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L’efficacia temporale del nuovo art 2103 c.c

Data l’assenza di una disciplina transitoria nel d. lgs. n.81 del 2015, ci si deve interrogare sulla portata applicativa ratione temporis della novella, ovvero se essa trovi applicazione a tutti i rapporti di lavoro, compresi quelli già in essere, e in particolar modo se riguardi anche quei mutamenti di mansioni disposti sotto la vigenza del vecchio art 2103 c.c.

Sicuramente, nel silenzio della legge circa una disciplina intertemporale, la nuova disposizione trova applicazione anche ai rapporti di lavoro già in corso alla data della sua entrata in vigore; con altrettanta fermezza si può affermare che i fenomeni di demansionamento iniziati e conclusi prima dell’entrata in vigore dell’art 3 d.lgs n. 81/2015 debbano essere valutati alla stregua dei principi fissati dalla disciplina previgente61. Il problema semmai si pone in

relazione a quelle fattispecie di demansionamento che si pongono a cavallo

59U. GARGIULO, Lo jus variandi nel nuovo art 2103 cod.civ., in Working Papers

C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT n. 268/2015, p. 7.

60 F.AMENDOLA, La disciplina delle mansioni nel d. lgs. n. 81 del 2015, in Working Papers C.S.D.L. E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 291/ 2016, p. 7.

61 E. GRAMANO, Sull’applicabilità temporale del nuovo art 2103 c.c. in Arg. dir. lav.

delle due norme: da qui i primi dubbi circa la rilevanza del momento di adozione del provvedimento datoriale di adibizione a mansioni inferiori62. Le prime sentenze di merito apparse, chiamate a pronunciarsi su domande di lavoratori che lamentavano un illegittimo mutamento di mansioni disposto unilateralmente dal datore prima dell’entrata in vigore del nuovo art 2103 c.c., hanno cercato di dare una risposta proprio a tale problema, prospettando però due soluzioni diametralmente opposte63.

In particolare, il Tribunale di Ravenna, ha affermato che la nuova disciplina dello jus variandi non si applica alle fattispecie di dequalificazione avvenute prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2015 in quanto “il fatto generatore del diritto allegato nel giudizio (il demansionamento) si è prodotto nel vigore della legge precedente. Ed il fatto che segna il discrimine tra una normativa e l’altra è proprio il prodursi del demansionamento”, a nulla rilevando che “esso continui nel vigore della legge successiva”.

Per porre un discrimine tra l’applicabilità del vecchio e nuovo art 2103 c.c. occorre pertanto fare riferimento al momento di adozione del provvedimento con cui il lavoratore viene adibito a mansioni differenti e se questo è antecedente alla data di entrata in vigore della riforma, si applicherà la vecchia disciplina, in ossequio al principio generale del tempus regit actum.

Il Tribunale di Roma ha invece chiarito come la nuova disciplina “abbia rilevanza [anche] rispetto a mutamenti di mansioni disposti prima del 25 giugno 2015 e in atto ancora dopo quella data”, costituendo il demansionamento “una sorta di illecito “permanente”, che si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle che egli, secondo legge e contratto, avrebbe diritto di svolgere”. Conseguentemente la legittimità o illegittimità della condotta datoriale andrà valutata “con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno”: per cui il parametro di verifica sarà costituito fino alla data di entrata in vigore dell’art 3, d.lgs. n. 81/2015 dall’art

62 M. MENEGOTTO, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act in Working Papers

ADAPT UNIVERSITY PRESS, n.7/2016, p. 12.

63 V. Trib. Ravenna 22 settembre 2015; Trib. Roma 30 settembre 2015 in Arg. dir. lav. 1/2016, p. 109 ss. con nota di E. GRAMANO.

2103 c.c. nella versione statutaria e successivamente a tale data, dal nuovo art 2103 c.c. Con l’ulteriore conseguenza che l’assegnazione dello stesso lavoratore e nel medesimo contesto produttivo a determinate mansioni potrebbe essere illegittima per un certo periodo e non esserlo più in un momento successivo 64.

