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La tutela della professionalità del lavoratore subordinato nel nuovo art. 2103 c.c.

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale a Ciclo Unico in

Giurisprudenza

Tesi di Laurea

La tutela della professionalità del lavoratore

subordinato nel nuovo art. 2103 c.c.

Relatore

Chiar.mo Professor

Pasqualino Albi

Candidato

Alessia Matteoni

A.A. 2017 / 2018

(2)

INDICE

Introduzione

... 5

CAPITOLO PRIMO

LE MANSIONI DEL LAVORATORE: INQUADRAMENTO

E JUS VARIANDI

1.1 L’oggetto del contratto di lavoro subordinato: le mansioni

... 11

1.2 (Segue): Qualifiche e categorie. Le categorie legali.. ... 13

1.3 L’inquadramento professionale del lavoratore ... 18

1.3.1 Autonomia collettiva, obbligo di buona fede, principio di

parità di trattamento ... 22

1.3.2 Il diritto alla qualifica ... 25

1.4 Art 2103 c.c. e jus variandi: la disciplina statutaria... 26

1.5 (Segue): L’art 3 del d.lgs. 15 Giugno 2015, n.81 ... …… 31

1.6 L’efficacia temporale del nuovo art 2103 c.c ... 35

CAPITOLO SECONDO

LA MOBILITA’ ORIZZONTALE

2.1 L’individuazione delle mansioni di assunzione... ... 38

2.2 Il vecchio testo dell’art 2103 c.c e il limite

dell’equivalenza.... ... 41

(3)

2.4 Il nuovo testo dell’art 2103 c.c: il livello di inquadramento

e la categoria legale ... …… 50

2.5 Il ruolo della contrattazione collettiva ... …… 55

2.6 L’obbligo di formazione.…. ... …… 60

2.7 La garanzia retributiva ... …… 65

2.8 Obbligo di repêchage e mansioni “equivalenti” ... …… 68

CAPITOLO TERZO

L’ADIBIZIONE DEL LAVORATORE A MANSIONI

INFERIORI

3.1 La disciplina previgente: la nullità dei patti contrari……. 71

3.2 Le eccezioni legali all’art 2103 c.c ... ……74

3.3 Le deroghe giurisprudenziali ... …… 76

3.4 L’art 8 della l. n. 148/2011 ... …… 78

3.5 Il nuovo testo dell’art 2103 c.c. e lo jus variandi in pejus

unilaterale……… . 80

3.6 Le ulteriori ipotesi di demansionamento per previsione del

contratto collettivo……….. ... …… 87

3.7 I patti individuali di deroga nelle sedi protette…………... 90

3.8 Cosa resta dell’inderogabilità dell’art. 2103 c.c………….95

3.9 Repêchage e mansioni inferiori……….. 97

(4)

CAPITOLO QUARTO

L’ADIBIZIONE A MANSIONI SUPERIORI

4.1 La sostanziale continuità con la disciplina previgente… . 105

4.2 La promozione automatica ... …… 109

4.2.1 Il periodo di svolgimento delle mansioni superiori…….. 113

4.2.2 La sostituzione di altro lavoratore “in servizio”……. ... 117

4.2.3 La volontà contraria del lavoratore……… ... …… 122

4.3 Il trattamento economico… ... …… 125

4.4. La qualifica convenzionale……… 126

CAPITOLO QUINTO

LE FORME DI TUTELA DEL LAVORATORE CONTRO IL

MUTAMENTO ILLEGITTIMO DI MANSIONI

5.1 La qualificazione giuridica del demansionamento….…… 129

5.2 L’autotutela individuale ... …… 137

5.3 L’azione cautelare….. ... …… 141

5.4 L’azione di nullità degli atti e patti contrari alla disciplina

legale……… ... …… 143

5.5 L’azione di condanna ... ….. . 145

5.5.1(Segue): L’incoercibilità della tutela ripristinatoria.. …… 148

5.6 La tutela risarcitoria…. ... …. .. 151

5.6.1 Le tipologie di danni risarcibili…. ... …… 153

5.6.2 La prova e la liquidazione del danno ... …… 156

5.7 L’onere della prova della legittimità o illegittimità del

mutamento di mansioni……. ... …… 161

(5)

Considerazioni conclusive

……….. 164

(6)

Introduzione

Con il presente elaborato si intende analizzare la disciplina del mutamento di mansioni come riscritta dall’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015 ponendosi come obiettivo quello di indagare come nell’ambito del nuovo art. 2103 c.c. venga realizzata la tutela della professionalità del lavoratore.

La tutela della professionalità ha fatto il suo ingresso nel rapporto di lavoro con l’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori, il quale era stato scritto per porre rimedio all’ineffettività che presentava l’originaria formulazione dell’art. 2103 c.c. dalla quale il prestatore di lavoro riceveva una tutela debolissima.

La norma, in realtà, non faceva alcun riferimento alla professionalità, ma che quella fosse la sua ratio politico-giuridica lo si è desunto, oltre che dalla collocazione dell’art. 13 nel Titolo I dello Statuto dei lavoratori, rubricato “Della libertà e dignità del lavoratore”, anche dalla rigida delimitazione dello jus variandi alle sole mansioni equivalenti o superiori1.

L’art. 2103 c.c. così modificato è rimasto in vigore per quarantacinque anni, fino a quando il legislatore del 2015 con l’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015 ha completamente riscritto la disciplina delle mansioni, abrogando l’art. 13 St. Lav. e riportando l’art. 2103 c.c. nell’unico contenitore del libro V del Codice Civile.

Il d.lgs. n. 81/2015 ha così consegnato al nostro ordinamento una norma che ad una prima lettura si pone in netto contrasto con la precedente formulazione e che prima facie sembra operare un “ampliamento delle prerogative manageriali a detrimento [proprio] della tutela della professionalità”2.

Al fine di meglio comprendere la portata della novella, si procederà prima con l’analisi di quella che è stata l’evoluzione interpretativa, giurisprudenziale e dottrinale del “vecchio” art. 2103 c.c. nel suo quasi mezzo secolo di vigenza, poi si opererà un raffronto con la nuova disciplina legale.

1 Rigidità determinata dalla nullità dei patti contrari di cui al secondo comma, che sanciva

l’inderogabilità della disciplina.

2V.SPEZIALE, Le politiche del lavoro del Governo Renzi: il Jobs Act e la riforma dei

contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro in Working Papers C.S.D.L.E. “Massimo

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Il tutto tenendo ben presenti i cambiamenti che hanno caratterizzato il mondo del lavoro in tutti questi anni.

In particolare nel primo capitolo verranno fornite alcune nozioni introduttive utili ai fini dello studio della materia.

Vedremo come la prestazione di lavoro viene dedotta nel contratto facendo riferimento a tre nomina: mansioni, qualifiche e categorie.

Dopo averne fornito una descrizione, si dirà come mansioni, qualifiche e categorie siano funzionali all’inquadramento del lavoratore nel sistema di classificazione professionale e quindi all’individuazione del trattamento normativo ed economico spettante a ciascun prestatore.

Si darà conto di come a partire dagli anni ’70 la contrattazione collettiva abbia adottato un sistema di classificazione non più fondato sulla separazione tra impiegati e operai (articolando ciascuna categoria nelle diverse qualifiche) ma su di un inquadramento c.d. unico: oggi i contratti collettivi prevedono un’unica scala classificatoria, suddivisa in categorie contrattuali o livelli di inquadramento che raggruppano per profili omogenei le diverse attività lavorative (quindi sia mansioni impiegatizie che operaie) prestate nelle organizzazioni produttive.

