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Le nozioni di habitus e di violenza simbolica

Per un’interpretazione bourdieusiana dell’ideologia meritocratica

5.1. Le nozioni di habitus e di violenza simbolica

I condizionamenti associati ad una classe particolare di condizioni di esistenza producono degli habitus, sistemi di disposizioni durature e trasmissibili, strutture

119 strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto princìpi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adatte al loro scopo senza presupporre la posizione cosciente di fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli, oggettivamente “regolate” e “regolari” senza essere affatto prodotte dall’obbedienza a regole e, essendo tutto questo, collettivamente orchestrate senza essere prodotte dall’azione organizzatrice di un direttore d’orchestra. (Bourdieu, 2005: 83–84)

La nozione di ‘habitus’ è un pilastro fondamentale della sociologia di Bourdieu nel suo complesso, così come una delle pietre miliari della sociologia dell’ultimo secolo. Per comprendere il senso di questa nozione – spesso astratta dal suo corpus teorico e adattata alle esigenze di volta in volta necessarie al contesto a cui è stata applicata – è necessario riferirsi a ciò che Bourdieu stesso definisce come “the most steadfast (and,

in my eyes, the most important) intention guiding my work” (Bourdieu, 1989: 15): il

tentativo di superare il dualismo ontologico tra soggettivismo e oggettivismo, o – come viene comunemente ribattezzato – il dualismo tra agency e struttura.

La storia delle produzioni sociologiche ha visto buona parte delle sue polemiche interne riferirsi alla reciproca posizione del mondo e degli uomini, nel tentativo di stabilire a quali dei due contendenti dovesse essere conferito una sorta di primato

ontologico. Come rileva lo stesso Bourdieu (ibidem), possiamo schematizzare il

dibattito come segue:

1. da una parte, troviamo le posizioni discendenti dalla sociologia di Durkheim o di Marx, le cui visioni oggettiviste si traducono in un primato ontologico della struttura: esistono i “fatti sociali”, e gli agenti si muovono in uno spazio sociale che si configura come esterno, costrittivo e precostituito (Durkheim, 1895). Ad ogni modo, questo non equivale – come è stato spesso preteso – a ridurre a zero il margine di agency: gli attori possono assumere comportamenti discontinui o imprevedibili in relazione a questa tipologia di strutturazione; tuttavia, questi scostamenti verranno interpretati come ‘deviazioni’, più o meno rilevanti, dalla normale distribuzione (ad esempio, statistica) dei comportamenti (Bourdieu, 1989: 15);

2. dall’altra parte, troviamo le posizioni che potremmo considerare come più o

meno direttamente discendenti della sociologia comprendente (Weber, 2014). Bourdieu (1989: 15) prende, come modello ideale per questo tipo di posizioni,

120 le quali attribuiscono una sorta di primato ontologico al soggetto, la sociologia

fenomenologica di Schütz: il ‘mondo’ esiste solamente nelle strutture di

significato condivise da cui viene informato e da cui discende l’atteggiamento

naturale (Schütz, 1974).

Ovviamente, quella appena proposta è una schematizzazione radicale della questione; ad ogni modo, è utile a inquadrare il lungo dibattito che si è storicamente snodato attorno alle posizioni del fisicalismo oggettivista e del soggettivismo ontologico. Bourdieu, lungo tutto il corso della sua opera, si è impegnato a proporre una visione che potesse posizionarsi oltre questo dualismo. Infatti, la natura del reale è, per Bourdieu, radicalmente relazionale; come nota Paolucci (2002: 4):

La cassetta degli attrezzi di cui si è servito contiene concetti e procedure forgiati da un’epistemologia relazionale, in grado di dare corpo ad un attore sociale mai astratto dalle condizioni oggettive e soggettive della riproduzione sociale, ma costantemente situato nel sistema di relazioni che ne determina le pratiche, le «posizioni» e le «disposizioni» all’interno dei «campi» in cui si colloca, o nei quali viene comunque collocato.