64Tale impostazione risulta condivisa dalla prevalente dottrina: Cfr. A. AVONDOLA,

La riforma dell’art 2103 c.c. dopo il Jobs Act, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, p. 369 ss; E.

GRAMANO, Sull’applicabilità temporale del nuovo art 2103 c.c. in Arg. dir. lav., 1/2016 p. 109 ss.; F. AIELLO, Il nuovo art 2103 c.c. si applica agli illeciti antecedenti alla novella del

2015? in Lav. giur. 2/2016, p. 183 ss.; V. NUZZO, Il nuovo art 2103 c.c. e la (non più

necessaria) equivalenza professionale delle mansioni in Riv. it. dir. lav, 2015, II, p. 1047 ss.

A. GARILLI, La nuova disciplina delle mansioni tra flessibilità organizzativa e tutela del

prestatore di lavoro, in Giorn. dir. lav. Rel. Ind., fasc. 1, 2016, p. 133.

Le soluzioni prospettate dai due giudici presuppongono una diversa nozione di demansionamento con inevitabili ricadute sul piano della tutela applicabile: l’argomento sarà oggetto di una più approfondita analisi nel capitolo V.

CAPITOLO SECONDO

LA MOBILITA’ ORIZZONTALE

SOMMARIO

: 2.1 L’individuazione delle mansioni di assunzione – 2.2 Il vecchio testo dell’art 2103 c.c. e il limite dell’equivalenza – 2.3 La professionalità: visione statica e dinamica – 2.4 Il nuovo testo dell’art 2103 c.c.: il livello di inquadramento e la categoria legale – 2.5 Il ruolo della contrattazione collettiva – 2.6 L’ obbligo di formazione – 2.7 La garanzia retributiva – 2.8 Obbligo di repêchage e mansioni “equivalenti”.

2.1 L’individuazione delle mansioni di assunzione

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, l’art 2103 c.c. in tutte le sue versioni stabilisce al primo comma che il “lavoratore65 deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto” (c.d. principio della contrattualità delle mansioni): il punto di partenza di quella che è la storia lavorativa e professionale del lavoratore presso un determinato datore di lavoro quindi è costituito dall’individuazione delle mansioni di assunzione, ovvero dei compiti convenuti al momento della costituzione del rapporto di lavoro.

In quello che era un contesto aziendale basato su un’organizzazione del lavoro estremamente parcellizzata con prestazioni lavorative riconducibili ad un modello relativamente semplice, per le parti era agevole pattuire analiticamente ed espressamente l’elenco di tutte le prestazioni dovute dal lavoratore 66.

Nella nuova realtà produttiva, caratterizzata dalla polivalenza delle prestazioni lavorative nonché dall’impiego flessibile e dinamico della forza

65 Nel testo della versione originaria del 1942 e in quella statutaria in realtà si faceva

riferimento al “prestatore di lavoro”.

66 C. PISANI, Mansioni del lavoratore, in Enc. Giur. Treccani, vol. XIX, Roma, 1988,

lavoro, accade molto spesso che nel contratto (o nella lettera di assunzione) vengano individuati soltanto la categoria o il livello di inquadramento previsti dal contratto collettivo, senza specificare ulteriormente la prestazione lavorativa convenuta.

Tuttavia, il rinvio alla contrattazione collettiva (nonostante nella nuova disciplina assolva anche alla funzione di delimitare l’area della mobilità orizzontale) costituisce un riferimento del tutto generico, inidoneo ai fini della determinazione o determinabilità delle mansioni convenute ex art 1346 c.c.. Le classificazioni contenute nella maggior parte dei contratti collettivi, di fatto, continuano a raggruppare una pluralità di attività lavorative molto diverse tra loro, descrivendo tra l’altro mansioni generiche e che rinviano necessariamente a nozioni di esperienza o di tipicità ambientale67. Da qui l’esigenza di

individuare tali modelli tra le figure professionali plasmate dal mercato del lavoro: ma da tempo e da più parti si è segnalata la crisi delle qualifiche, stante la non coincidenza tra le qualifiche presenti sul mercato del lavoro e le qualifiche esistenti nelle organizzazioni produttive.

