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Il contributo della psicologia sociale americana

L’approccio critico alla meritocrazia: lo stato generale del dibattito

4.3. Il contributo della psicologia sociale americana

La sociologia e la psicologia sociale, spesso, affrontano le stesse tematiche da prospettive diverse. Mentre la sociologia si occupa di studiare e valutare le azioni degli individui e dei gruppi relazionandole con le loro cause e i loro effetti sulla società, la psicologia sociale cerca di focalizzarsi sugli atteggiamenti e sui comportamenti a livello individuale e gruppale per dare loro una spiegazione di tipo cognitivo. Potremmo affermare, semplificando estremamente, che la sociologia si occupa del

perché delle azioni, mentre la psicologia sociale si concentra sul loro come.

Ovviamente, questa è una spiegazione enormemente riduttiva ed entrambe le discipline entrano, in parte, anche nell’ambito dell’altra. Tuttavia, la maggior parte dello sforzo analitico, in queste due aree parallele, si può ritrovare seguendo la divisione euristica che ho proposto poco fa: in altre parole, la sociologia si occupa di comprendere il perché dei fenomeni – ovvero, basa le proprie letture su una ricostruzione esteriore degli avvenimenti; la psicologia sociale studia come gli individui e i gruppi prendano decisioni e come queste decisioni possano venire influenzate – ovvero, cerca di testare delle ipotesi, per poi riferirsi a ciò che avviene nello spazio interiore (mentale o cognitivo). Alla luce di questa vicinanza, credo che

93 una separazione netta tra le due discipline – trasponendo la lezione di Bourdieu sull’unità della sociologia e della storia (Wacquant, 1989: 37: “(…) all sociology

should be historical and all history sociological”), oppure ricordando la lezione di

Bateson (1976) sull’unità delle scienze – sia deleteria al bene della ricerca stessa. Per questo motivo, ho deciso di riferirmi, in questa trattazione dalla vocazione sociologica, anche ad alcuni lavori portati avanti da una branca della psicologia sociale che si occupa principalmente di psicologia politica.

In particolare, sono due le teorie alle quali farò riferimento (poiché, a mio avviso, spiccatamente attinenti e applicabili al tema della ‘meritocrazia’), alle quali saranno dedicati i due prossimi paragrafi:

1. la “Teoria della Giustificazione del Sistema” (Jost, 1995; Jost & Banaji, 1994; Jost, Banaji & Nosek, 2004; Jost, Burgess & Mosso, 2001; Jost & Major, 2001);

2. la “Teoria della Dominanza Sociale” (Sidanius, 1993; Sidanius, Levin, Federico & Pratto, 2001; Sidanius & Pratto, 1993, 1999).

Le due teorie, come avremo modo di constatare, non sono troppo dissimili: entrambe si occupano di analizzare le modalità di riproduzione e di giustificazione del dominio. La teoria della dominanza sociale, probabilmente, ha una portata più specifica ed è più votata per un uso sperimentale; infatti, la maggior parte degli studi in proposito si dedicano a testare la correlazione tra il costrutto della “Social Dominance Orientation” (SDO) – ovvero, una misura di quanto le persone siano propense ad assumere punti di vista, atteggiamenti o comportamenti che rafforzano un’ideologia gerarchica (Pratto, Sidanius, Stallworth & Malle, 1994) – con altre tipologie di costrutti (ad esempio, quelli sull’orientamento politico). La teoria della giustificazione del sistema ha una portata più ampia e, come dichiarano i loro stessi pionieri, ingloba al suo interno anche la teoria della dominanza sociale: “System justifcation theory originated in an effort to

integrate and expand upon several bodies of substantive work, including social identity theory, just world theorising, cognitive dissonance theory, marxist-feminist theories of ideology, and social dominance theory” (Jost & Hunyady, 2003). I teorici

