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La tenuità del fatto nel processo minorile: analisi sistematica e disciplina positiva.

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INDICE

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INTRODUZIONE...4

CAPITOLO I L'IRRILEVANZA DEL FATTO NEL SISTEMA DELLA GIUSTIZIA PENALE 1. L'ipertrofia «verticale» del diritto penale e le «due anime» dell'irrilevanza del fatto …...7

2. Esiguità del fatto: delimitazione del concetto...11

3. L’approccio personologico del rito penale minorile...15

4. La ratio deflativa nel rito davanti al giudice di pace...18

5. Natura giuridica dell'irrilevanza del fatto...21

5.1 Profili di legittimità costituzionale...24

6. Prospettive di riforma...27

CAPITOLO II NATURA, FUNZIONI E PRINCIPI DEL PROCESSO PENALE MINORILE 1. Dibattito su natura e funzioni del processo penale minorile...30

1.1 Il principio di sussidiarietà...32

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1.3 Il principio di minima offensività...35

2. Dal «nuovo approccio ideologico» della Carta Costituzionale al diritto del minore ad un proprio processo...36

2.1 La specializzazione della giurisdizione penale minorile...40

2.2 Profili di individualizzazione: l'indagine sulla personalità del minorenne...45

3. Il minore nelle fonti sovranazionali...48

3.1 La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo...56

4. Rito penale minorile e rito ordinario: differenze...59

4.1 La centralità dell'udienza preliminare...62

4.2 I riti speciali...65

4.3 La residualità del dibattimento...66

CAPITOLO III L'IRRILEVANZA DEL FATTO NEL PROCESSO PENALE MINORILE. 1. Presupposti applicativi dell'irrilevanza del fatto...68

1.1 La tenuità del fatto...69

1.2 L'occasionalità del comportamento...71

1.3 Il pregiudizio per le esigenze educative del minore...74

2. Le condizioni implicite dell'istituto...78

2.1 La minore età...79

2.2 La capacità di intendere e di volere...81

2.3 L'accertamento della responsabilità...85

2.4 Il consenso dell'imputato...87

3. La declaratoria di irrilevanza nella fase delle indagini preliminari: tra minima offensività, deflazione e lacune normative...92

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4. Le garanzie per l'imputato della pronuncia di irrilevanza del fatto

in sede di udienza preliminare...97

5. La sentenza emessa nel dibattimento e nei procedimenti speciali...100

6. La posizione nella gerarchia delle formule definitorie...103

7. I mezzi di impugnazione esperibili avverso la sentenza...107

CAPITOLO IV CENNI DI COMPARAZIONE: L'ESCLUSIONE DELLA PROCEDIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO (ART. 34 D.LGS. N.274/2000) 1. Sulla genesi dell'istituto: l'irrilevanza del fatto del rito minorile come modello di riferimento...111

2. Aspetti di contiguità con la previsione ex art. 27 d.P.R. n.448/1988...113

3. Le divergenze tra i due istituti...118

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE...125

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INTRODUZIONE

La categoria dell'irrilevanza del fatto affonda le proprie radici in un disagio della giustizia penale, riconducibile al fenomeno noto come «ipertrofia verticale del diritto penale».

Quando gli apparati preposti all'amministrazione della giustizia non sono adeguatamente organizzati, l'incremento del numero di reati, benché di lieve entità, crea problemi di efficienza all'ordinamento. L'aumento dei procedimenti penali pendenti determina, infatti, il congestionamento degli uffici giudiziari e un'esasperante lentezza nel rispondere ai bisogni dei consociati. Affinché il sistema mantenga funzionalità e credibilità, si rende, dunque, necessaria un'opera di selezione che consenta di tracciare un confine tra i fatti illeciti meritevoli di processo e sanzione penale, e quelli che devono esservi sottratti.

Si rivela estremamente proficua, in tal senso, l'introduzione di una norma che individui gli elementi costitutivi del c.d. «reato bagatellare improprio», ossia di un fatto che abbia i caratteri della tipicità, dell'antigiuridicità e della colpevolezza, ma anche della minima gravità. Una simile disposizione ha il pregio di essere spendibile su più fronti, dal momento che favorisce il decongestionamento degli uffici giudiziari, conferendo efficienza e razionalità al servizio-giustizia e, allo stesso tempo, consente di non punire fatti rispetto ai quali la sanzione penale risulterebbe sproporzionata.

Nel nostro ordinamento, tali esigenze hanno trovato una prima risposta nel sistema della giustizia minorile, grazie all'introduzione dell'art. 27

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d.P.R. n.448/1988, rubricato «sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto».

Nel rito minorile, tuttavia, l'istanza deflativa risulta orientata alla garanzia delle esigenze educative dell'imputato. La finalità precipua dell'istituto è, infatti, quella di sottrarre il minore che occasionalmente commette un illecito di lieve entità, alla celebrazione del processo e, conseguentemente, all'irrogazione della sanzione penale.

Si tratta di una soluzione comprensibile unicamente ripercorrendo, come si illustrerà nel secondo capitolo del presente elaborato, le finalità e i principi che permeano l'intero rito penale minorile, ove l'attenzione al minore, alla sua educazione e alle sue caratteristiche individuali è canone orientativo delle scelte del legislatore.

Dovendosi ammettere l'impatto potenzialmente traumatico del processo su una personalità in fieri e la possibile interferenza con i processi educativi in atto, il rito minorile è concepito in modo da favorire la rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale. In tale prospettiva si colloca anche la previsione ex art. 27 d.P.R. n.448/1988. Nel terzo capitolo si analizzeranno, invece, i singoli presupposti applicativi e gli aspetti strettamente processuali della declaratoria di irrilevanza del fatto nel processo penale a carico di imputati minorenni. Infine, si accennerà ad un confronto con l'altro istituto sperimentato dal nostro ordinamento sul terreno delle clausole di irrilevanza, vale a dire l'«esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto», introdotto dall'art. 34 d.lgs. n.274/2000 nel rito penale innanzi al giudice di pace.

Ci si soffermerà sui momenti di contiguità e di divergenza tra le due previsioni. Infatti, la configurazione come causa di non punibilità nell'una, come condizione di improcedibilità nell'altra, ha dato luogo ad una costruzione processuale differenziata, che mette in luce le molteplici problematiche legate all'inclusione dell'irrilevanza del fatto

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in ciascuna fase processuale.

Dalla comparazione tra i due istituti emergono vantaggi e rischi connessi all'irrilevanza penale del fatto, da tenere in considerazione anche in vista della possibile introduzione di una clausola generale di irrilevanza nel processo penale ordinario.

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CAPITOLO I

L'IRRILEVANZA DEL FATTO NEL SISTEMA DELLA GIUSTIZIA PENALE

SOMMARIO: 1. L'ipertrofia «verticale» del diritto penale e le «due anime» dell'irrilevanza del fatto - 2. Esiguità del fatto: delimitazione del concetto - 3. L’approccio personologico del rito penale minorile - 4. La ratio deflativa nel rito davanti al giudice di pace - 5. Natura giuridica dell'irrilevanza del fatto - 5.1 Profili di legittimità costituzionale - 6. Prospettive di riforma.

1. L'ipertrofia «verticale» del diritto penale e le «due anime» dell'irrilevanza del fatto.

Gli istituti preposti al trattamento processuale del fatto irrilevante sono espressione di un principio di esiguità, in virtù del quale si rinuncia all'irrogazione della sanzione penale rispetto a fatti che, pur integrando una fattispecie astratta di reato, in concreto presentano un minimo grado di disvalore, tale da farli apparire come non meritevoli di intervento sanzionatorio penale.1

1 L'espressione «irrilevanza del fatto» è stata oggetto di critica in quanto considerata «semanticamente fuorviante». Essa risulta incapace di distinguere le condotte realmente prive di rilievo penale da quelle che, semplicemente, risultano troppo lievi per meritare un processo e una pena, con il rischio di diffondere un messaggio, errato, di liceità del fatto. C. CESARI, Commento all'articolo 27, in AA. VV., Il processo penale minorile. Commento al D.P.R.448/1988, a cura di G. GIOSTRA, Giuffrè, Milano, 2009, p. 299. Come precisa C. PONGILUPPI, Gli spazi di discrezionalità nel giudizio di accertamento della particolare tenuità del fatto, in AA. VV., Contenuti e limiti della discrezionalità del giudice di pace in materia penale, a cura di L.PICOTTI-G.SPANGHER, Giuffrè, Milano, 2005, p.