Per Bourdieu, il momento soggettivista e quello oggettivista stanno in un rapporto dialettico. Egli stesso (Bourdieu, 1989: 15) precisa che “even if the subjectivist moment

seems very close, when taken separately, to interactionist or ethnomethodological analyses, it still differs radically from them: points of view are grasped as such and related to the positions they occupy in the structure of agents under consideration.” Il

momento di costruzione soggettiva del mondo non deve venire assolutizzato: la conoscenza (o la riconoscenza) è un’azione strutturalmente situata in un contesto dal quale non può venire astratta, poiché 1) dallo stesso contesto dipendono le disposizioni che danno forma al ventaglio di possibilità dell’azione e 2) poiché la stessa struttura viene creata (o confermata) dall’azione. In tal senso, è necessario “superare

l’opposizione tra una visione fisicalista del mondo sociale (…) ed una ‘cibernetica’ o semiologica (…). I rapporti di forza più scoperti sono anche dei rapporti simbolici, e gli atti di sottomissione e di ubbidienza sono atti cognitivi che, in quanto tali, mettono in opera strutture cognitive, forme e categorie di percezione, principi di visione e di divisione” (Bourdieu, 1994: 111). Non è possibile, in altre parole, ignorare la relazione

121 La caratteristica fondamentale di questa relazione è quella dell’omologia. È possibile, a mio avviso, parlare di due assi principali di omologia nel pensiero di Bourdieu:

1. il primo rapporto omologico descrive la relazione, appunto, tra il ‘mondo delle cose’ e il ‘mondo delle cognizioni’; tra i due, si instaura un tacito accordo a livello strutturale, il quale dipende dall’intreccio genetico dei due mondi: ognuno è, contemporaneamente, principio-generatore e precipitato-generato dell’altro. Da questo primo asse di omologia discende la nozione di ‘habitus’;

2. il secondo asse di omologia fondamentale nel pensiero di Bourdieu può essere ritracciato nelle considerazioni a proposito della strutturazione omologa delle categorie di pensiero dei dominanti e dei dominati. Possiamo far derivare da questo rapporto omologico la nozione di ‘violenza simbolica’.

La risultante dell’intreccio di questi due vettori si materializza nella “soggezione

dòxica all’ordine costituito” (ibidem: 115), ovvero nella trasformazione di un prodotto culturale in uno dato naturale. In questo senso, “Il primo effetto dell’evoluzione storica è abolire la storia” (ibidem): la cultura, mascherata da natura, viene percepita come

un dato trascendente; la sua costituzione immanente e contingente è difficilmente problematizzabile, poiché le categorie di pensiero che vengono applicate quando si ‘pensa la cultura’ (o un oggetto della cultura) derivano dalla stessa cultura che le ha informate e socializzate68.

Questa paradossale tipologia di soggezione allo status quo (che potrebbe integrarsi perfettamente alla visione dei teorici della System Justification [cfr. paragrafo 4.3.1] ed espanderne la portata esplicativa69) si traduce, a livello di disposizioni, nel costrutto

68 Bourdieu (1994) riporta, a titolo di esempio ironico e al contempo molto serio, un aneddoto sulla

“questione a prima vista risibile dell’ortografia” (ibidem: 91): “Quando (…) lo Stato (…) decide di

riformare l’ortografia, ossia di disfare per decreto ciò che lo Stato aveva fatto per decreto, suscita immediatamente la vibrata protesta di un’alta percentuale di quelli che hanno a che fare con la scrittura. (…) E (…) tutti questi difensori dell’ortodossia ortografica si mobilitano in nome del fatto che la grafia vigente è naturale, in nome della soddisfazione, vissuta come intrinsecamente estetica, che procura il perfetto accordo tra strutture mentali e strutture oggettive (…).” Un dibattito analogo, tra il

serio e l’ironico, si è avuto in Italia nel 2016, in relazione alla discussione sulla possibilità di far entrare nel vocabolario ufficiale la parola “petaloso”.

69 Potrebbe risultare un dato sorprendente (o sconfortante) che, dalle mie ricerche, la relazione tra

il lavoro di Bourdieu e questo tipo di teorizzazioni psicosociali non sia stata approfondita a livello accademico.

122 dell’habitus – “principio generatore di pratiche oggettivamente classificabili e sistema di classificazione (principium divisionis) di queste pratiche” (Bourdieu, 1983: 174). L’habitus si sostanzia in un meccanismo strutturante che determina patterns di azione in modo non meccanico, poiché reagisce alle sollecitazioni esterne in modo coerente con la struttura del campo particolare in cui si trova inserito (cfr. Wacquant, 1989). Nell’habitus, si inscrivono le informazioni apprese dai veicoli di socializzazione, le quali vengono, a loro volta, riprodotte dagli habitus. In altre parole, l’habitus potrebbe venire descritto come una sorta di ‘vestito cognitivo’ che si caratterizza per la sua duplice natura di struttura-strutturata e di struttura-strutturante (Bourdieu, 1983: 175):

Struttura strutturante, che organizza le pratiche e la loro percezione, l’habitus è anche una struttura strutturata: il principio di visione e di divisione in classi logiche, che organizza la percezione del mondo sociale, è a sua volta il prodotto dell’incorporazione della divisione in classi sociali.