94 “mito legittimante”49 (cfr. Jost & Hunyady, 2003, 2005; Jost, Pelham, Sheldon, Ni Sullivan, 2003), e dalle loro considerazioni originali sono discesi un gran numero di altri studi che si focalizzano su aspetti particolari della meritocrazia. Gli studiosi della

Social Dominance non hanno proposto un’analisi empirica altrettanto strutturata in

riferimento all’ideologia meritocratica; tuttavia, ne hanno parlato, almeno in un’occasione, in modo diretto ed esplicito (Pratto, Stallworth & Conway-Lanz, 1998): partendo da questo contributo, mi impegnerò nel proporre una lettura, in un certo senso, originale, nella speranza di poter testare la mia ipotesi in futuro.

Nel prossimo paragrafo, presenterò le linee generali delle due teorie in oggetto; in quello successivo, invece, prenderò in esame alcuni rilevanti contributi di psicologia sociale che, utilizzando (almeno in parte) i costrutti della teoria della giustificazione del sistema e della teoria della dominanza sociale, si sono specificatamente concentrati sul testing di ipotesi in riferimento all’ideologia meritocratica.

4.3.1. Introduzione alla System Justification Theory (SJT) e alla Social

Dominance Theory (SDT)

At the most basic level, we postulate the existence of a system justification motive, whereby people justify and rationalise the way things are, so that existing social arrangements are perceived as fair and legitimate, perhaps even natural and inevitable. (Jost & Hunyady, 2003: 119)

In altre parole: le persone hanno bisogno di credere in un mondo giusto. La teoria della giustificazione del sistema (“System Justification Theory”, d’ora in avanti solamente “SJT”), è frutto dell’elaborazione originale di J. Jost50 e M. R. Banaji51 (1994), i quali rilevarono che, nei lavori di psicologia sociale che si occupavano di stereotipizzazione, era prestata scarsa attenzione al tema della “justification”. Secondo i due autori (ibidem: 1), alle nozioni già esistenti di stereotipizzazione come “ego-justification” e

49 Questo è un caso in cui l’utilizzo della teoria della dominanza sociale da parte dei teorici della

giustificazione del sistema è particolarmente evidente: i primi a parlare dei cosiddetti “legitimizing

myths” sono stati proprio Sidanius e Pratto, padre e madre fondatori della Social Dominance Theory

(Sidanius & Pratto, 1999).

50 John T. Jost è Professore di Psicologia Politica e co-direttore del Centro di studi sul

comportamento sociale e politico dell’Università di New York.

51 Mahzarin R. Banaji è Professoressa di Psciologia Sociale presso l’Università di Harvard e il suo

95 “group-justification”, era necessario aggiungerne una terza – quella di “system-

justification”, “(…) which refers to psychological processes contributing to the preservation of existing social arrangements even at the expense of personal and group interest.” Soprattutto, lo scopo della SJT sarebbe quello di distinguersi dalle

teorie della “giustificazione di gruppo”, che vedrebbero coloro che si trovano in posizione subordinata come “proud revolutionaries-in-wating” (Jost et al., 2004: 883) e, dunque, come attori passivi per quanto riguarda la riproduzione del sistema; al contrario, i teorici della SJT si propongono di dimostrare (e ci riescono) come coloro che sono i più svantaggiati da una certa ideologia dominante, spesso siano agenti attivi, paradossalmente, nella riproduzione dell’egemonia52 di quella stessa ideologia. È molto utile leggere i presupposti principali della SJT direttamente dalle parole degli stessi autori (ibidem: 912):

In contrast to other theories, system justification theory unambiguously addresses the possibilities that (a) there is a general ideological motive to justify the existing social order, (b) this motive is at least partially responsible for the internalization of inferiority among members of disadvantaged groups, (c) it is observed most readily at an implicit, nonconscious level of awareness and (d) paradoxically, it is sometimes strongest among those who are most harmed by the status quo.