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La categoria dell'irrilevanza penale del fatto nasce per reagire alla ipertrofia c.d. «verticale» del diritto penale.

Nell'ambito di tale fenomeno, apparentemente unitario, rientrano due situazioni: l'aumento di una criminalità che si caratterizza per la particolare esiguità dei fatti di reato (c.d. «piccola criminalità»); l'eccessiva punizione di tutti i fatti conformi alle fattispecie astratte, indipendentemente dalla loro concreta gravità.2

Sotto il primo profilo, l'ipertrofia «verticale» è contrassegnata dalle due componenti dell'esiguità del reato e della sua diffusione, che incidono negativamente sulla funzionalità del sistema penale.

L'incremento del numero dei reati di lieve entità comporta, infatti, un aumento dei procedimenti penali pendenti. Ma quando gli apparati preposti all'amministrazione della giustizia sono inefficienti e disorganizzati, l'effetto che ne risulta è il congestionamento degli uffici giudiziari e la dilatazione dei tempi di definizione dei procedimenti. Si pone, pertanto, un'esigenza deflativa: rendere più efficiente il sistema penale per concentrare le risorse migliori nella repressione dei reati più gravi.3

236 nel diritto minorile sarebbe più appropriato parlare di «rilevanza minima» o di «tenuità».

2 R. BARTOLI, L'irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro l'ipertrofia c.d. “verticale”del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 1475 distingue l'ipertrofia «verticale» sia dall'ipertrofia c.d. «orizzontale» del diritto penale, che consiste nell'eccessivo aumento del numero delle fattispecie incriminatrici previste dall'ordinamento, con il conseguente ampliamento dell'area dell'illiceità penale; sia dalla criminalità c.d «di massa», la quale si caratterizza per l'attenuazione del biasimo sociale nei confronti di alcuni reati.

3 R. BARTOLI, L'irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti, cit., pp. 1474-1475 individua le principali cause dell'ipertrofia «verticale».

La prima è costituita dai processi di democratizzazione e di laicizzazione degli Stati moderni (fattori istituzionali): la democratizzazione, ampliando la libertà dei consociati, ha aumentato le possibilità per i singoli di deviare da modelli comportamentali imposti; la laicizzazione ha, invece, condotto ad una relativizzazione dei valori religiosi e morali.

Il secondo fattore è la c.d. «perdita di identità dell'autore» (fattore sociale), dal momento che il venir meno della sua conoscibilità da parte dei consociati, anche per effetto dei flussi migratori, ha comportato una diminuzione degli effetti di prevenzione generale derivanti dalla stigmatizzazione del condannato.

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Nella seconda prospettiva, invece, l'elemento che connota l'ipertrofia «verticale» è unicamente l'esiguità del reato, che contrasta con la concezione di extrema ratio e di proporzionalità della pena. Tali principi devono trovare attuazione non soltanto in astratto, al momento della formulazione della norma, ma anche in concreto, nell'irrogazione della sanzione.

Alla pena si deve ricorrere quando strumenti sanzionatori di altra natura non risultano in grado di offrire una tutela adeguata e il disvalore del fatto di reato, sia in astratto che in concreto, è talmente grave da giustificare il tipo di risposta sanzionatoria.

Pertanto, mentre il primo fenomeno rientrante nella definizione di ipertrofia «verticale» del diritto penale determina principalmente un'esigenza di economia processuale, il secondo richiede un'«economia della pena». La sua applicazione deve essere circoscritta ai soli reati concretamente gravi e arretrare rispetto ai fatti astrattamente gravi, ma in concreto privi di un disvalore che li renda meritevoli della sanzione criminale.

Nonostante le differenze, le due tipologie di ipertrofia «verticale» hanno un minimo comune denominatore: il carattere bagatellare del fatto storico di reato. Entrambe, vale a dire, si caratterizzano per l'esiguità del fatto concreto.4

progresso tecnologico) che ha favorito sul piano materiale e psicologico la commissione di reati di modesta entità. Quanto più la vittima è lontana dal fatto materiale e «astratta», tanto meno l'autore sarà propenso ad osservare la norma. 4 Si tratta dei reati bagatellari c.d. «impropri» o «non autonomi», vale a dire quei

reati che corrispondono a fattispecie astratte anche gravi ma che in concreto presentano uno scarso disvalore. Si distinguono dai reati bagatellari c.d. «propri» o «autonomi», che sono illeciti cui già il legislatore riconosce un disvalore penale lieve, prevedendo limiti edittali di pena inferiori. Questi ultimi possono essere depenalizzati attraverso la loro degradazione in illeciti amministrativi (depenalizzazione in astratto). Al contrario, essendo i primi solo in concreto esigui ma conformi a fattispecie che solitamente comprendono anche fatti di notevole disvalore, non possono essere eliminati definitivamente dal sistema penale. Saranno, invece, necessari l'intervento del legislatore, per fissare i criteri di esiguità, e dell'interprete, nella valutazione dei singoli casi (depenalizzazione in concreto). Le clausole di irrilevanza sono strumenti di depenalizzazione in concreto. Sull'argomento, C.E. PALIERO, Minima non curat praetor. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari., Cedam, Padova,

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Da ciò consegue che le esigenze di economia processuale e di «economia della pena» non necessariamente devono essere perseguite attraverso soluzioni differenziate, ma possono essere soddisfatte attraverso un unico istituto.

L'irrilevanza del fatto è spendibile su entrambi i fronti. Infatti, un istituto che escluda la punibilità di un fatto che abbia i caratteri della tipicità, dell'antigiuridicità e della colpevolezza ma anche della minima gravità, se da un lato consente il decongestionamento degli uffici giudiziari, rendendo più celere ed efficiente l'amministrazione della giustizia, dall'altro serve a non punire fatti rispetto ai quali la sanzione penale sarebbe sproporzionata.

Con un'espressione efficace si parla, a tal proposito, delle «due anime» dell'irrilevanza del fatto.5

1985, p. 646s.; R. BARTOLI, L'irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti, cit., p. 1500 ss.; C. CESARI, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Giappichelli, Torino, 2005, p. 220.

Secondo R. BARTOLI, L'irrilevanza penale del fatto tra logiche deflattive e meritevolezza di pena, in AA. VV., Meritevolezza di pena e logiche deflattive, a cura di G. DE FRANCESCO ed E. VENAFRO, Giappichelli, Torino, 2002, p. 103 la depenalizzazione in concreto per esigenze di economia della pena sarebbe destinata ad avere una vita più lunga della depenalizzazione in astratto, proprio perché le fattispecie incriminatrici da cui deriva il reato bagatellare non autonomo non possono essere depenalizzate, mentre quelle che danno luogo al reato bagatellare autonomo, essendo depenalizzabili una volta per tutte, verosimilmente scompariranno con il trascorrere del tempo e con una razionale politica criminale. 5 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza del fatto, cit., p. 108; R. BARTOLI,

L'irrilevanza penale del fatto tra logiche deflattive e meritevolezza di pena, cit., p. 101s.; R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell'azione penale, esigenze di deflazione e «irrilevanza del fatto», in AA. VV., I nuovi binari del processo penale tra giurisprudenza costituzionale e riforme, Giuffrè, Milano, 1996 p. 213s. richiama, oltre all'esigenza deflativa, la necessità di ridurre l'impatto negativo del processo sull'imputato.

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2. Esiguità del fatto: delimitazione del concetto.

Problema primario della depenalizzazione in concreto, cui è preposto l'istituto dell'irrilevanza del fatto, è l'individuazione della struttura del reato bagatellare improprio e, quindi, dei criteri in base ai quali compiere il giudizio di concreta esiguità.

