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Analisi strategica alla base di una IPO: il caso Rosss S.p.A.

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

Dipartimento di Economia e Management

Corso di laurea magistrale in Strategia, management e controllo

Analisi strategica alla base di una IPO:

il caso Rosss S.p.A.

Relatore: prof.ssa Alessandra Rigolini

Candidato: Luca Porcinai

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Indice

Presentazione 1

Introduzione 3

1. IPO e Family Business 3

2. Perché continuano ad esistere le piccole imprese? 5

CAPITOLO PRIMO

Analisi del contesto italiano: il capitalismo familiare

1. Le imprese a conduzione familiare 9

2. Il patrimonio familiare extra-aziendale come strumento di garanzia 12

3. Patrimonio familiare extra-aziendale e autofinanziamento 14

4. Il problema del ricambio generazionale 16

5. Classificazione delle imprese familiari: impresa monolitica e temperata 19 CAPITOLO SECONDO

Il processo di raccolta del capitale

1. Premessa 23

2. Crescita, rischio e finanziamento 24

3. Finanziamento interno ed esterno a confronto 28

4. Criteri per la scelta della composizione della struttura delle fonti 31

5. Quotarsi o non quotarsi? 37

5.1 L’analisi del trend del fabbisogno finanziario 38

5.2 Vincoli e costi alla base del finanziamento 38

5.3 Rischio e redditività 39

5.4 Il mercato 40

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CAPITOLO TERZO

Diventare un’impresa quotata: le IPO

1. Premessa 45

2. Le fasi di una IPO 45

2.1 Preparazione 47

2.2 Esecuzione 48

2.3 Aftermarket 49

3. La scelta del mercato regolamentato di quotazione 50

4. Gli attori del processo di quotazione 54

4.1 Controparti coinvolte nella preparazione della società quotanda

e dell’offerta 57

4.2 Controparti istituzionali preposte al controllo ed al funzionamento

del mercato 65

5. La determinazione del valore dell’impresa 68

5.1 I metodi più comuni 70

6. L’IPO discount e il fenomeno dell’underpricing 72

7. Tecniche di collocamento: OPV, OPS, OPVS 76

CAPITOLO QUARTO

Gli effetti della quotazione

1. Le conseguenze dell’ingresso nel mercato dei capitali 79

2. Ridefinizione del sistema delle strategie aziendali 84

3. Impatto della quotazione sulla corporate governance: l’Agency Theory 90

3.1 Il grado di decentramento del potere decisionale 93

3.2 Il grado di polverizzazione dell’azionariato 94

4. La quotazione come risposta ad un problema di carattere informativo 95

5. Teoria dell’agenzia e imprese familiari: la Stewardship Theory 97

6. Rivisitazione del rapporto tra proprietà e gestione per effetto della quotazione 101

7. I sistemi incentivanti 104

8. Socioemotional Wealth 108

9. I costi della quotazione in termini di ingresso e permanenza in borsa 110

9.1 Costi diretti relativi all’IPO 111

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9.3 Costi periodici diretti successivi alla quotazione 115

9.4 Costi periodici indiretti successivi alla quotazione 115

9.5 Costi associati alla raccolta di capitale in Europa 115

CAPITOLO QUINTO

Il caso ROSSS S.p.A

1. Presentazione e storia dell’azienda 117

2. Le strategie e i modelli di business adottati 122

3. Un’impresa in crescita: strategie razionali e irrazionali

alla base della quotazione 129

4. Pre e post quotazione: analisi e confronto 132

5. Effetti e riflessi della quotazione 157

6. Riflessioni conclusive 160

Appendice 163

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Presentazione

Scopo del presente lavoro è l’analisi del percorso di quotazione di un’impresa, partendo dall’interpretazione delle strategie razionali e irrazionali alla base della decisione fino ad arrivare agli effetti che essa ha generato sull’intero sistema aziendale.

Per il mio studio, ho quindi scelto di prendere in esame ROSSS, un’azienda a carattere familiare che, per la sua storia e la sua crescita, ha fin da subito suscitato il mio interesse: nasce infatti dalla determinazione di un uomo semplice, un metalmeccanico, che sceglie come nome della sua impresa le sue iniziali legate a quelle dei suoi figli, e cresce grazie al lavoro e alle idee del fondatore e alla volontà dei figli di proseguire il percorso intrapreso dal padre.

L’acronimo ROSSS, dunque, contiene in sé questa consonanza totale tra ambito familiare e lavorativo, una indissolubile continuità tra famiglia e lavoro, talmente forti da non far pensare alla possibilità di immissione di terzi estranei nelle responsabilità e decisioni dell’azienda.

Proprio questo contrasto ha stimolato la mia curiosità a cercare le motivazioni che, ad un certo momento, hanno spinto la famiglia a quotare la società in borsa.

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Introduzione

1. IPO e Family Business

Da sempre, in Italia, le imprese a conduzione familiare rappresentano il modello di governance più sviluppato. Tra i motivi che hanno determinato la diffusione capillare di tale modello di impresa sul nostro territorio ve ne sono alcuni di carattere oggettivo e altri di tipo soggettivo. Con il termine soggettivo intendiamo fare riferimento al «forte desiderio di autonomia e di indipendenza economica che ha spinto numerosi individui a impiegare i propri capitali e il proprio bagaglio esponenziale in attività imprenditoriali, senza coinvolgere, in qualità di socio, altri individui o tutt’al più coinvolgendo solamente componenti della famiglia»1 o, ancora, ci riferiamo alla «naturale

inclinazione» del soggetto economico «a considerare di secondaria importanza la costituzione, all’interno dell’impresa, di un team manageriale sufficientemente indipendente rispetto alle esigenze e alle pretese della famiglia, da premiare o da penalizzare in relazione agli obiettivi conseguiti»2.

I settori di riferimento nei quali le piccole e medie imprese si sono sviluppate, al contrario, rappresentano uno dei motivi oggettivi che hanno permesso una così vasta diffusione di tali forme di corporate governance. Si tratta di settori caratterizzati dalla scarsa presenza di economie di scala dove, notoriamente, il vantaggio competitivo si basa sulla focalizzazione di mercato piuttosto che sulla differenziazione o sulla leadership di costo. Porter ci ricorda che un’impresa attua una strategia di focalizzazione quando «sceglie un segmento di settore e adatta la propria strategia per servirlo»3. Facciamo riferimento a quei settori che hanno rappresentato nel corso degli anni l’habitat naturale per la crescita e lo sviluppo delle PMI e che sono, tra i tanti, il settore meccanico, l’abbigliamento, il tessile.