Una volta individuato l’oggetto dell’obbligazione del lavoratore subordinato, si darà una definizione di jus variandi quale potere eccezionale del datore di modificare unilateralmente la prestazione lavorativa, e si dirà come proprio per questo suo carattere di eccezionalità, seppur con tecniche diverse, sia stato sempre circondato da limiti.

Così dopo aver analizzato brevemente la disciplina del mutamento di mansioni contenuta nella versione originaria dell’art. 2103 c.c. si introdurranno la disciplina statutaria e la nuova disciplina come riscritta da ultimo dall’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015 dedicando l’ultimo paragrafo del primo capitolo al problema dell’individuazione dei confini dell’efficacia temporale del nuovo art. 2103 c.c. I successivi tre capitoli saranno invece dedicati ad un’analisi più approfondita della mobilità orizzontale, della mobilità verso il basso e della mobilità verticale verso l’alto come disciplinate dall’art. 13, l. n. 300/1970 e dal “nuovo” art. 2103 c.c.

(8)

Nel secondo capitolo vedremo come la nozione di equivalenza professionale abbia subìto negli anni un’evoluzione. Dalla trattazione emergerà infatti come la professionalità sia un concetto “fluido e indeterminato” che soggiace alle mutevoli dinamiche del contesto economico e sociale, delle regole organizzative nonché alla continua evoluzione tecnologica.

Vedremo come la nozione di professionalità intesa in senso statico, quale tutela del bagaglio di conoscenze e competenze acquisite dal lavoratore nella fase pregressa del rapporto, maturata all’indomani dell’entrata in vigore della norma, abbia mostrato i suoi limiti con l’avvento della crisi economica e delle trasformazioni organizzative che hanno interessato il nostro Paese e le imprese agli inizi degli anni Ottanta.

La rigida interpretazione del concetto di equivalenza mal si coniugava con le nuove esigenze produttive e organizzative: non solo perché riduceva le possibilità per il datore di una gestione flessibile della forza lavoro, ma anche perché penalizzava lo stesso interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.

Daremo così conto delle vie intraprese dalla dottrina al fine di adeguare la tutela della professionalità alla nuova realtà e di come la giurisprudenza abbia invece “faticato” ad approdare ad una tutela dinamica della stessa, preferendo immettere spazi di flessibilità nel rapporto di lavoro allargando le maglie della nullità dei patti contrari di cui al “vecchio” comma 2.

Solo in tempi più recenti, a fronte dei continui processi di trasformazione e ristrutturazione dell’attività produttiva e dell’organizzazione del lavoro arriverà a riconoscere una tutela del patrimonio professionale del lavoratore in una prospettiva dinamica, senza mai però abbandonare del tutto quell’interpretazione rigida dell’equivalenza professionale, generando non

poche incertezze nell’esercizio di uno strumento gestionale di vitale importanza per le imprese quale lo jus variandi.

E’ in questo contesto che interviene il legislatore del 2015 espungendo dall’art. 2103 c.c. il limite dell’equivalenza e sostituendolo con quello del “livello di inquadramento” e della “categoria legale”.

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un cambio di protagonista: dal giudice alle parti collettive; vedremo come in questo modo il legislatore in un’ottica di semplificazione devolve interamente alla contrattazione collettiva il compito di individuare i confini della prestazione esigibile e quindi il “quantum” di professionalità da tutelare. Nel terzo capitolo affronteremo il tema della mobilità verso il basso.

Vedremo come fulcro della disposizione statutaria era il divieto dei patti contrari di cui al comma 2 che sanciva l’inderogabilità della disciplina a tutela della dignità professionale del lavoratore: si stabiliva così il divieto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori e secondo l’orientamento prevalente sia mediante patti individuali che attraverso accordi collettivi.

Tuttavia anche in questo caso potremo constatare come dopo una prima “rigida” interpretazione del divieto avesse preso presto campo una lettura più “flessibile”.

Come si è anticipato la giurisprudenza ha a lungo preferito immettere spazi di flessibilità nel rapporto forzando proprio il divieto di cui al vecchio secondo comma: vedremo come si era così riconosciuto alle parti del rapporto il potere di concordare una modificazione in pejus delle mansioni prima solo in caso di sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore allo svolgimento delle precedenti mansioni, poi allo scopo di evitare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (per ragioni inerenti al datore) , e infine anche in presenza di una mera richiesta del lavoratore.

Ma non solo, da ultimo, in nome delle esigenze di flessibilità determinate da un lato dalla costante evoluzione tecnologica, e dall’altro da una domanda di prodotti e servizi in continuo mutamento, con l’art. 8, l. 148/2011 si sono autorizzati anche i contratti collettivi cc.dd. di prossimità a derogare anche in pejus la stessa disciplina delle mansioni.

Vedremo come proprio tali interpretazioni giurisprudenziali e tendenze della contrattazione collettiva rappresentano l’eredità raccolta dal legislatore del 2015, che introduce per la prima volta tre diverse ipotesi di deroga espressa al divieto dei patti contrari, che nella nuova formulazione viene ribadito al comma 9 della norma.

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demansionamento per effetto del potere unilaterale del datore in presenza di “determinate” ragioni organizzative; il comma 4 che attribuisce all’autonomia collettiva la facoltà di prevedere ulteriori ipotesi di adibizione a mansioni inferiori ed infine il comma 6 che prevede la possibilità per le parti di stipulare accordi individuali in deroga, in presenza di un interesse qualificato del lavoratore.

Il quarto capitolo, invece, sarà dedicato al tema della mobilità verticale, verso l’alto. Qui metteremo in evidenza una sostanziale continuità tra la vecchia e la nuova disciplina. In particolare vedremo come i pochi interventi del legislatore si sono mossi nel senso di soddisfare le esigenze di flessibilità del datore; vedremo come sia stato raddoppiato il termine legale decorso il quale scatta per il lavoratore il diritto alla promozione (da tre a sei mesi) e come anche in questo caso si sia affidato però un ruolo centrale alla contrattazione collettiva: se prima tale termine costituiva un tetto massimo cui la contrattazione poteva derogare solo in melius, adesso è lo stesso ad operare in via sussidiaria rispetto al termine convenzionale.

Osserveremo poi come il legislatore (recependo l’orientamento giurisprudenziale formatosi già sotto la vigenza del “vecchio” art. 2103 c.c.) abbia dato rilevanza alla volontà del lavoratore, stabilendo come lo stesso possa impedire il perfezionamento della promozione automatica manifestando la propria volontà contraria.

Infine l’ultimo capitolo sarà dedicato all’analisi delle tecniche di tutela offerte dall’ordinamento al lavoratore in caso di mutamento illegittimo delle mansioni da parte del datore.

Metteremo in evidenza come se da una parte, in virtù del coinvolgimento della persona-lavoratore nell’esecuzione della prestazione di lavoro, l’ordinamento tende a prediligere strumenti di tutela preventiva o inibitoria, in realtà nella prassi giurisprudenziale si sia fortemente limitato il ricorso alla stessa autotutela del lavoratore, ormai subordinata ad un preventivo avvallo giudiziario.

In presenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora il lavoratore può invece ottenere un provvedimento di urgenza a tutela di beni

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fondamentali quali la professionalità, l’immagine, la dignità e la stessa integrità psico-fisica.

