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Contro l’illegittima adibizione a mansioni inferiori (per effetto di un atto o accordo contrario alla legge) il lavoratore, oltre alla dichiarazione di nullità, può chiedere una pronuncia di condanna del datore di lavoro alla reintegra nelle mansioni precedentemente svolte.

In realtà, la giurisprudenza per lungo tempo ha escluso il diritto del lavoratore alla effettiva reintegrazione nelle mansioni precedenti all’illegittimo spostamento sostenendo come l’art. 18 St. lav. non sia suscettibile di un’applicazione analogica alla dequalificazione, essendo eccezionalmente previsto per la sola diversa ipotesi del licenziamento illegittimo478 e che

un’eventuale reintegra sarebbe poi impedita “dal potere che ha il datore di

Come si è osservato, fermo restando che l’atto nullo non è suscettibile di convalida (art. 1423 c.c.), e che sotto il profilo degli effetti, secondo gli schemi civilistici, è tamquam non

esset, ciò non impedisce alle parti di dare materiale esecuzione all’atto. “In sostanza, l’attività

esecutiva produce nella realtà una modificazione di fatto, che ha comunque una sua autonoma rilevanza giuridica: non viene in rilievo una eccezionale efficacia del negozio nullo, ma [come in questo caso] possono acquistare autonoma rilevanza i risultati pratici connessi all’attività delle parti diretta a darvi esecuzione”: L.FERLUGA, op. cit., pp. 140-141.

476 L.FERLUGA, op. cit., p. 142. 477 C.PISANI, op. cit., ibidem.

478 Cass. Sez. Lav., 14 luglio 1997, n. 6381; Cass. Sez. Lav., 12 ottobre 1999, n. 11479

lavoro, nell’esercizio dei suoi poteri organizzativi e nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 2103 c.c., di adibire il lavoratore [anche] ad altre mansioni”479.

In base a tale primo orientamento, quindi, il lavoratore, a fronte della dichiarazione di nullità del provvedimento datoriale, avrebbe diritto solamente al risarcimento del danno, a titolo di inadempimento contrattuale480.

Un filone interpretativo più recente, invece, muovendo dai principi generali del diritto civile, è arrivato ad ammettere accanto al diritto al risarcimento del danno, anche il diritto del lavoratore ad essere integrato nel posto di lavoro originario (seppur con una certa elasticità)481.

Una volta dichiarato nullo il provvedimento di mutamento di mansioni illegittimo, ne consegue, secondo le regole generali, che l’atto (o il patto) deve considerarsi tamquam non esset482: ciò significa che alla declaratoria di nullità,

deve fare seguito, quale effetto naturale della violazione, (oltre e a prescindere dal risarcimento del danno), il ripristino della situazione di fatto e di diritto precedente483.

Una rigida applicazione dei principi generali dovrebbe comportare la riassegnazione del dipendente soltanto alle stesse mansioni svolte in precedenza al provvedimento datoriale illegittimo; tuttavia è evidente che i principi civilistici vadano armonizzati con quelli giuslavoristici484, ed in particolare nell’ipotesi considerata con lo jus variandi del datore di lavoro ex art. 2103 c.c.

479 L. FERLUGA, op. cit., p. 143. V. Cass. Sez. Lav., 23 gennaio 1988, n. 539 su

www.iusexplorer.it: “la reintegrazione nel posto di lavoro è provvedimento eccezionalmente limitato ai casi previsti dalla detta norma della legge n. 300 del 1970 e, quindi, al di fuori di tale ipotesi eccezionale, non può il datore di lavoro essere condannato ad un facere mediante il ripristino della originaria situazione pregressa, stante la facoltà del datore medesimo di mutare le mansioni del lavoratore nei limiti previsti dall’art. 2103 c.c. (…); la quale (…) non può in concreto certo essere esclusa a priori, anche a seguito di annullamento di un determinato provvedimento di mutamento delle mansioni”.

480 L.FERLUGA, op. cit., p. 144.

481 Cass. Sez. Lav., 13 agosto 1991, n. 8835; Cass. Sez. Lav., 26 gennaio 1993, n. 931;

Cass. Sez. Lav., 27 aprile 1999, n. 4221; Cass. Sez. Lav., 12 gennaio 2006, n. 425 disponibili su www.iusexplorer.it.

482 La nullità, secondo le regole del diritto civile comune, determina l’assoluta inidoneità dell’atto a produrre i suoi effetti.

483 M.BROLLO, op. cit., p. 249.

“Ne consegue che in caso di violazione della norma, il ripristino dello status quo ante comporta non necessariamente l’adibizione alle ‘stesse’ mansioni svolte in precedenza”485 ma anche a tutte le altre (prima equivalenti, ora) incluse nel medesimo livello di inquadramento486.