Le motivazioni soggettive e oggettive appena citate sono soltanto alcuni dei motivi che hanno permesso la nascita e la permanenza delle piccole e medie imprese nel nostro contesto economico; tuttavia, il problema di fondo che caratterizza queste forme di

1 N. Angiola, M. Taliento, IPO e family business, FrancoAngeli, Milano 2012, p. 9. 2 G. Donna, I modelli di governo dell’impresa, Giappichelli, Torino 1996, pp. 335-336. 3 M. Porter, Il vantaggio competitivo, Edizioni di Comunità, Milano 1993.

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organizzazione, è la scarsità di risorse finanziarie a disposizione dovuta al fatto che il capitale di rischio, tendenzialmente, non viene conferito da soggetti esterni al contesto familiare. Lo stesso dicasi per le risorse provenienti dai mercati borsistici e dal settore del private equity, strumenti sovente poco utilizzati (e conosciuti) che permetterebbero un incremento della struttura delle fonti finanziarie favorendo il reperimento dei capitali di rischio.

Festa ci ricorda che il 20164 è stato l’anno più debole a livello globale per le IPO dal 2013, nonostante un aumento delle operazioni nell’ultimo trimestre. In Italia le operazioni di initial public offering sono state soltanto 10 rispetto alle 24 del 2015, con l’equivalente di 1,4 miliardi di dollari di capitale raccolto, il 75% in meno dell’anno precedente (5,7 miliardi nel 2015). I fattori che hanno rallentato la corsa alla quotazione vanno ricercati nella maggiore disponibilità di liquidità concessa dai fondi di investimento e dagli istituti di credito; il perdurare del basso costo del denaro rappresenta, inoltre, un elemento centrale nell’influenzare le scelte dei soggetti economici, orientandole verso strumenti di finanziamento alternativi alla quotazione.

Tuttavia, dal punto di vista geopolitico, il 2016 è stato un anno molto particolare e i mercati finanziari indubbiamente ne hanno risentito, soprattutto in termini di volatilità.

Il referendum costituzionale italiano, Brexit e le elezioni presidenziali negli Stati Uniti hanno inevitabilmente incrementato la volatilità dei mercati a livello globale, influenzando le scelte strategiche delle imprese e le eventuali tempistiche di quotazione. Wall Street ha visto diminuire del 36% l’ammontare delle proprie operazioni, con una raccolta del 37% in meno di capitale (21,3 miliardi totali) e 112 IPO, guadagnandosi il titolo di anno più lento dai tempi della crisi finanziaria del 2009 in riferimento alle operazioni di quotazione. Tuttavia, le prospettive per il 2017 sono ottimiste e le aziende di recente quotazione hanno comunque registrato performance positive, con un aumento del prezzo medio delle azioni del 17,6% in più rispetto a quello di lancio.

Al di là degli eventi congiunturali e della situazione economico-finanziaria a livello globale, il mercato azionario, in Italia, ha da sempre ricoperto un ruolo marginale a discapito dell’intermediazione bancaria, elemento portante della storia del sistema finanziario italiano.

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Il credito bancario e l’autofinanziamento, nel corso degli anni, hanno rappresentato la principale (se non l’unica) forma di finanziamento delle piccole e medie imprese, condizionandone in molti casi (in positivo e in negativo) le scelte di investimento e sviluppo.

Come affermano gli autori Angiola e Taliento: «Il patrimonio familiare extra-aziendale rappresenta di sovente l’unica risorsa per procedere ad aumenti di capitale proprio e per fornire garanzie ai terzi finanziatori»5, rivelandosi una forma di finanziamento insufficiente al mutare delle dimensioni aziendali.

È in questa ottica che vengono evidenziati i limiti di tale forma di governance che, per quanto forte sia il suo vantaggio competitivo all’interno del settore, risente comunque dell’effetto di ‘ingessamento’ della struttura delle fonti, con il rischio di generare squilibri ed inefficienze che possono portare a situazioni di crisi talvolta irreversibili. Per questo motivo i mercati finanziari rappresentano una opportunità alternativa, talvolta una esigenza improrogabile necessaria per il mantenimento dell’equilibrio finanziario e la prosecuzione dell’attività economica.

Spesso gli imprenditori non prendono in considerazione lo strumento della quotazione o, più in generale, il ricorso a strumenti di finanziamento alternativi al credito bancario per paura di vedersi privare del diritto di controllo dell’organizzazione e della sua connotazione a carattere familiare, ignorando, per esempio, la possibilità di collocare quote di minoranza della società o quote minoritarie di imprese da essi controllate.

2. Perché continuano ad esistere le piccole imprese?

Gli svantaggi dal punto di vista concorrenziale delle piccole imprese spesso appaiono così rilevanti che gli economisti e la dottrina hanno sentito la necessità di formulare valide spiegazioni del perché le piccole imprese continuino ad esistere. Si potrebbe pensare che in un determinato momento certe imprese sono tali semplicemente perché sono di recente creazione e che in seguito esse si svilupperanno ampliando la propria dimensione fino a diventare medie o grandi imprese. Tuttavia questa possibilità viene raramente presa in considerazione nel motivare l’esistenza delle PMI in quanto l’analisi,

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solitamente, viene presentata in termini di economie e diseconomie di scala, utilizzando un tipo di impostazione statica o di analisi incrociata6.

Gli economisti, tuttavia, hanno individuato una serie di spiegazioni, raggruppabili in quattro categorie generali, con le quali poter motivare il perché dell’esistenza e della permanenza delle piccole e medie imprese.

1. Alcune tipologie di attività non sono adatte alle grandi imprese, basti pensare a tutte quelle attività che richiedono rapidi adattamenti al mutare delle condizioni economiche, elevata cura dei dettagli, capricci dei clienti o necessità di piccoli impianti (antieconomici per le grandi imprese).

2. In certe circostanze le grandi imprese seguono la politica di permettere e proteggere l’esistenza delle piccole, talvolta sotto un ‘ombrello’ di prezzi che copre l’intero settore.

