Nelle cose e nelle coscienze: il dominio simbolico della meritocrazia
6.3. Punire gli immeritevoli: il ruolo della mitologia meritocratica nella
transizione verso una forma di Stato penale97
Sbarazzarsi dei poveri permette perciò di riaffermare con forza il primato ideologico dell’individualismo meritocratico nel momento in cui la generalizzazione dell’insicurezza sociale colpisce in pieno le classi medie – lavorative e dirigenziali – e minaccia di far vacillare seriamente la fede pratica nel mito nazionale del “sogno americano”. (Wacquant, 2006: 110–111)
Com’è noto, L. Wacquant si è a lungo occupato di descrivere la transizione verso una forma di Stato penale che, in accordo con una visione neoliberista della società, si appropria della funzione di garante dell’ordine, precedentemente demandata a un tipo di Stato sociale (cfr. Wacquant, 1999, 2000, 2001, 2006, 2013, 2014). La sicurezza sociale ottenuta tramite la redistribuzione delle risorse viene sostituita dalla sicurezza sociale ottenuta tramite lo strumento dell’incarcerazione. I frammenti svantaggiati della popolazione vedono intensificarsi, sempre più duramente, le misure di controllo nei loro confronti, in un’opera concettuale e pratica di “criminalizzazione delle
conseguenze della miseria di Stato” (Wacquant, 2006: 70). Lo Stato – il cui potenziale
redistributivo è stato drammaticamente eroso, da un lato, dall’abolizione dei principi keynesiani e dalla riaffermazione del mito liberista della bontà del libero mercato e, dall’altro lato, dal mito neoconservatore delle leggi della moralità (Garland, 2004: 317) – è andato incontro a un processo di “restringimento della sua componente welfarista
e (…) accrescimento delle sue funzioni poliziesche, giurisdizionali, e penitenziarie”
97 Questo paragrafo è stato oggetto di discussione in un seminario che ho tenuto presso la
University of Winchester in data 27 novembre 2018, durante il mio periodo di soggiorno all’estero finalizzato a completare il percorso di tesi di laurea, essendo il sottoscritto risultato vincitore del bando di Ateneo per l’assegnazione di quaranta contributi di mobilità internazionale. Il titolo dell’intervento è stato il seguente: “The Relationship Between the Meritocratic Ideology as a Form of Symbolic
Violence and the Rise of the Penal State”. Hanno partecipato al seminario, come uditori, circa
cinquanta studenti al secondo anno del corso in Criminology e tre professori. Le slides utilizzate per la presentazione sono state rese disponibili (e sono pubblicamente accessibili) sul portale-studenti della University of Winchester.
176 (Wacquant, 2013: 44), in una sorta di complicità tra Stato e mercato neoliberisti in cui “la ‘mano invisibile’ del mercato richiede e invoca il ‘pugno di ferro’ dello stato
penale” (ibidem: 102).
Proporre un’analisi dettagliata del pensiero di Wacquant in relazione alla nascita dello Stato penale esula dagli scopi del presente elaborato. Il riassunto appena proposto è sufficiente per avere un’idea di come l’etica neoliberista e la morale neoconservatrice si siano iscritte profondamente sia nelle strutture statali e sociali sia nelle coscienze delle persone che legittimano il potere di uno stato che opera attraverso la criminalizzazione della miseria. Quello che sostengo in questo paragrafo (e come riportato, brevemente, anche da Wacquant nella citazione utilizzata in apertura) è che l’ideologia meritocratica abbia avuto un ruolo di fondamentale importanza in questa operazione dissennata di criminalizzazione dei più sfortunati. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, infatti, la distinzione quasi-teologica tra ‘meritevoli’ e ‘immeritevoli’ (si veda anche: Galtung, 1990) è da ritenersi fondativa per quanto riguarda la credenza nel valore sia descrittivo sia prescrittivo della meritocrazia.
