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Da ultimo, l’art. 8, d.l. n. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modifiche

nella l. n. 148/2011, ha riconosciuto alla contrattazione collettiva di prossimità (contratti collettivi aziendali o territoriali) la facoltà di derogare anche in pejus alle “regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro” nonché “alle disposizioni di legge” che disciplinano materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione, tra cui quella delle “mansioni del lavoratore, della classificazione e inquadramento del personale” (art. 8,

203 M.BROLLO, op.cit., p. 212. In pratica il patto di dequalificazione si riteneva valido

se la proposta negoziale era stata avanzata dal lavoratore “in vista della realizzazione di un suo qualunque interesse, anche del tutto generico”: M.BROLLO, op.cit., ibidem. (Quindi anche diverso dalla conservazione del posto di lavoro).

V. Cass. Sez. Lav. 1 dicembre 1988, n. 6515; Cass. Sez. Lav., 15 gennaio 2004, n. 521 disponibili su www.iusexplorer.it.

204 Cass. Sez. Lav., 8 agosto 2011, n. 17095 consultabile su www.iusexplorer.it. Talvolta

il consenso veniva dedotto dal comportamento concludente del lavoratore: V. Cass. Sez. Lav., 20 maggio 1993, n. 5695 su www.iusexplorer.it.

Tale orientamento era stato però criticato dalla dottrina in quanto si riteneva difficile distinguere in concreto la genuinità del consenso del lavoratore da quello che poteva essere un adeguamento coercitivo alle condizioni imposte dalle esigenze organizzative e produttive del datore; inoltre tutto ciò “riaccendeva la preoccupazione di una operazione elusiva della rigorosa prescrizione disposta dalla nuova versione dell’art 2103 c.c.”: M.BROLLO, op. cit., pp. 215-216.

comma 2, lett. b).

In particolare, i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più

rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti possono realizzare specifiche intese derogatorie con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione che siano sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali205.

La potestà regolativa di tali intese tuttavia deve esplicarsi nel rispetto di due ordini di limiti: innanzitutto devono essere giustificate dal perseguimento degli scopi indicati dalla legge, quindi “maggiore occupazione, qualità dei contratti di lavoro, adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, emersione del lavoro irregolare, incrementi di competitività e di salario, gestione delle crisi aziendali e occupazionali, investimenti, e avvio di nuove attività” (c.d. limiti interni)206; inoltre devono operare nel rispetto “della Costituzione” nonché dei “vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro” (c.d. limiti esterni).

205 L’articolo 8 è collocato nell’ambito del titolo terzo che prevede “Misure a sostegno

dell’occupazione”; il d.l. n. 138/2011 era stato giustificato dal Governo per perseguire

l’obiettivo di una flessibilizzazione del mercato del lavoro (sia in entrata che in uscita), come richiesto dalla Banca Centrale Europea nella lettera del 5 agosto 2011. Anche se, come si è sottolineato, in realtà l’istituto europeo proponeva sostanzialmente una valorizzazione della contrattazione aziendale, in modo da modellare alle esigenze specifiche delle aziende i salari e le condizioni di lavoro, rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’operazione di “adattamento” avrebbe dovuto dunque essere “del tutto endogena al sistema intersindacale e riguardare il rapporto fra contratti collettivi di diverso livello e non certo quelli tra contrattazione aziendale e la legge”.

In sostanza quindi il Governo avrebbe “cercato di scaricare ogni responsabilità sulla Banca Centrale, introducendo una riforma radicale del Diritto del lavoro che non era obbligato a realizzare” e che comunque avrebbe dovuto avere un contenuto diverso: A. PERULLI – V. SPEZIALE, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto”

del Diritto del lavoro, in Working Papers C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, n. 132/2011

cui si rinvia per maggiori approfondimenti sul tema.

Ricordiamo infine che la disposizione sin dalla sua entrata in vigore ha suscitato forti dubbi di costituzionalità sia in ordine all’idoneità dei contratti collettivi a derogare alle disposizioni di legge, sia per l’attribuzione agli stessi di un’efficacia erga omnes (in violazione dell’art. 39, commi 2,3,4, Cost.).

206 “Ovviamente da ritenersi perseguibili singolarmente e non tutti insieme”: M. BROLLO, Mansioni del lavoratore, classificazione e inquadramento del personale, in F.

