Per un’interpretazione bourdieusiana dell’ideologia meritocratica
5.2. La meritocrazia come forma di dominio simbolico
Parlare della meritocrazia come forma di dominio simbolico significa parlare delle modalità in cui, contemporaneamente, l’ideologia meritocratica si è inscritta nelle cose e nelle coscienze, così come nelle categorie interpretative che vengono utilizzate, più o meno similmente, ad ogni livello della scala gerarchica. A questo proposito, abbiamo visto come lo slittamento semantico a cui è stata soggetta la nozione di ‘meritocrazia’ ne abbia letteralmente ribaltato il significato originale. Questa concezione di ‘meritocrazia’, appiattita alla retorica sull’uguaglianza delle possibilità di partenza, è stata particolarmente preziosa, come rilevano Littler (2013, 2017) e Cingari (2013, 2015a, 2015b), per l’ascesa di una nuova forma di liberismo economico, il
neoliberisimo, che sussume e plasma anche la sfera politica dell’esistenza (Foucault,
2008). Non a caso, la retorica meritocratica è stata sposata da politici conservatori del calibro della Thatcher, di Reagan (cfr. Jones & Smith, 2017) o di Berlusconi (cfr. paragrafo 3.2.2), ma anche da politici teoricamente progressisti (e qui sta la dimostrazione di quanto l’ideologia meritocratica sia divenuta una questione non- problematizzata e pervasiva) come Blair o Obama, ma anche, nel caso italiano, da forme di associazionismo politico auto-definentisi ‘anti-sistema’, come il Movimento 5 Stelle (ibidem). Non solo: se vogliamo gettare un rapido sguardo a sinistra, in Italia, possiamo facilmente constatare come la meritocrazia sia stato uno dei leitmotive della
133 retorica di Matteo Renzi; in un articolo su L’Espresso, Emiliano Fittipaldi scrive e riporta quanto segue (Fittipaldi, 2018):
L’ex sindaco fiorentino aveva conquistato prima il Pd e poi i palazzi romani con la promessa di una rivoluzione radicale, di una rottamazione non solo degli anziani leader del partito ma anche dei vecchi metodi della politica italiana. «Metteremo sulle poltrone di comando i più bravi in modo da far ripartire il paese. L’Italia con me sarà un posto dove trovi lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno!», s’impegnò Renzi nel 2012. E poi: «La meritocrazia è l’unica medicina per la politica, per l’impresa, per la ricerca, per la pubblica amministrazione. Gli amici degli amici se ne faranno una ragione», proclamò nel 2014, appena scippata la poltrona ad Enrico Letta.
La capillarità con cui l’ideologia meritocratica si è diffusa dalle teorizzazioni filosofiche, sociologiche ed economiche verso la retorica politica, e da quest’ultima all’uso comune, è presto testimoniata dall’enorme mole di produzioni cinematografiche, musicali, televisive e così via che si concentrano sulla tematica mitologica dell’ascesa di tipo self-made (cfr. Allen, 2012; Littler, 2004; Windle, 2010). Queste narrazioni (come vedremo meglio nel paragrafo 6.1) informano e formano il senso comune; e – attraverso la retorica sull’uguaglianza delle opportunità, l’ipocrisia a proposito della democratizzazione dell’accesso ai percorsi scolastici e il feticcio della non-discriminazione sul posto di lavoro – vengono proiettate all’esterno e ritrovate nella strutturazione della società, la quale si auto-presume aperta, democratica e
egualitaria, nonostante le macro-evidenze empiriche che dimostrano il contrario (cfr.
Clarke, 2014; Goldthorpe, 2003; Goldthorpe & Jackson, 2008; McNamee, 2018).