3. In certi settori industriali l’ingresso è relativamente semplice e ogni anno un gran numero di imprenditori iniziano una nuova attività: ciò comporta l’esistenza di molte piccole imprese che, tuttavia, in molti casi sono destinate ad estinguersi.

4. Infine, nello sviluppo di taluni settori, alcune piccole imprese sussistono perché le imprese di maggiori dimensioni non si sono preoccupate di assorbirle; col tempo, però, anch’esse sono destinate ad essere eliminate o inglobate.

Se l’esistenza di tutte le imprese di minori dimensioni potesse essere spiegata con i motivi appena citati dovremmo aspettarci un fluttuare continuo della popolazione delle piccole imprese ed una costante espansione di quelle più grandi, senza alcun significativo aumento nel numero di queste ultime. Tuttavia, man mano che un sistema economico si espande anche il numero delle imprese di grandi dimensioni aumenta persino nei sistemi economici più avanzati.

In notevole misura la sopravvivenza delle piccole imprese di recente costituzione dipende dalla capacità imprenditoriale, dalla versatilità dei soggetti economici e dalle risorse finanziarie e monetarie a disposizione. Ci si può aspettare che gli imprenditori più dotati cerchino di operare in quei campi in cui le prospettive di profitto corrispondono ragionevolmente alle loro idee su ciò che sono in grado o meno di ottenere. Poiché questi ultimi dispongono di capacità decisionali, saranno attratti prevalentemente da quei settori in cui i tassi di profitto sono elevati e vi sono possibilità di ottenere posizioni di vantaggio competitivo.

6 A. Dessy, L. Ramella, J. Vender, Introduzione alla finanza delle piccole e medie imprese, Unicopli universitaria, Milano 1983.

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La domanda fondamentale da porsi, tuttavia, è: esistono realmente tali settori per le piccole imprese? E, se esistono, ciò accade soltanto per ragioni/contingenze particolari (ad esempio perché si riesce ad ottenere la protezione dei brevetti) o perché le grandi imprese, per i più svariati motivi, non sono riuscite ad individuare convenienti opportunità di espansione?

Assumiamo il fatto che le grandi imprese presentino nella maggior parte dei casi un vantaggio in termini concorrenziali rispetto alle piccole imprese; ciò non basta tuttavia ad assicurare che esse siano effettivamente in posizione di sfruttare tale vantaggio. Sappiamo, infatti, che le opportunità di espansione presenti in un sistema economico aumentano ad un ritmo più rapido di quello a cui le grandi imprese possono sfruttarlo, dato che ogni singola impresa, indipendentemente dalle dimensioni, non può sfruttare tutte le opportunità di espansione a disposizione7.

Dal momento poi che, tendenzialmente, le grandi imprese non possono impedire l’ingresso delle piccole, vi sarà spazio per un progressivo sviluppo sia nel numero che nelle dimensioni di queste ultime, a patto che possiedano i requisiti necessari per potersi espandere fino a mutare la propria dimensione da piccole a grandi organizzazioni aziendali.

Queste opportunità vengono definite interstizi del sistema economico.

Si tratta di opportunità produttive costituite da quegli interstizi lasciati aperti dalle grandi imprese che le piccole e medie imprese individuano e ritengono di poter sfruttare.

Se un numero sufficiente di piccole imprese valuta le proprie prospettive in modo ragionevolmente corretto e agisce di conseguenza, allora il tasso di sviluppo del sistema sarà maggiore del tasso di sviluppo delle grandi imprese. E se le piccole imprese esistenti non possono o non vogliono occupare tutti gli interstizi, allora vi sarà spazio per il sorgere di nuove imprese8.

In sostanza si tratta di una variante del noto e familiare concetto di vantaggio comparato: date risorse limitate, un’impresa che presenti un vantaggio rispetto alle altre in numerosi settori di attività realizzerà la maggiore espansione in quei settori in cui i suoi vantaggi sono maggiori. Gli interstizi si creano essenzialmente perché vi è un limite al tasso di espansione di ciascuna impresa, comprese le più grandi; la natura degli interstizi è determinata dal tipo di attività in cui le imprese di maggiori dimensioni

7 Dessy, Ramella, Vender, Introduzione alla finanza delle piccole e medie imprese, cit. 8 Ibidem.

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individuano le opportunità più favorevoli e in cui esse si specializzano senza sfruttare le altre opportunità a disposizione.

Può accadere, naturalmente, che un tipo di attività sviluppato da una piccola impresa attragga l’attenzione di una organizzazione di maggiori dimensioni, la quale decide di immettersi in tale attività e distrugge le opportunità della piccola costringendola ad abbandonare il settore o inglobandola in blocco.

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CAPITOLO PRIMO

Analisi del contesto italiano: il capitalismo familiare

1. Le imprese a conduzione familiare

Secondo un concetto largamente diffuso, impresa familiare è quella nella quale alcuni membri di una famiglia collaborano svolgendo le principali funzioni non solo direttive, ma anche operative1.

Tale visione è senza dubbio restrittiva e trova applicazione soprattutto in aziende artigianali o di modestissima dimensione, tuttavia, essa è stata anche accolta dal nostro Legislatore nell’art. 230 bis del Codice Civile dove, al comma terzo, definisce impresa familiare «quella a cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo»2.

Il carattere familiare di un’impresa è riconducibile, secondo altre fonti, al possesso di capitale.

Per impresa familiare si intende perciò l’impresa interamente di proprietà di persone legate tra loro da vincoli di parentela e/o affinità o, comunque, saldamente controllata da costoro.

Maggiori adesioni, in particolar modo tra gli studiosi, ha avuto la terza concezione secondo la quale il carattere ‘familiare’ di una impresa viene fatto risalire contemporaneamente sia al possesso di capitale, sia alla partecipazione dei membri della famiglia alle decisioni. Secondo questo tipo di concezione, quindi, l’impresa viene definita familiare se persone legate da vincoli di parentela e/o affinità svolgono contemporaneamente un ruolo determinante sia nella proprietà del capitale proprio, sia nella formulazione delle decisioni. Si preferisce, in questi casi, parlare di ‘impresa a conduzione familiare’.