CARINCI (a cura di) Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011

Per quanto riguarda la specifica materia delle mansioni, i contratti di prossimità quindi non potranno violare il diritto ad una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità di lavoro svolto (art. 36 Cost.), non potranno adottare misure lesive del bene salute (art. 32 Cost.), ma più in generale dovranno operare nel rispetto della dignità personale e professionale del lavoratore (artt. 2, 3, 4, 5, 35 e 42, comma 2 Cost.).

In relazione ai vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali, possiamo richiamare in modo particolare l’art. 31, comma primo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che prevede per ogni lavoratore il diritto a “condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”.

Quindi la flessibilità gestionale del datore, autorizzata dalla contrattazione di prossimità, dovrà “viaggiare” assieme alle garanzie previste per il lavoratore sia dalla Costituzione che dalle fonti sovraordinate, il cui rispetto sarà verificato ex post dal giudice207 .

3.5 Il nuovo testo dell’art.2103 c.c. e lo jus variandi in pejus

unilaterale

Frammenti normativi, interpretazioni giurisprudenziali e tendenze della contrattazione collettiva precedenti costituiscono l’eredità raccolta del legislatore del 2015208: il nuovo art 2103 c.c. introduce per la prima volta tre

diverse ipotesi di deroga espressa al divieto dei patti contrari, ribadito al comma 9 della norma.

In particolare il comma 2 prevede un’ipotesi di demansionamento per effetto del potere unilaterale (jus variandi) del datore in presenza di “determinate” ragioni organizzative; il comma 4 attribuisce all’autonomia collettiva la facoltà

207 M. BROLLO, op. cit., p. 391.

Sui rapporti tra l’art. 8, l. 148/2011 e il nuovo art. 51, d. lgs. 81/2015 si veda il par. 3.6.

208 R. VOZA, Autonomia privata e norma inderogabile nella nuova disciplina del

mutamento di mansioni in Working Papers C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, n. 257/2015,

di individuare “ulteriori ipotesi” di adibizione a mansioni inferiori ed infine al comma 6 è prevista la possibilità per le parti di stipulare accordi individuali in deroga, in presenza di un interesse qualificato del lavoratore.

Partendo dall’analisi del secondo comma, questo consente al datore in presenza di una “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che “incida sulla posizione del lavoratore”, di assegnarlo a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore rispetto a quelle di assunzione o da ultimo effettivamente svolte, purché rientranti nella medesima categoria legale. La possibilità di demansionamento è consentita al datore in via unilaterale, a

prescindere dal consenso del lavoratore, ma non senza limiti; innanzitutto l’esercizio dello jus variandi in pejus presuppone la sussistenza di una modifica organizzativa a livello aziendale (c.d. limite interno), ma non tutte le modifiche organizzative sono idonee a giustificare l’assegnazione a mansioni inferiori: solo quelle che hanno una ricaduta concreta sulla posizione del lavoratore209. Inoltre la disposizione consente il demansionamento soltanto al livello

immediatamente inferiore rispetto a quello di inquadramento210, con l’ulteriore limite dell’immodificabilità della categoria legale: quindi, ad esempio, non sarà in ogni caso possibile adibire il lavoratore inquadrato nella categoria impiegatizia a mansioni che si collochino nella categoria operaia (cc.dd. limiti esterni).

Tuttavia come si può notare qui il legislatore, a differenza del primo comma, è tornato a far uso della tecnica della norma a precetto generale, con tutte le incertezze interpretative ed applicative che ne possono derivare. Di fatto, sin dai primi commenti, la dottrina risulta divisa sul significato da attribuire alla locuzione “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”.

Un primo orientamento, facendo leva sul fatto che la causa giustificatrice del

209 Occorre quindi un “nesso di causalità tra modifica organizzativa, posizione del singolo

ed esercizio dello jus variandi verso il basso”: U.GARGIULO, Lo jus variandi nel nuovo

art. 2103 cod. civ. in Working Papers C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, n. 257/2015,

p. 6.

210 Questo limite non è previsto così esplicitamente, ma lo si ricava dal fatto che la

demansionamento sia stata formulata “in modo più generico ed elastico”211 rispetto ai criteri direttivi della legge delega212 nonché sul fatto che il Governo non abbia voluto seguire l’invito della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati che “aveva provato a ricomporre la frattura tra contenuto della delega e contenuto del provvedimento delegato, proponendo – nel proprio parere sul testo dello schema del decreto – di aggiungere, dopo le parole ‘assetti organizzativi aziendali’, le seguenti: ‘per effetto di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale’ ”213 (con le quali si richiamava la nozione di eccedenza di personale ai sensi della l. n. 223 del 1991) ha affermato come si possa ritenere che ai sensi del comma 2 dell’art 2103 c.c. non sia necessaria né l’esistenza di una crisi aziendale, né la circostanza che il mutamento di mansioni in pejus costituisca l’alternativa ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo214; la nuova normativa

quindi non richiederebbe che, per il legittimo demansionamento, debba essere concretamente in gioco il posto di lavoro215. In questo senso quindi il legislatore sarebbe andato oltre quegli orientamenti giurisprudenziali che si erano formati sotto la vigenza del “vecchio” art. 2103 c.c.