Passando all’analisi delle tecniche di tutela c.d. successiva, descriveremo l’azione di nullità per poi mostrare i limiti della c.d. tutela reintegratoria, sottolineando come spesso l’unica forma di tutela in concreto esperibile dal lavoratore sia la tutela risarcitoria. Concluderemo così il capitolo con un’analisi dei danni risarcibili facendo riferimento ai principali interventi della Suprema Corte in materia.

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CAPITOLO PRIMO

LE MANSIONI DEL LAVORATORE:

INQUADRAMENTO E JUS VARIANDI

SOMMARIO:

1.1 L’oggetto del contratto di lavoro subordinato: le mansioni – (Segue): 1.2 Qualifiche e categorie. Le categorie legali – 1.3 L’inquadramento professionale del lavoratore – 1.3.1 Autonomia collettiva, obbligo di buona fede, principio di parità di trattamento - 1.3.2 Il diritto alla qualifica - 1.4 Art 2103 c.c. e jus variandi: la disciplina statutaria – 1.5 (Segue): L’art 3 del d. lgs. 15 giugno 2015, n.81– 1.6 L’efficacia temporale del nuovo art 2103 c.c.

1.1 L’oggetto del contratto di lavoro subordinato: le

mansioni

Nella sistematica del codice civile è assente una definizione di contratto di lavoro subordinato; tuttavia tale definizione si può ricavare in via interpretativa dall’art 2094 c.c. che qualifica come prestatore di lavoro subordinato “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

Dalla disposizione emerge come il rapporto di lavoro subordinato trovi la sua fonte nel contratto che si caratterizza per essere un accordo a prestazioni corrispettive, avente ad oggetto da un lato l’obbligazione del datore di corrispondere la retribuzione (che ex art 36 Cost deve essere “ proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare al

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lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”), e dall’altro l’obbligazione del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa.

Punto di partenza di questo elaborato è l’individuazione dell’oggetto dell’obbligazione del lavoratore subordinato, ovvero le mansioni, disciplinate dall’art 2103 c.c che, come vedremo, costituisce il cuore pulsante della tutela della professionalità.

Secondo autorevole dottrina, le mansioni costituiscono il principale “criterio di determinazione qualitativa” della prestazione di lavoro3 in quanto identificano il “valore” dell’attività concretamente esigibile4, e tramite esse viene delimitata “gran parte dell’area del debito del lavoratore nei confronti del datore di lavoro”5.

Tale termine viene utilizzato, oltre che nel linguaggio giuridico, anche dalla scienza dell’organizzazione e dalla sociologia del lavoro, assumendo in quei contesti significati che, pur non immediatamente sussumibili nell’esperienza giuridica, possono tuttavia essere utilizzati in funzione ermeneutica come concetti descriventi il reale6. In questo senso la “mansione” è considerata l’”unità elementare di un facere”7, la quale, combinata in modo tendenzialmente stabile con una serie di ulteriori attività o operazioni, concorre alla formazione di un insieme tipico e perciò unitario di compiti che vengono così a formare un determinato tipo di attività lavorativa o “modello di prestazione”.

Con il termine “mansioni”, dunque, si indica il tipo di attività, le operazioni e i compiti che, per un verso, il lavoratore/debitore è tenuto ad eseguire nell’organizzazione produttiva nella quale si trova inserito e che, per altro verso, il datore/creditore può legittimamente esigere8.

3 F.LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Milano, 1982, p. 9. 4 Così M. BROLLO in Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi. Mansioni, qualifiche, jus variandi, in Trattato di Diritto del Lavoro diretto da Mattia Persiani

e Franco Carinci, Cedam, 2012, volume IV, tomo I, p. 513.

5C.PISANI, L’oggetto ed il luogo della prestazione, in A. VALLEBONA (a cura di), I

contratti di lavoro, Torino, 2009, tomo I, p. 417.

6 C.PISANI, op. cit., pp. 417 ss.

7 G. GIUGNI, Mansioni e qualifica, in Enc. Dir., XXV, Milano, 1975 consultabile su

www.iusexplorer.it.

8 Volendo fare un esempio concreto, le mansioni di una segretaria consisteranno nel

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Anche in materia di contratto di lavoro vige la regola generale per cui ex art 1346 c.c. l’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile, pena la nullità del contratto stesso (art 1418 c.c.). Le parti, quindi, all’atto della stipula del contratto di lavoro sono tenute ad individuare la prestazione che il lavoratore svolgerà in favore del datore di lavoro.

In tal senso, l’art 96 disp. att. c.c.9 dispone al primo comma che “l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate, in relazione alle mansioni per cui è stato assunto10”.

1.2 (Segue): Qualifiche e categorie. Le categorie legali

Unitamente alla specificazione delle mansioni, come emerge dalla disposizione sopracitata, nel contratto, o meglio nella lettera di assunzione, al lavoratore devono essere indicate anche la qualifica e la categoria attribuitegli.

Con il termine “qualifica” ci si riferisce ad una sorta di sintesi riassuntiva dell’insieme delle mansioni affidate al lavoratore, ovvero ad una modalità di descrizione delle mansioni convenute nel contratto con riferimento ad una figura di prestatore tipo (ad esempio, impiegato addetto alla segreteria, operaio specializzato).

In tal senso si è parlato della qualifica anche come “variante semantica dell’attività convenuta”11.

In realtà la qualifica del lavoratore si presta ad essere letta secondo due diverse accezioni: in senso oggettivo, come complesso di capacità ed abilità (id est

9 Da leggersi in combinato disposto con l’art 1, comma 1, lett f, del d. lgs. 152 del 26

Maggio 1997 ( emanato in attuazione della direttiva 91/533/CEE relativa all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro) che stabilisce che “il datore di lavoro, pubblico o privato è tenuto a fornire al lavoratore, entro 30 giorni dalla data dell’assunzione le seguenti informazioni: […] lett f) l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti al lavoratore, oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro”.

10 La tematica delle mansioni di assunzione sarà approfondita nel capitolo II.

11 G. GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli, 1963, pp. 7

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professionalità) effettivamente esercitate dal lavoratore o comunque potenzialmente esercitabili12 con riferimento all’attività dedotta nel contratto, e in senso soggettivo, come una qualità del lavoratore13, quindi come insieme di cognizioni, esperienze e attitudini del lavoratore , che in qualche modo preesistono alla costituzione del rapporto.

Tale concetto di qualifica rimane generalmente sullo sfondo nel rapporto di lavoro, in quanto si ritiene che possa portare ad un’eccessiva estensione dell’area del debito del prestatore, rilevando per lo più nei casi in cui emergano incertezze interpretative ai fini dell’inquadramento professionale.

Con il termine “categoria” si indica, invece, una sorta di macro-area, volta a ricomprendere al suo interno i due precedenti sotto-insiemi (mansioni e qualifiche).

In particolare, nel rapporto di lavoro, quando si parla di “categoria” ci si riferisce in primis ai raggruppamenti in cui l’art 2095 c.c ripartisce i vari prestatori di lavoro, individuandoli come destinatari di particolari e differenziate normative di legge14.

Tuttavia l’art 2095 c.c., al primo comma, si limita ad enucleare le categorie legali dei dirigenti, quadri, impiegati e operai, operando poi al secondo comma un rinvio alle leggi speciali e/o alla contrattazione collettiva affinché queste provvedano a fissare “in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa” i requisiti di appartenenza alle medesime categorie.