L’impalcatura di questo teatro, nel quale viene messa in scena una pièce pacificante in relazione alle disparità esistenti, si regge sul mito della mobilità ascendente. Ovvero, quella fiducia nel fatto che, nonostante gli svantaggi iniziali, attraverso il proprio
merito e il proprio sforzo, si possa raggiungere qualsiasi obiettivo, a patto di essere naturalmente dotati di sufficiente talento. Su questo mito – come abbiamo visto nel
Capitolo 3 – si sono basate le “neoliberal justice narratives” della retorica politica, la cui forza sta nel riconoscere, da un lato, la malattia della disuguaglianza, mentre, dall’altro lato, la cura è offerta nei termini di “più neoliberismo” e “migliore
disuguaglianza” (Littler, 2017). In questo modo, la struttura mitologicamente
meritocratica delle democrazie occidentali contemporanee non viene problematizzata nei suoi assunti valoriali fondanti. La categoria del ‘merito’ non viene interrogata; e
134 tutto ciò che in questa categoria si inscrive, altrettanto, resta nel limbo acritico del
taken-for-granted.
Tuttavia, la nozione di ‘merito’ viene definita da chi possiede il potere di statuire le definizioni e, successivamente, assorbita e riprodotta dagli altri, ritrovandosi, in questo modo, inscritta nelle cose, oltre che nelle coscienze. L’ideologia meritocratica si inscrive negli habitus, poiché forma un sistema di disposizioni durevoli che orienta le pratiche delle persone nei confronti del mondo. Interiorizzando e sponsorizzando l’etica del duro lavoro – inscritta, perciò, nell’habitus –, si rinforza il valore prescrittivo della meritocrazia; donando estremo risalto (e garantendone la rilevanza, in questo modo, a livello cognitivo ed euristico) a casi spettacolari (tanto quanto eccezionali) di ascesa sociale, si rafforza la credenza nel valore descrittivo della meritocrazia. I prodotti culturali, le istituzioni pubbliche (scolastiche, politiche o amministrative) e l’organizzazione del lavoro sposano, producono e riproducono l’ideale della meritocrazia: dunque, l’ideologia meritocratica è, effettivamente, inscritta nel ‘mondo delle cose’.
Altrettanto, la dimensione mitologia della meritocrazia è inscritta nel ‘mondo delle cognizioni’. L’ideologia meritocratica, infatti, lavora come un’euristica74: pensare che l’ordine gerarchico esistente, a parte alcune deviazioni, rispecchi il valore ideale (in realtà, sarebbe più corretto dire: logico e morale) del merito, può aiutare a far fronte alla complessità dell’esistenza, favorendo quei processi di attribuzione interna di cui parlano gli psicologi della System Justification Theory (cfr. paragrafo 4.3.2).
La violenza della meritocrazia, dunque, si manifesterebbe, in questa accezione, a un livello puramente simbolico. Non è possibile, in effetti, tracciare la direzione di propagazione di questo tipo di violenza, che riproduce, nei suoi effetti, il privilegio esistente, con la connivenza di chi più trae svantaggio da una definizione di ‘merito’ altamente discriminatoria e arbitraria. Anzi, piuttosto che di connivenza, sarebbe più corretto parlare di ‘difesa attiva’, poiché – lo ricordiamo – “activating meritocratic
beliefs increases the extent to which individuals psychologically justify status
74 Le ‘euristiche’ sono delle specie di ‘scorciatoie cognitive’ che, quotidianamente, utilizziamo per
dare senso al mondo e per orientare le nostre azioni. Servono per far fronte alla complessità del vivere e ci consentono di automatizzare un insieme di pratiche o di cognizioni, in modo da non sentire il bisogno di problematizzare ogni singolo gesto o pensiero (cfr. Gilovich, Griffin & Kahneman, 2002).