Un’altra parte della dottrina ritiene invece che il legislatore abbia voluto configurare una situazione coincidente con il giustificato motivo oggettivo di licenziamento per cui solo qualora la “richiesta modifica organizzativa importi il venir meno della posizione lavorativa di pertinenza del singolo prestatore

211 M. BROLLO, op. cit., p. 67.

212 V. Cap. I, par. 1.6. La legge delega legittimava la mobilità interna solo in “caso di

processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi”.

213 R. VOZA, op. cit., p. 7.

214 M. BROLLO, op. cit., ibidem. Così anche C. PISANI, La nuova disciplina del

mutamento delle mansioni, Giappichelli, Torino, 2015, p. 74.

215L. FERLUGA, Le modifiche unilaterali in pejus nella disciplina delle mansioni in

Arg. dir. lav., 1/2017, p. 33.

C. PISANI ritiene che la formula riguardi in particolare l’ipotesi di sottrazione di

alcune mansioni “non insignificanti” ad esempio, per essere suddivise e/o redistribuite tra altri

lavoratori o soppresse. Non si tratta della sottrazione totale di mansioni con conseguente inutilizzazione del lavoratore che continua a rimanere fattispecie illecita anche alla luce della nuova norma, ma di sottrazione parziale o riduzione delle mansioni che implica una parziale sottoutilizzazione professionale rispetto al ruolo rivestito in precedenza dal lavoratore; in tale ipotesi (che la giurisprudenza riteneva spesso illegittima in quanto lesiva della professionalità) diverrebbe ora possibile l’adibizione a mansioni inferiori: C. PISANI, op. cit. p. 79.

senza che ne sia possibile il repêchage su mansioni del medesimo livello e categoria legale di inquadramento ex comma 1, art. 2103 c.c.“ il datore potrà assegnare il lavoratore a mansioni inferiori216.

In questo modo il nuovo art 2103 c.c. andrebbe a stabilizzare quanto era andato affermandosi in giurisprudenza sotto la vigenza della vecchia disciplina con la “differenza significativa che il datore di lavoro è oggi legittimato a procedere al demansionamento (…) in via unilaterale, senza dover acquisire o anche solo verificare il consenso”217.

Ovviamente sarà ancora una volta la magistratura a dover riempire di contenuti l’incerta formula legislativa218; secondo alcuni è molto probabile che

lo farà nel senso di “riproporre l’idea che lo spostamento a mansioni inferiori debba comunque essere una scelta da considerare come extrema ratio” e questo anche considerando che la legge delega parla di un interesse del lavoratore alla tutela della professionalità219.

216 E. BALLETTI, op. cit., p. 30. La modifica organizzativa che giustifica il demansionamento legittimo unilaterale deve quindi corrispondere ai casi in cui sarebbe legittimo il licenziamento, ove non fosse possibile modificare anche in pejus le mansioni.

C. PISANI ancora sostiene che anche da un’interpretazione combinata tra comma 2 e comma 6 si può ricavare che la disposizione non è diretta a “disciplinare anche i casi in cui il posto del lavoratore sia stato ‘inciso’ così in profondità da essere nei fatti soppresso. Sarebbe infatti illogico che il datore utilizzasse il comma 2 nel caso in cui l’alternativa alla modifica in

pejus fosse un legittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nel caso in cui, cioè,

oltre alla soppressione del posto, non vi fossero altre mansioni libere a cui adibire il lavoratore nel livello in cui erano inquadrate le sue mansioni”. Il datore infatti potrebbe ottenere “un risultato anche migliore mediante quanto previsto dal comma 6, risparmiando di corrispondere al lavoratore una retribuzione superiore rispetto alle mansioni inferiori, come impone il comma 5, e quindi in sostanza evitando di corrispondere un trattamento di miglior favore al dipendente”: C.PISANI, op. cit., pp. 73-74.