Si apre, però, a questo punto un ulteriore problema in quanto anche qualora il datore di lavoro venisse condannato a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento illegittimo “in ogni caso si tratterebbe di una condanna ad un fare infungibile, in quanto attinente alla sfera di libertà del datore-debitore” (ex. art. 41 Cost.)487.

“In altri termini l’oggetto della pronuncia giudiziale è dato da una condanna del datore al corretto esercizio del potere di organizzazione e di direzione dell’attività lavorativa di cui è il solo titolare, seppur nell’ambito dei limiti imposti dall’ordinamento”488.

485 L.FERLUGA, op. cit., p. 145.

486 Ricordiamo che (come più volte ribadito dalla Suprema Corte) la reintegrazione nelle precedenti mansioni avviene secondo i principi del diritto comune, e non secondo le regole del diritto speciale applicabile nel caso di licenziamento illegittimo (art. 18, l. n. 300/1970). V. Cass. Sez. Lav. 27 aprile 1999, n. 4221 su www.iusexplorer.it: “(…) si deve, quindi, affermare

che, ove venga accertata l'esistenza di un comportamento contrario al suddetto art. 2103 c.c., il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può bene emanare una pronuncia di condanna del medesimo datore di lavoro a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione alle mansioni inferiori: nel senso che il datore di lavoro è tenuto ad assegnare al lavoratore l'originario incarico o un'altra prestazione avente equivalente contenuto, con riguardo, (…) sia al profilo professionale che a quello retributivo. E, del resto, se si riconosce, come sopra è stato accennato e come è stato sostenuto in dottrina, che la violazione della norma imperativa contenuta nel più volte indicato art. 2103 c.c. implica la nullità del provvedimento datoriale, si deve parimenti ammettere la possibilità che al lavoratore sia accordata una tutela piena, mediante l'automatico ripristino della precedente posizione, fatto salvo, ovviamente, il c.d. ius variandi del datore di lavoro: situazione, codesta, che, in verità, non ha nulla a che vedere con quella prevista dall'art. 18 della l. 20 maggio 1970 n. 300, il cui richiamo costituisce, come è stato rilevato in dottrina, un falso problema”.

487 C.PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, Torino, 2015, p. 119.

488 M.BROLLO, op. cit., pp. 252-253. Si tratta quindi di una prestazione che non può

essere eseguita da terzi.

5.5.1 (Segue): L’incoercibilità della tutela ripristinatoria

Secondo i principi generali del nostro ordinamento, la condanna ad un facere o non facere infungibile, non è suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica489; per cui, anche la mancata ottemperanza da parte del datore

di lavoro all’ordine del giudice di riassegnare il dipendente alle precedenti mansioni (o ad altre incluse nel medesimo livello di inquadramento), non potrà essere sanzionata con il reinserimento effettivo del lavoratore nel contesto dell’organizzazione aziendale “in difetto del presupposto della mancata collaborazione dell’imprenditore”490.

In proposito si è parlato dell’ordine giudiziale di reintegra come “un’arma difensiva spuntata” proprio perché non è detto che il lavoratore, pur vittorioso in giudizio, possa ottenere ciò a cui ha diritto: cioè l’effettivo ripristino della situazione pregiudicata dal provvedimento invalido.491

Tuttavia da questa incoercibilità “non deriva, come pure è stato sostenuto, la inammissibilità della stessa condanna” che conserva una sua utilità492: innanzitutto perché “il datore di lavoro rimane comunque obbligato non solo al pagamento della retribuzione corrispondente al livello delle mansioni ingiustamente sottratte, ma anche a tutti gli altri effetti giuridici che scaturiscono dal contratto di lavoro”493; poi perché funzionale alla configurabilità e alla misura del danno risarcibile; ma anche perché rende meno ‘rischioso’ l’esercizio della facoltà di autotutela del lavoratore mediante “il rifiuto di prestare un’attività diversa indicata in un provvedimento [dichiarato] illegittimo”494.

Rimane invece esclusa, per espressa previsione di legge, l’applicabilità della misura di coercizione indiretta di cui all’art 614 bis c.p.c., il quale prevede

489 M.BROLLO, op. cit., p. 252.

490 L.FERLUGA, op. cit., p. 150.

491 M. BROLLO, op. cit., ibidem. 492 C.PISANI, op. cit., ibidem.

493 L.FERLUGA, op. cit., ibidem.

494 “Il lavoratore, infatti, potrà difendersi anche con una tutela c.d. self made, dato che

che con il provvedimento di condanna, il giudice, su istanza di parte, possa fissare a carico dell’obbligato il pagamento di una somma di denaro “per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”495.