In effetti, Wacquant (2010), analizzando l’ideologia neoliberista, individua quattro diverse logiche istituzionali che vi si articolano attorno: “la mercificazione, il workfare
paternalistico, lo stato penale proattivo, e il topos culturale della ‘responsabilità individuale’” (Wacquant, 2006: 119). Quest’ultimo aspetto – quello dell’insistenza
sulla responsabilità individuale – è quello che più interessa ai fini della presente trattazione, poiché si configura come un mantra morale sul quale si basa la giustificazione dell’accanimento delle politiche di controllo sui più sfortunati, i quali, da ‘svantaggiati’, si trasformano in ‘immeritevoli’. Come rileva Garland (2004: 316):
Nel discorso politico e nella politica governativa, i poveri sono visti ancora una volta come immeritevoli, e trattati di conseguenza. Il loro status è ritenuto l’effetto di una presunta mancanza di impegno, di scelte irresponsabili, di una cultura diversa. Chi continuava a essere escluso dal benessere diffuso degli anni Novanta era considerato “diverso”, e non semplicemente “svantaggiato”. Come i criminali incalliti e i “delinquenti abituali”, i non abbienti erano additati come appartenenti a un’altra cultura, una classe separata, uno scarto dei rapidi processi tecnologici dell’economia globalizzata e della società informatizzata. I temi dominanti all’interno della sfera politica criminale (…) informano ora anche la “politica della povertà”.
La definizione ‘morale’ del merito implica, dunque, oltre che delle considerazioni arbitrarie sulla ‘moralità’ dei meritevoli (come sottolinea anche McNamee [2018: 32–
177 33]), anche il suo contrario – ovvero, la stigmatizzazione morale degli ‘immeritevoli’. Queste condizioni ideologiche sono state particolarmente funzionali per la legittimazione popolare di quei tagli drammatici nei confronti del welfare state che si sono verificati a partire dagli anni Ottanta (ibidem: 316–317):
A partire dagli anni Ottanta, l’ammontare delle elargizioni è stato fortemente ridotto (…). La previdenza sociale è stata subordinata alla presenza di precise condizioni (…). Invece di riconoscere che i processi sociali ed economici possono creare disuguaglianze immeritate, si è preferito fornire una spiegazione più moralistica del successo e del fallimento del mercato del lavoro. (…) le sovvenzioni elargite dal welfare state hanno iniziato a essere considerate fonti di difficoltà e patologie, anziché una loro cura.
Possiamo, dunque, affermare che sia Wacquant sia Garland sostengano – più o meno direttamente – che l’ideologia meritocratica abbia avuto un ruolo molto importante nella sostituzione del modello di Stato sociale con il modello di Stato penale. Tuttavia, nessuno dei due autori si è specificamente soffermato ad analizzare la meritocrazia come uno strumento di dominio simbolico. Eppure, l’adesione dòxica all’ideologia meritocratica – ovvero, la credenza nel principio morale del ‘merito’ – è ciò che fonda la possibilità di distinguere tra ‘meritevoli’ e ‘immeritevoli’, giustificando, al livello delle cognizioni, l’intensificazione strutturale del controllo su questi ultimi.