F. LISO invece afferma che sposando la tesi secondo cui la modificazione degli assetti coincida con il gmo di licenziamento “la seconda formula (quella che contempla la variazione in peius su base di accordo) troverebbe giustificazione solo per il caso in cui lo spostamento sia verso una posizione inquadrata non nel livello immediatamente inferiore, bensì a livelli inferiori rispetto a quest’ultimo” : F.LISO, Brevi osservazioni sulla revisione

della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro in Working Papers C.S.D.L.E.

“Massimo D’Antona”. IT, n. 257/2015, p.11. 217 E.BALLETTI, op. cit., ibidem.

218 R. VOZA, op. cit., ibidem.

Il quinto comma prevede poi per il lavoratore demansionato che vede abbassata la professionalità della prestazione richiesta un “diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento” con la sola eccezione degli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”220 (quindi ad esempio delle indennità legate al luogo o al tempo di svolgimento della prestazione se le mansioni precedenti prevedevano o trasferte all’estero o il lavoro notturno oppure delle indennità connesse a particolari responsabilità derivanti dallo svolgimento della prestazione come nel caso di maneggio del denaro).

La tutela del lavoratore si realizza quindi mediante una “scissione” tra inquadramento formale ed effettivo: l’oggetto dell’obbligazione lavorativa rimane quello superiore convenuto o “successivamente acquisito”, mentre la prestazione concreta richiesta nel rapporto negoziale diviene quella di livello inferiore 221.

L’inquadramento formale inoltre conserva una forza di resistenza anche nell’ipotesi di eventuale successivo mutamento delle mansioni assegnate: il lavoratore dovrà cioè essere adibito a compiti riconducibili a quelli del livello di classificazione conservato, e non del livello inferiore al quale appartengono le mansioni che gli sono state assegnate dopo l’esercizio dello jus variandi ai sensi del secondo comma222.

La disposizione non stabilisce alcunché in riferimento alla durata dell’adibizione a mansioni, che quindi potrebbe divenire tendenzialmente permanente (ovviamente al perdurare delle esigenze di carattere organizzativo); tuttavia una parte della dottrina, proprio in virtù di tale scollamento tra mansioni espletate ed inquadramento formale ha affermato come il demansionamento legittimo unilaterale abbia carattere “temporaneo o

220 Come possiamo notare il legislatore qui formalizza la soluzione che aveva prevalso in giurisprudenza in relazione alla regola dell’irriducibilità retributiva prevista dal precedente testo dell’art. 2103 c.c. (anche se in realtà riguardava il diverso contesto della mobilità orizzontale). E molto probabilmente proprio al fine di risolvere in anticipo eventuali contrasti giurisprudenziali.

221 M. BROLLO, Disciplina delle mansioni (art 3) in F. Carinci (a cura di) Commento

al d.lgs. 15 giugno 2015, n.81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, ADAPT

UNIVERSITY PRESS, 2015, p. 70.

comunque non necessariamente definitivo”223.

Inoltre sulla base dello stesso comma 5 che qualifica in termini di “diritto” la conservazione del livello di inquadramento, potrebbe venire a configurarsi in capo al lavoratore un diritto alla riassegnazione alle mansioni svolte in precedenza “nel caso in cui, ad esempio, per effetto di dimissioni, pensionamenti o riassetti organizzativi, si liberi una posizione che richieda una prestazione coerente, in termini contenutistici, con il livello di inquadramento formalmente posseduto dal lavoratore che sia stato precedentemente demansionato ai sensi dell’art. 2103 c.c., co.2, cod. civ.”224. In questo caso il lavoratore interessato (e qui è indiscutibile che vi sia un interesse giuridicamente rilevante sia di tipo economico, volto al recupero di quegli elementi retributivi collegati alle particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa, sacrificati per effetto dell’adibizione in pejus, sia di tipo “professionale”) potrà rivendicare la copertura del posto resosi libero225.

Il quinto comma prevede un’ulteriore garanzia per il lavoratore: il mutamento

223A. GARILLI, La nuova disciplina delle mansioni tra flessibilità organizzativa e tutela del prestatore di lavoro, in Giorn. dir. lav. Rel. Ind., fasc. 1, 2016, p. 139. Così anche V.

FERRANTE, Nuova disciplina delle mansioni del lavoratore in M. MAGNANI, A.

