell’integrazione. La posizione di M. nel gruppo si discosta da quelle incontrate sino a ora e si contrappone alla figura dell’amico U. che invece esprime il reiterato bisogno di occupare il tempo dell’attesa attraverso il contatto con gli altri e mediante la tecnologia. Per concludere il viaggio tra le reti di sostegno, il gruppo “Blessing God” di S., 20 anni, nigeriana:

Ho creato questo gruppo perché volevo che mi tenesse compagnia. Siamo in cinque. Io vivo a Livorno. Le altre a Empoli, Siena, Roma e Firenze. Ci aiutiamo e ci confortiamo, perché è difficile la vita nei centri, aspettare il permesso di soggiorno; bisogna essere forti se la commissione rilascia un parere negativo e aspettare il ricorso. Ci diciamo che è importante andare a scuola per imparare l’italiano. Gli ho dato questo nome perché io credo in Dio (intervista n. 12).

Le aspettative di vita di questi giovani migranti sono legate alla burocratizzazione dei diritti, tema invisibile allo sguardo delle nuove generazioni di europei che invece ritengono i propri diritti come un fatto acquisito. Solo così, prendendo atto e conoscenza delle condizioni di vita di questi corpi erranti che tentano di sopravvivere e di resistere, nonostante tutto, avremo la possibilità di entrare nelle fessure della modernità e indagare sulle radici storiche, politiche ed economiche che hanno provocato tali sofferenze e disparità tra esseri umani. Già tra le due guerre mondiali, in Europa, si aggiravano milioni tra profughi e rifugiati, senza patria, senza alcun riconoscimento e privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza autoctona, trovandosi così ad essere, senza alcun diritto, “schiuma della terra” (Arendt, 1999: 374).