Non è possibile sostenere, dunque, che la meritocrazia – una volta demistificata la validità dei pilastri logici sui quali si poggia – sia un modello organizzativo neutro. Le conseguenze, più o meno dirette, della credenza nell’ideologia meritocratica sono concrete, e incidono prepotentemente, anche a livello strutturale, sulla vita delle persone. Lo smantellamento dello stato sociale ha significato la riduzione delle possibilità di accesso a un tipo di aiuto istituzionale che era fondamentale per le strategie di sopravvivenza di grandi segmenti della popolazione. E questo smantellamento è stato possibile perché il senso comune (plasmato, soprattutto, dalle retoriche politiche e dalle narrative veicolate dai mass-media), almeno in una certa misura, vuole che le persone siano, in ultima istanza, responsabili del proprio destino individuale (come hanno dimostrato, soprattutto, le ricerche nel campo della psicologia sociale – cfr. paragrafi 4.3.1 e 4.3.2). Lo Stato, in questo modo, viene sollevato dalla responsabilità dell’aiuto – poiché, se è vero che la democratizzazione apparente dell’accesso ai percorsi scolastici e la rimozione formale delle barriere di accesso al lavoro hanno determinato un progresso verso il raggiungimento
178 dell’uguaglianza delle possibilità, allora la colpa del fallimento (oltre al merito del successo) è da ricercare nell’azione individuale. La retorica del ‘parassitismo’ (si vedano gli esempi riportati, in proposito, nel paragrafo 3.1.1, in relazione al linguaggio etichettante utilizzato da Donald Trump e da Matteo Salvini), dunque, si accorda a questa visione in cui ogni aiuto a chi ‘fallisce’ è, ipso facto, un aiuto ‘immeritato’ destinato a un ‘immeritevole’.
In un interessante articolo del 2017, due professori del Dipartimento di Sociologia della University of South Carolina rilevano come vi sia una corrispondenza diretta tra l’entità della disuguaglianza nella società e la credenza che le persone abbiano raggiunto le proprie posizioni sociali per una questione puramente meritoria (Heiserman & Simspon, 2017: 243): “(…) the more inequality one perceives, the less
meritorious the poor will seem and/or the more meritorious the rich will seem.” In
altre parole, più la struttura sociale si caratterizza per forti disparità in termini di accesso alle risorse economiche, culturali e sociali, più si diffonde, paradossalmente, la credenza nel valore descrittivo della meritocrazia. Questa implicazione è di cruciale importanza, perché 1) avvalora la tesi di Jost & Hunyady (2003; cfr. paragrafo 4.3.2) sulla “funzione palliativa” dell’ideologia meritocratica, e 2) perché fornisce una chiave di lettura ulteriore per l’analisi dell’affermazione dello Stato penale. Come specificano gli stessi Heiserman & Simpson (2017: 251): “One implication of this finding is that
paradoxically, people may perceive the poor as less deserving of efforts to reduce poverty in precisely those societies where poverty tends to be most dire, namely, in higher inequality systems.” I due studiosi parlano di un “merit gap” (ovvero, di una
giustificazione su base meritoria dei differenziali di status) che si incrementa al crescere della disuguaglianza, poiché nelle società caratterizzate da alti tassi di iniquità si riscontrano valutazioni più severe nei confronti della responsabilità individuale degli svantaggiati in relazione alla loro condizione relativa di svantaggio: “(…) our results
suggest that the merit gap is driven by lower evaluations of the poor in more unequal societies: participants in the high inequality condition expected significantly lower merit from the poor than those in the low inequality condition” (ibidem: 249).
L’ideologia meritocratica, dunque, oltre a essere uno strumento particolarmente potente per giustificare il successo, si configura come uno strumento-chiave anche per interpretare l’insuccesso. In questo senso, se l’insuccesso diviene ‘meritato’, allora lo
179 spazio per l’intervento statale si contrae sensibilmente sul fronte dell’aiuto; e, conseguentemente, si dilatano le possibilità d’intervento sul fronte penale – poiché uno stato ormai incapace di farsi garante dell’ordine sociale attraverso il meccanismo del
welfare deve trovare un’altra via per fondare la propria legittimità.