Non si tratta di valutare l'assenza di offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, bensì di considerare la lesione concreta arrecata dal singolo episodio. Difatti, i concetti di “offensività” (o meglio, di “inoffensività”) e di “esiguità” non sono coincidenti.

Inoffensivo è il fatto che, seppur conforme ad una fattispecie incriminatrice, non lede il bene giuridico protetto. Esempio tipico è rappresentato dal furto in relazione al valore della cosa rubata, quale un acino d'uva, dove la valutazione di inoffensività si basa sul valore del bene giuridico.6Esiguo, invece, è il fatto illecito che sia perfetto in

tutti i suoi elementi costitutivi e dotato di una certa carica offensiva, ma la cui gravità si attesta ad un livello minimo, che non raggiunge la soglia della meritevolezza di pena.7 È in tale indicazione che deve

essere ricercato il criterio di definizione dell'esiguità: occorre porre in relazione il fatto con le ragioni giustificatrici della pena.

È possibile, dunque, definire l'esiguità come «minima gravità del fatto».

Ne consegue la necessità di individuare dei parametri che consentano di estrapolare la dimensione bagatellare dal fatto tipico, antigiuridico e colpevole e di giustificare, eventualmente, l'omessa reazione dell'ordinamento.8

6 G. DE FRANCESCO, L'esiguità dell'illecito penale, in Dir. pen. proc., 2002, p. 890.

7 Secondo A. NATALINI, De minimis non curat praetor: diritto penale giurisprudenziale e reati di pericolo astratto, tra tipicità apparente, esiguità del fatto e necessaria offensività, in Cass. pen., 2003, p. 3532 i due concetti sono governati da criteri di natura differente: qualitativi per il principio di offensività, attinenti al fatto e alla sua tipicità; quantitativi per l'esiguità, concernenti il reato ma con la possibilità di estendersi all'autore o, addirittura, ad ulteriori elementi. 8 G. DE FRANCESCO, L'esiguità dell'illecito penale, cit., p.891. L'Autore

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La definizione del concetto di esiguità con criteri chiari e tassativi favorisce l'ossequio ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, quali il principio di legalità e quello di obbligatorietà dell'azione penale. Solo in tal modo, infatti, è possibile evitare che il pubblico ministero, nell'esercizio dell'azione penale, e il giudice, nell'esclusione della punibilità, godano di una discrezionalità talmente ampia da dar luogo a decisioni nel segno della diseguaglianza.

Una delle prospettive adottate nella ricerca degli elementi costitutivi dell'esiguità, consiste nella c.d. «concezione gradualistica del reato». Questo viene concepito come entità graduabile sia in senso qualitativo che quantitativo.9

Occorre, dunque, individuare gli elementi che consentono di graduare la gravità del reato.

Sulla base delle esperienze legislative tedesche, in dottrina sono stati elaborati due diversi modelli di reato bagatellare: «il modello di Krümpelmann» e il «modello onnicomprensivo».

Il primo fa leva sull'esiguità della sola condotta tenuta, secondo un triplice paradigma: disvalore dell'evento; disvalore dell'azione e grado di colpevolezza.

L'altro vi aggiunge componenti di disvalore concernenti l'autore del reato (quali i motivi dell'agente, i suoi precedenti giudiziari, le vicende successive al fatto), senza tralasciare i profili di prevenzione generale e speciale della pena.10

Nel nostro ordinamento prevale una posizione intermedia. Evitate valutazioni di prevenzione generale11, che avrebbero posto problemi di

9 La Relazione ministeriale al d.lgs. n.274/2000, p.39 menziona espressamente, in riferimento all'art.34 del provvedimento, alla «concordia di opinioni nel ritenere il reato come un'entità graduabile, proprio nella sua dimensione quantitativa, apprezzabile non solo sul terreno della commisurazione della sanzione, ma anche sotto il profilo dell'an della responsabilità». Per il testo completo della Relazione

http://www.penale.it/legislaz/rel_dlgs_28_8_00_274.htm. 10 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 225.

11 C. E. PALIERO, op. cit., p. 730 menziona, tra i criteri di bagatellarità rispondenti a logiche di prevenzione generale adottati nella legislazione tedesca, il criterio del «pubblico interesse al perseguimento del fatto».

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compatibilità con i principi di legalità e di obbligatorietà dell'azione penale, prevalgono i connotati oggettivi e soggettivi della condotta e l'entità dell'evento, cui si aggiunge l'occasionalità come espressione delle esigenze di prevenzione speciale.12

I criteri che concorrono al giudizio di esiguità del fatto saranno, pertanto, tutti quelli che, pur manifestando gli elementi della tipicità della fattispecie incriminatrice, la non meritevolezza di pena di un determinato fatto e del suo autore. Si tratterà, pertanto, degli elementi dell'offesa al bene giuridico, nella loro maggiore o minore intensità; quelli della colpevolezza, dolo o colpa, nella condotta e nel fatto, dunque quelli che fanno emergere esigenze di prevenzione speciale in relazione al caso concreto.13

Così individuati gli indici di esiguità del fatto, occorre domandarsi se essi siano collocabili in ordine gerarchico, per cui la scarsa rilevanza dell'uno possa condurre a ritenere esiguo il fatto senza che sia necessario valutare l'entità degli altri. Si tratta di una problematica che può avere carattere decisivo in presenza di fatti di reato dai tratti contraddittori.

Appare, sul punto, condivisibile la concezione del fatto esiguo come risultante dalla sussistenza di tutti i criteri di identificazione dello stesso.14

Considerando, in particolare, la descrizione dei criteri di selezione del fatto “irrilevante” e “particolarmente tenue” nelle traduzioni normative dell'esiguità del fatto nel nostro ordinamento (art. 27 d.P.R. n.448/1988 e art. 34 d.lgs. n. 274/2000), risulta come essi siano configurati in termini cumulativi e non alternativi.

12 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 226.

13 E. MATTEVI, C. PONGILUPPI, N. VENTURA, Irrilevanza del fatto: profili sostanziali e processuali, in Il Giudice di pace, Quaderni, Ipsoa, Milano, 2009, p. 15.

14 Condividono tale impostazione C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 225; E. MATTEVI, C. PONGILUPPI, N. VENTURA, Irrilevanza del fatto: profili sostanziali e processuali, cit., p. 17; R. BARTOLI, L'irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti, cit., p. 1510.

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Ciò conferma che il giudizio di esiguità è estremamente complesso, da compiersi su tutti i profili del reato perché, se anche uno soltanto di essi fosse tralasciato, non si coglierebbe la reale dimensione dell'illecito.

Ne consegue che il giudice, chiamato a decidere il caso concreto, non potrà far prevalere alcuni criteri di esiguità sugli altri. Laddove, ad esempio, il fatto sia tenue ma non occasionale, dovrà escludere l'irrilevanza. Lo stesso dicasi quando sia tenue il grado di colpevolezza ma il danno risulti particolarmente grave.15

Tale impostazione, peraltro, è maggiormente conforme al principio di sussidiarietà e di extrema ratio del diritto penale.

Per completezza, è necessario puntualizzare che una parte, seppur minoritaria, della dottrina obietta che l'esiguità da ricercarsi in tutti gli elementi del reato contrasta con le finalità deflative cui tende l'istituto dell'irrilevanza del fatto.16

È stato, in tal senso, proposto di trovare una soluzione al problema di sveltimento della procedura attraverso una verifica, in negativo, delle esigenze di risocializzazione del singolo, mantenendo in primo piano le caratteristiche oggettive del fatto illecito.17

15 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 227.

16 Favorevole alla costruzione di una gerarchia degli indici di esiguità appare C. E. PALIERO, op. cit., p. 744.

17 Secondo M. DONINI, Le tecniche di degradazione fra sussidiarietà e decriminalizzazione dei reati bagatellari, in Ind. pen., 2003, p. 400, accertata l'esiguità dell'offesa, sarà sufficiente l'assenza di indicatori che rivelino il bisogno di risocializzazione, da verificarsi celermente e con delle procedure standard. Sulla stessa linea di pensiero sembra collocarsi G. DE FRANCESCO, Commento all'art. 34 d.lgs. n.274/2000, in Leg. pen., 2001, p. 203. Per l'Autore, benché tutti gli elementi di esiguità debbano essere valutati in maniera autonoma, sarà prioritario concentrarsi sulle caratteristiche «obiettive» del fatto, mentre le caratteristiche personali del colpevole possono essere individuate tramite meccanismi di rilevazione sommaria e «cartolare».

