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Il mito del merito: un'analisi dell'ideologia meritocratica come forma di violenza simbolica

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Academic year: 2021

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A Cecilia: per tutte le strade che percorrerai, che ti accompagnino sempre la curiosità e il sorriso che hai oggi.

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Indice

Introduzione p. 6

Parte I

“La genealogia e lo sviluppo della nozione di meritocrazia”

Capitolo 1: “Le origini della nozione di meritocrazia” 14

1.1. La distopia di M. Young: un sorprendente fraintendimento 15 1.2. Le vere origini del termine ‘meritocrazia’ nella critica socialista di A. Fox 21 1.3. La critica liberale del merito come criterio allocativo: F. von Hayek 24 Capitolo 2: “L’ambiguità, la distorsione e il ribaltamento dell’accezione critica” 28

2.1. Ambiguità: commento al taglio socialdemocratico del libro di M. Young 30 2.2. Distorsione: D. Bell e la spinta verso l’uguaglianza delle possibilità 33 2.3. Ribaltamento: l’appropriazione del termine ‘meritocrazia’ da parte della

retorica neoliberista 37

Capitolo 3: “La meritocrazia nella retorica politica: la crescita del mito” 42

3.1. “The American Dream”: le origini religiose, culturali e politiche del mito della

meritocrazia negli Stati Uniti 44

3.1.1. La trasversalità della retorica meritocratica da Obama a Trump 49 3.2. Il caso inglese: l’evoluzione della retorica meritocratica in Gran Bretagna 53 3.2.1. Il thatcherismo: la risposta neoliberista alla crisi dello stato sociale 54 3.2.2. Il New Labour di Blair e la “Terza via” di Giddens 55 3.2.3. “The Aspiration Nation” di Cameron e le “neoliberal justice narratives”

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3 3.3. Il caso italiano: la figura di Berlusconi e il Movimento 5 Stelle 59 3.3.1. L’ideologia meritocratica come reazione al clientelismo e al

nepotismo 61

3.3.2. Il berlusconismo, la mitologia del self-made man e la meritocrazia di

Abravanel 64

3.3.3. Il caso del Movimento 5 Stelle: il ‘bias antisistema’ 68

Parte II: “Verso una lettura dell’ideologia meritocratica come forma di dominio simbolico”

Capitolo 4: “L’approccio critico alla meritocrazia: lo stato generale del dibattito” 76

4.1. La mancanza di un dibattito strutturato in Italia 78 4.2. Uno sguardo alla letteratura sociologica straniera 84 4.3. Il contributo della psicologia sociale americana 92 4.3.1. Introduzione alla System Justification Theory (SJT) e alla Social

Dominance Theory (SDT) 94

4.3.2. La “funzione palliativa” dell’ideologia meritocratica: l’uso della SJT e

della SDT in relazione alla meritocrazia 101

Capitolo 5: “Per un’interpretazione bourdieusiana dell’ideologia meritocratica” 113

5.1. Le nozioni di habitus e di violenza simbolica 118

5.1.1. Approfondimento sugli antecedenti della violenza simbolica 128 5.2. La meritocrazia come forma di dominio simbolico 132 5.3. Le nozioni di capitale sociale e di capitale culturale: le forme nascoste

dell’ereditarietà del privilegio 141

Capitolo 6: “Nelle cose e nelle coscienze: il dominio simbolico della meritocrazia” 151

6.1. “Strive for greatness”: l’individualismo meritocratico e l’etica competitiva dai

mondi dei mass-media e dello sport 157

6.2. L’ombra della meritocrazia: la discriminazione criptata nel dispositivo del

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4 6.3. Punire gli immeritevoli: il ruolo della mitologia meritocratica nella transizione

verso una forma di Stato penale 175

Conclusioni 180

Bibliografia 193

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5 “In breve, l’efficacia dei fattori sociali di disuguaglianza è tale che si potrebbe

realizzare la parificazione delle risorse economiche senza che il sistema universitario cessi per questo di consacrare le disuguaglianze, trasformando il privilegio sociale in ‘doti’ o in meriti individuali. Anzi, se l’uguaglianza formale delle possibilità fosse realizzata, la scuola potrebbe mettere tutte le apparenze della giustizia al servizio della legittimazione dei privilegiati.” (Bourdieu &

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Introduzione

“La problematica delle uscite dalla caverna sta tutta qui, nel fatto che da dentro

una caverna non si può rappresentare cosa sia una caverna.” (Blumenberg,

1989: 20)

Il mito platonico della caverna si costituisce come una riflessione sulle possibilità della conoscenza e come un potente avvertimento sulla differenza ontologica tra le ‘cose’ e i loro ‘simulacri’. La distinzione proposta nel mito è netta: la soggettività interpretativa è una sorta di sovra-struttura che rischia di mistificare e di confondere la perfetta e lucente geometria della Verità. Per questo, è necessario, si direbbe, ‘spezzare le catene’ e uscire dalla caverna.

Tuttavia, l’immagine del prigioniero incatenato può prestarsi a un fraintendimento strutturale; ovvero, si potrebbe pensare a una forza “esterna” e “costrittiva” (nel senso durkheimiano dei due termini) che si esercita verticalmente, dall’alto verso il basso, sulle possibilità di conoscenza dell’uomo; ovvero, si potrebbe credere nell’esistenza di un potere dominante che viene intenzionalmente esercitato per mantenere una situazione di vantaggio. E questa lettura ‘grossolana’ del mito platonico, ad esempio, è stata offerta dal finale di “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrik, dove il protagonista viene costretto a fissare, per giorni interminabili, uno schermo su cui vengono proiettati i simulacri di una verità morale, socialmente costruita dall’ideologia dominante, per mantenere intatta l’indiscutibilità del privilegio acquisito. C’è in ballo, in sostanza, la cosciente e architettata costruzione di un ‘uomo docile’ che, ammaestrato alla mini-verità dei simulacri e addomesticato nel buio, non potrebbe ormai reggere la visione della luce. Un’operazione di indottrinamento simile presupporrebbe una super-coscienza ordinatrice che, attraverso un piano grandioso, si prefiggesse l’obiettivo di creare una verità più vera della Verità, e che scegliesse, lucidamente, di utilizzare le catene per limitare il campo visivo (meglio, cognitivo) dei propri prigionieri – fino a far loro perdere coscienza della loro condizione di prigionia.

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7 Nonostante la sensazionalità di questa interpretazione del mito platonico, possiamo facilmente dubitare che questa fosse l’accezione originale del filosofo greco. Così come possiamo dubitare fortemente di un’interpretazione che vorrebbe fare delle catene la metafora di un potere scientemente utilizzato per mantenere l’uomo-suddito in uno stato di minorità (come, invece, vorrebbero proporre certe letture più o meno velatamente complottiste o anti-sistemiche).

Se dovessimo ricercare, da un punto di vista sociologico, la fonte della violenza annidata in questa forma di controllo, infatti, più che alle catene, dovremmo guardare ai simulacri, i quali portano a compimento l’opera di reificazione e mistificazione del simbolo, appiattendo la ‘cosa in sé’ alla sua rappresentazione-mediata. In altri termini, la caverna verifica e naturalizza una condizione strutturale di fraintendimento, camuffandola, per così dire, da Verità. Tuttavia, in questa situazione, è difficile trovare un posto solido per l’intenzionalità; si tratta, piuttosto, della descrizione di un processo logico che consente alle persone di vivere senza mettere in discussione, in ogni istante, la costruzione culturale (e, dunque, essenzialmente arbitraria) delle norme etiche e morali che regolano l’agire quotidiano. La violenza, dunque, non si esercita, in modo cosciente, in un senso gerarchico; più correttamente, dovremmo dire che essa si

manifesta nella relazione tra le ‘cose’ (meglio, le ‘ombre delle cose’) e le ‘coscienze’.

Questa relazione è, infatti, strutturalmente limitata dalle modalità logiche che gli uomini hanno a disposizione per rapportarsi a quegli stessi simulacri che li hanno socializzati. E l’ombra delle ‘cose’ è la stessa sia per chi si trova in posizioni dominanti sia per coloro che sono relegati nella condizione di essere dominati; allo stesso modo, tutti quanti sono egualmente incatenati: questa omologia, quando perpetua, senza che se ne possa avere immediata coscienza, delle condizioni di disparità, con la paradossale (poiché logicamente impercettibile) complicità delle persone che meno ci guadagnano, fonda un tipo di relazionalità misconosciuta – poiché ‘neutralizzata’ – che Bourdieu ha definito come “violenza simbolica” (cfr. Bourdieu, 1979, 1983, 1989, 1994, 1999, 2005).