Utilizzando la distinzione tra “violenza strutturale” e “violenza culturale” proposta da Galtung (1990; si vedano i paragrafi 5.1 e 5.2), si potrebbe sostenere che la violenza dello Stato penale, esercitata, a livello strutturale, attraverso l’intensificazione del controllo sui segmenti più svantaggiati della popolazione e attraverso l’incarcerazione di massa (Wacquant, 2006, 2013), viene giustificata e legittimata, a livello culturale, dalla distinzione quasi-teologica tra ‘meritevoli’ e ‘immeritevoli’ veicolata dall’ideologia meritocratica. Tuttavia, intendere la meritocrazia come una forma di dominio simbolico può farci superare questa relazione funzionale e unidirezionale tra i due tipi di violenza. Essendo l’ideologia meritocratica, nella sua versione storicamente positivizzata, egualmente inscritta nelle ‘cose’ (ad esempio: nell’istituzione scolastica – cfr. Bourdieu & Passeron, 1971, 1972; oppure, nelle strutture organizzative del mondo del lavoro – cfr. McNamee, 2018; o nei prodotti culturali – cfr. Cingari, 2014, 2017; Littler, 2004; Windle, 2010) e nelle ‘coscienze’ (così come dimostrato dalle ricerche in psicologia sociale – cfr. paragrafo 4.3.2), il rapporto di omologia che viene a crearsi tra le strutture sociali e le cognizioni delle persone fonda un movimento di misconoscimento-e-riconoscimento reciproco tra le due – un rapporto attraverso cui si riproducono, senza che se ne possa avere immediata coscienza, le strutture di disuguaglianza esistenti. Essendo l’ideologia meritocratica inscritta nelle coscienze dei dominanti così come in quelle dei dominati, la credenza condivisa nella giustizia morale di un sistema di riconoscimento del ‘merito’ che si presume neutro, si configura, di fatto, come una forma di violenza simbolica – poiché la definizione di ‘merito’ poggia sulla base di distinzioni culturalmente orientate, e dunque non-neutre dal punto di vista della produzione e riproduzione simbolica e materiale del potere.
180
Conclusioni
“Perché la società è rimasta così stabile a dispetto della crescente distanza tra
la base e il vertice?
“La ragione fondamentale è che ora la stratificazione poggia sul principio del
merito, il quale è generalmente accettato a tutti i livelli della società. (…) nella nuova situazione storica le classi inferiori non hanno più una propria ideologia in conflitto con l’ethos della società (…). Poiché la base è d’accordo con il vertice che deve regnare il merito, si può cavillare solo sui metodi con cui viene fatta la scelta, non sul criterio, che tutti accettano.” (Young, 1958: 143)
La stratificazione della società distopica di cui parlava Young, come abbiamo visto, si basava sulla rilevazione scientifica del merito attraverso il test del quoziente intellettivo: dall’età di tre anni, iniziavano le misurazioni del talento e gli individui venivano assegnati, da subito, ai percorsi formativi che li avrebbero meglio preparati ad affrontare ciò a cui erano naturalmente destinati.
Una società del genere apparirebbe, ai più, feroce e ingiusta. E questa parvenza di crudeltà proviene, probabilmente, dalla percezione di un alto grado di determinismo: come è possibile, viene da chiedersi, stabilire la posizione sociale di destinazione di un bambino attraverso il suo punteggio a un test? Basare la mobilità sociale solamente su un criterio di selezione così restrittivo, effettivamente, potrebbe sembrare grottesco.
Eppure, ai nostri bambini, dall’età di sei, a volte cinque anni, nelle scuole, vengono assegnati dei punteggi sottoforma di voto. E questi voti, che pretendono di oggettivare il talento dei nostri bambini nelle varie discipline (ma solo in quelle canonicamente selezionate dall’istituzione scolastica come ‘meritevoli di insegnamento’), iniziano precocemente a suggerire dei percorsi differenziati per i ‘più dotati’ e per i ‘meno dotati’: da un lato, al bambino scolasticamente intelligente, verrà – più o meno direttamente – suggerito, per tutto il corso dei suoi studi, di continuare verso un tipo di istruzione liceale; dall’altro lato, al bambino meno dotato scolasticamente, verrà suggerito di avviarsi verso un tipo di istruzione professionale. A loro volta, queste tipologie differenziate di istruzione, nell’età adolescenziale, determineranno le possibilità non solo di entrare nelle Università più prestigiose, ma – addirittura –
181 influenzeranno, a monte, la decisione stessa del ‘provarci’ o meno. La nostra società è davvero così lontana dal prototipo caricaturale progettato da Young? Non crediamo, forse, anche noi, che le persone si differenzino per una sorta di corredo naturale di talenti? E non basiamo, forse, anche noi la stratificazione della nostra società, in larga misura, sull’idea che ai ‘più meritevoli’ vadano assegnate le ricompense più sostanziose, che spettano loro naturalmente?