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3. L'approccio personologico del rito penale minorile.

Tra le due finalità cui tendono gli istituti volti al trattamento processuale del fatto irrilevante, nel processo penale minorile l'esigenza di «economia della pena» sembra prevalere su quella di economia processuale.

La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, disciplinata all'art. 27 d.P.R. n.448/1988, risulta, infatti, coerente alla «tensione educativa» che permea l'intero rito minorile.18

La struttura e la storia della disposizione mostrano come l'istituto sia finalizzato, non soltanto a responsabilizzare il minore di fronte al reato, ma anche ad adeguare la risposta dell'ordinamento all'illecito commesso da un soggetto il cui percorso di crescita e di maturazione non è ancora giunto a compimento.19

L'istanza deflativa resta collocata sullo sfondo, come risultato positivo dell'istituto ma non come obiettivo primario. In verità, la stessa deflazione pare orientata alla garanzia delle esigenze educative del minore.20

Si è parlato, a tal proposito, di «finalità deflativa qualificata da elementi di fatto e di personalità».21

L'irrilevanza del fatto di cui all'art. 27 d.P.R. n.448/1988 è, infatti, espressione del principio di «minima offensività», che ispira l'intero rito penale minorile.

Dovendosi ammettere l'impatto potenzialmente traumatico del processo sul minore e la possibilità che esso ostacoli lo sviluppo armonico di una personalità ancora in formazione, il rito minorile è concepito in modo da non compromettere le esigenze educative 18 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 113.

19 La Relazione al progetto preliminare delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, in G.U., 24 ottobre 1988, p. 211 prevede espressamente che l'art. 27 costituisce applicazione del criterio di adeguamento alle esigenze educative del minore sancito dall'art.3 della legge delega n.81/1987. 20 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 117.

21 F. PALOMBA, Il sistema del processo penale minorile, Giuffrè, Milano, 2002, p. 363.

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dell'imputato minorenne e favorirne la rapida fuoriuscita dal circuito penale.

Lo stesso principio di ragionevole durata del processo di cui all'art.111, comma 2 Cost. assume, nell'ambito della giustizia penale minorile, un valore più pregnante. La fragilità di una personalità in evoluzione implica, infatti, che gli effetti negativi della stigmatizzazione, i danni alla vita di relazione, le interferenze con i percorsi educativi in atto, producano sui minori delle conseguenze ben più gravi rispetto a quelle subite dagli adulti a causa dell'eccessiva durata del procedimento. In quest'ottica, la scelta di celebrare un processo per un reato esiguo apparirebbe eccessiva e ingiusta agli occhi dell'imputato minorenne e gli impedirebbe un approccio realistico al reato commesso. Così, quando il fatto risulta irrilevante, la soluzione più adeguata alle esigenze del minore e proporzionata alla condotta criminosa da questi posta in essere è la sentenza di non luogo a procedere ex art. 27 d.P.R. n.448/1988.22

Se si fosse voluta privilegiare la finalità deflativa dell'istituto, sarebbe stato più opportuno collocarlo all'esito delle indagini preliminari, evitando del tutto l'instaurazione del processo.

Tale era stata, in realtà, la soluzione accolta nel Progetto preliminare

delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni

che, all'art. 23, prevedeva la possibilità per il pubblico ministero di presentare richiesta di archiviazione al giudice quando il fatto fosse risultato irrilevante.

L'opzione, pur comportando una notevole riduzione dei tempi procedimentali, poneva problemi di compatibilità con il principio di obbligatorietà dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost. Pertanto, la scelta compiuta nel d.P.R. n.448/1988 consente di dichiarare 22 Sul principio di adeguatezza del processo alla personalità del minore e di proporzionalità della reazione istituzionale alla condotta criminosa quali fondamenti dell'art. 27 d.P.R n.448/1988, cfr. C. CESARI, Commento all'articolo 27, cit., p. 295.

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l'irrilevanza del fatto già nel corso delle indagini preliminari, ma solo con sentenza e a seguito di un'apposita udienza in camera di consiglio. Parte della dottrina, in verità, considera la celebrazione dell'udienza camerale come un inutile appesantimento che vanifica l'esigenza di rapida fuoriuscita del minore dalla vicenda processuale e tradisce la

ratio dell'istituto.23

Tuttavia, il percorso di maturazione dell'imputato minorenne esige che il giovane sia responsabilizzato di fronte ad un fatto che, benché esiguo, resta pur sempre un illecito penale. L'udienza camerale di cui all'art. 27, comma 2 d.P.R. n.448/1988 è concepita proprio in quest'ottica: essa è un'importante occasione di contraddittorio sull'irrilevanza del fatto. Comparendo davanti ad un giudice, nel confronto con la persona offesa, e sperimentando la reazione della collettività e dei singoli al reato commesso, il minore è messo di fronte alla realtà dell'illecito.

Un'uscita prematura dall'iter processuale potrebbe, al contrario, non lasciare alcuna traccia nel vissuto dell'autore del reato, traducendosi nel pericoloso messaggio diseducativo secondo il quale le norme penali possono essere trasgredite senza alcuna conseguenza.24

Da tali riflessioni emerge a chiare lettere come nell'analisi della clausola di irrilevanza del fatto ex art. 27 d.P.R. n.448/1988 l'istanza di tutela della personalità del minore rivesta un ruolo cruciale, da cui dipende anche il significato che assume la celerità processuale. Quest'ultima è sacrificata, a favore di una maggiore articolazione del rito, laddove al confronto con il giudice si riconosca un effetto responsabilizzante sul minore; è, invece, salvaguardata quando lo snellimento dell'itinerario procedimentale produce un esito più proporzionato all'esiguità del fatto illecito e, pertanto, più efficace sul 23 S. DI NUOVO, G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè,

Milano, 2005, p. 290.

24 A. MESTITZ, L'irrilevanza del fatto: criteri e prassi applicative di tre tribunali per i minorenni, in Crit. Pen., 1997, p. 56 s.

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piano educativo.25

4. La ratio deflativa nel rito davanti al giudice di pace.

In conformità al precetto della massima semplificazione del rito penale davanti al giudice di pace, l'art. 34 d.lgs. 274/2000 sancisce l'«esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto».26

A fronte, cioè, dell'esiguità del danno o del pericolo derivati dal reato, dell'occasionalità del fatto e del grado di colpevolezza dell'autore, combinati con il rischio che la prosecuzione del rito arrechi pregiudizio ad alcuni interessi primari dell'indagato o dell'imputato, l'esercizio dell'azione penale può ritenersi non giustificato. Il pubblico ministero, di conseguenza, può formulare richiesta di archiviazione, previa verifica dell'insussistenza di un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento, che sarà così interrotto dal decreto di archiviazione del giudice di pace. Dopo la formulazione dell'accusa, invece, la declaratoria di improcedibilità per particolare tenuità del fatto deve rendersi nelle forme della sentenza, emessa a cura dello stesso giudice di pace.

L'istituto è chiaramente modellato sull'«irrilevanza del fatto» del rito penale minorile.27

Tuttavia, nel procedimento a carico di imputati minorenni la rinuncia alla punizione del reato è concepita come un meccanismo di diversion, 25 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 122.

26 Il preambolo dell'art.17 della legge delega n.468/1999 prescriveva espressamente al legislatore delegato di introdurre la disciplina del rito penale per il giudice di pace di operare le «massime semplificazioni rese necessarie dalla competenza dello stesso giudice».

27 Che l'art.27 d.P.R. n.448/1988 sia il modello di riferimento dell'improcedibilità per tenuità del fatto introdotta nel rito davanti al giudice di pace è chiaramente indicato nel par.6 della Relazione al d.lgs. 28 agosto 2000 «Disposizioni in materia di competenza penale del giudice di pace», in Dir. giust., 2000, p. 57 laddove si menziona il tentativo di esportare nell'ambito della legislazione ordinaria un meccanismo deflativo già operante nel processo minorile.

