Nelle cose e nelle coscienze: il dominio simbolico della meritocrazia
6.2. L’ombra della meritocrazia: la discriminazione criptata nel dispositivo del ‘merito’
Un testo ormai divenuto non facilmente reperibile95 – poiché, forse, ne è stata dimenticata la portata esplicativa e sovversiva – è rappresentato da “I delfini: Gli
studenti e la cultura” di P. Bourdieu e J. C. Passeron (1971). Uscito dai canali più
comuni dell’insegnamento accademico ufficiale (lo stesso tipo di insegnamento di cui gli autori si impegnano a decostruire i fondamenti), questo libro si configura come una lucida analisi dei meccanismi attraverso cui l’istituzione scolastica riproduce il privilegio di classe esistente. L’opera di Bourdieu e Passeron non tratta esplicitamente
95 Per constatare la veridicità di questa affermazione, è sufficiente provare a consultare i canali di
170 di meritocrazia; tuttavia, focalizzandosi principalmente sulla contestazione dell’istituto del ‘merito scolastico’ e sulle modalità in cui il ‘merito scolastico’ si ripercuote sulla struttura della società – ovvero, sui modi in cui produce e riproduce la struttura del privilegio sociale –, è possibile interpretare il libro come un tentativo di decomporre l’ideologia meritocratica nella sua portata sia normativa sia descrittiva.
Nel passo che segue (Bourdieu & Passeron, 1971: 127), possiamo notare un riferimento esplicito a quel tipo di operazione cognitiva che maschera le differenze culturali da differenze di natura – ovvero, il meccanismo attraverso cui opera la violenza simbolica:
La cecità verso le disuguaglianze sociali condanna e al tempo stesso autorizza a spiegare tutte le differenze, in particolare quelle relative alle promozioni scolastiche, in termini di differenze naturali, differenze di doti. Un simile atteggiamento rientra nella logica del sistema che, poggiando sul postulato dell’uguaglianza formale di tutti gli allievi come condizione del suo funzionamento, non può riconoscere altre differenze che quelle relative alle doti individuali.
Il sistema dell’istruzione, dunque, poggiando su una base che si auto-presume neutra, pretende di poter valutare il ‘merito’ (ovvero, le “doti” naturali degli studenti e il loro impegno) in maniera oggettiva; tuttavia, una certa omologia tra gli habitus degli insegnanti e gli habitus degli studenti provenienti dalle classi più agiate, da un lato, e la struttura stessa dell’istituzione scolastica (deputata alla produzione di gerarchie che si estenderanno lungo tutto il corso della vita), dall’altro lato, determinerebbe il collasso strutturale delle possibilità di riconoscere come ‘vera’ questa neutralità auto- presunta. Il sistema scolastico, più che produttore di nuove gerarchie, funzionerebbe, piuttosto, come obliteratore delle gerarchie esistenti, senza che coloro che sono i più svantaggiati da questa situazione possano, in realtà, averne coscienza (ibidem: 133): “(…) l’autorità legittimatrice della scuola può moltiplicare le disuguaglianze sociali
perché le classi meno abbienti, ben coscienti del loro destino ma altrettanto incapaci di cogliere le vie attraverso le quali esso si realizza, contribuiscono con ciò alla sua realizzazione.” Bourdieu & Passeron (ibidem: 130–131) fanno ruotare la spiegazione
di questo tipo di soggezione dòxica all’ordine costituito attorno alla nozione di “ideologia del dono” – ovvero, la credenza che le doti delle persone (i loro talenti) dipendano da disposizioni naturali non culturalmente costruite, orientate e riconosciute. Vi è in ballo, dunque, la naturalizzazione del privilegio e, perciò, del
171 dominio; una naturalizzazione che si esercita al livello simbolico della conoscenza e della riconoscenza, e che è possibile grazie a un istintivo misconoscimento dell’arbitrarietà delle strutture concettuali che fanno da base al riconoscimento del ‘merito scolastico’, camuffandone la vera natura di “razzismo culturale”. Nelle parole dei due autori (ibidem: 130):
Le classi privilegiate trovano nell'ideologia che si potrebbe definire carismatica (in quanto valorizza la «grazia» o la «dote») la legittimazione dei loro privilegi culturali che vengono così trasfigurati da eredità sociale in dote individuale o in merito personale. Così mascherato, il «razzismo di classe» può manifestarsi senza mai presentarsi come tale. Questa alchimia riesce ad aver successo anche perché le classi popolari, invece di presentare un’immagine opposta del lavoro scolastico, accettano l'impostazione delle classi agiate e sentono la loro inferiorità come una sorta di destino personale.