Per quanto riguarda gli impiegati, destinatari di una specifica disciplina legislativa sin dal 1924, con la c.d. “legge sull’impiego privato” (emanata con r.d.l. 13 novembre 1924, n.1825, conv. in l. 18 marzo 1926, n.562 e ancora invocabile ai sensi dell’art. 98 disp. att. c.c), questi vengono definiti all’art 1 come coloro che svolgono, normalmente a tempo indeterminato, “attività

12M.BROLLO, Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi. Mansioni,

qualifiche, jus variandi, in Trattato di Diritto del Lavoro diretto da Mattia Persiani e Franco Carinci, Cedam, 2012, volume IV, tomo I, p. 515.

13 F. LISO, Categorie e qualifiche del lavoratore, in Enc. giur. Treccani, vol.VI, Roma,

1988, p. 17.

14 Con tale termine ci si riferisce talvolta anche alle categorie contrattuali che, come

vedremo più avanti, sono le categorie individuate dall’autonomia collettiva e che rilevano ai fini dell’applicazione delle regole create dalla stessa.

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professionale con funzioni di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, eccettuata, pertanto, ogni prestazione di carattere manuale”. Gli elementi caratterizzanti la prestazione dell’impiegato vengono quindi individuati dalla legge nella collaborazione, nella professionalità e nella non manualità.

La definizione di operaio, invece, non è rinvenibile nella legge, ma la si ritrova nei contratti collettivi, ove tradizionalmente è stata costruita in modo speculare a quella di impiegato, facendo perno sul carattere prevalentemente manuale della prestazione.

Si era così soliti definire operaio il prestatore che svolgeva attività prevalentemente manuale, e impiegato il lavoratore che svolgeva attività prevalentemente intellettuale.

Tale distinguo è stato portato avanti anche dalla giurisprudenza fino a metà degli anni Cinquanta, venendo progressivamente ad affievolirsi in ragione del progresso tecnologico che ha ampliato i contenuti “intellettuali” del lavoro manuale e della conseguente evoluzione dei rapporti gerarchici in azienda: così volendo trovare un criterio maggiormente adeguato alla nuova organizzazione del lavoro, si è cominciato a far leva sull’elemento della collaborazione “specifica” del lavoratore con l’imprenditore, che avrebbe caratterizzato in misura maggiore le mansioni di tipo impiegatizio, e in misura minore quelle di tipo operaio. In questa logica, era stata largamente accolta la nozione elaborata dalla dottrina15 in base alla quale l’impiegato collaborava direttamente con il datore di lavoro alla gestione dell’impresa, mentre gli operai collaboravano nell’ impresa, essendo impiegati nella produzione.

Tuttavia, a fronte delle profonde modificazioni dei processi produttivi che hanno reso sempre più sfumati i confini tra impiegati e operai, nonché dell’avvicinamento dei trattamenti normativi delle due categorie in sede di contrattazione collettiva (v. infra), anche tale definizione ha presto rivelato i suoi limiti.

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Ma se da una parte si è parlato di una “indistinguibilità sostanziale fra impiegati e operai” 16, dall’altra c’è stato chi ha affermato come , in realtà, “quello della maggiore approssimazione all’uno o all’altro prototipo, è un criterio che – nonostante le critiche ad esso rivolte da ogni parte – ancor oggi può applicarsi agevolmente, e con esiti soddisfacenti, nella maggior parte dei casi” essendo “ancora possibile distinguere le mansioni di ufficio, consistenti nella registrazione, elaborazione e/o trasmissione di informazioni, dalle mansioni consistenti nella diretta trasformazione della realtà materiale, con le nude mani o con manovra (…) di macchine e strumenti”17 .

Sicuramente in quella che è ormai una realtà economica in continua trasformazione, ogni differenziazione ontologicamente precostituita appare inadeguata, dovendosi lasciare il campo alle classificazioni professionali operate dai contratti collettivi18.

Per quanto riguarda la categoria dei quadri, questa fa ingresso nell’ordinamento, e quindi nell’art 2095 c.c., con la l.13 maggio 1985, n.190. Tale intervento si proponeva di risolvere una questione “politica”, accogliendo le rivendicazioni autonomiste delle fasce più elevate del personale impiegatizio che, investite di significative responsabilità gestionali, si ritenevano penalizzate dalle politiche di egualitarismo retributivo seguite dai sindacati negli anni settanta.

L’art 2, comma 1 della l. 190/1985 definisce quadri i lavoratori subordinati che “pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi d’impresa”, precisando poi al secondo comma che i requisiti di appartenenza a tale categoria “sono stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale o aziendale in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell’impresa”.

16 P. SANDULLI, Impiego privato, in Enc.dir, XX, Milano, 1970 consultabile su

www.iusexplorer.it.

17 P. ICHINO, Il contratto di lavoro, in Trattato di dir. civ. e comm., vol. XXVII, t. 2, 1, Milano, 2000, p. 627 ss.

18 M.N. BETTINI, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli,

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Tuttavia, la genericità della definizione legislativa, nonché la mancata delineazione di uno speciale statuto giuridico di tali lavoratori, hanno fatto sì che il riconoscimento normativo di tale figura abbia assunto un carattere prettamente simbolico, rilevando per lo più ai fini dell’attribuzione di una maggiorazione retributiva (e talvolta al riconoscimento di assicurazioni integrative contro specifici rischi19).

Solitamente i contratti collettivi collegano il riconoscimento dell’appartenenza alla categoria dei quadri allo svolgimento continuativo, da parte di personale impiegatizio che non si collochi nella categoria dirigenziale, di funzioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi aziendali; all’autonoma responsabilità gestionale dell’insieme delle funzioni demandate al lavoratore; nonché alla capacità di attivare e gestire rapporti di considerevole rilievo con i terzi20. Anche se dobbiamo sottolineare come

l’esperienza applicativa abbia evidenziato una tendenza di fondo della contrattazione collettiva volta al contenimento della categoria in esame.

La quarta ed ultima categoria contemplata dall’art 2095 c.c. è quella dei dirigenti. Il r.d. 1 luglio 1926, n. 1130 (Norme per l’attuazione della legge 3 aprile 1926, n. 563 sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro) contiene la prima (ed unica) definizione legislativa della categoria dei dirigenti come categoria a sé stante: l’art 6, richiamando l’elenco degli impiegati con funzioni direttive contenuto nel r.d.l. n. 1825/1924 (“i direttori tecnici ed amministrativi e gli altri capi di ufficio, di servizi con funzioni analoghe, gli institori in generale e gli impiegati muniti di procura”), imponeva agli stessi l’obbligo di iscrizione ad associazioni sindacali a sé stanti rispetto a quelle degli altri lavoratori dipendenti (che poi in base all’art 34 del medesimo testo normativo avrebbero dovuto confluire nelle federazioni delle associazioni dei datori di lavoro). La categoria dei dirigenti veniva così ad essere configurata come una categoria autonoma e distinta rispetto a quella degli impiegati e degli

19 L’art 5, l. n. 190/85 pone a carico del datore di lavoro un obbligo assicurativo contro il rischio di responsabilità civile verso terzi del lavoratore conseguente a colpa nello svolgimento delle mansioni.

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operai. E tutt’oggi le rappresentanze sindacali autonome continuano a stipulare contratti collettivi separati da quelli degli altri prestatori di lavoro.