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che ha l'obiettivo primario di proteggere una personalità fragile da inutili traumi, pur con delle favorevoli ricadute in termini di riduzione del carico giudiziario.

Nella trasposizione dell'istituto in un rito destinato agli adulti, quale quello che si svolge davanti al giudice di pace, viene meno l'esigenza di protezione di una categoria debole di autori di reato e la ratio deflativa assume un ruolo centrale.28

La declaratoria di improcedibilità per «particolare tenuità del fatto» risponde, infatti, alla necessità di conferire celerità alla vicenda giudiziaria, favorendone la rapida conclusione quando la celebrazione del processo appare un «investimento ingiustificato».29

L'istituto consente di operare a monte un'analisi costi-benefici e stabilire, ancor prima dell'esercizio dell'azione penale, se il dispendio di energie che essa comporta sia proporzionato all'entità dell'illecito commesso.

Adeguare la spendita di risorse umane e materiali alla reale gravità dei reati perseguiti, determina un notevole risparmio di tempo e di mezzi sia al procedimento, che all'intero sistema.

Che l'istanza di economia processuale sia stata il punto di partenza del legislatore nel dettare la disciplina dell'art. 34 d.lgs. n.274/2000 emerge, inequivocabilmente, dalla scelta di concepire la «particolare tenuità del fatto» come condizione di improcedibilità.

Facendo dipendere dalla gravità del reato commesso l'esercizio o la prosecuzione dell'azione penale, si ottengono vantaggi ragguardevoli in termini di deflazione, poiché diventa possibile una pronuncia di archiviazione, che interrompe il procedimento in una fase precoce. Se si considera che il rito penale di pace è già ispirato al criterio della massima semplificazione, la collocazione della verifica della tenuità 28 C. CESARI, La particolare tenuità del fatto, AA. VV., Il giudice di pace nella giurisdizione penale, a cura di G. GIOSTRA-G. ILLUMINATI, Giappichelli, Torino, 2001, p. 327.

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nell'iter di archiviazione consente di evitare udienza e contraddittorio. L'esigenza di efficienza giustifica, inoltre, il ruolo ambiguo riservato alla persona offesa nella disciplina dell'art.34 d.lgs. n.274/2000.

La posizione di quest'ultima, valorizzata dopo l'esercizio dell'azione penale, prima di tale momento risulta più debole. La norma, infatti, subordina la declaratoria della «particolare tenuità del fatto» all'assenza di interesse della persona offesa al perseguimento dello stesso in sede penale (in fase di indagini preliminari), ovvero alla non opposizione della persona offesa o dell'imputato (in sede dibattimentale).

Il legislatore, tuttavia, non chiarisce il rilievo che assume la volontà della parte lesa prima della decisione in merito all'archiviazione, né impone il contraddittorio o una qualche forma di contatto allo scopo di raccoglierne l'opinione.

La previsione può essere giustificata unicamente con l'intenzione di evitare un dispendioso allungamento dei tempi di fuoriuscita dal sistema penale.30

Se nell'istituto della «esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto» l'istanza di economia processuale assume un ruolo centrale, non del tutto accantonata è l'esigenza di «economia della pena». La necessità di assicurare la proporzione tra azione criminosa e reazione istituzionale emerge a chiare lettere dal parametro che subordina la declaratoria di improcedibilità al possibile detrimento che la prosecuzione del procedimento penale potrebbe cagionare alle esigenze di salute, famiglia, lavoro o studio dell'autore del reato.

A tali aspetti, che rievocano diritti costituzionali, è necessario garantire sempre adeguata tutela, anche in un contesto processuale.31

Pertanto, quando la vita dell'imputato per effetto della celebrazione del 30 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., pp. 137-139.

31 E. MATTEVI, C. PONGILUPPI, N. VENTURA, Irrilevanza del fatto: profili sostanziali e processuali, cit., p. 131.

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rito, è suscettibile di subire un contraccolpo che la minima gravità del fatto non giustifica, lo Stato rinuncia a proseguire l'accertamento giudiziale e a punire il reato.32

In conclusione, la ratio personologica e di «economia della pena» dell'art. 34 d.lgs. n.274/2000 è configurata come corollario rispetto alla primaria esigenza deflativa ma, indubbiamente, ha ispirato il legislatore nella configurazione dell'istituto in esame.

5. Natura giuridica dell'irrilevanza del fatto.

Molto controversa è la natura giuridica dell'irrilevanza penale del fatto. È stata prospettata, per un verso, la natura sostanziale dell'istituto, in ragione del fatto che l'irrilevanza viene valutata sulla base di criteri, quali l'esiguità dell'offesa e della colpevolezza, che attengono al diritto penale sostanziale; d'altra parte, si è ipotizzata una soluzione processuale, in quanto ritenuta più idonea a realizzare scopi deflativi.33

La dottrina maggioritaria vede nell'irrilevanza del fatto nel rito penale minorile un istituto di chiaro segno sostanziale.34

La stessa Corte costituzionale ha aderito a tale impostazione nel dichiarare costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega, l'art.27 d.P.R. n.448/1988 poiché la disposizione, introducendo una nuova causa di non punibilità, non trovava collocazione all'interno della legge

32 C. CESARI, La particolare tenuità del fatto, cit., p. 329.

33 R .BARTOLI, L'irrilevanza penale del fatto tra logiche deflattive e meritevolezza di pena, cit., p. 104 osserva come la questione della collocazione sistematica dell'istituto rappresenta, in realtà, un «falso problema» e che la duplice funzione, di economia processuale ed «economia della pena» è soddisfatta indipendentemente dalla sedes materiae.

34 Cfr. C. CESARI, Commento all'articolo 27, cit., p. 248; E. MATTEVI, C. PONGILUPPI, N. VENTURA, Irrilevanza del fatto: profili sostanziali e processuali, cit., p. 54; S. LARIZZA, Le “nuove” risposte istituzionali alla criminalità minorile, in AA. VV., Diritto e procedura penale minorile, a cura di E. PALERMO FABRIS- A. PRESUTTI, Giuffrè, Milano, 2011, p. 257.

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delega «in ragione della sua preminente natura sostanziale».35

La scelta operata dal legislatore nel dettare la disciplina dell'art. 34 del d.lgs. 274/2000 appare, invece, di segno contrario. La norma delinea una causa di non procedibilità e si colloca, dunque, su un piano più marcatamente processuale.36

In merito si è osservato, tuttavia, che l'istituto in esame rappresenta una «nuova specie di improcedibilità» perché, pur ponendosi come fatto impeditivo dell'azione penale, implica una verifica di fondatezza dell'addebito ed una valutazione di merito sulle caratteristiche e le modalità del fatto.37

Le clausole di irrilevanza possono, dunque, inserirsi nell'ordinamento come cause di non punibilità, ovvero come cause di improcedibilità. Le due alternative hanno molteplici implicazioni processuali.

In qualità di causa di non punibilità, l'irrilevanza si configura come un meccanismo che consente di evitare la sanzione penale ma senza inibire l'azione e, di conseguenza, il processo. Essa non può fondare un provvedimento di archiviazione, non comparendo tra le ipotesi contemplate dagli artt. 408 e 409 c.p.p..38

La non punibilità può essere dichiarata con sentenza di non luogo a procedere in sede di udienza preliminare (art. 425, comma 1 c.p.p.) oppure, quando il procedimento non prevede la celebrazione di 35 Corte cost., sent. n. 250 del 6 giugno 1991. L'eccesso di delega era dovuto al fatto che la direttiva 1) dell'art.3 della legge delega n.81 del 1987 individuava soltanto due tipi di sentenza di proscioglimento: per concessione del perdono giudiziale e per difetto di imputabilità. Il legislatore, libero dai vincoli posti dalla delega, ha reintrodotto la disciplina con legge n.123 del 5 febbraio 1992.