La discriminazione, dunque, viene criptata nel potere descrittivo e normativo del dispositivo culturale del ‘merito scolastico’. Ciò che Bourdieu e Passeron chiamano “ideologia carismatica” o “ideologia del dono” può essere intesa, senza distorcerne il significato, come la forma simbolica della violenza esercitata dall’ideologia meritocratica, della quale abbiamo parlato in questo elaborato, e che poggia, come abbiamo visto, sul misconoscimento dell’influenza dell’ereditarietà (culturale, sociale ed economica) sulle possibilità di acquisire quelle doti (che si presumono, invece, naturali) che vengono culturalmente riconosciute come il ‘talento’ sul quale la validità morale della struttura meritocratica pretenderebbe di fondarsi.
La stessa retorica sull’uguaglianza delle possibilità maschererebbe la struttura auto- rinforzante del privilegio, poiché gli strumenti valutativi impiegati nella scuola (in special modo, i test di ingresso) non poggiano su basi neutre, bensì sono progettati (inconsapevolmente, poiché la progettazione stessa di un test è un atto culturalmente orientato, dunque misconosciuto nella sua non-neutralità) per riconoscere un certo tipo di ‘talento’, la cui definizione si regge su distinzioni arbitrarie, culturalmente e storicamente prodotte, che vengono logicamente scambiate per dati naturali. Tuttavia, una vera definizione di ‘merito scolastico’ – e, per estensione, di ‘merito’ in generale – dovrebbe tenere in considerazione una quantità di fattori di gran lunga maggiore, oltre a quelli comunemente valutati nell’istituzione scolastica. Ancora nelle parole di Bourdieu & Passeron (ibidem: 128):
Il sistema educativo deve, fra le altre sue funzioni, produrre soggetti selezionati e gerarchizzati una volta per tutte, e per tutta la vita. Volere, all'interno di questa logica,
172 tener conto dei privilegi e delle situazioni d’inferiorità di origine sociale e pretendere di gerarchizzare gli individui secondo il loro merito reale, cioè secondo gli ostacoli sormontati, significherebbe condannarsi (se si seguisse questa logica fino in fondo, vale a dire fino all’assurdo) o alla competizione organizzata per categorie (come nella boxe) oppure, come per la stima dei meriti nell’etica kantiana, alla valutazione delle differenze algebriche fra il punto di partenza (cioè le attitudini socialmente condizionate) e il punto di arrivo (cioè il risultato misurato scolasticamente).
In altre parole, l’istituto del ‘merito’, portando (come indicato anche da McNamee [2018]), da un lato, a sottostimare – e, in un certo senso, a misconoscere quasi integralmente – l’impatto dei fattori ambientali e, dall’altro lato, a sovrastimare il ruolo delle disposizioni naturali e dello sforzo, produce un tipo di conformità trasversale all’ordine costituito, che viene sostenuta anche da coloro che più risultano svantaggiati da un tipo di organizzazione che tratta le loro mancanze culturali come mancanze di doti naturali. In questo senso, i “dominati applicano a ciò che li domina schemi che sono il prodotto del dominio”, poiché “i loro pensieri e le loro percezioni sono strutturati conformemente alle strutture stesse del rapporto di dominio che subiscono”; in questo
modo “i loro atti di conoscenza sono, inevitabilmente, atti di riconoscenza, di
sottomissione” (Bourdieu, 1994: 115).
L’ideologia meritocratica – la quale, come abbiamo visto, si è infiltrata nel senso comune attraverso le elaborazioni accademiche strutturalmente conformi all’ideologia neoliberista, attraverso la retorica politica e attraverso il mondo dei massmedia ed è divenuta uno strumento euristico, se non in modo uniforme a livello descrittivo, almeno in modo trasversale a livello prescrittivo e normativo – riproduce, nella struttura sociale in generale, le stesse disparità di cui Bourdieu & Passeron (1971, 1972) hanno parlato in riferimento al sistema scolastico. Ad esempio, Jeffries (2009: 34–36) sostiene il ruolo decisivo dell’ideologia meritocratica per quanto riguarda il mantenimento dei differenziali di status storicamente affermatisi negli Stati Uniti attraverso il dispositivo della razza:
Meritocratic discourse has a historical salience in the national consciousness. (…) it deftly explains both inequities in society and why those inequities exist. It has used by the mainstream of society to justify unequal social relations between White and nonmainstream populations. (…) As most Americans believe that equality of opportunity has been achieved in the post-Civil rights era, the failure of some populations to succeed must lie in some lack of attributes. (…)
Historically, as an ideology of inequality, it served economically established populations to justify inequalities in society in a Black and White America, and it is now used to justify the segregation of new waves of immigration. Internalized by all parts of society, it
173 obliterates the fact that nonmerit factors such as inheritance, social and cultural advantages, unequal educational opportunity, luck, and discrimination in all of its forms are barriers to this success (…). Thus, it is an ideology that works hegemonically to establish secure relations between historically advantaged and disadvantaged groups, placing the burden for not succeeding in society on the individual for the disadvantaged and obscuring nonmerit factors for the advantaged.