135 inequalities, even when those inequalities are disadvantageous to the self” (McCoy &
Major, 2007); oppure: “among those with lower incomes, local contexts of greater
inequality are associated with more widespread belief that people can get ahead if they are willing to work hard” (Solt et al., 2016). Questa ‘difesa attiva’ del valore
prescrittivo e descrittivo dell’ideologia meritocratica da parte, soprattutto, di coloro che più ne risultano danneggiati, è essenziale per comprendere come la meritocrazia si costituisca come una forma di dominio simbolico. Ormai interiorizzata al livello delle cognizioni, degli schemi linguistici e delle percezioni, la meritocrazia chiude il circolo della complicità ontologica venendo ritrovata nel ‘mondo delle cose’: la strutturazione omologa tra la ‘meritocrazia iscritta nelle coscienze’ e la ‘meritocrazia iscritta nella
percezione del mondo delle cose’ (e, conseguentemente, nell’oggettività stessa del
mondo delle cose) è il veicolo di una violenza che non viene percepita come tale, poiché, appunto, “dolce e insensibile”, innestata e radicata nei canali di relazione tra il mondo e le coscienze.
Galtung (1990), per portare degli esempi di come la violenza culturale possa legittimare altre forme di violenza a livello strutturale e personale, distingue alcuni elementi culturali che possono tradursi in una forma di violenza che si esercita al livello della legittimazione; Galtung cita (ibidem): la religione; l’ideologia; il linguaggio; l’arte; le scienze empiriche; le scienze formali; la cosmologia. L’aspetto più interessante, ai fini di questa trattazione, è che Galtung ricomprenda la meritocrazia nelle ideologie che possono rappresentare una forma di violenza culturale – una concezione che fa eco, tra le altre cose, anche alla nozione della Social Dominance
Theory a proposito dei “miti legittimanti” (Pratto et al., 1998; Sidanius et al., 2001) e
alla proposta di Jost & Hunyady (2003, 2005) di interpretare la meritocrazia come una “ideologia palliativa”.
La teorizzazione di Galtung è molto interessante e può essere considerata la diretta precorritrice della mia. Riformulando, Galtung (1990: 298) propone una lettura secondo la quale le ideologie servirebbero a riprodurre, in chiave non-trascendente, la distinzione teologica tra ‘prescelti’ e ‘dannati’. Il ruolo della meritocrazia sarebbe quello di legittimare la credenza che, nelle società moderne (basate sull’uguaglianza delle possibilità), il vertice della gerarchia sociale sia occupato dai migliori: questa assunzione giustificherebbe i loro vantaggi e i loro privilegi, agendo da mito
136 legittimante (si legga: violenza culturale) nei confronti dell’ingiustizia sociale (si legga: violenza strutturale). Tuttavia, sempre secondo Galtung (ibidem), questo tipo di mitologia poggerebbe su concezioni implicite marcatamente sessiste, razziste e nazionaliste, le quali assocerebbero, di fatto, le qualità del ‘meritevole’ al sistema di valori dominante e precostituito, gettando le basi per la riproduzione degli schemi di dominio che giustificano la violenza nei suoi vari livelli. È utile riportare (quasi per intero, al fine di comprendere fino in fondo la teorizzazione che abbiamo appena esposto), il breve passo di Galtung (ibidem):
(…) the chosen ones can remain chosen without any transcendental god. (…) in modern ‘equal opportunity’ society the best are at the top and hence entitled to power and privilege. (…) All of these ideas have been and still are strong in Western culture, although the faith in male, Western, white innate superiority has been now badly shaken by the struggles for liberation by women, non-Western peoples (…) and colored people inside Western societies. (…)
These three assumptions – all based on ascribed distinctions, gender, race and nation already given at birth – are hard to maintain in an achievement-oriented society. But If modern society is a meritocracy, then to deny power and privilege to those one the top is to deny merit itself. To deny a minimum of ‘modern orientation’ is to open the field to any belief, including denying power and privilege for the meritorious (…). In short, residual chosenness will stay on for a while as speciesism, ‘classism’ and ‘meritism’, regardless of the status of God and Satan.