I presupposti, dunque, sono molto chiari e lineari: gli individui sono naturalmente portati a giustificare lo status quo; per questo motivo, compiono delle attribuzioni

interne – osservabili, per lo più, a un livello prerazionale – per quanto riguarda

l’inferiorità o la superiorità relative delle loro condizioni; ma, soprattutto, questa tendenza alla giustificazione del sistema sarebbe, molto spesso, più forte proprio tra coloro che vengono maggiormente danneggiati dall’ideologia dominante in questione. Lo status quo verrebbe razionalizzato anche grazie a un meccanismo che porterebbe a considerare come ‘più desiderabili’ gli eventi che si percepiscono semplicemente come ‘più probabili’53 (ibidem: 889). Inoltre, Jost & Banaji (1994) sottolineano il ruolo dell’“outgroup favoritism”, in controtendenza rispetto al successo della “Social

Identity Theory” (cfr. Tajfel & Turner, 1986), la quale insiste maggiormente sul ruolo

predominante del favoritismo verso l’ingroup: “both high- and low-status groups

engage in thoughts, feelings, and behaviors that reinforce and legitimate existing

52 Gramsci (1975) viene esplicitamente citato; ad esempio, si veda: Jost & Banaji, 1994: 16. 53 È evidente, qui, tutta l’influenza delle teorie della “dissonanza cognitiva” (cfr. Festinger, 1957).

96 social systems, and outgroup favoritism is one such example of the legitimation of inequality between groups” (Jost et al., 2004: 891). Particolarmente interessante, a

questo proposito, è la sesta ipotesi del contributo da cui è stata tratta l’ultima citazione54: sarebbe proprio nei membri con status sociale più basso che si potrebbero rilevare, a livello implicito, misurazioni di favoritismo-outgroup sensibilmente più elevate (leggasi anche: preferenza inconsapevole per i gruppi dominanti55); mentre è valido il contrario per i gruppi con status sociale più alto, i quali segnerebbero punteggi superiori, a livello implicito, di favoritismo-ingroup. Non solo: la settima ipotesi (ibidem: 900) dichiara che “As the perceived legitimacy of the system increases, (a)

members of high-status groups will exhibit ingroup favoritism, and (b) members of low status groups will exhibit increased outgroup favoritism.”56

Questo ultimo aspetto è fondamentale per capire il ruolo che la SJT gioca nella concettualizzazione dell’ideologia meritocratica (ma anche di altre forme di dominio ideologico, come il sessismo o il razzismo impliciti – si veda, ad esempio: Major, Gramzow, McCoy, Levine, Schmader & Sidanius, 2002) come “mito legittimante” (cfr. Sidanius & Pratto, 1999). Come suggerito dalle ipotesi numero 11, 12 e 13 (Jost,

et al., 2004: 907), le cognizioni a proposito del gruppo di appartenenza da parte di

coloro che si trovano in una condizione di svantaggio sono strutturalmente più ambivalenti – e, dunque, meno definite; e più si viene coinvolti in operazioni di system

justification, più questa ambivalenza aumenta. Al contrario, i gruppi dominanti hanno

punteggi di ambivalenza sulla percezione del loro status sensibilmente più bassi e man mano decrescenti all’engagement in pensieri o comportamenti di giustificazione del sistema. Assumendo la meritocrazia come un’ideologia di mantenimento dello status

54 In questo ultra-citato e fondamentale paper, redatto a dieci anni esatti di distanza dall’uscita

della prima pubblicazione in proposito della teoria della giustificazione del sistema, i pionieri della SJT si occupano di revisionare le 20 ipotesi principali che sono state testate in relazione alla loro teoria e sulle quali si fonda il nucleo centrale delle loro asserzioni.

