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L’onere della prova della legittimità o illegittimità del

Come sottolinea

C.

P

ISANI, la ripartizione dei carichi probatori “va desunta dall’esame della struttura e della funzione della norma sostanziale”550. Così se si ritiene, secondo quello che è l’orientamento prevalente, che i limiti ai mutamenti delle mansioni posti dall’art. 2103 c.c. si configurino come obbligazione di non fare (consistente nell’obbligo di non adibire il lavoratore a mansioni vietate dalla norma) e quindi la sua violazione costituisca un inadempimento contrattuale, si pone il problema di chi debba dimostrare tale adempimento o inadempimento.

L’orientamento giurisprudenziale tradizionale, formatosi in tema di inadempimento in generale, prevedeva a carico del creditore un differente onere probatorio a seconda dell’azione concretamente dedotta in giudizio: così qualora avesse agito per ottenere l’adempimento, su di lui sarebbe gravata solo la prova dell’esistenza dell’obbligazione551, mentre gravava sul debitore la

549L.FERLUGA, op. cit., p. 168: la dottrina, in particolare, fa riferimento oltre all’equità,

alle tabelle settoriali, al sistema di tabellazione universale, nonché alle altre voci di danno non patrimoniale.

550 C.PISANI, op. cit., p. 114 ss.

551 Il lavoratore doveva quindi provare la fonte del suo diritto (vale a dire l’esistenza del

prova di aver adempiuto esattamente l’obbligo552; nel caso di azione diretta al risarcimento del danno, invece, l’attore avrebbe dovuto dimostrare anche l’inadempimento, in quanto fatto costitutivo della pretesa553.

Nel 2001, però, le Sezioni Unite con la sent. n. 13533, hanno unificato il regime probatorio relativo alle azioni di adempimento, risoluzione e risarcimento del danno da inadempimento affermando che chi le propone è tenuto a provare solo l’esistenza del titolo e a dedurre l’inadempimento del debitore; grava, invece, su quest’ultimo l’onere di provare l’adempimento quale fatto estintivo dell’obbligazione.

Le Sezioni Unite hanno tuttavia introdotto un’importante eccezione che riguarda proprio le obbligazioni di non fare, stabilendo che in questi casi la prova dell’inadempimento è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento; e ciò in quanto nelle obbligazioni negative“il diritto nasce soddisfatto e ciò che viene in considerazione è la successiva violazione”554.

Il lavoratore, quindi, sia qualora proponga azione di adempimento, sia qualora chieda (anche o soltanto) il risarcimento dei danni derivanti da tale inadempimento, dovrà allegare e provare l’inquadramento in un determinato livello delle mansioni ultime effettivamente svolte, nonché la non riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello e categoria; oppure l’insussistenza degli elementi costitutivi delle fattispecie derogatrici previste nei commi 2 e 4555.

Ciò vale anche nel caso di inutilizzazione o sottoutilizzazione, dovendo il prestatore dimostrare l’avvenuta sottrazione totale o parziale (ma qualitativamente significativa) delle mansioni svolte in precedenza.

Costruendo i limiti ai mutamenti delle mansioni come un obbligo di fare, vale a dire di assegnare il lavoratore a mansioni del tipo di quelle previste dai

552 V. Cass. Sez. Lav., 22 gennaio 1994, n. 599 in www.iusexplorer.it.

553 V. Cass. Sez. Lav., 11 giugno 1992, n. 7210 in www.iusexplorer.it.

554 Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533 consultabile su www.iusexplorer.it.

555 Sotto il vigore della vecchia disciplina il lavoratore doveva invece allegare e provare

il contenuto specifico delle mansioni precedenti e di quelle nuove assegnategli, compresi tutti gli elementi di fatto da cui desumere la professionalità acquisita e quella richiesta dalle nuove mansioni, in modo da consentire al giudice di operare un raffronto sul piano dell’equivalenza tra i diversi compiti.

commi 1, 2 e 4 del nuovo art. 2103 c.c., come sostenuto da quella giurisprudenza che afferma l’esistenza in via generale di un diritto al lavoratore all’effettivo svolgimento della prestazione556, in base a quanto affermato da ultimo dalle Sezioni Unite del 2001, l’onere della prova graverà invece sul datore di lavoro, dovendo questi provare l’adempimento quale fatto estintivo dell’obbligazione557.