36 Dai contributi della dottrina emerge, in realtà, una grande incertezza nell'individuare con precisione la natura giuridica dell'istituto. Tra gli altri, A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2007, p. 726 parla di «causa di non punibilità» che, a determinate circostanze, può determinare anche l'archiviazione.

37 V. GALANTINI, La disciplina processuale delle definizioni alternative del procedimento innanzi al giudice di pace, in AA. VV., Verso una giustizia penale «conciliativa», a cura di L. PICOTTI e G. SPANGHER, Giuffrè, Milano, 2002, p. 144 s.

38 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 150 cita molteplici contributi dottrinali a supporto della tassatività dei casi di archiviazione.

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un'udienza filtro, la declaratoria di irrilevanza potrà collocarsi in sede dibattimentale, all'esito della fase istruttoria.39

La scelta di utilizzare la forma della non punibilità, rende la clausola di irrilevanza uno strumento in grado di offrire all'imputato maggiori garanzie. Il contraddittorio, la conoscenza completa degli atti di causa e, conseguentemente, la possibilità di svolgere una difesa mirata consentono all'accusato di far valere in maniera più efficace le proprie ragioni e all'ordinamento di fornire una risposta sanzionatoria proporzionata al reato.

Pertanto, quando è qualificata come causa di non punibilità, l'irrilevanza penale del fatto appare più consona a svolgere una funzione di «economia della pena». Risulta, invece, parzialmente sacrificato lo scopo di deflazione perché, pur essendo possibile la conclusione anticipata del processo, essa sarà subordinata alla celebrazione, quanto meno, dell'udienza preliminare.

Funzionalmente più adatta al perseguimento di obiettivi di economia processuale è, al contrario, la scelta dell'improcedibilità. Così configurata, l'irrilevanza consente di chiudere il procedimento in uno stadio precoce, potendo evitare l'esercizio dell'azione penale. L'improcedibilità rientra, infatti, tra i presupposti dell'archiviazione annoverati dall'art. 411 c.p.p..

Inoltre, anche in sede processuale, in qualsiasi momento è possibile constatare la mancanza di fondamento all'azione già esercitata. Sarà, allora, possibile pronunciare sentenza di non luogo a procedere in sede di udienza preliminare (art. 425, comma 1 c.p.p.) ovvero prima del dibattimento (art. 469 c.p.p.).

In giudizio, la mancanza di una condizione di procedibilità consente la chiusura immediata dell'istruzione (art. 129 c.p.p.) e, di conseguenza, 39 L'art. 129 c.p.p., nonostante la menzione in rubrica, non include le cause di non punibilità tra le ipotesi in cui è consentito l'immediato proscioglimento, con chiusura anticipata dell'istruzione probatoria.

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la pronuncia di sentenza di non doversi procedere (art. 529 c.p.p.). Emerge chiaramente il notevole risparmio di risorse assicurato al sistema, a tutto vantaggio dell'esigenza deflativa.

5.1 Profili di legittimità costituzionale.

La configurazione dell'irrilevanza come causa di non punibilità o di improcedibilità comporta una diversità di precetti costituzionali con cui essa deve essere posta a confronto.

La costruzione come causa di improcedibilità la mette in relazione con l'art.112 Cost. La possibilità di procedere all'archiviazione pur in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole potrebbe, infatti, suscitare perplessità in merito all'osservanza del principio di obbligatorietà dell'azione penale.

Quest'ultimo obbliga il pubblico ministero, se non di fronte ad ogni notizia di reato, almeno in relazione ai fatti che corrispondono ad una fattispecie criminosa, salve ulteriori condizioni previste dalla legge. L'art.112 Cost. esclude la possibilità, per il pubblico ministero, di decidere discrezionalmente se intentare l'azione. Si devono, pertanto, ritenere costituzionalmente illegittimi gli istituti che, eventualmente, dovessero subordinare la scelta della pubblica accusa a presupposti talmente vaghi da impedire qualunque forma di previsione ex ante o di controllo ex post. L'estrema genericità impedisce di individuare un'unica soluzione legittima, rendendo corretti, per uno stesso reato, sia la richiesta di archiviazione che l'esercizio dell'azione penale. Ma, in tal modo, risulta compromessa la stessa ratio dell'obbligatorietà dell'azione penale: garantire l'osservanza del principio di uguaglianza di cui all'art.3 Cost. nell'esercizio del potere punitivo dello Stato.

Una simile violazione può essere evitata soltanto formulando in maniera precisa e determinata i presupposti della richiesta di

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archiviazione per irrilevanza del fatto e privilegiando, tra le possibili interpretazioni dei criteri chiamati a disegnare la fisionomia del fatto irrilevante, quelle che ne delimitino maggiormente la portata.40

La configurazione dell'irrilevanza come causa di non punibilità sfuma, invece, i termini del problema circa la compatibilità con l'art.112 Cost., dal momento che la relativa declaratoria presuppone l'esercizio dell'azione penale.

Tuttavia, una clausola che rompe la relazione tra la condotta incriminata dalla legge e la sanzione da questa predisposta rende necessaria una verifica di compatibilità con il principio di legalità e determinatezza delle norme penali ex art.25, comma 2 Cost. , efficacemente evocato e sintetizzato dal brocardo «nullum crimen sine

lege certa».41

La ratio del precetto costituzionale viene ricondotta al principio di divisione dei poteri e all'esigenza di certezza del diritto: si vuole affermare il primato del legislatore nel settore penalistico ed evitare che il potere giudiziario, a fronte di definizioni vaghe e discutibili, si appropri della funzione di creazione del diritto, minando la certezza dei consociati sul confine tra lecito e illecito.

Ne consegue che la costruzione dell'irrilevanza come causa di esclusione della punibilità è possibile, senza violare l'art.25, comma 2 Cost., solo se i presupposti da cui si evince l'esiguità del fatto sono sanciti dalla legge e presentano un livello di determinatezza tale da non esporsi ad interpretazioni soggettive e mutevoli, rendendo i cittadini in grado di distinguere le condotte punibili da quelle sottratte a sanzione. Una formulazione troppo vaga degli indici di esiguità potrebbe, inoltre, tradire la stessa ratio dell'istituto, facendo dell'irrilevanza del fatto un 40 C. CESARI, La particolare tenuità del fatto, cit., p. 334 s.

41 Dal tenore letterale dell'art. 25 Cost. non emerge, in realtà, il riferimento all'esigenza di determinatezza e tassatività della legge penale, espressa dall'art.1 c.p.. La dottrina, tuttavia, assegna alla previsione costituzionale una portata più ampia, idonea a costituzionalizzare anche tale principio. Cfr. C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 183.

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emblema, non dell'equità della risposta dell'ordinamento al reato, ma «dell'operare cieco della giustizia»42, con conseguente violazione del

principio di uguaglianza di cui all'art.3 Cost.

D'altro canto, anche un'eccessiva rigidità si rivelerebbe penalizzante perché, se i consociati sapessero con assoluta certezza quale fatto può essere considerato tenue e, pertanto, non punibile, l'effetto potrebbe essere un aumento spropositato di condotte che, benché di minor rilievo, sono comunque contrarie a norme incriminatrici.

Da tali riflessioni emerge che la costruzione di una clausola di irrilevanza richiede la capacità di evitare i due eccessi della rigidità e della flessibilità, cercando di restare entro l'area della determinatezza per non incorrere in abusi giudiziari e interpretazioni soggettive. Si tratta di un'operazione che accomuna le esigenze di compatibilità con l'art.25, comma 2 Cost. e con l'art.112 Cost., qualunque sia, non punibilità o improcedibilità, la configurazione dogmatica dell'istituto. A tal proposito, è stato affermato che, in rapporto alle clausole di irrilevanza, legalità della fattispecie ed obbligatorietà dell'azione penale sono due facce della stessa medaglia: cambia soltanto la prospettiva da cui si affronta la questione.43

42 C. CESARI, Le clausole di irrilevanza, cit., p. 194.

43 A. DIDDI, “Irrilevanza penale del fatto”. Inconfigurabilità del reato o autore non punibile?, in Giust. pen., 1998, p. 288.

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6. Prospettive di riforma.