Così, nell’intento di superare tale difficoltà nell’individuazione del tipo di attività convenuta, una parte della dottrina ha proposto di procedere alla ricostruzione della volontà delle parti68, valorizzando quelle che sono le vicende precontrattuali e quindi in quanto comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto ( art 1362, 2° comma c.c.) lo svolgimento iniziale delle mansioni; pur con la consapevolezza però che i compiti eseguiti inizialmente dal lavoratore rappresentano molto spesso solo una parte del più ampio modello voluto dalle parti, non consentendo quindi di individuare con precisione quelli che sono i confini dell’area del debito del lavoratore.

Altra parte della dottrina ha allora individuato il referente in base al quale determinare le mansioni di assunzione nella posizione o “ruolo professionale” occupato dal lavoratore nell’ambito dell’organizzazione produttiva69,

67 C. PISANI, op. cit., ibidem.

68 G. GIUGNI, op. cit., p. 115 ss.

69 F. LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Franco Angeli, 1982,

p. 166; C.PISANI, La modificazione delle mansioni, Franco Angeli, 1996, p. 145 ss.; M.

intendendosi per ruolo “non solo le attività lavorative che il singolo svolge nel contesto produttivo dato, ma anche la connotazione funzionale di tale attività, cioè il fine per cui si compiono quelle azioni” nonché “il momento relazionale dell’attività stessa, cioè il rapporto tra questa e gli elementi (uomini e macchine) del sistema”70. Quindi mediante il riferimento al “ruolo” è possibile cogliere con precisione l’effettivo apporto professionale del lavoratore, considerato sia nella dimensione individuale (delle singole prestazioni svolte) che in quella collettiva (della collaborazione lavorativa complessivamente attuata)71. “Sicché, l’insieme di attività e di compiti lavorativi, identificati dal ruolo del lavoratore in una data organizzazione, configura un preciso modello di prestazione convenuto, cioè le mansioni di assunzione”72.

L’individuazione delle mansioni di assunzione riveste una funzione fondamentale ai fini dell’accertamento, in sede di variazione dei compiti convenuti, della “diversità” delle mansioni ad quem, e quindi al fine di valutare se vi sia stata una vicenda modificativa rilevante (e quindi legittima) ai sensi dell’art 2103 c.c.

Sotto questo profilo è opportuno ricordare che “non tutte le variazioni di compiti o posti lavorativi realizzano la predetta vicenda modificativa, bensì solo quelle che siano di dimensioni tali da alterare il modello di prestazione dedotto inizialmente in contratto”73: muovendosi nell’ambito delle mansioni componenti il modello di prestazione concordato il datore, di fatto, non modifica la prestazione, ma si limita a specificare il contenuto concreto delle attività che il lavoratore è chiamato a svolgere, in esercizio del proprio potere direttivo e/o di conformazione.

70 C. PISANI, L’oggetto ed il luogo della prestazione, in A.VALLEBONA (a cura di),

I contratti di lavoro, Torino, 2009, tomo I, p. 418.

71 M. BROLLO, Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi, cit., pp.

529-530.

72 M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, cit., p. 129.

73 C. PISANI, Mansioni del lavoratore, in Enc. Giur.Treccani, vol. XIX, Roma, 1988,

2.2 Il vecchio testo dell’art 2103c.c. e il limite dell’equivalenza

L’art 2103 c.c. come modificato dall’art 13 dello Statuto dei Lavoratori, al primo comma disciplinava la possibilità per il datore di lavoro di adibire il prestatore a “mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”: l’equivalenza tra vecchie e nuove mansioni veniva posta quale “limite invalicabile ad una possibile variazione qualitativa dell’oggetto della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore”74, pena la nullità dell’atto stesso. La norma però lasciava aperto il problema dell’individuazione dei parametri sulla base dei quali avrebbe dovuto condursi il giudizio di equivalenza.

La nozione di equivalenza come impiegata dal legislatore aveva di fatto un carattere del tutto “aperto” e di per sé “neutro”, costituendo un “criterio relazionale generico tra mansioni di provenienza e mansioni di destinazione”75: da qui la necessità di individuare i confini interni ed esterni della stessa equivalenza che potessero orientare il giudizio di comparazione.