L’habitus, pur essendo “struttura strutturante”, non possiede la qualità dell’immanenza. È, piuttosto, una struttura storica e contingente, un prodotto della storia che contribuisce a produrre la storia: “Prodotto della storia, l’habitus produce

pratiche, individuali e collettive, dunque storia, conformemente agli schemi generati dalla storia” (Bourdieu, 2005: 85). In questo senso, il concetto di habitus aiuta a

superare la questione del dualismo ontologico: da un lato, “il sistema delle disposizioni

è alla base della continuità e della regolarità che l’oggettivismo accorda alle pratiche sociali senza poterlo spiegare”; mentre, dall’altro lato, fa da base anche alle

“trasformazioni regolate di cui non possono rendere conto (…) né i determinismi

estrinseci e istantanei di un sociologismo meccanicista, né la determinazione puramente interiore, ma ugualmente puntuale, del soggettivismo spontaneista”

(ibidem). La ‘durevolezza’ e la ‘trasferibilità’ (Wacquant, 1989) sono le due qualità principali che consentono all’habitus di costituirsi sia come principio-generatore sia come precipitato-generato. L’habitus assume in sé, sottoforma di storia incorporata, le disposizioni adeguate alla struttura del campo in cui si trova inserito, perché da quella stessa struttura viene a sua volta generato o rigenerato. L’omologia tra il ‘mondo delle cose’ e il ‘mondo delle cognizioni’ trova, in questo modo, la sua sintesi concettuale nel costrutto dell’habitus.

123 È negli habitus che si inscrivono i principi di visione e di divisione che fondano il senso comune. Quest’ultimo poggia su una serie di assunti valoriali e su principi di distinzione prerazionali che, pur venendo percepiti come dati naturali, sono costitutivamente prodotti storici della cultura. Eppure, il consenso sul ‘senso del mondo’ – l’atteggiamento naturale di cui parlava anche Schütz (1974) – si basa, sostanzialmente, su questo fraintendimento. Ovviamente, lo spazio sociale non è livellato, ma fonda la sua struttura sui rapporti di forza o di dominio che vi si dispiegano. In questo senso, Bourdieu descrive lo spazio sociale come un insieme di

campi – ovvero, dei sistemi strutturati di forze oggettive, in cui vige una

configurazione relazionale trasversalmente imposta, e la cui topografia si sostanzia in uno spazio conflittuale dove svolgere una lotta per stabilire il monopolio su una specie di capitale o per aggiudicarsi il potere di stabilire le gerarchie70. Come rilevato anche da Grenfell (2004: 59), tra i campi e gli habitus si instaura una sorta di affinità che potremmo definire “complicità ontologica”, poiché le strutture dei primi si rispecchiano nelle strutture dei secondi. In questo senso, “La soggezione all’ordine

costituito è il prodotto dell’accordo fra le strutture cognitive che la storia collettiva (filogenesi) e individuale (ontogenesi) ha inscritto nei corpi e le strutture oggettive del mondo al quale si applicano” (Bourdieu, 1994: 113). Tuttavia, come scritto poco

sopra, lo spazio sociale – lo spazio dei campi – non è livellato: esistono posizioni di vantaggio e di svantaggio, e la configurazione degli habitus dipende anche dalla posizione oggettiva dell’attore nel campo a cui l’habitus si accorda.

Nonostante questa possibile varietà degli habitus in relazione alla loro relativa configurazione, a livello delle cognizioni (delle strutture cognitive e simboliche) è possibile sottolineare l’esistenza di un rapporto di omologia determinante per il mantenimento dello status quo. È soprattutto lo Stato a “inculcare” le “forme e [le]

categorie comuni di pensiero e di percezione” che creano le condizioni per

l’“orchestrazione degli habitus che è (…) fondamento di una sorta di consenso

sull’insieme di evidenze condivise costitutive del senso comune” (ibidem: 112–113).