Parlare di meritocrazia come forma di dominio simbolico significa scontrarsi, da un lato, con il senso comune e, dall’altro lato, esporsi al rischio di aprire una crepa nel conformismo delle strutture logiche che fondano il modo di produrre conoscenza

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8 razionale e pratiche quotidiane. Proprio Bourdieu (1994: 91) scrive: “Le vere

rivoluzioni simboliche, probabilmente, sono quelle che offendono, più che il conformismo morale, il conformismo logico.” Come si può dire di essere “contro la

meritocrazia” senza suscitare, nell’immediato, un senso di riprovazione logica, prima ancora che morale?

Eppure, è possibile sostenere – come illustri pensatori, seppur in forme diverse da quella proposta in questo elaborato, hanno già sostenuto (si vedano, come esempi, Bourdieu & Passeron, 1971, 1972; Galtung, 1990; Jost & Hunyady, 2003; McNamee, 2018; Piketty, 2013; Rawls, 1971, 1985; Sen, 2000) – che l’ideologia meritocratica sia una caverna, nella cui penombra si confonde l’arbitrarietà di alcuni assunti che prendiamo come dati-per-scontati, ma che, una volta analizzati criticamente, rivelano la loro essenza di dispositivi culturali che perpetuano delle condizioni di disuguaglianza – e, dunque, di dominio – che vengono misconosciute e naturalizzate.

La stessa storia del termine ‘meritocrazia’ – come si vedrà, nel dettaglio, nei primi due capitoli di questo elaborato – si caratterizza per il radicale ribaltamento semantico di cui è stata vittima l’accezione originale dei pensatori a cui viene attribuita la paternità dell’allora neologismo. Fox (1956) utilizza la parola ‘meritocrazia’ per indicare una situazione di abuso sistemico, in cui l’arbitrarietà del ‘merito’ come criterio allocativo delle risorse economiche riproduce e amplia le forme di disuguaglianza esistenti. Young (1958) – al quale, solitamente, viene attribuita, in modo impreciso, la paternità del termine – scrive un saggio-romanzo di science-fiction, dal sapore fortemente distopico, in cui cerca di dimostrare come una società costruita attorno all’ideale-naturalizzato del ‘merito’ (una “meritocracy”, appunto) esponga al rischio di incorrere in un altro tipo di elitismo – forse nuovo, ma, negli esiti e nella moralità, non dissimile dal precedente. In un certo senso, Young cercava di criticare una forma latente di ipocrisia che caratterizzava, a suo avviso, la società a lui contemporanea – un’ipocrisia basata sulla retorica di un ‘merito’ che, in fin dei conti, si rivelava “poco più di un rispettabile travestimento del nepotismo” (ibidem: 106).

Trasponendo la lezione sul potere mistificante del ‘merito scolastico’ di cui hanno parlato Bourdieu & Passeron (1971, 1972) – ovvero, quel ‘merito’ che viene giudicato come tale, dall’istituzione scolastica, poiché riconosciuto nelle forme incorporate del

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9 capitale culturale –, è necessario interrogarsi a proposito del tipo di ‘merito’ sul quale

l’ideologia meritocratica pretenderebbe di fondare un ordine sociale moralmente

giusto: l’ideologia meritocratica, infatti, è ormai divenuta un assunto positivizzato –

grazie, soprattutto, al grande uso retorico che ne è stato fatto sia da parte di intellettuali di fama internazionale (si vedano, ad esempio: Bell, 1972; Giddens, 1999) sia da parte dei politici.

La tesi avanzata in questo elaborato è che un tipo di concezione arbitraria, naturalizzata e ‘neutralizzata’ del dispositivo del ‘merito’ si sia inscritta sia nel ‘mondo delle cose’ (come, ad esempio, nelle istituzioni pubbliche o nelle modalità organizzative del lavoro, così come nei prodotti di consumo culturale) sia nel ‘mondo delle coscienze’ (ovvero, negli schemi cognitivi che vengono quotidianamente impiegati per orientare l’azione), chiudendo, in questo modo, un circolo di misconoscimento-e-riconoscimento in cui si istituisce una forma simbolica, poiché “dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime” (Bourdieu, 1999: 7), di violenza. La pretesa – di fatto, scarsamente problematizzata – di astrarre il merito dalla sua strutturale condizione di arbitrarietà1 è testimoniata dall’impiego sistematico di strumenti che si presumono in grado di ‘oggettificare’ o quantificare il merito: si pensi, per esempio, ai test standardizzati proposti nell’istituzione scolastica, i quali poggiano su un fraintendimento logico che sovrappone il concetto di ‘trasversalità’ a quello di ‘neutralità’. Vale la pena di leggere questo breve passo (Bourdieu & Passeron, 1972: 237–38):

Perché l’esame compia alla perfezione la sua funzione di legittimazione dell’eredità culturale e, perciò stesso, dell’ordine stabilito, basterebbe dunque che la fiducia giacobina che tanti universitari accordano al concorso nazionale e anonimo possa riportarsi su tecniche di misura che hanno dalla loro tutte le apparenze della scientificità e della neutralità. Nulla assolverebbe meglio questa funzione di sociodicea che dei test, formalmente irreprensibili, i quali pretendessero [di] misurare a un momento dato l’attitudine dei soggetti a occupare dei posti professionali, dimenticando che questa attitudine, per quanto presto la si afferri, è il prodotto di un apprendistato socialmente qualificato e che le misure più predittive sono precisamente le meno neutre socialmente.

1 Non è possibile, infatti, pensare a una definizione di ‘merito’ che si svincoli totalmente dalle

sovra-strutture della moralità o dell’etica; un ‘merito’, in altre parole, che si costituisse come il “punto

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10 Analizzare, dunque, le modalità attraverso le quali l’ideologia meritocratica si è inscritta, nella sua versione positivizzata, nelle ‘cose’ e nelle ‘coscienze’ è lo scopo principale di chi scrive. In Italia, si tratta di un’operazione relativamente nuova, poiché i contributi che propongono una lettura critica della meritocrazia non sono numerosi. Non solo: mancano – praticamente del tutto – le traduzioni in italiano dei contributi più importanti sul tema, scritti principalmente in lingua inglese. In questo senso, il presente testo si propone di costruire, in un’ottica interdisciplinare, una mappa abbastanza esaustiva del dibattito internazionale che è venuto a crearsi attorno al tema della meritocrazia. In particolare, sarà data rilevanza ai contribuiti sociologici e a quelli che provengono dal campo della psicologia sociale. Dagli psicologi sociali, infatti, sono state elaborate delle letture interessanti e originali, che si rivelano essenziali al fine di comprendere e di dimostrare, anche a livello sociologico, perché l’ideologia meritocratica potrebbe funzionare come una forma di dominio simbolico.

Uno dei pilastri fondamentali sui quali poggia l’ideologia meritocratica è costituito dalla mitologia dell’ascesa sociale di tipo self-made, veicolata, soprattutto, dalle narrazioni costruite attorno al topos del “sogno americano” – ovvero, quel tipo di narrative che rafforzano la credenza che il talento naturale e il duro lavoro siano di per sé sufficienti a scavalcare qualsiasi tipo di ostacolo che si potrebbe incontrare nella corsa verso il successo lavorativo e verso l’autorealizzazione. Infatti, molti dei contributi che si sono occupati di muovere delle critiche nei confronti dell’ideologia meritocratica si sono concentrati sullo sfatare questo tipo di mitologia (si veda, ad esempio: McNamee, 2018). E questa operazione si configura, ovviamente, come una direttiva di ricerca di importanza cruciale. Tuttavia, è opportuno proporre una distinzione concettuale tra il valore descrittivo e il valore prescrittivo della meritocrazia. Dimostrare come, nei fatti, l’ideale meritocratico non si sia realizzato non significa dimostrarne l’irrealizzabilità. In altre parole, l’operazione di ‘sfatare il mito della meritocrazia’ colpisce il valore descrittivo della meritocrazia – ovvero, evidenzia come sia sbagliato credere che la società delle democrazie occidentali sia slittata effettivamente verso un modello organizzativo meritocratico. Ciononostante, questo tipo di operazione non intacca la portata prescrittiva dell’ideologia meritocratica – ovvero, non demistifica l’adesione acritica alla presunta moralità dell’ordine meritocratico; detto altrimenti, non intacca la credenza nel fatto che ‘la