L’art 2095 c.c., come per le altre figure, non contiene una definizione di dirigente; così è stata la giurisprudenza a costruire la nozione di dirigente quale alter ego del datore di lavoro, ponendo l’accento sulla sua posizione di preminenza nei confronti degli altri lavoratori e sull’esercizio delle proprie funzioni con ampiezza e discrezionalità di poteri, essendo sottoposto esclusivamente alle direttive generali del datore di lavoro.

In questa direzione, anche la contrattazione collettiva ha portato avanti per un lungo periodo le cc.dd. clausole di riconoscimento formale, rimettendo al solo datore il potere di collocare il singolo lavoratore nell’ambito della categoria dirigenziale, ed escludendo così il potere giudiziale da un’eventuale qualificazione in base alle mansioni effettivamente svolte.

Tuttavia, con la declaratoria di illegittimità di tali clausole, e il configurarsi di una nuova realtà socio-economica, la stessa giurisprudenza ha sottolineato come si stia assistendo ad una “disgregazione” della figura dirigenziale, non essendo più questa unicamente riconducibile a quell’ampiezza di poteri avvalorata dalla definizione di dirigente quale alter ego del datore di lavoro (si pensi, ad esempio, alla figura del dirigente-ricercatore).

La peculiarità di tale categoria si riflette anche nell’ambito della normativa applicabile; nei confronti dei dirigenti infatti trova applicazione lo statuto del lavoratore subordinato ma con importanti eccezioni: in particolare questi sono esclusi dall’applicazione della disciplina sull’orario di lavoro, nonché dalla tutela legale contro i licenziamenti.

1.3 L’inquadramento professionale del lavoratore

Mansioni e qualifiche, insieme alle categorie legali, come emerge dal combinato disposto degli articoli 96, comma 1 disp. att. c.c. e art 1, comma 1, lett f) d.lgs. 26 maggio 1997, n. 152, sono funzionali all’inquadramento del lavoratore nel sistema di classificazione professionale, ovvero all’individuazione del trattamento normativo ed economico spettante a ciascun

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prestatore in relazione alla qualità dell’apporto offerto dallo stesso al datore di lavoro, secondo quanto previsto dall’art 36 Cost.21

Dal momento in cui dopo l’emanazione del Codice Civile non sono state adottate altre disposizioni in tema di inquadramento e qualifiche dei lavoratori, la materia è stata rimessa sostanzialmente alla contrattazione collettiva che ha così provveduto a fissare i criteri di inquadramento all’interno delle medesime categorie22.

Tuttavia anche le tecniche di inquadramento utilizzate dalla contrattazione collettiva hanno subito un’evoluzione analoga a quelle che sono state le trasformazioni del contesto socio-economico, conseguenti ai processi di innovazione organizzativa e tecnologica.

La normativa sindacale del 1926 (r.d. 1 luglio 1926, n. 1130), aveva previsto un inquadramento distinto per ciascuna categoria (operai e impiegati), riprendendo così la separazione già sancita dal r.d. del 1924.

La stessa summa divisio tra operai e impiegati fu portata avanti anche dalla contrattazione collettiva corporativa, senza rivisitazione alcuna dei criteri classificatori; in questo contesto, di fatto, la categoria finì per designare lo status del lavoratore, inteso quale elemento preesistente al contratto e che nel contratto si cristallizzava.

Di seguito, anche la contrattazione collettiva di diritto comune è stata permeata fino agli anni sessanta dalla logica dello status, riproponendo la rigida sequenza impiegati-operai con l’avvallo della stessa giurisprudenza che continuava a ricostruire la categoria come status professionale e non come semplice strumento di classificazione del lavoratore.

Tale sistema ormai consolidato cominciò però a entrare in crisi a causa delle trasformazioni che interessarono i sistemi produttivi nei primi anni sessanta, in quanto le nuove figure professionali e le nuove mansioni sfuggivano alle rigide strutture classificatorie fino ad allora utilizzate.

21Art 36 Cost.: ”Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e

qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. 22 M.N. BETTINI, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli,

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Così, in un primo momento si tentò di superare il vecchio sistema importando dall’esperienza delle fabbriche statunitensi la c.d. job evaluation, ovvero una tecnica di valutazione oggettiva delle mansioni e quindi di inquadramento, che consisteva nel sezionare la prestazione lavorativa in varie componenti elementari (o fattori: professionalità, responsabilità, rischio, ambiente di lavoro) assegnando a ciascuna un punteggio: la somma di tali valori analitici avrebbe poi determinato il valore globale della prestazione, permettendone l’inserimento in una scala di valori salariali prestabiliti23.

Tale tecnica però non ebbe grande successo, soprattutto a causa dell’opposizione sindacale verso una tale definizione degli inquadramenti a livello aziendale.

Tuttavia, le richieste di una rivisitazione dei sistemi qualificatori si facevano sempre più pressanti da parte della classe operaia che voleva vedersi ormai riconosciuto il proprio apporto professionale all’interno del nuovo contesto aziendale, dove la differenza tra mansioni operaie e mansioni impiegatizie si faceva sempre più sottile.

Così, tali rivendicazioni trovarono un primo sbocco in alcuni contratti aziendali, per poi portare alla definitiva affermazione, sull’onda delle politiche egualitarie propugnate dal sindacato di quegli anni, del c.d. “inquadramento unico” nella tornata contrattuale del 1973/1974. Sistema che è tuttora in atto per tutti i sistemi produttivi.

Secondo questa logica, i contratti collettivi sono soliti distinguere le varie attività lavorative prestate nelle organizzazioni produttive (qualifiche) raggruppandole per profili omogenei e ordinandole secondo la loro importanza (art. 96, comma 2 disp. att. c.c.), stabilendo così per ciascuna categoria contrattuale (o “livello di inquadramento” o “qualifica”) il corrispondente trattamento economico. Ciascuno di questi livelli normalmente contiene una sintesi delle caratteristiche comuni, in termini di requisiti professionali (abilità, conoscenze, esperienza) e quindi di complessità autonomia e importanza, delle mansioni in esso raggruppate (declaratoria). A tali caratteristiche segue poi

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un’elencazione di “profili professionali” che quasi sempre indicano le qualifiche raggruppate in ciascun livello.

A titolo esemplificativo, nel CCNL dell’industria metalmeccanica 2016-2019, il personale è inquadrato in un’unica scala classificatoria composta da otto livelli, a ciascuno dei quali corrisponde un determinato numero di posizioni organizzative (ovviamente equivalenti): nel terzo livello, ad es., vi possiamo trovare sia i profili operai di collaudatore, addetto conduzione impianti, saldatore, sia i profili impiegatizi di contabile, centralinista telefonico etc.

Il nuovo sistema ha quindi operato una sorta di “taglio” trasversale in seno alle categorie (con l’eccezione dei dirigenti), collocando nel medesimo livello di inquadramento operai ed impiegati, essendo ora la stessa categoria contrattuale ancorata al “valore” della prestazione resa dal lavoratore stesso. Non possiamo però non sottolineare come in tale sistema di inquadramento nato proprio per valorizzare la professionalità individuale di ciascun prestatore, la stessa professionalità abbia finito per rimanere schiacciata da un generale appiattimento salariale.