Questa condivisione del senso comune, che fonda la soggezione dòxica all’ordine costituito, oltrepassa, in qualche maniera, la configurazione contingente degli habitus,

70 Anche in questo caso, sarebbe possibile proporre un parallelismo con la lettura psicosociale delle

124 poiché i gruppi dominanti e i gruppi dominati condividono le stesse categorie di pensiero e gli stessi schemi di percezione, i quali – a loro volta – sarebbero il prodotto e il presupposto stesso dei rapporti di dominio (Bourdieu, 1999: 45): “I dominati

applicano categorie costruite dal punto di vista dei dominanti ai rapporti di dominio, facendoli apparire come naturali. E ciò può portare a una sorta di autosvalutazione71 (…).” Attraverso questo specifico rapporto di omologia, si attualizza la forma simbolica della violenza (ibidem):

La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominante (quindi al dominio) quando, per pensarlo e per pensarsi o, meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, dispone soltanto di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essedo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questo rapporto come naturale.

La violenza simbolica, dunque, si configura come un tipo di violenza estremamente sottile, “dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime, che si esercita attraverso le

vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza (…) o, al limite, del sentimento” (ibidem: 7–8). In altre parole, potremmo descrivere la violenza simbolica

come un meccanismo prerazionale di adesione all’esistente (un’ortodossia dòxica), che si verifica poiché non può fare a meno di verificarsi. È la violenza polverizzata e molecolare che si manifesta attraverso i canali dell’elaborazione e trasmissione dell’informazione, poiché in quei canali è strutturalmente inscritta; o, meglio ancora, poiché è inscritta nella relazione omologa tra quei canali informativi e le coscienze che ricevono l’informazione. Esistono dei sistemi simbolici di riferimento, i quali sono trasversalmente condivisi, e che rispecchiano la cultura dominante; le categorie cognitive di coloro che si trovano in posizioni di svantaggio relativo, ad ogni modo, sono omologhe a quelle di coloro che godono di una posizione di vantaggio o di privilegio: per questo motivo, la violenza diviene simbolica e insensibile – poiché, essendo inscritta nel modo di ‘sensificare’ le cose, essa coincide con il senso stesso di quelle cose, o meglio, con il modo di relazionarsi alle cose e al loro senso.

71 Curioso, un’altra volta, notare come l’autosvalutazione di cui parla Bourdieu in questo passo

(riferita alle pratiche di autodenigrazione sistematica che le donne si infliggono avendo interiorizzato gli schemi cognitivi del dominio maschile) possa venire riferita al tipo di “attribuzione interna” di cui parlano i teorici della giustificazione del sistema oppure ai meccanismi di “auto-attribuzione dello stereotipo” di cui parlano i teorici della dominanza sociale (cfr. paragrafi 4.3.1 e 4.3.2).

125 Per chiarire il significato della violenza simbolica – spesso frainteso, come accade, in parte, a quasi tutti i concetti che divengono mainstream72 – è utile riferirsi alla

radicale differenza con il concetto di “violenza culturale” proposto da Galtung (1990). Galtung distingue tre forme di violenza, che egli pone in relazione nel cosiddetto “triangolo della violenza” (ibidem) e che, attraverso la loro relazione reciproca e auto- rinforzante, rendono la violenza un fenomeno auto-poietico. Queste tre forme di violenza si classificano in:

1. violenza diretta: la violenza che viene esercitata nella relazione tra soggetto e oggetto della violenza e che può venire concretamente riferita a degli attori materiali (ad esempio, la violenza fisica) (Galtung, 1969);

2. violenza strutturale: nelle parole di Galtung, se un uomo picchia sua moglie, possiamo parlare, ovviamente, di violenza diretta; ma se il maltrattamento negli ambienti familiari è un comportamento diffuso che ricomprende, ad esempio, la segregazione delle donne nell’ignoranza, ecco che la violenza acquista il suo carattere strutturale. Anche la disparità dell’aspettativa di vita tra le classi privilegiate e le classi svantaggiate è una forma di violenza strutturale. Per questo motivo, Galtung (ibidem: 171) assimila la violenza strutturale alla definizione di ‘ingiustizia sociale’: “In order to not overlook the word violence

we shall sometimes refer to the condition of structural violence as social

injustice”;

3. a queste due forme originali, Galtung aggiunge, successivamente (1990), un terzo tipo di violenza: la violenza culturale – ovvero “any aspect of a culture

that can be used to legitimize violence in its direct or structural form” (ibidem:

291).