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11 meritocrazia dovrebbe esistere’. È opportuno tenere a mente questa distinzione, poiché, concettualmente, si configura come uno strumento imprescindibile al fine di proporre un discorso critico sulla meritocrazia che abbia una solida tenuta logica. Infatti, l’opera di demistificazione nei confronti del valore descrittivo della meritocrazia viene portata avanti anche – e soprattutto – dai più strenui difensori dell’ideologia meritocratica, i quali, spesso, denunciano quegli episodi in cui al ‘merito’ viene negato il giusto e dovuto riconoscimento, col fine esplicito di riaffermare il valore morale (in modo assoluto) del ‘merito’ stesso – e, dunque, la bontà non-problematizzata dell’ordine meritocratico. In questo senso, parlare di meritocrazia come forma di dominio simbolico significa analizzare la credenza nel valore prescrittivo della meritocrazia – ovvero, focalizzarsi sul perché le persone credono che

la meritocrazia dovrebbe esistere, al di là che le stesse persone credano o meno nella

sua effettiva attualizzazione. Detto altrimenti, non mi sforzerò di portare il lettore all’esterno della caverna, per mostrargli la differenza tra le ‘cose’ e i loro ‘simulacri’; piuttosto, mi sforzerò di analizzare la struttura stessa della caverna, e i modi in cui le persone si relazionano a questa struttura.

Il lavoro è diviso in due parti: nella prima parte, proporrò una ricostruzione genealogica del termine ‘meritocrazia’ (Capitolo 1), provando ad analizzare il progressivo e radicale slittamento semantico a cui è andato incontro, riferendomi, soprattutto, all’uso che ne è stato fatto da illustri pensatori (Capitolo 2) e, successivamente, dalla retorica politica (Capitolo 3). In particolare, per quanto riguarda questo ultimo aspetto, vale la pena, fin da subito, di notare come l’ideologia meritocratica, nella sua versione positivizzata, abbia fatto breccia, in modo trasversale, nei sistemi valoriali di riferimento di tutti gli schieramenti politici, da destra a sinistra, formando un binomio inscindibile con l’utopia dell’uguaglianza delle possibilità; mi concentrerò principalmente sul caso americano, sul caso inglese e su quello italiano: in riferimento ai primi due, sono presenti alcuni contributi che analizzano esplicitamente l’ascesa della mitologia meritocratica nei contesti geografici di riferimento (cfr. McNamee, 2018; Littler, 2013, 2017); per quanto riguarda il caso italiano, assodata la mancanza di contributi specifici in proposito, la lettura proposta sarà un’elaborazione originale di chi scrive.

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12 La seconda parte del testo, nella quale mi concentrerò sulla trattazione critica dell’ideologia meritocratica, si apre con una ricostruzione dei contributi accademici che si focalizzano sulla meritocrazia in termini non-allineati alla sua accezione

mainstream (Capitolo 4). In particolare, mi soffermerò sull’analisi del contesto

italiano, caratterizzato da una rilevante scarsità di interesse in tutte le discipline, e su quello sociologico internazionale, per poi proporre un approfondimento (inedito, in lingua italiana) sulle trattazioni provenienti dall’ambito della psicologia sociale, soprattutto americana, le quali sottolineano la “funzione palliativa” dell’ideologia meritocratica (Jost & Hunyady, 2003). Successivamente, una volta formato il

background teorico, mi focalizzerò sull’intenzione-chiave di questa tesi di laurea:

proporre una lettura originale dell’ideologia meritocratica come forma di “violenza

simbolica” (Capitolo 5). Nell’ultimo capitolo (Capitolo 6), proverò a descrivere i

meccanismi attraverso i quali questo tipo di violenza si manifesta e si propaga, facendo riferimento, per esempio, alle narrazioni provenienti dal mondo dei mass-media e dello sport. Infine, sottolineando le forme di discriminazione occultate da una nozione naturalizzata di ‘merito’, cercherò di spiegare quale potrebbe essere il ruolo dell’ideologia meritocratica nella transizione verso un tipo di “Stato penale” (cfr. Wacquant, 2000, 2001, 2006, 2013), per tentare di evidenziare quali siano le conseguenze pratiche e simboliche di un’adesione acritica nei confronti della nozione dominante di ‘meritocrazia’.

Alla fine dell’elaborato, se la trattazione sarà risultata convincente, si potrà capire perché il rapporto di “complicità ontologica” tra le strutture mentali e le strutture sociali (Grenfell, 2004: 59) di una forma di democrazia che si incentra sempre più sull’apologia del ‘merito’ (cfr. Bell, 1972; Galtung, 1990) – inteso come una sorta di

sociodicea (Bourdieu & Passeron, 1972) – conduca all’eliminazione, dall’orizzonte

cognitivo, dell’arbitrarietà della nozione stessa di ‘merito’; e come questa eliminazione, di fatto, legittimi e naturalizzi il privilegio dei privilegiati e lo svantaggio degli svantaggiati, acuendo il divario tra di loro.

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Parte I

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Capitolo 1

Le origini della nozione di meritocrazia

Le origini del termine ‘meritocrazia’ vengono solitamente fatte risalire al 1958, l’anno in cui il sociologo inglese Michael Young pubblica il volume intitolato “The Rise of

the Meritocracy, 1870–2033: An Essay on Education and Quality”2. Come si intuisce dalla discrasia temporale tra l’anno di pubblicazione e il periodo d’ambientazione indicato nel titolo del testo, il saggio-romanzo di Young si avvale dell’espediente di narrare dal futuro per costruire una retrospettiva della storia politica britannica. Come verrà spiegato dettagliatamente nel prossimo paragrafo, la nozione di ‘meritocrazia’ viene utilizzata, da Young, con un’accezione particolarmente critica: malgrado, ad oggi, il termine ‘meritocrazia’ venga comunemente inteso e valutato positivamente (cfr. Barbera, 2010) – e, spesso, utilizzato come il contrario di nozioni quali ‘nepotismo’ o ‘clientelismo’ –, nelle intenzioni del sociologo inglese, la meritocrazia assume la forma distopica di un tipo d’ordine sociale spiccatamente controverso e problematico.

Addirittura, come segnalato dalla sociologa inglese Jo Littler (2013, 2017), le radici del termine ‘meritocrazia’ andrebbero rintracciate in un tipo di critica ancora più radicale: Alan Fox – sociologo del lavoro e dell’industria, anch’egli di origini britanniche – utilizza (per primo, si presume) la parola ‘meritocrazia’ nel suo articolo “Class and Equality”, apparso nel 1956 sulla rivista di stampo socialista Socialist

Commentary. Fox, come verrà spiegato nel secondo paragrafo di questo capitolo,

critica profondamente un’impostazione sociale che si basa sull’elargizione di altissime ricompense economiche agli individui che vengono classificati come “i più naturalmente dotati”. In sostanza, la nozione di ‘meritocrazia’ viene a configurarsi, secondo l’accezione originale, come un termine di abuso.

2 In Italia, il testo viene pubblicato per la prima volta nel 1961 da Edizioni di Comunità, con il titolo

“L’avvento della meritocrazia”. Una nuova ristampa è stata proposta dallo stesso editore solamente nel 2014.

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15 La genealogia del termine ‘meritocrazia’, tuttavia, non è caratterizzata solamente dall’utilizzo distopico e critico che viene portato avanti da pensatori notoriamente di sinistra3. L’economista e sociologo austriaco, naturalizzato britannico, Friedrich von Hayek (premio Nobel per l’economia nel 1974) è unanimemente riconosciuto come uno dei massimi avversatori dell’intervento dello Stato nel libero mercato (Boettke, Farrant, Ransom & Salgado, 2000) ed è stato citato come riferimento intellettuale da numerosi politici conservatori, tra i quali possiamo annoverare Margaret Thatcher (Muller, 2003). Nonostante il suo pensiero profondamente liberale (e visceralmente avverso alle politiche di stampo keynesiano), anch’egli giudica – come vedremo nel terzo paragrafo di questo capitolo – in modo molto severo un tipo di ordine sociale che si basa su un sistema di ricompense associate al merito individuale (Hayek, 1960).