La proposta di Galtung, dunque, vedrebbe la meritocrazia come un tipo di ideologia che opererebbe costitutivamente come una forma di violenza culturale, poiché – come altri tipi di ideologie (ad esempio, il nazionalismo) – riprodurrebbe e legittimerebbe la distinzione tra prescelti e dannati, dalla quale trarrebbero legittimazione altre forme di violenza a livello strutturale. In questo senso, Galtung propone il neologismo “meritism” – una versione ‘estremista’ della meritocrazia (non a caso, anche Piketty [2013: 334] parla di “meritocratic extremism”) che ben riassume le potenzialità discriminanti e la natura tautologica del concetto arbitrario di ‘merito’ su cui l’ideologia meritocratica si fonda. Anche Littler (2017: 220), in proposito, afferma che
(…) ‘meritocracy’ has, since it was first used ad in all its different historical-political incarnations, meant a society where people are given far greater economic rewards according to their perceived merit. This creates a system of economic inequality, which means their children grow up in privileged circumstances. ‘Meritocracy’ is thus, as it has always been used so far, a tautology.
137 Rompere il cerchio di questa tautologia, per Galtung, si costituirebbe come un attentato al cuore stesso della credenza nella giustizia di fondo delle ‘equal-opportunity /
achievement-oriented societies’.
La breve descrizione offerta da Galtung, dunque, sulla meritocrazia come forma di violenza culturale, si avvicina alla mia proposta a proposito della meritocrazia come forma di violenza simbolica. Tuttavia, vi sono delle differenze sostanziali. La violenza culturale di Galtung, come abbiamo visto nel paragrafo 5.1, si pone in una relazione strumentale e legittimante con le altre due tipologie di violenza – quella diretta e quella strutturale. Se interpretata come forma di violenza simbolica, invece, la meritocrazia non manifesta il suo potenziale di ‘violenza’ in una direzione di propagazione verticale che segue la gerarchia tra i vari livelli distinti da Galtung. Piuttosto, la violenza della meritocrazia – inscritta nelle cose e nelle coscienze – non si manifesta come forma di legittimazione (poiché la ‘legittimazione’ ha bisogno di un ordine temporale e spaziale che vada a fondare la relazione – e la successione – tra ‘legittimante’ e ‘legittimato’), ma si inscrive nella stessa genetica delle relazioni tra il mondo e le coscienze, poiché si fonda sul rapporto di complicità ontologica tra le strutture sociali e le strutture cognitive. La duplice natura dell’habitus meritocratico, in questo senso, da un lato, si fa struttura-strutturante nel momento poietico del ‘donare senso al mondo’; dall’altro lato, si costituisce come struttura-strutturata, dal momento che deriva le sue conoscenze a proposito delle regole del gioco dalla stessa struttura dei campi (e dalle relazioni tra le posizioni nei campi e tra i diversi campi) nei quali si trova inserito. La meritocrazia, perciò, è una forma di soggezione dòxica all’ordine costituito e, come tale, una forma di dominio simbolico: la meritocrazia non serve a legittimare; essendo inscritta nelle cose e nelle coscienze, essa esiste come un dato-per-scontato che si traduce in pratiche e che, dalla relazione ortodossa con queste pratiche, riconferma la – anzi, viene riconosciuta e riprodotta (poiché misconosciuta) nella – sua condizione strutturale e poietica di mito fondativo.