55 È impossibile, per un sociologo, non richiamare istintivamente la lezione di Bourdieu (ad

esempio: 1973, 1977, 1994, 2015) sulla strutturazione omologa delle categorie cognitive dei dominanti e dei dominati. Per riallacciarmi a quanto scritto nel paragrafo 4.3 sui due diversi focus della psicologia sociale e della sociologia, in questo caso, potremmo dire che la SJT si è effettivamente occupata del

come gli individui e i gruppi pensano o si comportano; la proposta di Bourdieu, invece, riesce a fornire

una spiegazione del perché a un livello strutturale.

56 Essendo l’ideologia meritocratica un tipo di legittimazione della disuguaglianza, e venendo

l’ordine meritocratico percepito come legittimo (poiché moralmente giusto), si può facilmente ipotizzare che l’ideologia meritocratica catalizzi l’incremento del favoritismo verso l’outgroup- dominante da parte di coloro che si trovano in posizioni subordinate.

97 quo, si può capire come coloro che più sono svantaggiati da tale ideologia,

paradossalmente, siano maggiormente motivati al suo mantenimento – poiché la

percezione della loro condizione aumenta il grado di ambivalenza a ogni stimolo che

li fa interrogare a proposito della giustizia generale del sistema. Una spiegazione sociologica di questa operazione – una spiegazione del ‘perché’ – potrebbe essere la seguente: le persone di basso status socioeconomico, aspirando a conseguire una condizione socioeconomica e di status migliori, percepiscono in modo ambivalente la loro appartenenza gruppale, operando un inconsapevole discrimine positivo nei confronti degli outgroups in posizioni più avvantaggiate; le categorie cognitive vengono “inculcate” dall’ideologia dominante e, dunque, vi è un rapporto di omologia genetica tra le strutture mentali dei dominati e quelle dei dominanti, che porta a percepire come ‘naturalmente desiderabili’ i valori assunti come positivi dalla cultura dominante (gli ‘svantaggiati’ aspirano ai valori dei ‘privilegiati’). In questo modo, i dominati assumono pensieri o comportamenti che, paradossalmente, riproducono la loro condizione di svantaggio – e l’insistenza, anche dal basso, sulla giustizia morale dell’ideologia meritocratica è un chiaro esempio di questo tipo di pratiche.

La prospettiva della SJT aspira alla comprensione di come siano possibili queste anomalie comportamentali; e l’attaccamento psicologico allo status quo – il bisogno di vivere in un mondo che viene percepito come giusto e prevedibile57 – sembra una spiegazione convincente in proposito. Come scrivono gli stessi Jost et al., (2004: 908):

A system justification perspective helps to understand why people who are economically disadvantaged often oppose income redistribution (…), why women accept gender stereotypes and conventional definitions of sex roles (…) and why so many members of disadvantaged groups reject egalitarian alternatives to the status quo.

La differenza fondamentale tra la SJT e la “Social Dominance Theory”58 (d’ora in

avanti, SDT) viene sottolineata nello stesso articolo (ibidem: 912): “We do not believe,

however, that the existing evidence is sufficient to warrant accepting the notion that

57 Sulla necessità di un ‘mondo prevedibile’ e sull’avversità alle situazioni di incertezza, vi è una

vastissima letteratura in psicologia sociale, soprattutto in riferimento al costrutto del “Need for

Closure” (il “bisogno di chiusura cognitiva”) – si veda: Webster & Kruglanski, 1994.

58 In Italia, gli studi sulla Social Dominance Theory e sulla Social Dominance Orientation sono portati

avanti soprattutto dal Professor Antonio Aiello (Università di Pisa). Si vedano, ad esempio: Aiello, Pratto & Pierro, 2013; Aiello, Tesi, Pierro & Pratto, 2017.

98 hierarchy and inequality are genetically mandated at either the individual or species level, as argued by Sidanius and Pratto.” Il padre e la madre fondatori della SDT, J.