Dopo questa breve introduzione, appare chiaro come la genesi del termine ‘meritocrazia’ sia da inquadrarsi in modo paradossalmente antitetico all’uso che, ad oggi, ne viene fatto dalla maggioranza della popolazione e dalla retorica politica sia di destra sia di sinistra (Littler, 2017; McNamee, 2018). È ancora più sorprendente notare come le critiche rivolte all’ordine meritocratico siano inizialmente arrivate sia dal fronte conservatore sia da quello progressista. Lo scopo di questo capitolo è quello di costruire una genealogia dettagliata di questa parola che, nell’immaginario collettivo contemporaneo, ha assunto un valore positivizzato nonostante le sue origini controverse. La storia dell’ideologia meritocratica conta poco più di sessant’anni: per capire come questo ribaltamento eclatante della sua accezione originale sia stato possibile, occorre analizzare in profondità le circostanze del suo concepimento.

1.1. La distopia di M. Young: un sorprendente fraintendimento

Nonostante l’uso antecedente di Fox, la paternità del termine ‘meritocrazia’ viene comunemente attribuita a Young (cfr. Appiah, 2018; Barbera, 2010; Cingari, 2013,

3 Come abbiamo visto, Alan Fox pubblica “Class and Equality” sul giornale di matrice socialista Socialist Commentary, ovvero la pubblicazione settimanale del Socialist Vanguard Group, un gruppo

di radicali all’interno del Labour Party (Littler, 2017: 32).

Micheal Young ha partecipato attivamente alla stesura del “Social-welfare manifesto” presentato dal Labour Party nel 1945, ha fondato la Consumers’ Association nel 1956 e contribuito alla creazione dell’Open University, un esperimento per l’educazione democratica e senza barriere degli adulti (The Editors of Encyclopaedia Britannica, 2018b).

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16 2015a, 2015b; Esposito, 2017; Liu, 2011; McNamee, 2018; Son Hing, Bobocel, Zanna, Garcia, Gee & Orazietti, 2011).

Micheal Young nasce a Manchester (Regno Unito) nel 1915. All’età di quattordici anni, viene mandato a studiare alla scuola sperimentale di Dartington Hall, situata nella regione del Devon, all’estremo Sud-Ovest del Regno britannico. La scuola sperimentale di Dartington Hall fu creata dai coniugi Elmhirst, una coppia di ricchi filantropi profondamente progressisti: la volontà degli Elmhirst era quella di creare un ambiente di apprendimento che favorisse la naturale coltivazione di ogni forma di attitudine, in contrapposizione al sistema rigido e classista dell’Inghilterra di quegli anni. E questa fu una circostanza sicuramente di grande rilievo per la successiva maturazione intellettuale di Young, il quale viene ricordato dagli inglesi – a buon diritto – come uno dei grandi sociologi che più si sono impegnati attivamente sul versante pubblico (Appiah, 2018).

In effetti, Young – già prima dei trent’anni – assume la carica di direttore del British

Labour Party’s Research Office e contribuisce, in modo determinante, alla stesura del

manifesto elettorale4 grazie al quale i laburisti vincono le elezioni del 1945. Il suo impegno sul fronte sociale si traduce in molte altre iniziative e nella creazione di diversi istituti pubblici, come la Consumers’ Association, l’Open University (Briggs, 2006) e l’Università della Terza Età (Littler, 2017).

Young viene insignito dell’onorificenza del baronato nel 1978 e decide di scegliere il titolo di Baron Young of Dartington (The Editors of Encyclopaedia Britannica, 2018b), proprio in onore della scuola di Dartington Hall. All’interno della Camera dei Lord, Young continua a portare avanti le sue battaglie per un’educazione più democratica e realmente plurale (Littler, 2013). Young muore nel 2002 a Londra, consapevole – come verrà spiegato nei paragrafi 2.1 e 3.2.2 – del grande fraintendimento che è andato creandosi attorno al temine ‘meritocrazia’ (cfr. Young, 2001).

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17 Dopo questa breve presentazione biografica dell’autore, necessaria a comprendere i riferimenti politici e l’impegno pubblico di Young, possiamo più chiaramente interpretare il significato della sua opera più celebre: “The Rise of the Meritocracy”.

Il libro si costituisce come un saggio-romanzo di science-fiction che l’autore – un alter-ego dello stesso Young – scrive nell’anno 2033. L’espediente utilizzato è quello di una tesi di dottorato in sociologia che si costituisce come una retrospettiva della storia britannica dal 1870 al 2033. L’intento dell’autore sarebbe quello di descrivere come il principio di associazione tra talento individuale (misurato attraverso attendibili test del quoziente intellettivo [QI]) e la posizione ricoperta all’interno della gerarchia delle classi sia andato affermandosi nella società inglese, arrivando a sconfiggere gli sprechi e le ingiustizie del vecchio sistema classista – basato, al contrario, sul principio dell’ereditarietà del privilegio. L’affermazione di un sistema meritocratico si sarebbe resa necessaria poiché, in un’economia globalizzata e capitalista, l’innovazione continua diviene essenziale per risultare competitivi sul mercato. Nelle parole dello stesso autore (Young, 1958: 19):

Il ritmo del progresso sociale dipende dal grado in cui il potere si accoppia all’intelligenza. La Gran Bretagna di cent’anni addietro sprecava le sue risorse condannando persino le persone molto dotate al lavoro manuale e bloccava gli sforzi di certi membri delle classi inferiori per ottenere un giusto riconoscimento delle loro capacità. Ma la Gran Bretagna non poteva restare una società di casta se voleva sopravvivere come grande nazione. (…) Per resistere alla concorrenza internazionale il paese doveva fare miglior uso del suo materiale umano.

Il saggio è strutturato in due parti: nella prima, l’autore si concentra sull’analisi dell’ascesa dell’élite meritocratica; la seconda, invece, si focalizza sulle “conseguenze

che il progresso ha avuto per la classe inferiore, e in particolare per coloro che vi sono nati” (ibidem: 120). La problematicità della struttura meritocratica deriverebbe

dal fatto che il divario tra le classi – una volta assegnati tutti i talentuosi e tutti i meritevoli alla classe dominante e lasciati tutti gli altri ai lavori manuali – si sarebbe acuito notevolmente, causando un forte risentimento psicologico a chi si è visto relegare al margine della società, con impieghi che fanno riferimento soprattutto al settore della servitù domestica. Il ripristino dell’istituto della servitù si sarebbe reso necessario per rispondere all’esigenza d’impiego di una forza lavoro abbondantemente in eccesso a causa della crescita esponenziale del tasso di innovazione tecnologica. Non solo, per gli illuminati dell’élite meritocratica, il comfort della servitù sarebbe

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18 stato indispensabile per potersi dedicare completamente, per il bene della Nazione, ad attività creative e intellettuali, senza avere addosso l’urgenza di pensare alle incombenze materiali.

La classificazione degli individui in base al talento, nella distopia di Young, si concretizza attraverso la possibilità di stabilire l’entità del QI addirittura prima del compimento del quinto anno di età. L’equazione su cui l’impianto meritocratico si fonda è la seguente:

M (Merito) = I (Intelligenza) + S (Sforzo).

La valutazione dell’intelligenza, nella meritocrazia di Young, avviene seguendo il criterio valoriale della “capacità di aumentare la produzione” (ibidem: 192). I test del QI, per minimizzare la probabilità d’errore nell’assegnazione del giusto individuo alla

giusta posizione, vengono ripetuti periodicamente per tutto il corso della vita – e questa

risulta l’unica via di accesso alla mobilità sociale (ascendente, nel caso di rilevazione di un miglioramento, o discendente, nel caso di peggioramenti delle prestazioni5).

Tra i molti aspetti interessanti della narrazione di Young, la parte che fa riferimento alla frammentazione del ‘sentimento di classe’ (ibidem: 161) mi sembra particolarmente degna di attenzione. Com’è stato possibile far accettare alla maggioranza della popolazione questa svolta in senso meritocratico?

Negli anni Sessanta i figli eccezionali di lavoratori manuali non erano più gravemente svantaggiati dalla loro origine. Con la forza del solo merito individuale potevano salire lungo la scala sociale fino a dove glielo consentiva l’intelligenza. Era una grazia per loro e una grazia anche per i loro genitori. Ma per la classe lavoratrice nel suo complesso la vittoria risultò una sconfitta. Sazia di conquiste, la classe cominciò a sbriciolarsi dall’interno. Un numero sempre maggiore di genitori cominciò a nutrire ambizioni per i propri figli, anziché per la propria classe. Il culto del fanciullo divenne la droga del popolo (…).