Per quanto riguarda i limiti “esterni”, questi venivano individuati nelle mansioni da ultimo effettivamente svolte76 che, nella fase iniziale del rapporto di lavoro coincidono con le mansioni di assunzione e successivamente, con le differenti funzioni svolte stabilmente dal prestatore a seguito di precedente spostamento definitivo 77.

I limiti “interni” dell’equivalenza, invece, venivano ricercati nella ratio della norma e quindi nel bene che essa mirava a tutelare.

74 L. FERLUGA, Tutela del lavoratore e disciplina delle mansioni, Giuffré, 2012, p. 61.

75 M. BROLLO, op. cit., p. 135.

76 Anche la nuova disciplina regola e limita i mutamenti delle “ultime mansioni

effettivamente svolte”, che continuano quindi a rappresentare l’elemento di riferimento per la valutazione della legittimità dei successivi spostamenti: C. PISANI, La nuova disciplina del

mutamento delle mansioni, Giappichelli, Torino, 2015, p. 5. Cfr. M.BROLLO, La disciplina

delle mansioni dopo il Jobs Act in Arg. dir. lav. 6/2015, p. 1162.

77 F.LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Franco Angeli, 1982,

p. 147.

Come ha sottolineato M. BROLLO,Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi, cit., p. 535 tale richiamo “mira a rendere più certo ed effettivo il termine di raffronto,

facendo riferimento non a qualsiasi compito occasionalmente svolto dal dipendente, ma solo a quello effettuato con sufficiente stabilità”.

Sulla base del dettato dell’art 2103 c.c., che prevedeva espressamente che il mutamento di mansioni non potesse in alcun modo comportare una riduzione della retribuzione, si escludeva che la disposizione mirasse a proteggere un interesse unicamente di tipo economico e che quindi il parametro in base al quale verificare l’equivalenza delle mansioni coincidesse con la conservazione del livello di controprestazione retributiva riconosciuto al lavoratore al momento della costituzione del rapporto78; e ciò anche in base all’argomento interpretativo c.d. economico (o ipotesi del legislatore non ridondante) secondo il quale a coppie di enunciati dello stesso livello, deve attribuirsi significato distinto: di fatto “se il legislatore avesse voluto utilizzare l’equivalenza per introdurre il divieto di assegnare al lavoratore mansioni collocabili ad un livello retributivo inferiore, non si sarebbe preoccupato, poi, di sottolineare anche l’irriducibilità della retribuzione”79. Si riteneva quindi che l’irriducibilità

rilevasse esclusivamente a livello di disciplina degli effetti della modifica delle mansioni e non come elemento che contribuiva a determinare il legittimo ambito di tale modifica80.

Il bene tutelato dalla norma veniva così individuato, sia per la collocazione dell’art 13 nel Titolo I dello Statuto dei lavoratori (rubricato “Della libertà e dignità del lavoratore”), sia per la rigida delimitazione dello jus variandi a mansioni equivalenti o superiori, nella “dignità professionale” della persona- lavoratore quale declinazione del più ampio, e costituzionalmente tutelato, bene della dignità del prestatore (art 41, comma 2 Cost.). E ciò anche in ossequio all’argomento secondo cui l’inserimento dell’individuo nell’ambito dell’organizzazione aziendale, comporta che la tutela del lavoratore non si esaurisca nella “necessità di tutela degli immediati effetti retributivi”, ma debba estendersi al complesso della sua persona, costituendo il lavoro anche

78 F. LISO, op. cit., p. 226; M. BROLLO La mobilità interna del lavoratore, cit. p. 136.

C. PISANI, La modificazione delle mansioni, Franco Angeli, 1996, p. 127 ss.

79 M.VENDRAMIN, Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi.

Mansioni, qualifiche, jus variandi, in Trattato di Diritto del Lavoro diretto da Mattia Persiani

e Franco Carinci, Cedam, 2012, volume IV, tomo I, p. 540. 80 C. PISANI, op. cit., p. 128.

un “importante momento di affermazione ed estrinsecazione della sua personalità”81.