Sidanius59 e F. Pratto60 (1993, 1999), nelle parole di Jost e colleghi, sembrerebbero avere una prospettiva più psicobiologica nell’approccio all’analisi del mantenimento dello status quo. In effetti, l’assunto basilare della SDT è che sarebbe possibile riscontrare una “general tendency for humans to form and maintain group-based

hierarchy” (Sidanius, Pratto, Van Laar & Levin, 2004); o ancora: “SDT begins with the basic observation that all human societies tend to be structured as systems of

group-based social hierarchies” (Sidanius & Pratto: 1999).

I teorici della dominanza sociale si concentrano, dunque, sulla constatazione che la presenza e la pervasività delle gerarchie sono costanti trasversali in tutte le società, e che questa cronicità dell’oppressione intergruppi è guidata da operazioni sistematiche di discriminazione, sia a livello individuale sia a livello istituzionale. Le istituzioni, in particolare, avendo accesso a una quantità di risorse sensibilmente superiore agli individui, allocano queste ultime in maniera asimmetrica; questo poiché le decisioni vengono prese sotto la lente distorcente degli stereotipi (anche quelli auto-attribuiti): in questo modo – oltre a facilitare un effetto di “profezia che si auto-avvera” (Merton, 1948) – le operazioni discriminanti acquistano legittimazione dal livello istituzionale e, di conseguenza, le gerarchie tra i gruppi acquisiscono solidità (cfr. Sidanius & Pratto, 1999).

Le ideologie sociali, in particolare, agirebbero come “miti legittimanti”; ovvero, come delle acquisizioni trasversali su cui vige un regime di consenso implicito. Nelle parole di Pratto, Sidanius & Levin (2006: 275):

(…) social dominance theory assumes that group-based inequality is not simply the result of the naked use of force, intimidation, and discrimination on the part of dominants against subordinates. Rather (…) social dominance theory states that the decisions and behaviours of individuals, the formation of new social practices, and the operations of institutions are shaped by legitimising myths. Legitimising myths are consensually held values, attitudes, beliefs, stereotypes, and cultural ideologies.

Proprio per il valore condiviso dei legitimising myths, le persone tendono a supportare politiche istituzionali che allocano le risorse secondo i criteri di divisione proposti da

59 Professore di Psicologia presso l’Università di Harvard.

99 tali ideologie, poiché percepite, appunto, come legittime (Pratto et al., 1998; Sidanius

et al., 2001; Sidianius et al., 2004: 847). Come vedremo nel prossimo paragrafo, è

possibile proporre una riflessione – come, in parte, è stato già fatto – sul ruolo della meritocrazia come “mito legittimante” nell’ambito della riproduzione del sistema gerarchico esistente.

Ciò che contraddistingue un gruppo che si trova in posizione dominante, è “its

possession of a disproportionately large share of positive social value, or all those material and symbolic things for which people strive”61 (Sidanius & Pratto, 1999: 31). Al contrario, i gruppi subordinati possiedono una quantità sproporzionata di “negative

social value” (ibidem: 32).

La SDT distingue tre sistemi di stratificazione fondamentali sui quali si compone la struttura gerarchica della nostra società (ibidem: 33):

1. un “age system” – ovvero, un asse di discriminazione che vede gli adulti in una posizione di vantaggio sproporzionato rispetto alle fasce di età inferiori (i bambini e gli adolescenti) e superiori (gli anziani)62;

2. un “gender system”, in cui il potere maschile si traduce in una strutturazione patriarcale e sessista della società63;

3. un “arbitrary-set system”, un asse di discriminazione aperto in cui possono confluire “any other socially relevant group distinction that the human

imagination is capable of constructing” (ibidem) – ad esempio: discriminazioni

che si basano sull’appartenenza etnica o sulla razza, sulla provenienza geografica, sulle credenze religiose, sui differenziali di ricchezza o sulla classe sociale, sulla nazionalità, e così via.