Come si capisce, Young mette in relazione la speranza nella mobilità ascendente dei propri figli con l’ascesa della meritocrazia. In altre parole, l’etica individualista che

5 Curioso notare come Young, in questo modo, riesca a sovvertire l’ordine gerontocratico che

sembrava dominare l’Inghilterra del periodo e che risulta, anche oggi, altrettanto dominante: le posizioni al vertice delle organizzazioni sono ricoperte, per lo più, da persone in età avanzata (McNamee, 2018). Young, giocando sul fatto che il QI si abbassi naturalmente con l’età (vuoi per deficit di aggiornamento sui veloci tassi di innovazione tecnologica, vuoi per i naturali processi di degenerazione biologica dei tessuti cerebrali), riesce a proporre l’esempio di una società in cui l’età non diviene un criterio discriminante per assumere le posizioni di comando.

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19 caratterizza le società capitaliste (Bauman, 2000; Beck, 2000) avrebbe frammentato il sentimento di classe, ponendo le basi per la riproduzione delle condizioni che avrebbero relegato i settori marginali della popolazione nella posizione di svantaggio da cui cercavano di svincolarsi, abbracciando – in modo miope – quell’ideologia meritocratica che, al contrario, finisce con l’accrescere il divario che si cercava di colmare.

Young narra dal futuro; questo espediente gli consente di lanciare delle critiche velate, ma feroci, nei confronti della società a lui contemporanea, offrendo delle descrizioni lucide dei principi organizzatori che ne stavano alla base (Young, 1958: 120): “C’erano due principi contraddittori (…) il principio della parentela e quello

del merito. E quasi tutti (…) credevano in entrambi. A tutti pareva giusto agevolare il figlio e onorare il padre; a tutti pareva giusto scovare l’intelligenza e onorarne le conquiste.” Le parole di Young risuonano molto attuali: la nostra società è

caratterizzata dalla preferenza per il principio del merito (cfr. Alemanno, 2008; Goldthorpe & Jackson, 2008; McNamee, 2018). Eppure, il principio dell’ereditarietà dei beni di famiglia si configura come un diritto sacro e inalienabile. Questa sorta di contraddizione è ciò che sta alla base del potere della mitologia meritocratica e che la traduce nella formula retorica dell’uguaglianza delle possibilità (Barbera, 2010). I divari di ricchezza alla nascita divengono accettabili solo in una struttura che, formalmente, promuova gli individui secondo i loro meriti e offra a tutti, sulla carta, le stesse possibilità di riuscire a realizzarsi, rimuovendo dall’orizzonte cognitivo, tuttavia, il dibattito che si potrebbe intavolare attorno alla nozione di ‘merito’ e alla sua percezione. Nelle parole di Young, nella società attuale, il merito non sarebbe altro che “poco più di un rispettabile travestimento del nepotismo” (Young, 1958: 106).

Effettivamente, una concezione che potremmo definire ‘biologicizzata’ (e, perciò, oggettivabile) del merito è funzionale a rendere possibile il compimento di un vero e proprio esorcismo nei confronti degli spettri dell’ingiustizia, assecondando il naturale bisogno delle persone di credere in un mondo giusto (cfr. Jost & Banaji, 1994; Jost, Banaji & Nosek, 2004; questo aspetto verrà approfondito nei paragrafi 4.3, 4.3.1 e 4.3.2). Ma resta da chiedersi se sia davvero possibile svincolare il ‘merito’ dalle condizioni materiali di esistenza in cui le capacità del ‘meritevole’ si sono sviluppate (McNamee, 2018); è possibile compiere un passo addirittura ulteriore, chiedendosi

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20 quanto la strutturazione omologa tra le categorie cognitive e le strutture sociali (cfr. Bourdieu, 1979, 1994, 2005) incida sulla distinzione tra ciò che viene definito come ‘meritevole’ e ciò che, invece, viene posto come ‘immeritevole’. Come ho già accennato nell’introduzione, il compimento di questo passo è il focus principale di questo elaborato e sarà presentato dettagliatamente nel Capitolo 5.

L’ultimo capitolo del libro di Young si intitola “La crisi” e narra di come i disequilibri della società meritocratica siano sfociati in un malcontento generalizzato, proveniente soprattutto dal basso, ma supportato anche da alcuni esponenti ‘illuminati’ della classe dominante, che trova sfogo in atti di ribellione (come l’incendio del Ministero della Pubblica Istruzione o l’attentato al Presidente del Trades Union

Congress), guidati, probabilmente, da alcuni seguaci radicali del nuovo Movimento Populista. Il Movimento Populista si configura come un ‘partito antisistema’ che si

propone di sovvertire l’ordine meritocratico (e il paragone con l’attualità politica europea – italiana, in particolare – e americana viene fin troppo naturale). Il Movimento viene descritto come una struttura composita di persone di diversa estrazione sociale, accomunate dal malcontento nei confronti dei soprusi perpetrati (in modalità che ricordano i “white-collars crimes” di cui parla Sutherland [1945]) dalla classe dirigente. Non solo: la meritocrazia avrebbe causato la nascita di una nuova struttura classista, ancora peggiore di quella preesistente. Nelle parole del falso-Young (Young, 1958: 202):

Intorno al 1990 tutti gli adulti che avevano un QI superiore a 125 appartenevano alla meritocrazia. Un’alta percentuale dei ragazzi dotati di un QI superiore a 125 erano figli di questi stessi adulti. I migliori di oggi partoriscono i migliori di domani in una misura che non ha precedenti nel passato. L’élite si avvia a diventare ereditaria; i principi dell’ereditarietà e del merito tendono a fondersi.

Questa constatazione avrebbe portato l’ala più radicale del partito della destra conservatrice a domandare il ripristino del principio dell’ereditarietà, chiudendo un circolo ‘gattopardesco’ in cui si è cercato di cambiare tutto per non cambiare niente.

Al contrario, le idee del Movimento Populista trovano espressione nel fittizio “Manifesto di Chelsea” del 2009, in cui l’accento viene posto su una concezione plurale di intelligenza e sull’importanza di assecondare le naturali inclinazioni di ognuno, senza necessariamente stabilire una gerarchia dei talenti, poiché “ogni uomo

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21 è un genio in qualche cosa” (ibidem: 193): l’influenza, su Young, dello studio nella

scuola sperimentale di Dartington Hall può essere riassunta icasticamente in questa frase.

Le tensioni sociali, nel 2033, arrivano all’esasperazione. Per il Primo Maggio, vengono indetti uno sciopero generale e una serie di manifestazioni nelle più grandi città. Il finto-Young – convinto, tutto sommato, della bontà di fondo e della giustizia razionale del sistema meritocratico – non sembra troppo allarmato a riguardo, poiché vede nel Movimento Populista poco più di “un’accozzaglia di gruppi disparati tenuti

insieme solo dall’influenza di alcune personalità carismatiche in un’atmosfera di crisi” (ibidem: 216). L’ironia del vero-Young sta nel troncare qua la narrazione,

facendo annunciare ai finti-editori, alla fine del testo rimasto incompiuto, la tragica scomparsa dell’autore del saggio nelle agitazioni di Peterloo, scoppiate proprio durante le manifestazioni popolari del Primo Maggio.

Come si è visto, la nozione che Young propone di ‘meritocrazia’ risulta tutt’altro che priva di problematicità. Anzi, appare piuttosto chiara l’ironia che pervade tutte le pagine del testo. Eppure, il significato mainstream di ‘meritocrazia’, oggi, è quanto di più lontano dalle intenzioni dell’autore che ha reso celebre questo temine controverso: tracciare la storia di questo sorprendente fraintendimento è necessario per capire l’uso strumentale che ne è stato fatto.