2.3 La professionalità: visione statica e dinamica

Dunque la “professionalità” del lavoratore intesa come insieme di conoscenze teoriche, capacità pratiche, abilità ed esperienze possedute dal lavoratore nell’ambito del concreto contesto lavorativo82 diveniva il baricentro del concetto di equivalenza.

Proprio l’individuazione di tale bene aveva consentito di costruire il percorso logico-giuridico in base al quale vagliare la legittimità degli atti di esercizio dello jus variandi: le mansioni di destinazione e quelle di partenza potevano considerarsi equivalenti solo se le prime consentivano al prestatore l’utilizzo della sua professionalità, e non ne costituivano, invece, una fonte di lesione83.

Tuttavia anche la professionalità è un concetto “fluido e indeterminato”84, non definibile a priori85, dipendendo dalle complesse dinamiche del contesto economico e sociale, dalle regole organizzative nonché dalla continua evoluzione tecnologica ma anche dagli sviluppi dell’autonomia collettiva: così è stata la giurisprudenza a dare concretezza a tale nozione, con tutte le conseguenze che ne sono derivate in termini di incertezza del diritto, in quanto

81 M.N. BETTINI, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele,

Giappichelli, Torino, 2014, p. 3.

82 M.VENDRAMIN, op. cit., ibidem; Cfr. M.BROLLO op. cit., p. 138.

83 E. GRAMANO, La disciplina delle mansioni: evoluzione del quadro normativo in

E.GRAMANO, G. ZILIO GRANDI (a cura di) La disciplina delle mansioni prima e dopo

il Jobs Act: quadro legale e profili problematici, Giuffré, 2016, p. 11.

84 M.VENDRAMIN, op. cit., p. 541.

85 M. BROLLOha individuato in questo aspetto sia il “limite strutturale della norma

”ma anche il suo “pregio”in quanto le consente di “aggiornarsi” al mutare delle circostanze economico-produttive e della politica del diritto: M.BROLLO, op.cit., p.142.

la struttura “aperta” della norma la rendeva “suscettibile di abbracciare un insieme assai eterogeneo di situazioni”86.

Secondo l’interpretazione tradizionale, maturata nel corso degli anni Settanta in riferimento al modello di organizzazione e divisione del lavoro fordista-taylorista, caratterizzato da una marcata rigidità produttiva ed organizzativa, nonché in un clima culturale e giuridico improntato a un marcato garantismo nei confronti dei lavoratori, la professionalità veniva intesa come un bene da tutelare in senso “statico”, in quanto costituita dal complesso di attitudini e capacità già acquisite dal lavoratore durante lo svolgimento delle precedenti mansioni.

In particolare, nell’applicazione giurisprudenziale, il giudizio di equivalenza veniva ancorato alla verifica della sussistenza di due parametri : l’uno di tipo oggettivo (o formale o quantitativo), in base al quale le mansioni di destinazione dovevano essere collocate nel medesimo livello o area contrattuale di inquadramento di quelle originarie; e l’altro di tipo soggettivo (o sostanziale o qualitativo), in virtù del quale le nuove mansioni dovevano consentire al lavoratore l’utilizzo delle nozioni, dell’esperienza e delle competenze dallo stesso acquisite nello svolgimento di quelle originarie87.

In questa logica il solo criterio formalistico della collocazione, ad opera del contratto collettivo, delle mansioni nel medesimo livello della scala classificatoria non era ritenuto di per sé sufficiente ai fini del riconoscimento dell’equivalenza, in quanto i livelli di inquadramento, svolgendo una funzione essenzialmente tariffaria, erano ritenuti “inidonei a costituire espressione della gerarchia dei valori professionali” non rappresentando “aree omogenee dal punto di vista del contenuto delle prestazioni lavorative e della specifica

86 C. PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, Torino,

2015, p. 15.