61 Si può notare, sinteticamente, una somiglianza con il pensiero sociologico di Bourdieu in

relazione alla nozione di campo (cfr. Wacquant, 1989). La posta in gioco in un determinato campo è l’appropriazione di risorse materiali e simboliche per acquisire un vantaggio relativo rispetto ai diretti concorrenti. Il “positve social value” di cui parlano Sidanius & Pratto (1999: 31), inoltre, assomiglia molto alla nozione di “capitale simbolico” proposta da Bourdieu (cfr. Bourdieu, 2002, 2015).

62 Possiamo collegare l’analisi di McNamee (2018: 191) sull’ageism come forma di discriminazione

che limita la fondatezza della mitologia meritocratica (cfr. paragrafo 4.2).

63 McNamee (2018: 180–188) denuncia, alla stessa maniera, anche gli impedimenti alla carriera

lavorativa derivanti da discriminazioni sessiste. Anche Littler (2017) dedica diversi paragrafi alla riflessione sulle tematiche femministe in relazione all’ideologia meritocratica.

100 Nel loro insieme, questi assi di discriminazione fondano la struttura gerarchica generale della società, la quale è rinforzata dalla presenza pervasiva di miti legittimanti che rimuovono l’arbitrarietà degli stessi criteri che ne stanno alla base. Ancora una volta, risulta difficile non riferirsi a Bourdieu, quando parla di “potere simbolico” (1979: 79–80):

(…) ideologies serve particular interests which they tend to present as universal interests, common to the whole group. The dominant culture contributes to the real integration of the dominant class (by ensuring immediate communication among all its members and distinguishing them from the other classes); to the fictitious integration of the society as a whole, and hence to the demobilization (false consciousness) of the dominated classes; and to the legitimation of the established order by the establishment of distinctions (hierarchies) and the legitimation of these distinctions.

Prendendo in considerazione la natura di “struttura strutturante” e, contemporaneamente, di “struttura strutturata” dell’habitus (Bourdieu, 1983: 175) (aspetto di cui parleremo più approfonditamente nel paragrafo 5.1), si capisce come la riproduzione della gerarchia sociale poggi sull’incorporazione di un insieme di pratiche – a livello simbolico, così come inteso dallo stesso Bourdieu (1979) – che si traduce in un’adesione dòxica all’ordine costituito; la quale fonda, a sua volta, le stesse disposizioni (leggasi: habitus) che andranno a determinare la riproduzione delle strutture di dominio sulle quali si basa la naturalizzazione di questo processo (in realtà, radicalmente culturale) di adesione trasversale. Integrando, dunque, la SDT con questi aspetti della teoria bourdieusiana, si riesce meglio a capire perché i miti legittimanti fondino sistemi di gerarchie duraturi.

Essendo la psicologia sociale una disciplina particolarmente devota allo studio sperimentale di tipo correlazionale, le teorizzazioni della SDT sono state tradotte nel costrutto della “Social Dominance Orientation” (SDO). Nella definizione di Pratto et

al. (2006: 81):

The construct of social dominance orientation captures the extent of individuals’ desires for group-based dominance and inequality. These desires for social dominance are expressed in individual acts of discrimination and participation in intergroup and institutional processes that produce better outcomes for dominants than for subordinates.

La ricerca della SDT, dunque, si focalizza sul trovare delle correlazioni statistiche tra il costrutto indipendente della SDO e una serie di variabili dipendenti di volta in volta diverse. L’aspetto più interessante, in proposito, in relazione al tema principale di

101 questa trattazione, è che le persone che ottengono i punteggi più alti nella scala della SDO sono, solitamente, le più propense a sposare miti legittimanti che affermano che, in generale, le persone meritano le loro condizioni di vantaggio o di svantaggio (ibidem): l’ideologia meritocratica, in questo senso, potrebbe avere una fitness particolarmente accentuata con questo tipo di concettualizzazioni implicite e prerazionali, e potrebbe essere intesa – e questa è una proposta relativamente nuova – come un elemento di discriminazione e stratificazione tra quelli che possono far parte dell’arbitrary-set system.

In sintesi, abbiamo avuto modo di vedere quali siano i presupposti principali della