A proposito della meritocrazia come forma di dominio simbolico, non si può pensare che tutti si rapportino alla meritocrazia allo stesso modo. La disposizione (ontologia soggettivista) si trova sempre in un rapporto dialogico con la posizione (ontologia oggettivista) degli individui nello spazio sociale (cfr. Bourdieu, 1989). In questo senso, dominanti e dominati, pur condividendo la struttura simbolica
138 dell’ideologia meritocratica, vi si relazionano secondo modalità differenti, poiché – avendo acquisito habitus parzialmente differenti in relazione alle loro posizioni nei vari campi – le loro disposizioni si traducono in pratiche non identiche. Per questo è utile distinguere il modo di rapportarsi delle classi privilegiate alla meritocrazia dal modo adottato dai meno privilegiati (così come suggeriscono anche gli studi di psicologia sociale [cfr. Jost & Hunyady, 2003: 145; paragrafo 4.3.2]): per i primi – i dominanti – l’ideologia meritocratica costituisce una giustificazione ex-post del privilegio acquisito, in realtà, ex-ante, facendo anche da base per un tipo di riproduzione del privilegio che poggia sull’adesione dòxica alla definizione di ‘merito’, attorno alla quale è venuto a crearsi un tipo di conformismo logico, prima ancora che morale, condiviso in tutti i livelli della gerarchia; per i secondi – i dominati – l’ideologia meritocratica si configura come il presupposto che fonda la possibilità (illusio) della mobilità ascendente75. Poiché, come abbiamo detto, attorno alla categoria del ‘merito’ è venuto a crearsi una sorta di conformismo logico, di fatto la pulviscolare e sfocata distinzione tra ‘meritevole’ e ‘immeritevole’ filtra tra le maglie della cognizione, finendo per diventare un assunto prerazionale, e che si iscrive, perciò, in principi di disposizione che vanno al di là delle singole tipologie di habitus che vengono a formarsi in relazione alle determinate posizioni nei vari campi: la categoria del ‘merito’, in altre parole, si inscrive egualmente nelle cose e nelle coscienze, in modo trasversale sulla linea gerarchica; le disposizioni che ne scaturiscono, ovviamente, sono differenti e si manifestano in modo diverso, a livello fenomenologico, nella relazione con gli ambienti e nelle varie formulazioni dei pensieri razionali. Tuttavia, nonostante la funzione di queste disposizioni vari, l’assunzione della categoria del ‘merito’ – e, dunque, del valore della meritocrazia – è invariante e immanente (anche se non trascendente).
75 Ci tengo a precisare che parlare delle funzioni della meritocrazia non equivale a parlare di legittimazione o di uso strumentale. Nelle relazioni che sto descrivendo non entrano le dimensioni
dell’intenzionalità o della razionalità. Sono, piuttosto, delle condizioni strutturali che determinano, nella loro relazione dòxica col sistema delle cognizioni, certe disposizioni che funzionano proprio come sono predisposte a funzionare dal fatto che derivano la loro funzione dall’ortodossia con il mondo. Si noti anche come parlare di funzione, in questo senso, non equivale a sposare un punto di vista
funzionalista. Anzi, al contrario, il rapporto eziologico di causa-effetto viene trasceso; parlare delle
funzioni della meritocrazia nel senso di ‘dominio simbolico’ significa, perciò, sposare un punto di vista quasi-descrittivo, quasi-antropologico o etologico.
139 In questo senso, l’ideologia meritocratica si riferisce a un tipo di dominio simbolico: plasmando le coscienze e venendo da loro riplasmata a sua volta, diviene un dato-per- scontato sul quale risulta difficile riflettere e proporre verbalizzazioni che si discostino dal suo dominio simbolico (poiché la struttura del linguaggio, per funzionare, ha bisogno dei simboli che gli sono stati messi a disposizione dalla socializzazione [cfr. Foucault, 1966]; e se i veicoli di socializzazione trasmettono un numero molto elevato di messaggi altamente positivi a proposito del valore della meritocrazia, allora i simboli a disposizione delle persone sono strutturalmente conformi a questo valore, e lo rispecchiano). Come abbiamo visto, infatti, la sfera politica e quella scolastica fanno un grande uso, oggi, della retorica sulla meritocrazia: per questo motivo, se si pone come vera la convergenza dei modelli di Stato occidentali verso un tipo di democrazia