Attraverso l’egemonia dell’ideologia meritocratica, dunque, è possibile riformulare e attualizzare delle distinzioni che, storicamente, si sono fatte portatrici di stigmatizzazione nei confronti di alcuni gruppi sociali, relegandoli in posizioni di marginalità. Credere nel valore morale del ‘merito’ significa sposare inconsapevolmente una visione del mondo che essenzializza e naturalizza l’eredità culturale, sociale ed economica e la trasforma in tratti biologici o morali. In questo senso, è possibile categorizzare il fallimento o la riuscita – e le relative posizioni di vantaggio o di svantaggio – in termini di scarsità o di abbondanza di qualità naturali e/o morali, non scorgendo l’arbitrarietà delle categorie distintive su cui si fonda questa percezione.
In particolare, l’ideologia meritocratica – come sostenuto anche da Galtung (1990: 296–298) – riproduce la distinzione teologica tra ‘prescelti’ e ‘dannati’, traducendola nella forma attualizzata della distinzione (come abbiamo già visto, tautologica) tra ‘meritevoli’ e ‘immeritevoli’. Le soggettività che si producono, attraverso la socializzazione in un mondo meritocentrico, in accordo a questo tipo di dicotomia, sono predisposte a riconoscere come ‘dati naturali’ i ‘dati culturali’ che fondano la distinzione basata sul criterio del merito, poiché sono strutturalmente adeguate a misconoscerne l’arbitrarietà e, dunque, a riprodurre le strutture di potere esistenti (poiché riconosciute come naturali). La meritocrazia – ovvero, una struttura organizzativa che si basa sull’assegnazione di ricompense economiche e di status in relazione alla percezione distorta di una forma di merito-culturale naturalizzato – legittima e riproduce le disuguaglianze esistenti, perché, sminutendone e mascherandone l’impatto (in altre parole, abolendo la loro storia96), le trasforma in differenze di doti di natura o in qualità morali. Questo camuffamento è possibile, soprattutto, grazie alla retorica utopistica che insiste “sul postulato dell'uguaglianza
formale” (Bourdieu & Passeron, 1972: 127): se tutti hanno le stesse possibilità di
174 riuscire – poiché l’azione livellatrice dello Stato mitiga, nella retorica, l’impatto della disuguaglianza sulle possibilità di avere successo –, allora è possibile, a livello descrittivo, spiegare le differenze di outcomes come risultati oggettivi che riflettono dei differenziali di merito (quantificato dall’inquantificabile sommatoria di “talento naturale + sforzo”); oppure, a livello normativo e prescrittivo, battersi (in realtà, in modo miope) per difendere la moralità di questo sistema, senza accorgersi della struttura culturale, orientata in senso dominante, che ne fonda le possibilità. Come scrive Johnson (2006: 172–173; cit. in Meroe, 2014: 493): “The ideology of the
American Dream, perhaps strongest around the arena of education, legitimizes race and class inequality by presenting these not as structures but as the inconsequential ramifications of meritocracy.” Possiamo estendere il “feel for the game and [the] willingness to engage in it” di cui parla Abrahams (2017: 637) in relazione alle
possibilità di riuscita degli studenti di classe media o alta anche alla struttura della società in generale: non è possibile astrarre completamente il ‘merito’ dalla sua condizione di precipitato culturale e, di conseguenza, non è possibile che il dispositivo del ‘merito’, almeno in una certa misura, non rifletta e riproduca le discriminazioni culturali già inscritte in una determinata società.
Soprattutto, come nota Reay (1998: 1), “The myth of meritocracy normalises
inequalities, converting them into individual rather than collective responsibilities.”
Questa insistenza sulla dimensione della responsabilità individuale è stata molto preziosa, come abbiamo visto, per la retorica politica neoliberista, attraverso la quale si sono giustificati tutta una serie di tagli nei confronti dello stato sociale. Soprattutto, un’accettazione trasversale del mito-morale del merito ha fondato la possibilità dell’intensificazione delle politiche di controllo sui settori maggiormente svantaggiati della società: se – in ultima istanza – le condizioni di vantaggio o di svantaggio sono relativamente meritate, allora anche l’istituto dell’aiuto di Stato viene messo in discussione per una questione meritoria: il prossimo paragrafo si occuperà di analizzare una delle indirette conseguenze, a livello macro-sociale, della distinzione concettuale e cognitiva tra le categorie di ‘meritevole’ e ‘immeritevole’. L’ombra della meritocrazia risiede proprio nella giustificazione innocente di forme di dominio che riproducono e accrescono lo svantaggio degli svantaggiati (ad esempio: minoranze etniche [cfr. Jefferies, 2009; McNamee, 2018], donne [cfr. Littler, 2017; Morley &
175 Lugg, 2009], disabili [cfr. McNamee, 2018], giovanissimi o anziani [cfr. ibidem] e poveri [cfr. Abrahams, 2017; Jefferies, 2009; McNamee, 2018; Morely & Lugg, 2009]) e il privilegio dei privilegiati, poiché le cause dello svantaggio o del vantaggio vengono essenzialmente naturalizzate.