Secondo altre fonti3, un’impresa è ‘familiare’ quando la proprietà e il potere

decisorio siano già passati, per successione ereditaria dal fondatore ad altri membri

1 Dessy, Ramella, Vender, Introduzione alla finanza delle piccole e medie imprese, cit.

2 L’istituto dell’‘impresa familiare’ regolato dall’art. 230 bis c.c. è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico al capo VI del codice civile dall’art. 89 della legge 19 maggio 1975, n. 151, recante la Riforma

del diritto di famiglia.

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della sua famiglia. Secondo questa concezione, tuttavia, si opera una separazione concettuale tra imprese individuali (di prima generazione) e imprese familiari nelle quali già è avvenuta la successione. Tale distinzione, seppur interessante, non sembra essenziale nell’analisi del presente lavoro anche se può essere utile per racchiudere le due forme all’interno di una visione globale unitaria dato che esse non rappresentano tipologie distinte, ma, eventualmente, due fasi evolutive di un unico fenomeno che può essere compreso a fondo solo attraverso una visione unitaria.

L’interazione tra impresa e famiglia rappresenta perciò uno dei caratteri distintivi delle imprese a conduzione familiare. Questa interazione opera su più piani, coinvolgendo direttamente, in particolare, l’aspetto finanziario della gestione d’impresa. La famiglia, nell’impresa familiare, non è solo la principale fornitrice del capitale proprio ma conferisce ad essa anche le persone che ne formulano le scelte vitali, intervenendo direttamente nell’alta direzione. In alcuni esponenti familiari, pertanto, coesistono i due ruoli distinti di rappresentante del capitale di comando e di espressione del top management. Da tale coincidenza di ruoli, si realizza anche un coordinamento automatico tra le due funzioni e una diretta ed immediata interrelazione tra problemi legati all’attività di impresa e problemi di famiglia.

Questa interrelazione impresa-famiglia si esprime anche in una diretta correlazione tra patrimonio familiare e finanziamento d’impresa. Difatti, il patrimonio extra-aziendale della famiglia che fornisce il capitale di comando può svolgere contemporaneamente, nei riguardi dell’impresa, le funzioni di:

a) riserva di mezzi finanziari alla quale attingere in caso di necessità; b) strumento di garanzia per i terzi finanziatori dell’impresa stessa;

c) volano tra esigenze della famiglia ed esigenze dell’azienda di produzione.

Qualsiasi azienda necessita sempre sia di capitale proprio sia di capitale di credito: come ben sappiamo, infatti, è stato ampiamente dimostrato dalla dottrina che nessuna impresa può reggersi convenientemente solo sul capitale di credito o sul capitale proprio, bensì queste due entità devono sempre trovare una opportuna proporzione all’interno dell’organizzazione4.

Le proporzioni che tali mezzi possono assumere dipendono sia dalle esigenze delle coordinazioni economiche in atto e dall’economicità delle stesse, sia dai caratteri dell’offerta di finanziamento.

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In altri termini, «la misura del capitale proprio richiesta dall’impresa è un elemento variabile e, ceteris paribus, è tanto maggiore quanto minore è la capacità dell’impresa di suscitare consensi di capitale sotto forme diverse»5.

In certi momenti della vita aziendale è perciò di vitale importanza avere la possibilità di poter reperire nuovo capitale di rischio. Si pensi a tutti quei frangenti in cui, per qualsiasi motivo, sia particolarmente elevata nei finanziatori a titolo di credito la sensazione di rischio connessa col finanziamento dell’impresa. Se i mezzi di diretta pertinenza sono insufficienti ciò può ostacolare l’economica negoziazione dei capitali di credito, non tanto perché il capitale proprio costituisce un fondo di garanzia per i creditori, ma bensì perché la sua misura può conferire un maggior grado di elasticità finanziaria all’impresa.

Storicamente, nelle imprese a conduzione familiare italiane, l’aumento della dotazione di capitale proprio non è quasi mai derivata dai mercati finanziari a causa dell’estrema difficoltà di negoziazione e smobilizzo dei titoli, risultando questi ultimi, di conseguenza, poco appetibili per la massa dei risparmiatori.

Il patrimonio extra-aziendale della famiglia detentrice il capitale di comando ha quindi rappresentato, in molti casi, l’unica soluzione realistica per i successivi aumenti di capitale proprio. Come ci ricorda anche Zappa: «sulla struttura finanziaria delle imprese, oltre alle condizioni proprie delle imprese stesse e alle condizioni di mercati monetari e finanziari o alle singole aziende di credito negoziatrici, hanno spesso un influsso di primo rilievo la situazione del soggetto economico d’impresa, il credito e la capacità di reddito sui quali egli può fare assegnamento»6.

Storicamente, quindi, le uniche possibilità per le imprese di conferire nuovi capitali propri si sono sostanzialmente ristrette all’impiego di mezzi provenienti dalla liquidazione di altre quote di patrimonio del soggetto economico, all’immissione di risparmio connesso con redditi extra-aziendali o, in alternativa, al diretto reinvestimento degli utili di gestione7.

Tuttavia, il detentore del capitale di comando, differentemente dal risparmiatore tradizionale che basa le sue scelte su un modello razionale di comportamento (incentrato sulla diversificazione di portafoglio e sulla valutazione degli impieghi

5 Dessy, Ramella, Vender, Introduzione alla finanza delle piccole e medie imprese, cit., p. 81. 6 G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, t. II, Giuffrè, Milano 1957, p. 742. 7 R. Ricci, Il finanziamento delle piccole e medie aziende, Cursi, Pisa 1967.

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alternativi di risorse) possiede, nelle scelte di investimento dei propri risparmi, vincoli tipici costituiti, in prevalenza, dal fabbisogno finanziario dell’impresa controllata.

Infatti, un fabbisogno finanziario d’impresa cui non corrisponda un flusso finanziario adeguato in termini di entità, costi o qualità, può costringere la famiglia detentrice del capitale di comando ad intervenire con capitale proprio al di là dei limiti razionali consigliabili dal punto di vista degli investimenti patrimoniali personali, in particolar modo con riferimento alle scelte di liquidità e al grado di rischio connesso all’investimento8.

Pertanto, le ben note e citate difficoltà esistenti nel reperire, da un lato capitale di rischio, dall’altro finanziamenti a medio-lungo termine adeguati, hanno reso assai frequenti i casi in cui la famiglia stessa ha dovuto fornire all’impresa il capitale necessario, diventando quest’ultima una scelta obbligata di investimento del risparmio familiare.