87 Tra le molte v. Cass. Sez. Lav., 5 aprile 1984, n. 2231, in Giust. civ., 1985, I, p.163 ss.

con nota di M.PAPALEONI; Cass. Sez. Lav. 23 gennaio 1988, n. 539; Cass. Sez. Lav., 14 luglio 1993, n. 7789; Cass. Sez. Lav., 4 ottobre 1995, n. 10405; Cass. Sez. Lav., 10 aprile 1996, n. 3340; Cass. Sez. Lav., 1 settembre 2000, n.11457; Cass. Sez. Lav., 11 giugno 2003, n. 9408; Cass. Sez. Lav., 9 marzo 2004, n. 4790; Cass. Sez. Lav., 20 marzo 2004, n.5651 disponibili su

professionalità necessaria per il loro svolgimento”88; pertanto si richiedeva anche una verifica in concreto circa l’aderenza delle nuove mansioni alle specifiche competenze del dipendente.

Talvolta la giurisprudenza integrava i requisiti dell’identità dell’inquadramento e della professionalità pregressa con ulteriori referenti desumibili dal contesto aziendale quali il prestigio sia interno che esterno all’azienda89; le aspettative di carriera90; la posizione gerarchica raggiunta nell’organizzazione aziendale, l’ampiezza dei poteri, dell’autonomia e della discrezionalità di cui il lavoratore godeva91; e quindi la misura del controllo a cui lo stesso doveva sottostare92; nonché il livello di coordinamento con i colleghi93; ai fini dell’equivalenza veniva inoltre ritenuta rilevante la misura

del rischio e dell’aggravio fisico94.

Quella che ne risultava era una lettura estremamente rigida del concetto di equivalenza, basata su una “visione retrospettiva della vita lavorativa”95 che precludeva al datore una gestione flessibile della forza lavoro96, e allo stesso lavoratore la possibilità di essere adibito a mansioni equivalenti ma che richiedessero la spendita di abilità e conoscenze diverse da quelle già acquisite.

88 F. LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Franco Angeli, 1982,

p. 178 s.

Al contrario, la collocazione delle nuove mansioni in un livello inferiore rispetto alle precedenti era considerato indice di per sé sufficiente di non equivalenza. Solo per fare un esempio, si veda la già citata Cass. Sez. Lav. 10 aprile 1996, n.3340. In dottrina, F.LISO, op.cit., p. 178; M.BROLLO, op. cit., p. 146.

89 Cass. Sez. Lav., 19 novembre 1997, n.11522; Cass. Sez.lav., 11 gennaio 1995, n. 276

disponibili su www.iusexplorer.it.

90 Cass. Sez. Lav., 17 luglio 1998; Cass. Sez. lav., 16 marzo 1992, n. 3213 su

www.iusexplorer.it.

91 Cass. Sez. Un., 24 aprile 1990, n. 3455; Cass. Sez. Lav., 14 luglio 1993, n. 7789 su

www.iusexplorer.it.

92 Cass. Sez. Lav., 30 settembre 2009, n. 20980 su www.iusexplorer.it. 93 Cass. Sez. Lav., 10 agosto 1999, n. 8577 su www.iusexplorer.it.

94 Cass. Sez. Lav., 8 aprile 1991, n. 3661; Cass. Sez. Lav., 2 ottobre 2002, n. 14142

consultabili su www.iusexplorer.it. 95M.BROLLO, op.cit., p. 149.

96 In questo contesto gli unici elementi di flessibilità erano quelli derivanti

dall’applicazione delle clausole generali di buona fede e correttezza: a fronte di esigenze aziendali temporanee e straordinarie (ad es. inerenti alla salvaguardia degli impianti o alla sicurezza sul lavoro) si riteneva ammissibile l’assegnazione provvisoria del lavoratore a “compiti peggiorativi rispetto alle normali mansioni”: M. BROLLO, op. cit., ibidem; F.

Tuttavia se in un periodo caratterizzato dalla staticità del mercato del lavoro tali esigenze erano poco avvertite, “con la crisi economica avviata dallo shock petrolifero degli anni Settanta, con l’avanzare delle trasformazioni organizzative del decennio successivo e con l’avvento del clima giuridico, prima, dell’emergenza e, poi, della crisi e della flessibilità”97 emergeva sempre