Ovviamente, queste ultime sono domande retoriche e provocatorie. Costituiscono la forzatura di un principio molto più sottile e impercettibile. Un principio difficilmente verbalizzabile, poiché inscritto nelle modalità logiche che utilizziamo per dare senso al nostro mondo, così come nelle ‘cose’ e nelle strutture di quello stesso mondo. Parlare di ‘merito’ è estremamente complicato, poiché si toccano, contemporaneamente, una varietà di tasti la cui eterogeneità può scatenare un senso di smarrimento: tentare di definire il ‘merito’ significa trovarsi al confine dei campi della logica, della morale, dell’etica, della psicologia, della pedagogia, della sociologia, dell’economia, della filosofia, della politica e, probabilmente, anche di altre discipline. Riunire in una sola trattazione questa varietà disciplinare potrebbe risultare quasi utopico; eppure, un approccio sistemico e non-settoriale alla questione del ‘merito’ è necessario a smascherare l’arbitrarietà sulla quale questa, tutto sommato, indistinta e fumosa percezione si fonda.
Per quanto mi è stato possibile, ho cercato di proporre un approccio che fosse il meno settoriale possibile; ovviamente, essendo questo elaborato una tesi di laurea in sociologia, mi sono concentrato maggiormente su un tipo di lettura sociologica. Tuttavia, abbiamo visto quanto i contributi della psicologia sociale siano imprescindibili per comprendere come le persone si rapportino all’ideologia meritocratica. Abbiamo, inoltre, trattato brevemente anche il pensiero degli economisti o dei filosofi, come nel caso di Hayek e Sen, oppure quello di scienziati politici o di storici delle dottrine, come, ad esempio, nel caso di Cingari. Spero che lo sforzo di integrazione interdisciplinare sia emerso lungo tutto il corso della trattazione, poiché – come ho già avuto modo di ribadire – una concezione delle scienze che le vorrebbe racchiuse dentro dei compartimenti ermetici è quanto di più lontano dall’idea di ricerca di chi scrive. Possiamo riassumere il percorso intrapreso con la tabella che segue.
182
ANALISI
Tabella 3 – Schema riassuntivo della tesi di laurea.
Capitolo 1 Si è tentato di ricostruire, da un punto di vista storico, la
genealogia del termine “meritocrazia”. Abbiamo
sottolineato l’enfasi critica con cui veniva utilizzato, esponendo il pensiero di Young, Fox e Hayek.
Capitolo 2 È stata proposta un’analisi del fraintendimento e del conseguente ribaltamento semantico che è stato operato, nella storia del pensiero, nei confronti degli originali intenti critici. Bell e Wooldridge sono stati, da punti di vista differenti, tra i personaggi che più hanno influito sulla storia di questo significativo slittamento: da un lato, l’ideologia meritocratica ha formato un binomio inscindibile con la retorica sull’uguaglianza delle
possibilità; dall’altro lato, è stata strumentalizzata al fine
di giustificare i principi del neoliberismo economico e politico.
Capitolo 3 La retorica politica si è appropriata, in modo trasversale, dell’ideologia meritocratica, configurando la meritocrazia come una sorta di sociodicea. In particolare, sono state analizzate le modalità comunicative dei politici statunitensi, inglesi e italiani, e si è potuto constatare come, da destra a sinistra, l’ideologia meritocratica sia stata utilizzata in modo acritico per proporre narrative di giustizia sociale che, tuttavia, mantenevano intatto il
primato ideologico del capitalismo e del neoliberismo.