2. Il patrimonio familiare extra-aziendale come strumento di garanzia

La seconda funzione svolta dal patrimonio familiare extra-aziendale è quella di strumento di garanzia da offrire a terzi finanziatori dell’impresa (banche, istituti di credito, fornitori ecc.).

Da sempre, nel nostro Paese, le garanzie reali e personali hanno rappresentato una condizione sine qua non per l’accesso al credito bancario, in particolar modo per le piccole e medie imprese.

La dottrina ha ampiamente illustrato (e dimostrato) come la capacità delle imprese di attingere credito sia strettamente correlata alla loro capacità di produrre reddito in modo tale da poter adempiere ai propri debiti alle scadenze pattuite.

Non è pensabile infatti che la capacità di un’impresa di pagare puntualmente i propri debiti derivi dalla esistenza di garanzie le quali svolgono la propria funzione soltanto nel caso in cui si manifesti il problema del recupero coattivo del credito. Chiaramente, nessun finanziatore concede credito prevedendo di arrivare al recupero coattivo, ma lo fa in previsione della possibilità di recuperare l’importo del finanziamento a scadenza.

8 F. Cesarini, Aspetti del finanziamento di piccole e medie imprese. Alcune considerazioni, «L’impresa», 1, 1970.

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In primo luogo occorre quindi fare riferimento alla redditività aziendale dato che le garanzie intervengono soltanto per tutelare il finanziatore in caso di errore nelle previsioni effettuate al momento della concessione del finanziamento.

Gli errori di previsione tendono ad accrescersi in funzione:

a) della durata del finanziamento che, all’aumentare dell’orizzonte temporale, impone di effettuare previsioni di lungo periodo, soggette perciò ad alti rischi di inesattezze. Nelle operazioni di finanziamento a medio-lungo termine le garanzie reali rappresentano, pertanto, un requisito fondamentale nella stesura del contratto; b) della difficoltà del finanziatore di reperire informazioni esatte sulla capacità di reddito attuale e prospettica dell’impresa nonché sulla struttura dei finanziamenti che essa intende attuare; a ciò si aggiunge la difficoltà legata alla corretta interpretazione dei dati ottenuti. Tali difficoltà sono spesso rilevanti perché gli elementi per giudicare la capacità prospettica di un’impresa sono molteplici e coinvolgono tutti gli aspetti della gestione aziendale (marketing, amministrazione e finanza, innovazione, organizzazione, produzione ecc.), senza contare che esse sono poi inevitabilmente soggette alle mutazioni dell’ambiente e alle turbolenze di mercato.

Con riferimento all’esperienza italiana possiamo notare che la maggior parte delle imprese ha da sempre intrattenuto rapporti con una pluralità di banche per cui, solitamente, nessun istituto di credito ha svolto singolarmente un ruolo insostituibile nel finanziamento della gestione. Pertanto, l’attività bancaria di finanziamento si è frazionata in una molteplicità di prestiti di importi modesti, rinunciando di conseguenza, nella generalità dei casi, ad una comprensione e/o valutazione approfondita dell’impresa affidata dato il modesto valore unitario del fido concesso9.

Tutti questi fattori che accrescono il rischio di errori di previsione da parte dei finanziatori hanno indotto gli stessi a dedicare molta attenzione all’esistenza o meno di garanzie accessorie reali o personali; Cattaneo ci ricorda che «quanto più le indagini sull’economia dell’impresa-cliente sono difficili e i dati di riferimento malcerti, tanto più ampie sono le garanzie di tipo reale o personale che sono richieste»10.

Le garanzie vengono in ogni caso richieste ogni qual volta la misura del credito raggiunga livelli tali da far supporre che l’impresa non sia in grado di fronteggiare agevolmente la revoca del credito stesso.

9 Ibidem.

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La fonte delle garanzie accessorie nel caso delle imprese a conduzione familiare risiede prevalentemente nei patrimoni personali dei membri della famiglia che, per il legame di stretta e mutua dipendenza tra di essi e il patrimonio aziendale, vengono frequentemente posti a disposizione dell’impresa. Spesso l’intero patrimonio personale dell’imprenditore è stato utilizzato in via diretta o mediata nella gestione d’impresa; talvolta addirittura offerto in garanzia a determinati finanziatori e, negli altri casi, ha comunque concorso a determinare il credito di cui ha goduto l’impresa medesima presso le banche e i fornitori con i quali ha intrattenuto rapporti11.

Le modalità attraverso cui il patrimonio personale dei soci viene posto come strumento di garanzia al servizio dell’azienda dipendono dalla forma giuridica assunta dall’impresa.

Nel caso di azienda individuale o di società a responsabilità illimitata, infatti, il patrimonio personale è sempre ed automaticamente vincolato alle sorti aziendali mentre, nel caso di società di capitali a responsabilità limitata, il patrimonio è posto a garanzia di determinate operazioni aziendali attraverso gli strumenti dell’ipoteca, del privilegio, del pegno e, molto più frequentemente, con fidejussioni concesse singolarmente dai membri della famiglia a favore di determinati creditori dell’impresa.

Queste ultime hanno rappresentato uno strumento di uso comune nei rapporti bancari, essendo considerate elementi pressoché indispensabili per ottenere finanziamento sopra un certo limite di ammontare.

3. Patrimonio familiare extra-aziendale e autofinanziamento

L’analisi del ruolo svolto dal patrimonio familiare extra-aziendale nel finanziamento delle imprese a conduzione familiare richiede un esame della correlazione esistente, in queste aziende, tra attuazione di una politica di autofinanziamento e redditività del patrimonio extra-aziendale, intesa come la capacità di produrre redditi monetari distribuibili agli aventi diritto.

L’autofinanziamento rappresenta «l’espressione per periodi più o meno lunghi di tempo, di una complessa politica di gestione tendente, mediante l’opportuna coordinazione fra l’ottenimento di redditi (in appropriate quantità e qualità) e la loro

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distribuzione, ad assicurare le condizioni perché si abbia negli esercizi futuri un flusso reddituale più o meno crescente»12.

La sua misura è determinata o condizionata da una molteplicità di fattori: nelle imprese a conduzione familiare le esigenze della famiglia svolgono senz’altro un ruolo importantissimo.