Dalla volontà del legislatore e dalle frequenti sollecitazioni della dottrina emerge l'intenzione di esportare l'irrilevanza oltre i confini attuali del rito minorile e del rito davanti al giudice di pace.

Sull'opportunità di introdurre una clausola di irrilevanza di portata generale si sono concentrati vari tentativi di riforma fin dal 1966, quando si ipotizzò di introdurre nel codice di procedura penale l'art.346bis, dedicato alla «esclusione della procedibilità per irrilevanza penale del fatto». Nel passaggio del progetto in Commissione Giustizia, essa venne convertita in causa di non punibilità e, come tale, fu inserita nel disegno di legge che portò all'approvazione della c.d. «Legge Carotti». Il segmento, tuttavia, fu stralciato nel corso del successivo iter parlamentare.44

Successivamente, l'art.74 del Progetto di riforma del codice penale, elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal professor Grosso, prospettò l'introduzione di una causa di non punibilità «per particolare tenuità del fatto» in presenza di determinate condizioni: minima entità del danno o del pericolo; occasionalità del comportamento; insussistenza di pretese risarcitorie e di esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell'autore del reato.45

Nuovo impulso è giunto dai lavori della Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale istituita nel 2006 e presieduta dal professor Riccio. Nell'affrontare la questione della compatibilità con il principio di obbligatorietà dell'azione penale, si individua la possibilità di estendere i presupposti dell'archiviazione all'ipotesi in cui il reato non superi «una soglia minima di offensività»46. La

44 S. QUATTROCOLO, voce Irrilevanza del fatto (dir. proc. pen.), in Enciclopedia del diritto, Annali II, Giuffrè, Milano, 2008, p. 528.

45 La Commissione è stata istituita il 1° ottobre 1998. Per i testi dei lavori cfr.

http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp? previsiousPage=mg_1_12_1&contentId=SPS31478

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Commissione esprimeva parere favorevole all'estensione al processo ordinario dell'istituto della «tenue offensività del fatto», da configurarsi come ipotesi particolare di archiviazione.

Da ultimo, il “Progetto Pisapia” del 2006 di riforma del codice penale, tra i principi di delega al Governo per l'emanazione del nuovo codice

penale47, all'art.3 prevedeva il «principio di offensività e l'irrilevanza

del fatto». Distingueva tre ipotesi: necessaria offensività in astratto («Nessuno sia punito per un fatto che non offenda beni giuridici di rilevanza costituzionale»); necessaria offensività in concreto («Nessuno sia punito per un fatto che in concreto non offenda beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice»); non punibilità per «tenuità dell'offesa» e «occasionalità del comportamento».

Non mancano, d'altronde, pareri negativi alla previsione di una clausola di esiguità di portata generale, in considerazione del fatto che, in un sistema in cui il diritto penale è concepito come extrema ratio, la selezione dei fatti penalmente rilevanti deve avvenire attraverso una corretta individuazione dei beni giuridici oggetto di tutela. Pertanto, alle clausole di irrilevanza sarebbe necessario riservare un ambito di applicazione soltanto residuale.48

Al momento si attendono gli sviluppi successivi all'approvazione della l.67/2014 recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili».49

La prima delega prevede espressamente l'introduzione di una causa di

http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?

facetNode_1=4_57&previsiousPage=mg_14_7&contentId=SPS72293

47 Cfr.http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp? previsiousPage=mg_1_8_1&contentId=SPS47483

48 S. FIORE, Osservazioni in tema di clausole di irrilevanza penale e trattamento della criminalità bagatellare. A proposito di una recente proposta legislativa, in Crit. dir., 1998, p. 276 s.

49 Legge n.67 del 28 aprile 2014, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 2 maggio 2014.

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non punibilità per i casi di irrilevanza del fatto e l'adeguamento della relativa normativa processuale (art. 1, lett. m). Nello specifico, oggetto della disposizione sono le condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento. Si conferma la facoltà di proporre l'azione civile per il risarcimento del danno.

Quanto ai tempi della delega, la legge stabilisce che il Governo disponga di un termine di otto mesi per l'emanazione dei relativi decreti legislativi e di ulteriori diciotto mesi per l'adozione degli eventuali decreti legislativi correttivi e integrativi (art. 1, commi 1 e 2). È possibile ritenere che sia stata decisiva, ai fini dell'approvazione della suddetta legge, l'esigenza di deflazione carceraria. Verosimilmente, infatti, l'accelerazione impressa ai lavori parlamentari trova spiegazione nell'urgenza di individuare rimedi alla situazione di sistemico sovraffollamento delle carceri prima della scadenza del termine imposto dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo con la nota «sentenza Torreggiani».50

50 Corte eur. dir. umani, sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia. Il termine di un anno previsto nella sentenza è spirato lo scorso 28 maggio.

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CAPITOLO II

NATURA, FUNZIONI E PRINCIPI DEL PROCESSO PENALE MINORILE

SOMMARIO: 1. Dibattito su natura e funzioni del processo penale minorile - 1.1 Il principio di sussidiarietà - 1.2 Il principio di adeguatezza applicativa - 1.3 Il principio di minima offensività - 2. Dal «nuovo approccio ideologico» della Carta Costituzionale al diritto del minore ad un proprio processo - 2.1 La specializzazione della giurisdizione penale minorile - 2.2 Profili di individualizzazione: l'indagine sulla personalità del minorenne - 3. Il minore nelle fonti sovranazionali - 3.1 La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - 4. Rito penale minorile e rito ordinario: differenze - 4.1 La centralità dell'udienza preliminare - 4.2 I riti speciali - 4.3 La residualità del dibattimento.

1. Dibattito su natura e funzioni del processo penale minorile.

La specializzazione della giustizia penale minorile trova la sua ratio nella concezione del processo come intervento educativo funzionale alla positiva evoluzione della personalità, in formazione, dell'imputato minorenne.

Tuttavia, quando si parla di finalità educativa del processo minorile, è opportuno chiarire se con essa si intenda alludere al recupero sociale del minore in chiave rieducativa51 oppure, come sostiene la dottrina

51 F. MICELA, Il procedimento penale minorile in Italia tra funzione rieducativa e funzione ripartiva, in Nuove Esperienze di Giustizia Minorile, 2008, p. 107 s.

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maggioritaria52, alla necessità di adottare ogni cautela idonea ad evitare

che la vicenda processuale comprometta, o addirittura ostacoli, il processo evolutivo della sua personalità.

L'impostazione maggioritaria è suffragata non solo dal dettato dell'art. 27, comma 3 Cost., il quale consente di predisporre misure rieducative unicamente nei confronti del condannato, pertanto, nella fase attinente all'esecuzione della pena, ma dallo stesso d.P.R. n.448/1988. Quest'ultimo, all'art.19, nel dettare la disciplina dell'applicazione delle misure cautelari, prescrive espressamente al giudice di «tener conto dell'esigenza di non interrompere i processi educativi in atto».

La relazione che intercorre tra il processo penale minorile e l'educazione del minorenne deve essere, dunque, intesa nel senso di escludere o, almeno, ridurre al minimo il pregiudizio per la positiva evoluzione della personalità del minore (c.d. Principio di minima

offensività). Lo scopo è quello di favorire la rapida fuoriuscita del

minore dal circuito penale.

La difesa sociale è, evidentemente, subordinata al diritto di educazione del minore in quanto, nell'ottica del legislatore, la prevenzione e la protezione si traducono in una migliore difesa della società.

Tuttavia la finalità educativa del processo minorile non si sostituisce alla finalità istituzionale di accertamento dei fatti e della responsabilità penale dell'imputato.53

L'una e l'altra si conciliano attraverso la scelta della soluzione meno afflittiva per il minore, pur assicurando il regolare corso del processo.

osserva come nella giustizia minorile sia l'intero processo, non soltanto la fase esecutiva, a tendere alla rieducazione dell'imputato. Pertanto definisce il modello del nostro processo minorile come “promozionale” o anche “rieducativo-trattamentale”.

52 G.GIOSTRA., Commento all’articolo 1, in AA. VV., Il processo penale minorile, cit., p. 13 s.

53 Sul rapporto educazione-coazione cfr. M. BOUCHARD, voce Processo penale minorile, in Dig. disc. pen., X, Utet, Torino, 1995, p.139.