Per altro verso, qualificando le regole poste dall’art. 2103 c.c. non come obbligo ma come limite negativo posto dalla legge allo jus variandi, l’esercizio di tale potere al di là di tali limiti si configura come atto improduttivo di effetti (nullo), trattandosi di un potere non riconosciuto dall’ordinamento.

In questo caso i limiti posti dalla legge allo jus variandi si configurano come “elementi costituitivi di un simile potere di variazione”, cosicché l’onere di provare la sussistenza degli stessi non potrà che gravare sul datore di lavoro558.

556 Cfr. par. 5.1. e Cap. III, par. 3.1.

557 Il datore di lavoro dovrà quindi dimostrare l’esatto adempimento, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi demansionamento, o attraverso la prova che lo stesso sia stato giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o che, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., derivi da un’impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile.

558 C.PISANI, op. cit., p. 118. In sostanza quindi il datore dovrà provare di aver agito

Considerazioni conclusive

Giunti al termine di questo “viaggio” nel cuore della disciplina delle mansioni, possiamo dire che se ad una prima lettura le due norme sembrano tra loro molto “distanti”, in realtà molte sono le linee di continuità tra il “nuovo” art. 2103 c.c. e l’interpretazione che la giurisprudenza aveva dato negli anni al testo del “vecchio” articolo.

Come abbiamo visto nella prassi ci si era già allontanati da quella “rigidità” che aveva connotato l’art. 13 St. Lav; le esigenze di flessibilità nel rapporto emergevano nella realtà in maniera forte: non solo da parte dell’imprenditore ma anche dello stesso lavoratore.

Il tutto si è accentuato con l’avvento della c.d. globalizzazione economica e dell’innovazione tecnologica che hanno richiesto alle imprese un’organizzazione agile e dinamica della forza lavoro per rispondere in modo efficiente ai forti cambiamenti in atto e quindi a una domanda di prodotti e servizi in continuo mutamento.

Allo stesso modo la costante evoluzione tecnologica ha determinato da un lato l’obsolescenza di molte mansioni per così dire “tradizionali”, e dall’altro la necessità per il lavoratore di aggiornarsi professionalmente in maniera continua per non rimanere fuori dei processi lavorativi559.

Il legislatore con la l. n. 183/2014 si fa carico di tali istanze delegando il Governo a riscrivere la disciplina delle mansioni al fine di rendere i contratti di lavoro “maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo”.

Con l’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015 sicuramente si sono ampliati i poteri dell’imprenditore, ma il legislatore non ha mancato di prevedere garanzie a tutela del lavoratore.

Sul piano della mobilità orizzontale abbiamo visto come ora il legislatore abbia devoluto alla contrattazione collettiva il compito di individuare i confini della prestazione esigibile e quindi di realizzare la tutela della professionalità

del lavoratore: se da un lato abbiamo messo in evidenza l’inadeguatezza degli attuali sistemi di classificazione a svolgere una simile funzione e quindi la necessità di un aggiornamento degli stessi, dall’altro abbiamo visto come il legislatore delegato, ben consapevole che gli attuali livelli di inquadramento raggruppano mansioni tra loro eterogenee, abbia previsto come contrappeso alla dilatazione delle mansioni esigibili il limite della “categoria legale”. Ma non solo, il comma 3, a conferma che il bene tutelato dalla norma resta la professionalità, prevede per il datore anche un “obbligo” formativo; obbligo che autorevole dottrina ha ricostruito in termini di onere, non essendo prevista alcuna sanzione per il datore in caso di mancato adempimento. In questo modo qualora il lavoratore venisse adibito a mansioni per le quali non possiede le competenze necessarie (e per le quali non abbia ricevuto adeguata formazione) potrà legittimamente rifiutare l’esecuzione della prestazione senza incorrere in alcuna conseguenze né sul piano disciplinare, né su quello retributivo (in quest’ultimo caso non senza aver prima offerto la prestazione dovuta). Inoltre anche qualora il lavoratore non esercitasse il rifiuto, gli eventuali inadempimenti derivanti dalla mancata formazione non potranno essere a lui imputabili.