1.2. Le vere origini del termine ‘meritocrazia’ nella critica socialista di A. Fox

Nonostante il successo e la notorietà raggiunti, seppur in modo distorto, dal libro di Young abbiano determinato l’opinione condivisa che la paternità del termine ‘meritocrazia’ fosse da attribuire a quest’ultimo, Alan Fox, nel 1956, scrive un articolo dal titolo “Class and Society” e lo pubblica sulla rivista Socialist Commentary: in questo articolo, come rileva Littler (2013, 2017), appare, per la prima volta (per quel che ne sappiamo oggi, grazie alla recente scoperta dello storico britannico D. Kynaston [2013]), la parola ‘meritocrazia’. E l’uso che ne fa Fox risulta ancora più radicale di quello proposto da Young.

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22 Alan Fox (1920–2002) è stato un sociologo dell’industria e del lavoro. Di umili origini – come apprendiamo dalla sua autobiografia (Fox, 1990) – Fox cresce in un sobborgo a Est di Londra e a 14 anni inizia a lavorare in una fabbrica di pellicole cinematografiche. Dopo l’esperienza traumatica della Seconda Guerra Mondiale, viene ammesso al Ruskin College a Oxford dove si diploma in Public Administration. Si laurea nel 1950 all’Exeter College (Oxford) in Politics, Philosophy and Economics e diviene professore a Nuffield nel 1963. La sua prospettiva è radicale e, durante la sua carriera universitaria, non risparmia attacchi a colleghi e politici (come M. Thatcher o T. Blair), rei di avere contribuito alla realizzazione di un tipo di società in cui la ricchezza del pluralismo si sottomette al diktat individualista del capitale (Topham, 2002).

L’articolo di Fox si costituisce come una dissertazione sulle politiche, gli apparati e il sistema ideologico che legittimano la stratificazione sociale (Littler, 2017: 32). Il testo è strutturato attorno alla riflessione sulle “quattro bilance”, ovvero, sull’interazione dei quattro fattori che più inciderebbero sul consolidamento del sistema delle disuguaglianze:

1. reddito;

2. proprietà;

3. educazione;

4. occupazione.

L’interconnessione di queste dimensioni provocherebbe dei circoli viziosi di riproduzione e aumento delle disuguaglianze già esistenti, in un tipo di logica in cui i più avvantaggiati accumulano vantaggi ulteriori e ogni volta crescenti. Fox, naturalmente, si focalizza sul lavoro industriale e la sua conclusione si concentra sul fatto che, anche ammesso che l’operato sindacale e la meccanizzazione del lavoro possano portare a un miglioramento nelle condizioni lavorative dei blue-collars, questa vittoria risulterebbe solamente parziale, poiché il sistema diseguale di retribuzioni ancorato allo status lavorativo non verrebbe comunque problematizzato. Nelle sue parole (Fox, 1956: 13):

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23 (…) we assume it to be a law of nature that those of higher occupational status must not only enjoy markedly superior education as well but also, by right and of necessity, have a higher income into the bargain. As long as that assumption remains (…) then so long will our society be divisible into the blessed and the unblessed (…). This way lies the ‘meritocracy’; the society in which the gifted, the smart, the energetic, the ambitious and the ruthless are carefully sifted out and helped towards their destined positions of dominance.

Come si intende dalla citazione del passaggio in cui, per la prima volta, appare la parola ‘meritocrazia’, il core dell’ideologia meritocratica si caratterizzerebbe per l’indiscutibilità del sistema che associa vantaggi economici consistenti a chi ricopre ruoli lavorativi di prestigio. Questa assiomatica corrispondenza, di fatto, viene scarsamente problematizzata e percepita come un dato naturale. Il risultato è la creazione di una spirale di vantaggi crescenti, in cui le risorse economiche, culturali e sociali (accumulate inizialmente attraverso la ricompensa economica per ciò che viene definito come ‘merito’) sono investite per accumulare vantaggi ulteriori. In uno schema:

Figura 1 – Il circolo vizioso dell’accrescimento del vantaggio. L’associazione tra il merito (1), la conseguente posizione lavorativa privilegiata (2) e il benefit economico che sembra naturalmente doverne derivare (3) porta alla realizzazione di quelle condizioni attraverso le quali il capitale economico, sociale e culturale (4) vengono investiti per creare una catena di vantaggi ulteriori (5). Questi vantaggi contribuiscono a produrre le stesse condizioni per cui si viene, inizialmente, percepiti come meritevoli. (2) Posizione lavorativa privilegiata (3) Benefit economici (4) Accumulazione di capitale sociale e culturale (5) Investimento dei capitali acquisiti per l’accrescimento dei vantaggi (1) Percezione di merito

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24 Nonostante, dunque, la meritocrazia si configuri come una teodicea grazie alla quale i più naturalmente dotati assumono le posizioni dominanti a cui sono destinati (e qui viene spontaneo riferirsi alla lezione weberiana sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo [Weber, 1904–05]), aspettandosi di ricevere in cambio delle sostanziose ricompense in termini economici e di prestigio sociale, questo meccanismo, secondo Fox, non farebbe altro che occultare un sistema di riproduzione delle disuguaglianze.

Ecco che – un’altra volta – possiamo comprendere il grande fraintendimento che è venuto a crearsi, in un breve tempo, attorno al termine ‘meritocrazia’: da una parola che è stata concepita per indicare un sistema di abusi e di derive inegualitarie, si è trasformata in un principio-guida da opporre agli ordini del nepotismo e del privilegio. Gli stessi ordini che – e questo è l’argomento della mia trattazione – contribuisce silenziosamente a riprodurre.

1.3. La critica liberale del merito come criterio allocativo: F. von Hayek

Fino a questo momento, abbiamo parlato della genealogia del termine ‘meritocrazia’ e abbiamo potuto constatare come questa parola trovi le sue origini in una critica che viene mossa al criterio allocativo del ‘merito’ principalmente da sinistra. Per questo motivo, reputo utile riportare il pensiero di Hayek: anche se quest’ultimo non fa uso esplicito della parola ‘meritocrazia’, egli si dilunga, nel suo celebre “The Constitution

of Liberty” (1960), a proporre una critica spiccatamente liberale nei confronti del

“merito come criterio allocativo” (Maccabelli, 2011).

Premio Nobel per l’economia nel 1974, Friedrich A. von Hayek viene riconosciuto come uno dei massimi esponenti del pensiero liberale6. Durante la sua lunghissima carriera accademica, ha insegnato presso le prestigiose università di Londra (alla

London School of Economics), Chicago, Salisburgo e Friburgo. Il tema principale delle

sue riflessioni riguarda i modi in cui l’entità del ‘giusto prezzo’ venga stabilita attraverso la realizzazione di un ordine di mercato totalmente spontaneo. In questo

6 Le note biografiche su Hayek sono state ricercate consultando l’enciclopedia Treccani online alla

voce “Hayek, Friedrich August von” (http://www.treccani.it/enciclopedia/friedrich-august-von-hayek – consultato il 16 novembre 2018).

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25 senso, Hayek viene comunemente ricordato come uno dei più acerrimi rivali delle teorie interventiste di Keynes e preso come modello da pensatori e politici conservatori.

Questa brevissima nota biografica era necessaria per capire la lontananza del pensiero di Hayek da quello dei due autori – Young e Fox – che abbiamo preso in considerazione fino a questo momento.

Come riportato da Maccabelli (ibidem), Hayek sembra muovere dalla distinzione di Musgrave (1959) tra “merit wants” e “merit goods”. I “beni meritori” si configurano come una tipologia di beni e servizi di cui, comunemente, le persone tendono a sottostimare l’importanza, soprattutto perché non immediatamente tangibile: un esempio classico di bene meritorio è costituito dall’istruzione (Balestrino, Galli & Spataro, 2015). Musgrave propone di far risalire allo Stato – almeno parzialmente e di fianco al mercato (e questa è una delle differenze fondamentali tra bene meritorio e

bene pubblico) – la responsabilità della fornitura di questo tipo di servizi. Hayek, pur

riconoscendo la rilevanza dell’argomento di Musgrave, non concorda sulla soluzione: lo Stato, pur essendo chiamato a investire – riprendendo l’esempio citato poco fa – nel settore dell’istruzione, non deve sostituirsi al mercato, neppure parzialmente, nella fornitura del servizio. Ciò che muove le perplessità di Hayek è la definizione di ‘merito’ (Barrotta, 1999).

Hayek (1960) nota come, di fatto, vi sia stata una convergenza ideologica tra ciò che viene definito come ‘merito’ e la nozione di ‘uguaglianza delle opportunità’. Come sottolinea Maccabelli (2011: 208):

Secondo Hayek, dietro ogni ideale di ‘giustizia sociale’ opera una sorta di mente ordinatrice che ambisce a definire i criteri attraverso cui allocare beni, reputazione e potere tra i membri di una società. Anche l’idea che la distribuzione dovrebbe rispettare il principio del merito incarna una logica costruttivista del tutto simile.