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Se non è possibile ignorare lo «iato qualitativo che divide il minorenne dall'adulto, riducendo l'uno ad una mera frazione dell'altro»54,non è

condivisibile neppure una “pedagogizzazione” del processo stesso, che ne sfiguri la funzione istituzionale. Esattamente a metà strada tra queste due soluzioni estreme si colloca la giurisdizione penale minorile: una giurisdizione specializzata che, senza rinunciare ai caratteri e agli scopi propri della giurisdizione ordinaria, si adegua alla peculiarità del soggetto sottoposto a giudizio.

In quest'ottica si giustificano i principi generali che regolano il processo penale minorile.

1.1 Il principio di sussidiarietà.

La prima parte dell'art. 1, comma 1 d.P.R. n.448/1988 prevede l'osservanza nel processo penale minorile delle disposizioni del decreto medesimo e, per quanto da esse non previsto, di quelle del codice di procedura penale.

Con tale disposizione, il legislatore ha inteso creare un collegamento costante tra il rito minorile e il rito ordinario, dato il comune contesto politico e culturale da cui ha tratto origine un'unica legge delega del 1987 per l'emanazione del vigente codice di procedura penale e per la disciplina del processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato.55

Il principio di sussidiarietà regola una relazione tra sistemi, più che tra norme. Infatti, la traslazione di norme dal processo penale ordinario al processo penale minorile non opera automaticamente, anche qualora 54 G. GIOSTRA, Per uno statuto europeo dell'imputato minorenne, Giuffrè, Milano,

2005, p.11.

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sia stata accertata la carenza di una disposizione ad hoc nel sistema penale minorile. Piuttosto questa è subordinata alla verifica della mancanza di una soluzione ricavabile da un'interpretazione sistematica delle norme processuali minorili. Soltanto se non è possibile trovare per tale via la risposta al problema processuale, si potrà ricorrere al codice di procedura penale.

Ma ciò non è ancora sufficiente: occorrerà anche verificare che la disposizione del codice di rito che si intende applicare non si ponga in rapporto di conflittualità con una regola implicitamente ricavabile dal sistema processuale minorile.56

A titolo esemplificativo, è possibile ricordare che nel d.P.R. n.448/1988 manca un'autonoma disciplina del giudizio abbreviato. Eppure, tale rito speciale è certamente esperibile anche dall'imputato minorenne, a norma dell'art. 25, comma 1 d.P.R n.448/1988.

Ciò nonostante, la disciplina prevista dal codice di procedura penale non è integralmente trasferibile nel processo minorile.

Non lo è, ad esempio, il disposto dell'art.441 c.p.p. che subordina lo svolgimento del giudizio in pubblica udienza alla richiesta da parte di tutti gli imputati. Ciò perché la pubblicità nel sistema processuale minorile costituisce eccezione, non regola, applicabile solo nel caso di udienza dibattimentale a porte aperte, su richiesta dell'imputato ultrasedicenne, ex art. 33, comma 2 d.P.R. n.448/1988.57

In conclusione, alla luce del principio di sussidiarietà, l'eventuale traslazione di norme dal processo penale ordinario al processo penale minorile è subordinata ad una duplice verifica di trasferibilità:

la prima riferita all'assenza di una norma esplicitamente prevista nel 56 V. PATANÈ, Origini storiche e percorsi legislativi, in AA. VV., La giurisdizione specializzata nella giustizia minorile, a cura di E. ZAPPALÀ, Giappichelli, Torino, 2009, p.14.

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sistema processuale minorile; la seconda attinente alla carenza di una regola implicitamente ricavabile dal complesso normativo dettato per l'imputato minorenne, che si ponga in rapporto di conflittualità con la disposizione del codice di procedura penale.58

1.2 Il principio di adeguatezza applicativa.

Proseguendo nella disamina dell'art.1, comma 1 d.P.R. n.448/ 1988, la seconda parte prescrive che tali disposizioni siano applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne. Un tale parametro attuativo si riferisce non al minore genericamente inteso, ma al singolo imputato minorenne. Ciò significa che tutti gli operatori della giustizia penale minorile, non soltanto il giudice, hanno il dovere di adottare ogni cautela idonea ad “individualizzare” la norma da applicare.

Il legislatore ha, dunque, imposto all'interprete l'adattamento della punizione alla personalità del minore, al fine di tutelarne le esigenze educative.

D'altro canto, l'unico modo corretto per la norma processuale di tutelare le esigenze educative dell'imputato minorenne è quello di non pregiudicarle. Pertanto, il principio di adeguatezza applicativa si ricollega al principio di minima offensività.59

58 V. PATANÈ, Origini storiche e percorsi legislativi, cit., p. 14. 59 G. GIOSTRA, Commento all’articolo 1, cit., p.11.

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1.3 Il principio di minima offensività.

Il principio di minima offensività dà attuazione all'obiettivo di non interferire con le esigenze educative del minore e di non interrompere i processi educativi in atto.

Si riconosce che il processo potrebbe turbare o, addirittura, interrompere la positiva evoluzione della personalità dell'imputato, ancora in formazione. Pertanto, si cerca di evitare tale turbativa, sia favorendo una rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale, sia rendendo meno offensivi i contatti inevitabili.

Molte disposizioni del d.P.R. n.448/1988 manifestano questo scopo. In particolare, le disposizioni che prevedono formule di definizione anticipata del processo: l'obbligo della immediata declaratoria della non imputabilità (art.26 d.P.R. n.448/1988 ); la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art.27 d.P.R. n.448/1988); la dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della prova (art.29 d.P.R. n.448/1988 ). A cui è necessario aggiungere il perdono giudiziale per i minori degli anni diciotto ex art.169 c.p.

Anche le disposizioni c.d. «destigmatizzanti»60 si ispirano al principio

di minima offensività. Si tratta di quelle disposizioni volte ad evitare che nella società si diffonda una percezione negativa del minore, impedendo che si sappia che è imputato o indiziato di delitto.

Si pensi, a titolo esemplificativo, al divieto di pubblicazione e di divulgazione di notizie o immagini idonee a consentire l'identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento (art 13 d.P.R. n.448/1988); alla possibilità di allontanare il minore durante l'udienza preliminare nel suo esclusivo interesse, durante l'assunzione di dichiarazioni e la discussione in ordine a fatti e circostanze inerenti alla sua personalità (art. 31, comma 2 d.P.R. 60 F. PALOMBA., Il sistema del processo penale minorile, cit., p.126.

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n.448/1988); alla non pubblicità del dibattimento (art.33 d.P.R. n.448/1988).

2. Dal «nuovo approccio ideologico» della Carta Costituzionale al diritto del minore ad un proprio processo.

All'interno della nostra Costituzione non si rinvengono disposizioni direttamente riferibili al sistema di giustizia minorile.

Pertanto le basi di tale sistema si ricavano a partire dalle norme costituzionali relative alla persona e ai suoi diritti, unitamente ai principi generali del diritto e della procedura penale.

Punto di riferimento, in tale apparato normativo, è l'art. 31, comma 2 Cost. che, imponendo alla Repubblica il compito di « proteggere la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo » costituisce il parametro alla luce del quale valutare qualunque norma diretta ai minori.

L'obbligo di protezione è va ad aggiungersi, non a sostituirsi, alle garanzie costituzionali spettanti al minore in quanto persona. Tra queste, in primis, i diritti inviolabili dell'uomo, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione all'art.2. La minore età non può in alcun modo giustificare un'eventuale limitazione di diritti. Ne consegue che l'attività penale e processuale nei confronti del minore deve necessariamente svolgersi nel rispetto delle stesse garanzie riconosciute dall'ordinamento ad ogni individuo in quanto tale.61

Nell'iter che ha condotto alla creazione di una legislazione adeguata al minore e alle sue reali esigenze, l'avvento della Costituzione ha 61 S. LARIZZA., I principi costituzionali della giustizia minorile, in A. PENNISI, La giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, Giuffrè, Milano, 2012, p. 105.

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