Per Galtung, in un certo senso, la violenza culturale sta in una sorta di relazione

strumentale con le altre tipologie di violenza: la scelta della formula linguistica “can be used to legitimize”, nella citazione precedente, non è sicuramente neutra; ancora

nelle sue parole (ibidem: 296): “The logic of the scheme is simple: identify the cultural

element and show how it can, empirically or potentially, be used [non in corsivo

72 Scriveva J. L. Borges (1956: 44), in riferimento al destino del “Don Chisciotte” di Miguel de

126 nell’originale, n.d.r.] to legitimize direct or structural violence”; oppure (ibidem: 294), “‘Cultural violence’ can now be added as the third supr-type and put in the third

corner of a vicious violence triangle as an image. When the triangle is stood on its ‘direct’ and ‘structural form’, the image invoked is cultural violence as the legitimizer of both.” Nonostante il fatto che, a livello empirico, la distinzione proposta da Galtung

risulti molto euristica e operazionalizzabile (e lo vedremo anche nel paragrafo 5.2, in relazione alla meritocrazia, così come nel paragrafo 6.3), non possiamo confondere la ‘violenza culturale’ con la ‘violenza simbolica’.

Nella relazione strumentale e legittimante che si instaura tra la violenza culturale e le altre due tipologie di violenza possiamo individuare la sostanziale diversità tra la nozione di ‘violenza culturale’ di Galtung e quella di ‘violenza simbolica’ di Bourdieu: la violenza simbolica si manifesta, allo stesso tempo, sia nel livello delle strutture, sia nel livello della cultura, sia nel livello personale o diretto, poiché si annida proprio nella relazione tra le dimensioni speculativamente distinte da Galtung. La violenza simbolica non è strumentale, ma è un tratto formale e strutturale, che si ritrova nel livello delle strutture sociali così come in quello degli schemi cognitivi: la relazione omologa tra le due dimensioni è la violenza simbolica. In questo senso, la violenza simbolica è un tratto essenziale, costitutivo e immanente, di entrambi i livelli, nei quali si esercita contemporaneamente e strutturalmente (e non strumentalmente). Potremmo esemplificare la relazione tra il ‘triangolo della violenza’ di Galtung e la nozione di ‘violenza simbolica’ di Bourdieu nello schema che segue.

Figura 4 – Il triangolo della violenza di Galtung e la relazione con la violenza simbolica di Bourdieu.

Per la sua natura fondativa e non strumentale, la violenza simbolica non può ridursi a un atto di legittimazione delle forme più esplicite di violenza. Piuttosto, la violenza

Viol enza sim bolic a Viol en za sim bolic a Violenza diretta Violenza strutturale Violenza culturale

127 simbolica ha a che fare con la dimensione della conoscenza – intesa come possibilità

strutturale di conoscere ‘che cosa’ e ‘come’. La violenza simbolica, in altri termini,

trasforma la conoscenza in riconoscenza. Scrive Bourdieu (1999: 22):

Quando i dominati applicano a ciò che li domina schemi che sono il prodotto del dominio o, in altri termini, quando i loro pensieri e le loro percezioni sono strutturati conformemente alle strutture stesse del rapporto di dominio che subiscono, i loro atti di conoscenza sono, inevitabilmente, atti di riconoscenza, di sottomissione.

Abbiamo visto, dunque, come la doppia omologia tra le strutture del mondo e le strutture cognitive, da un lato, e quella tra le categorie cognitive e gli schemi di percezione dei dominanti e dei dominati, dall’altro lato, si costituiscano come due assi di comprensione fondamentale per quanto riguarda il pensiero sociologico generale di Bourdieu, soprattutto in relazione alle nozioni di ‘habitus’ e di ‘violenza simbolica’. Abbiamo visto come quest’ultimo termine differisca radicalmente dalla nozione di ‘violenza culturale’ e come la violenza simbolica si propaghi a un livello più molecolare di oppressione. Non solo: la violenza simbolica, costituendosi come un’ortodossia, non viene solamente prodotta e riprodotta dall’alto verso il basso; al contrario, è una violenza trasversale, che viene prodotta e riprodotta anche dal basso – ma, ancora una volta, verso il basso: essendo la direttrice della violenza simbolica determinata dall’iscrizione dei rapporti di dominio nelle categorie di pensiero (e negli strumenti di pensiero – come, ad esempio, la lingua) che quegli stessi rapporti producono e dalle quali vengono prodotti e riprodotti, ne consegue che la violenza simbolica sia, casi eccezionali a parte, un movimento che si manifesta costitutivamente

verso il basso o, al limite, sul livello di appartenenza. È possibile ritrovare, nella

letteratura che fa riferimento alla storia del pensiero, degli antecedenti di questa visione della violenza (non concettualizzata come violenza simbolica) come elemento non meramente eterodiretto, ma – paradossalmente – anche autodiretto: il prossimo paragrafo è un breve approfondimento originale di questo aspetto. Parlare di auto-