Come afferma Ardemani, nelle imprese strettamente collegate a singole aziende di erogazione (come nel caso di imprese a carattere familiare) la distribuzione dei redditi dipende in misura preponderante dalle esigenze delle stesse aziende erogative, sino a giungere al caso limite di prelievi anticipati di redditi effettuati per venire incontro a certe loro necessità finanziarie improvvise e improrogabili13.

Tuttavia, è necessario ricordare come spesso, nelle imprese familiari, non appena si riescono a soddisfare i bisogni della famiglia, l’autofinanziamento sia particolarmente frequente e massiccio.

Non va dimenticato, inoltre, che i conflitti tra necessità dell’impresa e richieste familiari assumono un peso ancora maggiore ogni qual volta la compagine familiare non è omogenea, quando cioè, accanto a membri che svolgono la loro funzione nell’impresa, ve ne sono altri estranei al management. In simili casi è frequente che questi ultimi considerino qualsiasi surplus di competenza degli aventi diritto e non dell’impresa e ne pretendano quindi la distribuzione. Barry ci ricorda che è molto diffusa la convinzione presso i membri della famiglia estranei alla gestione dell’impresa che gli investimenti siano diretti soprattutto «a soddisfare le ambizioni personali di chi gestisce l’azienda, mentre i loro interessi sarebbero assai meglio tutelati se ciascuno fosse libero d’investire i profitti come meglio crede»14.

La stretta connessione tra richieste finanziarie della famiglia e politica dei dividendi dell’impresa può però attenuarsi quando la famiglia goda di altre fonti di reddito capaci di garantirle una certa autonomia.

In questa ipotesi l’autofinanziamento è più facilmente realizzabile poiché i vincoli derivanti dall’urgenza delle necessità familiari rivestono un ruolo secondario che decresce all’aumentare della capacità del patrimonio extra-aziendale di generare redditi monetari.

12 E. Ardemani, L’autofinanziamento nell’economia di impresa e la sua misurazione, Marzorati, Milano 1961, p. 62.

13 Ivi, p. 56.

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Il patrimonio extra-aziendale delle famiglie può quindi svolgere, nelle imprese a carattere familiare, una preziosa funzione di raccordo tra le esigenze, non sempre concordanti, dell’impresa e della famiglia e permette di realizzare quel minimo di indipendenza essenziale tra queste due entità, al fine di ottenere una gestione efficace dell’organizzazione.

In conclusione possiamo quindi affermare che nelle imprese a conduzione familiare si vengono a creare reciproci e stretti legami tra finanziamento d’impresa e patrimonio familiare extra-aziendale.

La funzione che quest’ultimo può svolgere sia come strumento di garanzia, sia come riserva di mezzi finanziari e, ancora, come volano tra le esigenze di impresa e le necessità della famiglia, lo pone come elemento centrale all’interno del panorama dell’azienda la quale può vedere condizionate le proprie possibilità di sviluppo e, a volte, di sopravvivenza dall’esistenza e dal mantenimento al proprio servizio di certi patrimoni personali.

4. Il problema del ricambio generazionale

Come abbiamo osservato, nelle imprese a conduzione familiare, il patrimonio apportato dal fondatore riveste un ruolo di primo piano nello sviluppo e nella costruzione delle attività, soprattutto nella fase iniziale del ciclo di vita dell’organizzazione. Non è assolutamente certo, però, che tali condizioni siano mantenute al momento del ricambio generazionale.

Da qui emerge il problema del ricambio generazionale, ovvero i rischi connessi al passaggio dell’attività dalle mani del fondatore a quelle dei successori.

Diviene di fondamentale importanza l’esigenza di sensibilizzare questi ultimi, nell’attuazione della gestione aziendale, a mantenere gli stessi livelli di virtuosismo che il fondatore ha detenuto durante il proprio operato.

È un passaggio estremamente delicato nella vita dell’azienda e diviene necessario «un processo di rivitalizzazione della formula imprenditoriale»15. Si tratta di affrontare con consapevolezza e responsabilità la valutazione delle alternative strategiche ed operative a disposizione, tenendo in considerazione la presenza di fenomeni avversi e coincidenti, tra cui il grado di maturità delle aree strategiche d’affari nelle quali 15 S. Tomaselli, Longevità e sviluppo delle imprese familiari. Problemi, strategie e strutture di governo, Giuffrè, Milano 1996, p. 72.

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l’impresa presenta dei business, la decadenza delle capacità dirigenziali del fondatore-proprietario, compresa la sua minore propensione al rischio dovuta all’avanzare dell’età e al sorgere di un crescente bisogno di sicurezza personale a livello economico.

Angiola afferma che secondo stime realizzate da Unione Fiduciaria S.p.A., si prevede che, a causa di un’errata programmazione della successione imprenditoriale, solo un’impresa familiare su due riesce a sopravvivere fino alla seconda generazione, mentre il 15% supera appena la terza generazione; nel contempo occorre rilevare che la probabilità di successo nel trasferimento dell’impresa all’interno della famiglia è sei volte maggiore rispetto all’entrata di nuovi soggetti16.

Diviene quindi necessaria la costruzione di una apposita strategia, atta a soddisfare le esigenze di pianificazione generazionale, suddivisa in tre piani strategici distinti che si focalizzano ognuno su un elemento centrale del trittico che sta alla base delle family business: patrimonio-famiglia-azienda.

Troveremo perciò:

• Piano Strategico Aziendale, caratterizzato da prospettive e piani di lungo periodo che interessano l’impresa a livello globale;

• Piano Strategico Familiare, basato su strategie e metodi che permettano di coordinare il rapporto tra famiglia e impresa;

• Piano Strategico Patrimoniale attraverso cui programmare le modalità di ripartizione del diritto di proprietà tra i membri della famiglia17.

Come ampiamente dimostrato, infatti, l’impresa familiare è fortemente influenzata dal binomio e dalla stretta correlazione fra realtà familiare e imprenditoriale. Tali elementi si combinano e compenetrano continuamente durante lo svolgimento dell’attività, talvolta in maniera mutualistica, generando vantaggi reciproci per ognuna delle parti coinvolte; talvolta in maniera antagonistica, privilegiando una realtà piuttosto che l’altra.

Al fine di semplificare e facilitare l’imprenditore durante la fase successoria del ricambio generazionale, l’Unione Europea, nel 199418, ha caldamente promosso una

serie di raccomandazioni, da attuare da parte degli Stati membri, utili a favorire il trasferimento e la successione delle attività delle PMI.