E nonostante tale modello abbia resistito all’onda d’urto revisionista degli anni ottanta24, l’esigenza di una rivisitazione dei sistemi di inquadramento nel segno della professionalità emerge in maniera sempre più insistente nell’ambito della nuova realtà aziendale, dove i modelli di organizzazione richiedono prestazioni caratterizzate da “maggiore adattabilità, fungibilità, responsabilità, iniziativa, cooperazione e autoregolazione dei ruoli, rispetto alla rigida divisione dei compiti , alla minuziosa prescrizione delle procedure, all’integrazione di tipo gerarchico-burocratico tipiche dei modelli organizzativi tradizionali”25; affiora dunque l’esigenza di un nuovo sistema di inquadramento che tenga conto non solo della dimensione “quantitativa” (autonomia, responsabilità) delle differenziazioni professionali, ma anche della

24 O.MAZZOTTA, Diritto del lavoro, Giuffré, Milano, 2016, p. 406.

25 Così M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e

trasferimento, in P. SCHLESINGER (diretto da), Il codice civile. Commentario, Giuffré, 1997, p. 48.

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dimensione “qualitativa” (potenzialità, competenze, capacità di adattamento)

26.

1.3.1 Autonomia collettiva, obbligo di buona fede, principio

di parità di trattamento

In materia di inquadramento, dobbiamo ricordare come, da sempre, la giurisprudenza27 abbia riconosciuto un ruolo fondamentale all’autonomia collettiva nell’individuazione delle qualifiche e nel collegamento ad esse delle mansioni espletate dal lavoratore. Tali criteri sono infatti ritenuti insindacabili da parte del giudice, la cui valutazione relativa alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore si risolve in un procedimento tipicamente sussuntivo, normalmente articolato in tre fasi: il giudice, in base all’interpretazione del contratto collettivo applicabile, procede prima all’individuazione delle categorie, qualifiche e gradi; accerta il contenuto dell’attività lavorativa svolta in concreto e infine pone a raffronto la normativa contrattuale vigente con il risultato dell’indagine relativa all’attività effettivamente espletata, al fine di ricondurre le mansioni di fatto nell’ambito della categoria, qualifica e grado tipizzati dal CCNL.28

La stessa giurisprudenza29 ha però ritenuto che anche nell’ambito del rapporto di lavoro privato la discrezionalità del datore di lavoro debba ritenersi vincolata all’osservanza dei principi di correttezza e buona fede (art. 1175 c.c. e art 1375 c.c.), facendo emergere in capo al lavoratore posizioni qualificabili alla stregua di un interesse legittimo di diritto privato: in materia di

26 M. BROLLO, op. cit., ibidem.

27 Tra le molte: Cassazione civile, sez. lav., 19 aprile 2003, n.6363 e Cassazione civile, sez. lav., 16 settembre 2009, n.19955 disponibili su www.iusexplorer.it.

28 V. Trib. Palermo, 19 gennaio 2009, n. 721 in Guida lav., 2009, n. 42, p.40.

Ai fini dell’inquadramento, rivestono dunque un ruolo essenziale le mansioni effettivamente svolte dal prestatore, mentre è irrilevante la sua professionalità soggettiva, a meno che la legge o il contratto collettivo non prevedano specifici requisiti professionali (quali ad esempio titolo di studio, licenza amministrativa, etc.).

29 Con un orientamento inaugurato sul finire degli anni settanta con la nota pronuncia

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inquadramento, e in particolar modo in materia di promozione, il datore di lavoro deve infatti utilizzare i criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva motivando le proprie scelte, di modo che queste possano essere oggetto di una eventuale verifica in sede giudiziale (verifica che in ogni caso non potrà comunque estendersi al merito delle scelte datoriali, trattandosi di una valutazione concernente la non manifesta irragionevolezza di tali comportamenti).

Tuttavia, come hanno sottolineato dottrina e giurisprudenza, il richiamo ai principi di correttezza e buona fede non è di per sé sufficiente a ritenere esistente nei negozi intersoggettivi privati di lavoro il principio di parità di trattamento.

Il dibattito in materia si era fatto particolarmente acceso a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 103 del 1989: prima di tale decisione, la giurisprudenza unanime della Corte di Cassazione era consolidata nel senso di non ritenere esistente nel nostro ordinamento un principio generale di parità di trattamento in favore del lavoratore subordinato30. Autonomia collettiva e individuale potevano quindi a parità di qualifica o di mansioni, prevedere un diverso trattamento economico per i vari lavoratori di uno stesso settore. Secondo tale orientamento, il principio di parità di trattamento non troverebbe alcun fondamento in nessuna delle fonti legislative, né di rango costituzionale, né di diritto comunitario o internazionale, né di legge ordinaria31: in particolare, l’art 36 co. 1 Cost. si limiterebbe a fissare il principio della proporzionalità e adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva, e l’art 3 co. 1 Cost. affermerebbe l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ma non nell’ambito dei rapporti privatistici quali i rapporti di lavoro di diritto privato.

Con la sentenza n. 103 del 1989 la Consulta, pur dichiarando non fondata, in riferimento all’art 41 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099, e 2103 c.c., nella parte in cui consentono all’imprenditore di attribuire ai lavoratori, a parità di mansioni , diversi livelli

30 Dobbiamo precisare che il principio della parità di trattamento è stato analizzato principalmente in relazione al profilo retributivo.

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o categorie di inquadramento retributivo, aveva però affermato come “il potere di iniziativa imprenditoriale non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento ed in specie non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”32. Le dichiarazioni della Corte costituzionale erano state così interpretate da una parte della dottrina e della giurisprudenza, in particolare della sezione lavoro della Cassazione, nel senso di un’introduzione nell’ordinamento di un principio di parità di trattamento, quale corollario del precetto di tutela della dignità della persona-lavoratore ex art. 41, co. 2 Cost33. Ma la prevalente giurisprudenza, nel ’93 a Sezioni Unite

ha recuperato la tradizionale impostazione, precisando nella sentenza n.6031 del 29 maggio34 che “né l'art. 36 della Costituzione né il successivo art. 41

che garantisce la libertà di iniziativa economica privata nei limiti posti dalla legge a tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana - possono individuarsi, pur dopo la pronunzia della sentenza interpretativa di rigetto n. 103 del 1989 della Corte Costituzionale, come precetti idonei a fondare un principio di comparazione soggettiva, in base al quale ai lavoratori dipendenti che svolgano identiche mansioni debba attribuirsi la stessa retribuzione o il medesimo inquadramento” e sottolineando come “ i principi di correttezza e di buona fede - di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. - non creano obbligazioni in capo al datore di lavoro, bensì rilevano o come modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione, laddove il datore di lavoro, nell'esplicazione del suo potere di autonomia contrattuale, agisce in piena libertà, senza alcun vincolo, neppure generico, nei confronti della generalità

32 Corte Cost., 9 marzo 1989, n.103 in Riv. It. Dir. Lav., 1989, fasc. 3, p. 389 ss con nota di G.PERA.

33 M. BROLLO, op. cit., 64.

34 Sentenza costantemente seguita in tutte le pronunce successive, disponibile su

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dei dipendenti"35. Per cui oggi deve ritenersi non operante nei rapporti di lavoro subordinato di diritto privato il principio della parità di trattamento36.