meritocentrica76, allora la difficoltà esternata da Bourdieu in “Sullo Stato” (2013: 13– 18) e in “Ragioni Pratiche” (1994: 89) in relazione al pensare un oggetto – lo Stato, appunto – da cui siamo pensati, risulta egualmente applicabile all’ideologia meritocratica, poiché incorporata nello Stato moderno. La pervasività del dominio simbolico dell’ideologia meritocratica proviene dal fatto che la meritocrazia si sia iscritta nell’ordine dei principi organizzatori dei mondi scolastico e lavorativo, dai quali viene prodotta e riprodotta – poiché gli agenti socializzati nel dominio simbolico della meritocrazia tendono a riprodurre, attraverso le loro disposizioni incorporate, quelle stesse strutture simboliche che hanno formato e informato le loro cognizioni. La categoria del ‘merito’ diviene un’astrazione non problematizzata poiché difficilmente problematizzabile, in quanto si inserisce tra i principi logici su cui poggiano i principi valoriali che fondano il senso comune e, dunque, il senso pratico che ne discende. Se lo Stato bourdieusiano è “quasi impensabile”77 (Bourdieu, 2013: 13) poiché “Affrontare una riflessione sullo Stato significa (…) applicare allo Stato
categorie di pensiero che lo Stato produce e garantisce” (Bouedieu, 1994: 89), allora
l’ideologia meritocratica, incorporata nella forma dello Stato-meritocratico odierno, è
76 Come suggerito, tra gli altri, da Galtung, (1990). Si ricordi anche Bell (1972: 30): “The post- industrial society, in its logic, is a meritocracy.”
77 La difficoltà di pensare lo Stato – e, dunque, di parlarne – è così descritta da Bourdieu (2013: 18):
“Una delle difficoltà che incontro quando si tratta di comprendere ciò che viene chiamato Stato consiste
nel fatto che sono obbligato a dire qualcosa che va contro il metalinguaggio usando il vecchio linguaggio e a continuare provvisoriamente a usare il vecchio linguaggio al fine di distruggere ciò che esso veicola.”
140
STATO “MERITOCENTRICO”
egualmente “quasi impensabile”. La Stato, non a caso, nella visione di Bourdieu, è ciò che “fonda l’integrazione logica e morale del mondo” (Bourdieu, 2013: 15); in questo modo, si possono spiegare anche il conformismo logico e il conformismo morale venuti a crearsi attorno alla nozione di ‘merito’. Lo Stato-meritocratico, nella mia visione, diviene quel “punto geometrico di tutte le prospettive” (ibidem: 116) dal quale si parte per giudicare il valore morale degli atti e delle pratiche, stabilito a seconda della loro distanza da quel centro. Il ‘merito’ – astratto da ogni sua formulazione concreta che potrebbe smascherarne l’arbitrarietà, e sussunto nello spazio teologico dello Stato – diviene una categoria cognitiva fondamentale per dare forma a quei principi di visione e di divisione inscritti negli habitus, così come nel mondo delle cose.
Per portare un esempio di come la logica meritocratica di Stato (e la forma simbolica di violenza che si inscrive nella relazione tra lo Stato e gli agenti con cui si relaziona) possa influire concretamente e drammaticamente sulla vita delle persone, basti pensare che i tagli nei confronti dello stato sociale sono stati, molto spesso, giustificati anche attraverso le retoriche del parassitismo e della condizione meritoria del diritto all’assistenza (o “less eligibility”) (cfr. Beckett & Western, 2001; Sparks, 1996); lo vedremo meglio nel paragrafo 6.3 a proposito della transizione verso una tipologia di Stato penale (Wacquant, 1999, 2000, 2006). Per avere un quadro riassuntivo della proposta formulata in questo paragrafo, ci si può riferire alla figura che segue.
Livello fenomenologico Livello strutturale (omologia; habitus)
Livello simbolico meritocratica Ideologia
Nelle coscienze Speranza nella mobilità ascendente Giustificazione del privilegio dei privilegiati Nelle cose Meritocrazia scolastica e organizzativa; prodotti culturali Relazione dòxica V io le n za s im b o lica Vio le n za si m b o lica
141
5.3. Le nozioni di capitale sociale e di capitale culturale: le forme nascoste