Anche il provvedimento cautelare emanato ex art. 700 c.p.c. “deve fare i conti con la incoercibilità degli obblighi di fare e di non fare infungibili”496. Mancano, infatti, non solo tecniche di esecuzione diretta, ma anche misure

coercitive indirette: la disposizione dell’art. 388, comma 2, c.p. punisce non la semplice inottemperanza all’ordine cautelare, ma solo l’elusione fraudolenta dell’esecuzione forzata dell’ordine, che quindi deve essere già in sé coercibile497.

495 Art. 614 bis c.p.c. (introdotto per la prima volta con l. n. 69/2009 e così sostituito da l. n. 132/2015) “Misure di coercizione indiretta: con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento dicondanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di

cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409.

Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.

La scelta di escludere dall’ambito di applicazione della disposizione le controversie di lavoro subordinato, pubblico e privato, nonché quelle aventi ad oggetto i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c. (già presente nella versione originaria della norma e ribadita in occasione della riforma del 2015) ha destato nella maggior parte degli interpreti perplessità, anche sotto il profilo della legittimità costituzionale, in particolare sul piano della ragionevolezza e della razionalità.

Con riferimento all’ illegittima modificazione delle mansioni si è osservato come “l’applicazione dell’art. 614 bis c.p.c. avrebbe potuto avere funzione di deterrence, in particolar modo per il periodo successivo all’accertamento giudiziale dell’illecito, ed avrebbe risolto il problema della incoercibilità dell’obbligo del datore di lavoro bilanciando in modo ragionevole i diritti del lavoratore con la sfera di libertà dell’imprenditore”: L.FERLUGA, op. cit., p. 172. Anche se non è mancato chi ha sostenuto come la ragione di questa esclusione risieda proprio nella specificità del contratto di lavoro quale contratto di durata “in cui l’effetto dissuasivo dell’inottemperanza alla condanna è già ‘incorporato’ nella disciplina del rapporto, come nel caso del demansionamento, con il regime della mora credendi o del risarcimento del danno” (v. infra): C.PISANI, op. cit., p. 120.

496 C.PISANI, op. cit., p. 122. V. par. 5.3.

497 C.PISANI, La modificazione delle mansioni, Franco Angeli, 1996, p. 226.

Art. 388, commi 1 e 2 c.p. “(Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice): “Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civilnascenti da una sentenza di condanna, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi l’Autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti

Secondo una parte della dottrina, nel caso di specie, però, “l'impossibilità di esecuzione diretta o indiretta porta ad escludere la stessa ammissibilità di un provvedimento di urgenza diretto ad imporre l’assegnazione di determinate mansioni”: se infatti nel giudizio di merito si possono tenere distinti i problemi della cognizione da quelli dell’esecuzione, nel procedimento cautelare la fase di attuazione del provvedimento è inscindibilmente collegata a quella di esecuzione (come risulta anche dall’attribuzione della competenza per l’attuazione al medesimo giudice ex art. 669-duodecies c.p.c.498), per cui “sarebbe privo di senso un ordine non coercibile”499.

E questa inammissibilità del provvedimento per inutilità dello stesso emerge anche in alcune pronunce dei giudici di merito, rese proprio in sede di procedimento ex art. 669-duodecies c.p.c. per l’attuazione della misura cautelare: lo stesso giudice che aveva emesso nel procedimento ex art. 700 c.p.c. l’ordine di reintegrazione nelle mansioni del ricorrente, in sede esecutiva poi si accorge che tale ordine è di natura incoercibile e che quindi non possono essere determinate le modalità attuative del provvedimento d’urgenza emanato500.

Per cui si ritiene che in presenza di un effettivo periculum in mora, in caso di illegittima modificazione delle mansioni, possa essere emanato un provvedimento di urgenza che riguardi solo la sospensione – in attesa della

fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da centotre euro a milletrentadue euro.

La stessa pena si applica a chi elude l'ordine di protezione previsto dall'articolo 342 ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero ancora l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile, che concerna l'affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito”.

498 Art. 669-duodecies c.p.c.: ”Attuazione: Salvo quanto disposto dagli articoli 677 e

seguenti in ordine ai sequestri, l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene nelle forme degli articoli 491 e seguenti in quanto compatibili, mentre l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti.

Ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito”.

499 C.PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 123-124.

500 C.PISANI, op. cit., p. 124. Cfr. Trib. Benevento, 22 marzo 2001, in Lav. nella p.a.,

definizione del giudizio di merito – degli effetti dell’atto datoriale pregiudizievole e non anche la riassegnazione alle precedenti mansioni (o ad altre inquadrate nel medesimo livello)501.