PANDOLFO, P.A.VARESI (a cura di), I contratti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2016, p. 42. E questo in quanto l’adibizione a mansioni inferiori in via definitiva o anche solo per una durata prolungata sarebbe oggettivamente antieconomica per il datore di lavoro che non avrebbe alcuna convenienza ad utilizzare il prestatore in mansioni inferiori continuando a riconoscergli il livello di inquadramento superiore e la relativa retribuzione: E.BALLETTI, I

poteri del datore di lavoro tra legge e contrattazione collettiva, relazione AIDLASS, Napoli,

16-17 giugno 2016, p. 28.

Contra F.AMENDOLA, La disciplina delle mansioni nel d.lgs. n. 81 del 2015 in Working paper C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, n. 291/2016, p.22 il quale ritiene che la divaricazione tra l’inquadramento ed il corrispondente trattamento economico rispetto alla prestazione lavorativa resa dal dipendente non “sia sufficiente a sostenere che l’adibizione in

peius debba essere temporanea, in assenza di un dato normativo inequivoco”.

224 U. GARGIULO, op. cit., p. 9.

225 U. GARGIULO, op. cit., ibidem. Sicuramente potrebbero riscontarsi difficoltà

applicative legate sia all’insindacabilità delle scelte organizzative del datore sia al problema dell’esecuzione degli obblighi di fare: ciò potrebbe far propendere piuttosto per lo spostamento verso una riparazione per equivalente attraverso il risarcimento dei danni subiti, qualificabile tra l’altro quasi esclusivamente in termini di perdita di chance (in relazione alle possibilità di crescita professionale piuttosto che di mantenimento della professionalità acquisita), stante la parziale garanzia di conservazione del trattamento retributivo in godimento. In ogni caso tali difficoltà “non mutano certo l’astratta configurabilità di un tale diritto, che proprio in base al dato testuale del comma 5 e ad intuibili ragioni di ordine sistematico può essere riconosciuto”:

peggiorativo di mansioni deve essere comunicato per iscritto “a pena di nullità”226. La disposizione non prevede espressamente anche la comunicazione del motivo che giustifica il demansionamento, anche se costituendo la modifica organizzativa un vero e proprio presupposto dello jus variandi è auspicabile un’interpretazione di tipo sostanziale da parte della giurisprudenza tale da imporre anche la comunicazione della ragione del provvedimento datoriale227.

In ogni caso dovrà essere il datore ad esternare e provare la causa giustificatrice del mutamento in pejus in giudizio, dovendo dimostrare sia la modifica dell’organizzazione aziendale, sia la sua incidenza sulla posizione del lavoratore. I motivi di tale modifica invece rimangono insindacabili ai sensi dell’art. 41, comma 1, Cost. e dell’art. 30 della l. n. 183/2010228.

Quanto al momento in cui debba essere notificata tale comunicazione, in base alla sistematica della novella (secondo e quinto comma), nonché al principio generale di correttezza, si può ritenere che essa debba essere effettuata prima o contestualmente alla concreta adibizione a mansioni inferiori229.

Infine, nella comunicazione dovrebbe essere indicata anche la durata del mutamento di mansioni (temporanea o definitiva).

Come abbiamo visto la conseguenza della mancanza di forma scritta è la nullità dell’atto di assegnazione, pertanto si ritiene che il lavoratore possa legittimamente rifiutare l’adempimento della prestazione senza subire conseguenze disciplinari. In questo caso il prestatore non rifiuterebbe una

226 Ricordiamo che i mutamenti di mansioni di cui al comma 1 sono invece a forma libera (come lo erano tra l’altro sotto la vigenza della regola dell’equivalenza).

227 M.BROLLO, op. cit., p. 71; U. GARGIULO, op. cit., p. 8.

C. PISANI, op. cit., p. 72: invece ritiene che non prevedendo la disposizione espressamente un tale obbligo, se ne dovrebbe dedurre che la motivazione non sia dovuta, in quanto il legislatore quando lo ha voluto, lo ha previsto espressamente, come nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in relazione al quale l’obbligo di motivazione contestuale è stata introdotta con la l. n. 92/2012. Anche se non esclude che la giurisprudenza potrebbe introdurre un obbligo di comunicazione della motivazione a richiesta del lavoratore, in analogia a quanto avviene per la fattispecie del trasferimento (ove la legge nulla dispone a tal proposito) e a quanto avveniva per il licenziamento prima della l. n. 92/2012.

228 Il sindacato giudiziale dovrà quindi limitarsi ad una verifica circa l’effettività della

modifica organizzativa che dovrà essere seria ed attendibile: dovuta ad esempio ad un