16 Angiola, Taliento, IPO e family business, cit., p. 43.

17 V. Bertella, La pianificazione del ricambio generazionale nell’impresa familiare, Cedam, Padova 1995. 18 Raccomandazione della Commissione Europea del 7 dicembre 2014 sulla successione nelle piccole e

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Tra queste troviamo il cosiddetto ‘Patto di Famiglia’, strumento di pianificazione che permette all’imprenditore di stabilire senza impedimenti chi debba essere il suo successore all’interno dell’impresa. Esso permette al fondatore di «definire, formalizzare e rendere trasferibile il proprio orientamento strategico di fondo, le ragioni fondamentali del proprio impegno nell’impresa, la filosofia comportamentale ed organizzativa alla quale la famiglia intende ispirarsi nel controllo e nella gestione dell’impresa familiare»19.

Come afferma Bertella, il patto ha la funzione di «garantire la governabilità e la crescita dell’impresa e di suggerire soluzioni flessibili per un adattamento dinamico alle condizioni esterne ed interne al nucleo familiare»20.

Tale strumento ha perciò la funzione di sostenere la longevità nel tempo dell’attività d’impresa ricercando la continuità tra i membri fondatori e i successori della famiglia, al fine di permettere il trasferimento e l’integrazione delle conoscenze innovative e tradizionali durante il passaggio intergenerazionale. Quest’ultimo può rappresentare un momento di crescita, di innovazione e di arricchimento per l’impresa, ogni qual volta gli imprenditori entranti possiedano conoscenze, abilità e competenze di elevato profilo.

In base a ciò che abbiamo precedentemente affermato possiamo facilmente comprendere come le strategie di successo delle imprese a conduzione familiare siano strettamente riconducibili all’implementazione di processi virtuosi caratterizzati dalla capacità di:

• innovare la propria strategia, attraverso il continuo adattamento della propria struttura ai cambiamenti del mercato, della tecnologia, e delle esigenze della clientela. Fondamentale, come ci ricorda Bonti, è la capacità di sapersi «innovare intorno alla tradizione»21;

ridurre ed eliminare i business in surplus inutili, mantenendo e garantendo allo

stesso tempo l’efficienza della gestione aziendale e quindi la longevità dell’organizzazione;

rinnovare e rinvigorire la direzione dell’impresa, anche attraverso la costante ricerca di nuove figure professionali da inserire in azienda, fondamentali per il

19 Tomaselli, Longevità e sviluppo delle imprese familiari. Problemi, strategie e strutture di governo, cit., p. 95.

20 Bertella, La pianificazione del ricambio generazionale, cit., p. 110.

21 M. Bonti, La longevità delle PMI familiari: riflessioni teoriche ed evidenze empiriche, «Impresa Progetto – Electronic Journal of Management», 2, 2011 p. 21.

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percorso di sviluppo e di crescita aziendale, in particolar modo nella fase di ricambio intergenerazionale.

5. Classificazione delle imprese familiari: impresa monolitica e

temperata

Le imprese familiari sono classificabili in due categorie: monolitiche e temperate. L’impresa a conduzione familiare, di tipo monolitico, si contraddistingue per il continuo sovrapporsi delle attività della famiglia con i business d’impresa. Si tratta, infatti, di imprese caratterizzate da un livello di accentramento della proprietà praticamente assoluto, dove i membri della famiglia invadono costantemente le funzioni di tipo operativo e manageriale dell’azienda. Ciò determina, inevitabilmente, una serie di contrasti all’interno dell’organizzazione, relativi a:

• difficoltà decisionali: ogni membro vuol partecipare alle decisioni aziendali basando le proprie scelte sulle esperienze personali e sulle proprie convinzioni, innescando continuamente un continuo dibattito tra i membri della famiglia che porta a disperdere risorse e offusca le giuste scelte;

• difficoltà di selezione: ogni membro si sente abilitato a rivendicare un ruolo all’interno dell’organizzazione; le relazioni familiari giocano un ruolo primario, solitamente poco trasparente e meritevole nell’allocazione delle responsabilità decisionali e nella definizione delle mansioni dei membri;

• difficoltà di sviluppo e formazione del personale: i familiari spingono affinché il personale svolga esperienze formative che si adattino alle proprie esigenze personali, indipendentemente dagli obiettivi strategici prefissati. Ciò è in parte dovuto alla totale assenza di formalizzazione della strategia d’impresa, solitamente ancorata ed esposta in maniera chiara e comprensibile soltanto all’interno della mente del proprietario-fondatore;

• difficoltà di ricompensa: il fondatore decide, spesso, in maniera totalmente discrezionale le remunerazioni dei membri della famiglia che partecipano all’attività d’impresa. Si manifestano, pertanto, problemi di equità nella distribuzione degli utili e nell’erogazione degli stipendi, dovuti ad una valutazione dell’operato basata prevalentemente sul potere discrezionale del proprietario; ciò determina, senza

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dubbio, contrasti e invidie che certo non impattano positivamente sulla gestione aziendale.

L’impresa monolitica è pertanto caratterizzata da un livello di simbiosi pressoché totale tra i membri della famiglia e l’operato della società. Le caratteristiche di un’organizzazione di questo tipo possono lentamente affievolirsi con la parziale apertura a terzi soggetti, esterni alla compagine familiare/aziendale: ciò, inizialmente, può manifestarsi attraverso l’assegnazione di ruoli operativi a questi ultimi, affiancandoli ai familiari che continuano a mantenere un ruolo di tipo manageriale.

Le principali necessità che nascono dai suddetti cambiamenti possono pian piano portare allo sviluppo di:

• una formalizzazione dei rapporti fra i soci e i membri responsabili delle funzioni dirigenziali;

• strumenti e meccanismi razionali ed equi per la valutazione dell’operato del personale, attuati mediante la costruzione di un valido sistema delle retribuzioni basato sulla misurazione del contributo che ciascun membro apporta all’impresa; • schemi e processi di governance che permettano di ridurre i contrasti tra i membri e che si allontanino gradualmente dall’autorità del pater familias22.

Tali aperture dell’impresa al ‘mondo esterno’ possono, in alcuni casi, portarla ad aprire i ruoli manageriali a figure professionali esterne caratterizzate da alta professionalità, confinando piano piano i membri della famiglia ad un ruolo di mera partecipazione allo svolgimento dell’attività aziendale, senza interferire in maniera invasiva nella gestione.