1.3.2 Il diritto alla qualifica

Stante il diritto del prestatore ad essere informato da parte del datore di lavoro in relazione al proprio inquadramento professionale, ci si è chiesti se il lavoratore abbia o meno un “diritto alla qualifica”, da intendersi come diritto a sé, distinto dagli altri diritti (essenzialmente quelli al corrispondente trattamento economico e normativo e alle correlative mansioni) e quindi autonomamente tutelabile. La dottrina risulta divisa tra coloro che affermano l’insussistenza di un tale diritto, non potendosi considerare la qualifica un bene giuridicamente protetto indipendentemente dal trattamento economico e normativo e al di fuori della tutela delle mansioni effettivamente svolte37 e quanti invece sostengono come il lavoratore abbia “uno specifico diritto all’inquadramento: un diritto di credito a sé stante, nascente dal contratto e determinato nel suo contenuto specifico dalle mansioni effettivamente svolte e/o dall’eventuale pattuizione collettiva o individuale ”38.

Dal canto suo la giurisprudenza, che tra l’altro non si è occupata della questione ex professo, ma in relazione al problema della prescrizione dei diritti, a partire dagli anni Ottanta si è espressa nel senso della configurabilità di un diritto soggettivo all’esatto inquadramento, azionabile in via autonoma (affermandone la prescrizione nel termine ordinario decennale ex art 2946 c.c.,

35 In tal senso anche Cass. Sez. Un., 17 maggio 1996, n. 4570 e Cass, 13 maggio 2004,

n. 9141, consultabili su www.iusexplorer.it.

36 Per una puntuale ricostruzione del dibattito in materia si veda M. BROLLO, La

mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e trasferimento, in P.

SCHLESINGER (a cura di) Il codice civile. Commentario, Giuffré, 1997, p. 59 ss.

37 E. GRAGNOLI, Considerazioni sul “diritto alla qualifica” in Riv. It. Dir. Lav., 1991,

I, p. 220 ss; G. GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli, 1963, pp. 205-207. O. MAZZOTTA, Diritto del lavoro, Giuffré, Milano, 2016, pp. 390-391. 38 P.ICHINO, Il contratto di lavoro, in Trattato di dir. civ. e comm., vol. XXVII, t. 2, 1,

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a fronte dell’azione per le differenze retributive soggetta al termine quinquennale ai sensi dell’art 2948 c.c.) 39, anche se non sono mancate sentenze ove la qualifica è ridotta ad un mero fatto “presupposto di specifici diritti” ovvero ad un “nome comune che designa, secondo il contesto, le mansioni, il trattamento economico normativo o entrambi”40.

1.4 Art 2103 c.c. e jus variandi: la disciplina statutaria

La materia delle “mansioni del lavoratore” rectius del “mutamento delle mansioni” trova la sua disciplina nell’art 2103 c.c., che nel corso degli anni, nell’intento del legislatore di realizzare il delicato bilanciamento tra le esigenze organizzative del datore da un lato, e la tutela del lavoratore dall’altro, ha conosciuto due importanti modifiche: nel 1970 ad opera dell’art 13 Statuto dei Lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300), e da ultimo nel 2015 con l’art 3 del d. lgs. 15 giugno 2015, n.81.

Nella sua versione originaria, risalente alla stesura del Codice Civile del 194241, la norma stabiliva che il prestatore di lavoro dovesse essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto , sancendo così il principio della c.d. contrattualità delle mansioni (che verrà confermato sia dalla novella del 1970, che dal d.lgs. n. 81/2015); per contro, in capo al datore di lavoro veniva riconosciuto espressamente un potere di modificazione unilaterale delle

39 In questo senso, tra molte, Cass. Sez. Lav. 8 aprile 2011, n. 8057; Cass. Sez. Lav. 23

agosto 1997, n. 7911; Cass. Sez. Un. 18 dicembre 1987, n. 9417 disponibili su

www.iusexplorer.it.

40 V. Cass. Sez. Lav. 29 ottobre 1998, n. 10832 ; Cass. Sez. Lav. 1° settembre

1987, n. 7151 consultabili su www.iusexplorer.it.

41 Art 2103 c.c. - “Prestazione del lavoro” - stabiliva che: “il prestatore di lavoro deve

essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto. Tuttavia, se non è convenuto diversamente, l’imprenditore può in relazione alle esigenze dell’impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione diversa, purché essa non importi una diminuzione nella retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui. Nel caso previsto dal comma precedente il prestatore di lavoro ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, se è a lui più vantaggioso”.

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mansioni (c.d. jus variandi) oltre l’ambito dell’attività convenuta , anche se nel rispetto di alcuni limiti.

Il potere unilaterale del datore di mutare l’oggetto dell’obbligazione lavorativa, che trova la sua giustificazione nel concetto stesso di impresa e nella divisione del lavoro al suo interno, è stato ricostruito dalla dottrina in termini di eccezionalità rispetto ai principi generali della disciplina del contratto (artt. 1321 e 1372 c.c.), riconoscendo così anche la peculiarità dello stesso contratto di lavoro subordinato42. E proprio per tale carattere di eccezionalità, il legislatore, seppur con tecniche diverse, ha sempre circondato tale potere di limiti, al fine di tutelare il lavoratore quale parte debole del contratto.

Nella prima versione dell’art 2103 c.c. tali limiti venivano individuati in un generico interesse dell’impresa (“esigenze dell’impresa”) e nella necessità della conservazione della retribuzione e della “posizione sostanziale” del lavoratore.

Il primo limite, in realtà, così ampio e indefinito aveva finito per rafforzare la discrezionalità del potere datoriale a scapito degli stessi lavoratori; il secondo, invece, era stato interpretato nel senso di ammettere la modifica delle mansioni solo qualora questa fosse stata temporanea, e solo nel caso in cui le nuove mansioni fossero risultate affini alle precedenti. Ma tali limitazioni riguardavano solo gli spostamenti unilaterali, mentre con il consenso del lavoratore era possibile un qualsiasi mutamento di mansioni (anche in peius). In questo senso la giurisprudenza, non tenendo debitamente conto di quella che

è la disparità tra datore e prestatore di lavoro, aveva ricondotto la mancata opposizione del lavoratore al mutamento in peius ad un’accettazione tacita dello stesso con conseguente novazione del rapporto di lavoro43. Senza tralasciare che gli stessi accordi derogatori erano spesso imposti quale

42 G. GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli, p. 239 ss.

In base a quanto disposto dall‘art 1321 c.c., le parti normalmente per modificare un loro precedente rapporto, devono avvalersi di un apposito contratto modificativo, non potendo apportare alcuna modifica in via unilaterale al contratto cui sono vincolate (art 1372 c.c.). Nell’ambito del rapporto di lavoro, invece, nella più ampia categoria del potere direttivo, che è conseguenza dello stesso concetto di subordinazione ex art 2094 c.c., viene individuato in capo al datore di lavoro lo speciale potere di modificazione unilaterale dell’oggetto della prestazione lavorativa che trova la sua fonte giuridica proprio nell’art 2103 c.c.

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alternativa al licenziamento dello stesso lavoratore, nell’ambito di un regime di libera recedibilità.

Infine, l’ultimo inciso dell’art 2103 c.c. prevedeva per l’assegnazione temporanea a mansioni superiori, un mero diritto del lavoratore al “trattamento corrispondente all’attività svolta, se più vantaggioso”.

Quella che ne risultava era una disciplina del tutto sbilanciata a favore dell’imprenditore, a fronte di una tutela debolissima del prestatore di lavoro. Così, con l’emanazione dello Statuto dei Lavoratori, in particolare con l’art 1344, collocato in posizione simbolica a chiusura del titolo I fra le norme poste a tutela della “libertà e dignità del lavoratore”, si è proceduto all’abrogazione della vecchia norma e alla riscrittura della stessa in una chiave garantistica, ponendo limiti più incisivi allo jus variandi datoriale e rendendo tassativa la disciplina attraverso lo strumento dell’inderogabilità45.