In relazione a questo argomento, è molto interessante notare come sia Hayek sia Fox – pur facendo riferimento a sistemi di valori ideologici e politici diametralmente opposti – insistano sulla costruzione arbitraria del criterio allocativo che associa la percezione del merito alla distribuzione delle risorse. Questa operazione si configura,

de facto, come un dato immediato e naturale – pur essendo, in realtà, una costruzione

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26 Hayek e Fox, tuttavia, risiede nel fatto che il primo dubiti non solo del ‘merito’ in qualità di principio allocativo, ma di ogni criterio super-imposto di giustizia sociale che possa interferire con la distribuzione spontanea delle risorse seguita dal mercato; il secondo, invece, muove la sua critica contro l’arbitrarietà di ciò che viene definito come ‘merito’, auspicando che la società possa dirigersi verso criteri allocativi (questa volta, super-imposti attraverso l’intervento statale) più egualitari.

L’ironia della storia vuole che Hayek individui proprio i socialisti come coloro che avrebbero elevato il merito a criterio allocativo che segue un principio di giustizia sociale opposto al criterio dell’ereditarietà. Tuttavia, Hayek non risparmia feroci critiche neanche a tutta quella corrente della tradizione liberale che avrebbe “dato

troppo credito all’ideale dell’uguaglianza di opportunità, ritenendolo viatico per la valorizzazione del merito all’interno di una società di mercato” (Maccabelli, 2011:

209).

L’attualità della critica di Hayek risiede anche nel fatto di avere messo in discussione (come fa, ad esempio, McNamee [2018]) l’origine stessa del merito. Associare il principio di distribuzione delle ricompense al merito significa declinare quest’ultimo in un senso morale. Tuttavia, risulta impossibile svincolare il merito dalle condizioni ambientali in cui le qualità del meritevole si sono sviluppate, così come dall’insieme del corredo genetico ereditato dai propri ascendenti: due circostanze che non hanno niente a che vedere con una presunta moralità del merito. Il valore delle persone – e quello delle rispettive ricompense – non deve essere associato, in sintesi, al loro merito: in un’economia di mercato veramente liberale, le persone vengono ricompensate soltanto in relazione alla qualità e all’utilità dei loro servizi (Maccabelli, 2011).

Per concludere questo breve excursus sul contributo di Hayek in relazione al tema della meritocrazia, è utile notare come, indirettamente, egli trovi un punto di contattato anche con Young (ibidem). Young descrive un sistema di istruzione distopico in cui gli individui, una volta classificati tramite precoci test del QI, vengono assegnati a traiettorie scolastiche fortemente differenziate e stratificate. Questa opzione risulta grottesca anche per Hayek, in quanto finirebbe per creare “una graduatoria ufficiale,

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27 ancor peggiore dalla presunzione di esprimere il ‘merito’ e che determina l’accesso a opportunità nelle quali il valore può mostrarsi” (Hayek, 1960: 749; cit. in Maccabelli,

2011: 213).

Seppur spinti da motivazioni diverse, abbiamo visto come pensatori socialdemocratici, socialisti e conservatori abbiano, anche se da punti di vista profondamente differenti, attaccato il tipo di ordine sociale meritocratico. Da una parte, la critica è mossa all’arbitrarietà del principio del merito, ritenuto fondativo di un sistema che riproduce eternamente le stesse disuguaglianze di nascita che, formalmente, cerca di combattere; dall’altra parte, il merito viene opposto alla possibilità di realizzare un mercato veramente libero, dove ogni individuo sia ricompensato solo in base al valore dei suoi servizi e non secondo un principio astratto di giustizia sociale – come, in questo caso, il merito morale.

Avendo tracciato il percorso della genealogia del termine ‘meritocrazia’, risulta chiaro come l’uso che, comunemente, ne viene fatto oggigiorno abbia subito delle radicali distorsioni. Ricostruire il come e il perché di questo ribaltamento semantico è lo scopo dei prossimi due capitoli.

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Capitolo 2

L’ambiguità, la distorsione e il ribaltamento dell’accezione critica

Nel precedente capitolo, ci siamo soffermati ad analizzare la genealogia del termine ‘meritocrazia’. Abbiamo potuto constatare come vi sia stata una sostanziale deviazione dal modo di intenderla di Fox e Young – i due pensatori a cui possiamo attribuire la paternità intellettuale di questa parola. Il pensiero dei due sociologi britannici è sostanzialmente diverso: il primo muove la sua critica da una posizione di matrice socialista e si concentra sulla riproduzione circolare delle disuguaglianze; il secondo, attraverso l’uso strategico del genere romanzesco della distopia, incentra la sua narrazione sulle derive che potrebbe prendere un sistema realmente imperniato sull’ideale meritocratico. Young, tuttavia, non opera una critica radicale del concetto di ‘merito’; egli si focalizza, piuttosto, sulle possibili degenerazioni derivanti da una nozione di ‘merito’ che volesse costituirsi come scienza. Proprio per questo motivo, il pensiero di Young è stato spesso – incredibilmente, verrebbe da dire a chiunque abbia letto davvero il testo e non si sia fermato solamente alle recensioni o ai riassunti – frainteso (o strumentalizzato), nonostante l’evidente taglio ironico e satirico che si coglie in ogni singola pagina.

Per rendersi conto di come gli intenti di Young siano stati distorti, riporto – a titolo di esempio – un personale commento a un sito web italiano (tra l’altro, abbastanza celebre, dato che il motore di ricerca Google lo pone addirittura come secondo risultato se, nella barra di ricerca, digitiamo semplicemente la parola “meritocrazia”). Il sito in questione si chiama “Meritocrazia.com”7 e si presenta come un sacro altare dell’ideologia meritocratica. Vi si propongono letture pro-meritocrazia e addirittura la costituzione di un think-thank attorno al tema, per “elaborare proposte concrete di

azione per rendere il nostro Paese più meritocratico, più ricco e più giusto” (sic). Al

di là della matrice ideologica dei contenuti, rispetto alla quale non sono interessato a entrare nello specifico, appare chiaro come Meritocrazia.com sia un sito che non si

7 Di seguito, riporto il link diretto al sito web: http://www.meritocrazia.com/index.php?option=co

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29 possa dire – per usare un eufemismo – vicino al pensiero originale di Young. Eppure, il sito è il punto centrale di riferimento per l’associazione “I + E = M”8, il corrispettivo inglese della formula ironicamente proposta dal sociologo inglese per arrivare alla (utopistica) quantificazione del merito (vediparagrafo 1.1). L’associazione è composta dai sedicenti “Campioni del merito” – “persone che vogliono impegnare i propri

talenti e impegnarsi per diffondere la cultura del merito e della meritocrazia nel nostro Paese” (sic). Riporto, per riuscire a rendere un’idea adeguata delle dimensioni del

fraintendimento, la descrizione che i “Campioni del merito” fanno del libro di Young:

Sir Michael Young, il laburista inglese che nel 1954 creò il termine “meritocrazia”, ha inventato l’“equazione del merito”: I+E=M, dove “I” è l’intelligenza (cognitiva ed emotiva, non solo l’IQ) ed “E” significa “effort”, ovvero gli sforzi dei migliori. La “I” porta a selezionare i migliori molto presto, azzerando i privilegi della nascita e valorizzandoli attraverso il sistema educativo: è l’essenza delle “pari opportunità”. La “E” è sinonimo del libero mercato e della concorrenza che, sino a prova contraria, sono il metodo più efficace per creare gli incentivi economici per i migliori.