Quanto alla mobilità verso il basso, abbiamo visto come ora il datore può unilateralmente adibire il lavoratore a mansioni inferiori ma non senza il rispetto di alcuni limiti: il demansionamento è possibile solo in presenza di una “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che “incida sulla posizione del lavoratore” (comma 2) o nei casi previsti dalla contrattazione collettiva (comma 4); in ogni caso soltanto al livello immediatamente inferiore rispetto a quello di inquadramento proprio del lavoratore e con l’ulteriore limite dell’immodificabilità della categoria legale; il lavoratore adibito a mansioni inferiori ha inoltre diritto a conservare il livello di inquadramento ed il trattamento retributivo in godimento; ma non solo: il mutamento peggiorativo di mansioni deve essere comunicato per iscritto “a pena di nullità” ed anche in questo caso “ove necessario” il datore dovrà formare il lavoratore al fine di renderlo idoneo allo svolgimento delle nuove mansioni.

comma il legislatore sia tornato a fare uso della tecnica della norma a precetto generale, (ri)assegnando una funzione primaria alla giurisprudenza, la quale dovrà riempire di contenuti l’incerta formula della “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”.

In attesa di vedere quale sarà la strada intrapresa dai giudici abbiamo dato conto delle due correnti dottrinarie che si sono affermate a riguardo, evidenziando come questa incertezza generi anche dei problemi di coordinamento con la previsione di cui al comma 6 (in particolare con la possibilità prevista per le parti ti stipulare un accordo in presenza di un interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione).

Il comma 6 abbiamo visto prevede per le parti la possibilità di stipulare accordi di modificazione delle mansioni in pejus in presenza di un “interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”.

In questo caso non operano i limiti cui è subordinata l’assegnazione a mansioni inferiori nelle ipotesi dei commi 2 e 4: il lavoratore può così essere adibito anche a mansioni appartenenti a più livelli inferiori di inquadramento, anche superando la soglia della categoria legale, e con un abbassamento della retribuzione.

Si sono comunque previste delle tutele per il prestatore: innanzitutto la stipulazione del patto deve avvenire nelle sedi cc.dd. “protette” ovvero nelle sedi di conciliazione previste per le controversie in materia di lavoro (art. 2113 c.c., quarto comma) o avanti alle commissioni di certificazione (di cui all’art. 76 del d. lgs. n. 276/2003); inoltre il lavoratore qualora lo ritenga opportuno ha anche la possibilità di farsi assistere da un “rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.

Sul piano della mobilità verticale, verso l’alto, abbiamo visto come qui il legislatore stabilendo come il lavoratore possa impedire il perfezionamento della promozione automatica manifestando la propria volontà contraria, in realtà “tradisce” se stesso non prevedendo alcuna garanzia a sostegno della sincerità del rifiuto (comma 7): si tratta sicuramente di una nota negativa da

non trascurare in quanto è alto il rischio che il lavoratore possa subire condizionamenti da parte del datore, che avrà tutto l’interesse a riassegnare il lavoratore ad “altre” mansioni, evitando una definitiva modificazione dell’assetto aziendale.

In conclusione possiamo dire che il bene protetto dall’art. 2103 c.c., anche dopo la riforma, resta la professionalità del lavoratore.

Sicuramente cambiano il tipo e il valore della professionalità di riferimento nonché il modo di tutelarla: non più la professionalità “acquisita”, che ormai aveva finito come un boomerang per ritorcersi contro lo stesso lavoratore, ma la professionalità “classificata”, quindi una professionalità intesa come appartenenza ad un determinato livello di inquadramento.

Non più una professionalità concepita come valore-diritto “forte” come nella trama dell’art. 13 St. Lav. ma una professionalità “debole”: una professionalità che nella nuova trama legale cede il passo non solo ad esigenze considerate “superiori” del datore (esigenze di flessibilità gestionale) ma anche ad “altre” esigenze dello stesso lavoratore (che sono essenzialmente l’interesse all’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità, e al miglioramento delle condizioni di vita).

Una professionalità se vogliamo anch’essa “flessibile”, capace di adattarsi al lavoro che cambia.

Tuttavia la scommessa del Jobs Act è in larga parte ancora aperta: il principale protagonista, ovvero la contrattazione collettiva, dopo ormai tre anni dall’entrata in vigore della norma non ha ancora svolto completamente il suo compito; non ci resta che attendere per vedere quella che sarà la via intrapresa dalle parti collettive, anche se siamo certi sapranno trovare il giusto bilanciamento tra esigenze delle imprese e interessi dei lavoratori.

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