Capitolo 4 Una volta ricostruito il percorso di ‘positivizzazione’ intrapreso dall’ideologia meritocratica, si è tentato di fare il punto della situazione sul dibattito accademico che si è snodato attorno alla trattazione critica della meritocrazia. Si è rilevata la mancanza di contributi in italiano; si è offerto un panorama sulla letteratura sociologica straniera e ci siamo focalizzati sugli spunti offerti dalla psicologia sociale (in particolar modo, americana).
Capitolo 5 Si è proposta una lettura originale dell’ideologia meritocratica in termini di ‘violenza simbolica’, sforzandosi di sottolineare come il misconoscimento dell’arbitrarietà e della costruzione culturale del principio del ‘merito’ possa portare a forme di riproduzione del privilegio esistente che, paradossalmente, vengono spinte anche dal basso per una questione di doppia
omologia – la prima, tra le strutture sociali e quelle
mentali; la seconda, tra le categorie cognitive dei dominanti e dei dominati.
Capitolo 6 Abbiamo utilizzato la formulazione dell’ideologia meritocratica come forma di dominio simbolico per evidenziare come il mito del merito, sia a livello descrittivo sia a livello normativo, si sia inscritto nelle
‘cose’ e nelle ‘coscienze’. È stata data particolare
rilevanza al ruolo dei massmedia e ai principi di
discriminazione che si annidano nelle narrative che
enfatizzano la giustizia del ‘merito’ come criterio allocativo, per poi valutarne le conseguenze concrete sulle società, come nel caso della transizione verso un tipo di Stato penale.
Parte I Parte II R IC OS TRU ZION E ANALISI REVIE W P AR TE PRO PO SIT IVA
183 Se il percorso intrapreso sarà risultato convincente, dovrebbe essersi afferrato come e perché l’ideologia meritocratica si sia potuta inscrivere contemporaneamente nelle ‘cose’ e nelle ‘coscienze’, fino a diventare un assunto implicito, taken-for-granted, che viene utilizzato quotidianamente per dare senso al mondo; l’ideologia meritocratica, in questo senso, funziona come un’euristica che permette di misurare, a livello istintivo, la lontananza di una certa azione, in un certo ambito (come, ad esempio, in quello politico, in quello lavorativo o in quello scolastico), dall’ideale di giustizia
morale che abbiamo interiorizzato e associato, appunto, alla meritocrazia.
Tuttavia, il rapporto di omologia tra gli schemi di pensiero e di percezione, da un lato, e le strutture sociali, dall’altro lato, determina una sistematica scarsità di problematizzazione nei confronti dell’ideale del ‘merito’, il quale, ormai, sembra essere divenuto il principio ordinatore delle democrazie occidentali in ogni loro ambito: la meritocrazia viene invocata a livello politico (i politici devono ‘meritarsi’ la poltrona), a livello scolastico (chi ‘merita’ deve poter usufruire di tutte le opportunità di studio che il sistema può offrirgli), a livello lavorativo (i ‘meritevoli’ devono avere gli incarichi migliori), e così via. In sintesi, alla base della concezione odierna di ‘meritocrazia’ sta la sua presunta e data-per-scontata opposizione concettuale al classismo, al nepotismo e al clientelismo. Ovvero, la meritocrazia sembra potersi configurare come un nuovo tipo di ordine sociale e politico attraverso cui sconfiggere ed eliminare, una volta per tutte, ogni traccia residuale dei vecchi modelli organizzativi basati sull’ereditarietà del privilegio.
Eppure, Young (1958: 106) ci aveva avvertiti: una società che avesse la pretesa di misurare il merito secondo criteri non completamente oggettivabili (Young, indirettamente, parlava proprio della società della fine degli anni Cinquanta e, dunque, in un certo senso, anche di quella attuale) finirebbe per utilizzare la giustificazione del