Ebbene, se vogliamo ricercare una visione d’insieme realistica del contributo di Young (che non ha ricevuto, lo dico per inciso, il titolo di “Sir”, ma quello di “Baron” e che ha pubblicato il suo libro più famoso nel 1958 e non nel 1954) dobbiamo ribaltare completamente l’incredibile descrizione che viene proposta nel passo appena citato. Young non parla mai, in relazione al regime meritocratico, di un’accezione “cognitiva

ed emotiva” dell’intelligenza: il suo intento è proprio quello di evidenziare,

catastroficamente, come le dimensioni cognitive ed emotive vengano rimosse dalla valutazione scientifica dell’intelligenza. Young parla di una declinazione in forma plurale dei talenti solamente quando si riferisce al “Manifesto di Chelsea” – ovvero, il documento attraverso cui gli avversari del regime meritocratico esprimono i loro ideali

contro il sistema di governo distopico della meritocrazia. Insomma, risulta davvero

complicato riuscire a credere a uno stravolgimento di questa entità. Si può notare, addirittura, come venga citato anche il “libero mercato”: un esempio magistrale di ciò che Hayek avrebbe rimproverato a quel tipo di pensiero liberale dal quale cercava di differenziarsi, proprio in relazione alla presunta sinonimia tra ‘merito’ e ‘uguaglianza delle opportunità’.

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30 Presa coscienza di questo stravolgimento che punta al cuore stesso degli originali intenti critici del termine ‘meritocrazia’, appare evidente come sia necessario compiere un passo per cercare di ricostruirne la storia. Partendo da un’analisi delle motivazioni che potrebbero aver portato a un fraintendimento (anche se non così radicale) del pensiero di Young, prenderemo in esame la lezione di Daniel Bell, al quale possiamo attribuire il merito di aver contribuito, in maniera fondamentale, dagli inizi degli anni Settanta, all’appiattimento concettuale e semantico che è venuto a verificarsi tra ‘meritocrazia’ e ‘uguaglianza delle possibilità’. Infine, parleremo di come la retorica neoliberista si sia appropriata, specialmente dagli anni Novanta in poi, della parola ‘meritocrazia’ – in particolare, attraverso il contributo di Adrian Wooldridge.

2.1. Ambiguità: commento al taglio socialdemocratico del libro di M. Young

Come abbiamo brevemente potuto constatare attraverso il commento al sito

Meritocrazia.com nell’introduzione a questo capitolo, “The Rise of the Meritocracy”

di Michael Young è andato incontro a sostanziali fraintendimenti. Come nota Briggs (2006), l’intento principale della distopia di Young era quello di mettere in guardia gli esponenti del Partito Laburista – del quale l’autore faceva parte – a proposito dei rischi nascenti dalla strutturazione di una società che si basasse su un rigido sistema di assegnazione di consistenti ricompense al merito individuale: secondo il sociologo inglese, l’ideologia meritocratica, se portata alle sue estreme conseguenze, non avrebbe prodotto l’effetto ridurre il divario esistente tra la classe privilegiata e quella meno privilegiata, bensì avrebbe creato condizioni favorevoli alla nascita di un nuovo tipo di gerarchia – nei fatti, non dissimile dalla precedente.

Tuttavia, pur essendo chiaro l’intento di Young, il suo pensiero è stato, storicamente, più frainteso rispetto a quanto, in realtà, sia stato capito. Come sottolinea Littler (2017: 36), tuttavia, questo potrebbe essere attribuito a un atteggiamento ambiguo dello stesso Young: nell’introduzione alla seconda edizione del suo

bestseller, Young scrive che il libro “intended to present two sides of the case – the case against as well as the case for a meritocracy”. In questo senso, lo stesso Young

non si dichiara radicalmente contro l’ideologia meritocratica, poiché una declinazione di quest’ultima in senso non distopico potrebbe effettivamente portare alla dismissione

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31 del sistema ereditario dei privilegi. Tuttavia, Young è altrettanto chiaro quando si tratta di sottolineare le possibili degenerazioni della meritocrazia (Young, 1958: 122–123):

Ora che gli individui vengono classificati secondo l’intelligenza, la distanza tra le classi è diventata inevitabilmente maggiore. (…) Come possono tenere in piedi un dialogo con le classi inferiori, dal momento che parlano un altro linguaggio, più ricco e più preciso? (…) alcuni membri della meritocrazia (…) si sono fatti un tale concetto della loro importanza da perdere ogni simpatia per le persone che dirigono (…). Ma anche la situazione delle classi inferiori è diversa. (…) Non devono forse ammettere di avere una posizione inferiore non, come nel passato, perché gli venivano negate le possibilità, ma perché sono inferiori? Per la prima volta della storia umana l’uomo inferiore non ha a portata di mano alcun sostegno per il suo amor proprio.

Probabilmente, le cause del fraintendimento di Young non devono essere ricercate solamente, come fa Littler (2017), nella sua breve introduzione alla seconda edizione di “The Rise of the Meritocracy”. Piuttosto, è possibile che la prima parte del saggio-romanzo di Young si sia prestata ad essere fraintesa per il taglio aggressivo con cui descrive la società degli anni Cinquanta.

Come abbiamo visto, la prima parte del libro è una descrizione – dal punto di vista privilegiato di un cittadino inglese del futuro – della società contemporanea a Young. Il fatto che il sociologo britannico non abbia risparmiato critiche al sistema classista allora in vigore, ha fatto sì che la nozione di ‘meritocrazia’ venisse declinata nel senso di un’opposizione illuminata a quello stesso sistema. Ad esempio, Young (1958: 82) scrive (anticipando, in un certo senso, l’analisi dell’influenza implicita del capitale culturale sulla valutazione degli studenti nelle scuole francesi proposta da Bourdieu & Passeron [1971]):

Inconsciamente gli insegnanti favorivano il ragazzo appartenente alla loro stessa classe (…). I test dell’intelligenza, più liberi da preconcetti, erano proprio strumenti di giustizia sociale: un dato di fatto che nemmeno i più fanatici socialisti di quell’epoca potevano totalmente ignorare.

O ancora (Young, 1958: 72):

Il movimento a favore delle scuole uniche fece qualcosa di più che minacciare il livello delle classiche. (…) Sapendo che i figli non avrebbero ricevuto che un’istruzione di second’ordine, i genitori forniti di larghi mezzi non avrebbero certamente rinunciato ad acquistare i vantaggi dell’istruzione privata; e l’uguaglianza delle opportunità sarebbe rimasta un bel sogno.

Passaggi come questi sono facilmente fraintendibili e, soprattutto, strumentalizzabili, poiché – con il pretesto di discutere delle ingiustizie di una società passata (lo

(32)

32 ricordiamo, il finto-Young scrive dal 2033) – criticano la struttura della società contemporanea e sembrano contrapporvi la giustizia dell’ordine meritocratico, grazie al quale si sarebbe arrivati a concepire una società più giusta. Effettivamente, la linea tra il taglio ironico-satirico di Young e l’elencazione semi-seria dei potenziali vantaggi di una meritocrazia, in questi passaggi, si assottiglia.

In particolare, è utile rilevare come Young, nell’ultima citazione riportata, sembri opporre il vecchio sistema di casta – basato sullo sfruttamento del potenziale economico e familiare per perpetuare la situazione di vantaggio attraverso l’istruzione dei figli – al raggiungimento del traguardo dell’uguaglianza delle opportunità, che potrebbe scaturire da un sistema meritocratico. Come vedremo nel prossimo paragrafo, questo slittamento concettuale si configura come un passo fondamentale verso la declinazione odierna del termine ‘meritocrazia’. La lettura di Young, in questo caso, si presta molto bene all’utilizzo da parte di un’ideologia socialdemocratica che non metta in discussione l’impianto liberale della società, della politica e dell’economia. Non a caso, come fa notare Littler (2013), il New Labour di Tony Blair9, negli anni Novanta, adotta una versione non-satirica del termine ‘meritocrazia’, per fondare un tipo di partito che si faccia, da un lato, portatore delle istanze dei più svantaggiati, ma che, dall’altro lato, continui a rimanere inserito in quadro ideologico che non metta in discussione l’impostazione capitalista e liberale dell’economia di mercato. E, nonostante l’articolo di giornale pubblicato da Young sul The Guardian (2001), poco prima della sua morte, per commentare l’uso distorto che Blair stava facendo del termine ‘meritocrazia’, sia estremamente chiaro ed esplicito nella critica che muove, la concezione mainstream è rimasta quella proposta da Blair. Come nota lo stesso Young, la ‘sua’ creazione è stata vittima di un fraintendimento generalizzato e sconvolgente:

I have been sadly disappointed by my 1958 book, The Rise of the Meritocracy. I coined a word which has gone into general circulation, especially in the United States, and most recently found a prominent place in the speeches of Mr Blair.

9 Un’analisi dell’influenza delle politiche di Blair sulla concezione odierna del termine ‘meritocrazia’

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