Dopo aver riaffermato il principio di contrattualità delle mansioni di assunzione, l’art 2103 c.c. al primo comma disciplinava rigorosamente la mobilità orizzontale (verso mansioni equivalenti “alle ultime effettivamente svolte”) nonché la mobilità verticale (verso mansioni superiori, che a determinate condizioni potevano dar diritto alla c.d. promozione automatica), con l’implicita esclusione di quella verso il basso (a mansioni inferiori), per poi correggere quello che era il “difetto più vistoso della passata esperienza”46, prevedendo così a chiusura della norma la nullità dei patti contrari alla disciplina dettata nel primo comma, anche in presenza del consenso del

44 Da leggersi insieme all’art 18 St. lav. con il quale si è introdotta la tutela reale contro il licenziamento illegittimo.

45 Art 2103 c.c. (come sostituito dall’art 13 L.20 maggio 1970, n.300) “Mansioni del

lavoratore: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto

o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”. 46 Così M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e

trasferimento, in P. SCHLESINGER (diretto da), Il codice civile. Commentario, Giuffré, Milano, 1997, p. 14.

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lavoratore47.

La modifica della disposizione era avvenuta nel senso di voler creare condizioni più rispettose della dignità del lavoratore, inquadrando entro precisi limiti l’esercizio dello jus variandi datoriale.

Uno degli argomenti più discussi a proposito del nuovo testo dell’art 2103 c.c. era stato proprio quello concernente il potere modificativo delle mansioni: in particolare la dottrina si era chiesta se fosse ancora configurabile lo jus variandi, ovvero lo speciale potere giuridico attribuito al datore di lavoro “di imporre al prestatore compiti eccedenti il contenuto delle mansioni convenute”48 .

Sotto la vigenza del “vecchio” art 2103 c.c., si riteneva che la mobilità del lavoratore oltre che al consenso delle parti stesse, fosse riconducibile all’ esercizio del potere direttivo e/o di conformazione quando si trattava di spostamenti imposti dal datore nell’ambito dell’attività convenuta, ovvero all’esercizio dello jus variandi nel momento in cui lo spostamento eccedeva l’attività dedotta nel contratto. In quest’ultima ipotesi la legittimità dello jus variandi quale potere eccezionale discendeva dall’esistenza dei due presupposti consistenti nelle “esigenze dell’impresa” e nell’inalterabilità della posizione sostanziale del lavoratore.

Con la novella del 1970, il riferimento a tali elementi giustificativi veniva eliminato e alla mobilità del lavoratore veniva posto quale limite inderogabile il limite dell’equivalenza; inoltre anche la stessa costruzione sintattica della norma metteva ora in rilievo il diritto del lavoratore ad “essere adibito a mansioni equivalenti” a discapito della vecchia formulazione incentrata sul

47 Come ha affermato F. LISO in Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle

mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, in Working Papers C.S.D.L.E. “Massimo D’

Antona”. IT – 257/2015, p. 2: ”L’art 13 dello statuto dei lavoratori venne scritto per rimediare all’ineffettività che presentava l’originaria formulazione dell’art 2103 del codice civile. Questa, infatti, pur se si prefiggeva di tutelare la posizione sostanziale del lavoratore all’interno dell’azienda nei confronti dell’esercizio del potere datoriale di variazione delle mansioni, non riusciva certo a centrare l’obiettivo perché non si faceva carico di escludere che la modifica peggiorativa potesse legalmente prodursi per altra via. Non teneva conto del fatto che, nelle concrete dinamiche di gestione aziendale, il potere datoriale poteva ben esprimersi anche nella veste di potere negoziale”.

48G. GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli, 1963, p.

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potere dell’imprenditore di “adibire il prestatore ad una mansione diversa”: tutto ciò fece sorgere in dottrina il dubbio circa la sopravvivenza o meno del potere unilaterale dell’imprenditore di mutare le mansioni dedotte nel contratto.

In particolare, un primo orientamento, rimasto minoritario, aveva ritenuto che l’art 13 st. lav. avesse soppresso lo jus variandi, richiedendo di conseguenza il consenso del lavoratore per qualsiasi mutamento di mansioni disciplinato dalla norma (in orizzontale e in verticale); per un diverso indirizzo, nettamente prevalente in dottrina, invece, il potere eccezionale del datore di lavoro di variare in modo unilaterale le mansioni convenute sarebbe sopravvissuto nonostante la mancata attribuzione esplicita da parte del legislatore, “seppur con un esercizio limitato in modo sostanzialmente più severo rispetto al passato”.49

In questo senso anche la giurisprudenza ha da sempre dimostrato come la sopravvivenza dello jus variandi dopo l’emanazione dello Statuto dei lavoratori fosse un dato acquisito, trovando la sua giustificazione in “insopprimibili esigenze organizzative e direzionali”50.

Constatato che l’art 13 attribuiva al datore il potere unilaterale di adibire il dipendente a mansioni differenti da quelle convenute (seppur entro il limite dell’equivalenza), la dottrina si interrogò anche circa la natura di tale potere. Alcuni, ritenendo che l’oggetto del contratto comprendesse fin dall’inizio del rapporto anche le mansioni equivalenti a quelle di assunzione, sostennero che lo jus variandi fosse stato completamente assorbito dal potere direttivo. Altri, invece, sull’assunto che il contenuto dell’obbligazione del lavoratore dedotto nel contratto fosse costituito esclusivamente dalle mansioni di assunzione, ritennero che l’esercizio da parte del datore del potere di adibire il lavoratore a mansioni diverse, ancorché equivalenti alle originarie, non potesse che realizzare una modifica unilaterale della prestazione dovuta, e che quindi dovesse essere configurabile in termine di potere eccezionale o jus variandi. Tuttavia tale disputa si rivelò presto “vana” sul piano della prassi applicativa,

49M. BROLLO, op. cit., p. 18.

50 V. Cass., Sez. Lav. 28 marzo 1995, n. 3623; Cass., Sez. Lav. 7 luglio 1997, n.6124;

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in quanto la diversa qualificazione giuridica dell’atto con il quale si produceva la modifica non comportava differenza alcuna in ordine agli effetti, dal momento in cui al datore di lavoro era attribuito in ogni caso il potere di esigere unilateralmente tutte le mansioni equivalenti.

Data la difficile lettura del “nuovo” art. 2103 c.c nonché la sua “rigidità”, la storia della stessa norma è stata caratterizzata sin dalla sua emanazione da difficoltà ermeneutiche ed incertezze applicative, che si sono accentuate con l’avvento del successivo progresso tecnologico che ha comportato una riorganizzazione dell’apparato produttivo e quindi la necessità di realizzare un nuovo contemperamento tra le esigenze di efficienza delle imprese e la tutela dei diritti del lavoratore.

1.5 (Segue): L’art 3 del d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81

Così, dopo quarantacinque anni di vigenza dell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, il legislatore ha ritenuto di dover riscrivere la disciplina delle mansioni del lavoratore e di conseguenza quella dello jus variandi, ridisegnandone i nuovi confini.

Con la legge n. 183 del 10 dicembre 2014 il Parlamento ha delegato il Governo ad adottare una serie di decreti legislativi, tra cui quelli di cui all’art 1 comma 7 che “ allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo” alla lett e) prevede anche una “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata

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