Le caratteristiche dell’impresa temperata, invece, non presentano le anzidette peculiarità della monolitica, se non in modo parziale, come dice il nome stesso. Questa tipologia di organizzazione è contraddistinta anch’essa dalla inscindibile convivenza tra mondo familiare e realtà imprenditoriale, tuttavia tale relazione è di tipo mutualistico e non antagonistico (come nel caso dell’impresa monolitica), dal momento che genera un vantaggio reciproco per i due elementi senza privilegiarne uno a discapito dell’altro.

Nello schema monolitico di impresa familiare i membri della famiglia svolgono funzioni dirigenziali e concentrano nelle proprie mani la proprietà dell’impresa seguendo gli orientamenti voluti dalla famiglia; c’è pertanto un’esigenza pressante di voler compenetrare il più possibile famiglia e impresa, tendendo spesso ad attribuire a

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quest’ultima spese e costi di carattere personale con lo scopo di minimizzare il carico fiscale.

Questa tendenza, assieme all’assegnazione ai membri familiari di più alti incentivi e retribuzioni, avrebbe effetti benefici se le maggiori risorse risultanti da queste operazioni venissero investite, cosa che il più delle volte non accade.

Tutto questo assume rilevanza importante quando entrano nella gestione dell’impresa altri soggetti; in tal caso quelli che erano i punti di forza dell’organizzazione diventano il ‘tallone di Achille’, dal momento che può nascere l’esigenza di maggior trasparenza e certezza di rapporti, di una netta differenziazione tra gestione dell’impresa e della famiglia in senso stretto. Tale situazione si verifica quando entrano altre famiglie che apportano capitale fresco o garanzie personali, quando il legame familiare subisce traumi a causa di liti o di ricambio generazionale, quando si diversificano i ruoli, i compiti e le responsabilità dei vari membri.

Il passaggio da uno ‘schema monolitico’ di impresa familiare a uno ‘temperato’ è necessario quando essa si avvicina alla borsa valori, dal momento che soggetti esterni entrano a far parte della compagine sociale e aumentano quindi le esigenze di trasparenza e certezza. Il che non significa necessariamente privarsi del controllo dell’impresa o mortificare le originarie connotazioni familiari in quanto sul mercato possono essere collocate quote minoritarie dell’impresa o quote minoritarie di società controllate, come vedremo in dettaglio nei successivi capitoli.

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CAPITOLO SECONDO

Il processo di raccolta del capitale

1. Premessa

La decisione del soggetto economico d’impresa di usufruire del collocamento delle azioni societarie sul mercato coinvolge una sfera decisoria più ampia, della quale l’individuazione dello strumento di finanziamento rappresenta solo il momento conclusivo. Le scelte economiche precedono infatti le scelte di finanziamento, queste ultime sono perciò fortemente condizionate dalle prime1.

Gli studi di finanza si concentrano principalmente sulle scelte di finanziamento, sui fattori che determinano le stesse e sulle conseguenze di ciascuna scelta in relazione alla tipologia di strumento prefissato. Essendo incentrate sui comportamenti e sulle scelte degli investitori e degli utilizzatori del potere d’acquisto, rappresentano il punto di riferimento per l’analisi dei meccanismi decisionali che concorrono nei momenti fondamentali dell’attività d’impresa.

Differentemente, gli studi di Strategic Management si soffermano sulla relazione biunivoca esistente tra scelte economiche e finanziarie, approfondendo quanto le scelte economiche siano capaci di implementare in maniera adeguata le scelte finanziarie.

Mediante l’approfondimento della composizione della struttura, dei condizionamenti interni ed esterni, delle dinamiche connesse alla scelta delle fonti di finanziamento sul mercato di riferimento, si giunge a considerare la quotazione come uno strumento finanziario che permette l’accesso a fonti finanziarie esterne a titolo di rischio. In quanto strumento finanziario esso viene perciò analizzato nella sua relazione con le aspettative degli investitori, con la quantità e qualità della struttura finanziaria, con l’assetto di controllo d’impresa e la relativa dinamica economico-finanziaria.

In questo capitolo analizzeremo l’operazione di quotazione in borsa come la risposta del soggetto economico ad un problema di tipo finanziario che interessa l’attività d’impresa in un momento particolare del suo ciclo, approfondendo l’origine strategico-economica del sorgere di un fabbisogno finanziario che conduce alla scelta di quotare i propri titoli in borsa. Nei capitoli successivi affronteremo, invece, gli aspetti tecnici

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relativi alla quotazione, evidenziando gli effetti di quest’ultima sulla globalità d’impresa, sia in termini organizzativi che gestionali, attraverso l’analisi del caso Rosss S.p.A.

2. Crescita, rischio e finanziamento

Delineare i termini del problema finanziario è un aspetto di fondamentale importanza per identificare il fattore determinante che, secondo gli studi di finanza, influenza le scelte del soggetto economico nell’individuazione di uno o più strumenti finanziari. Di fatto il problema finanziario si manifesta in una continua mediazione fra la decisone di detenere moneta o detenere un attivo fisico e finanziario.

Come affermano Miller e Fama2, la teoria finanziaria stabilisce le modalità attraverso cui le imprese e gli individui utilizzano nel tempo le risorse disponibili. Essa sostiene che il problema dell’allocazione delle risorse nel tempo possa essere facilitato dal ricorso ai mercati di capitali, offrendo questi ultimi, simultaneamente, agli individui la possibilità di trasformare risorse attuali in risorse a disponibilità futura e alle imprese la disponibilità di ottenere risorse immediate spendibili per le necessarie decisioni di produzione, sviluppo e investimento.

Ogni scelta finanziaria, pertanto, può essere affrontata dal punto di vista dell’investitore o dell’impresa utilizzatrice di risorse. Quest’ultima acquisisce, mediante l’impiego dei mezzi finanziari e monetari resi disponibili, i fattori di produzione con l’obiettivo di generare nuova ricchezza con la quale remunerare il capitale investito e finanziare lo sviluppo di nuovi business aziendali; gli investitori, diversamente, rinunciano ad un consumo immediato di risorse in funzione di un (maggior) consumo prospettico futuro, con la speranza di poter ottenere una remunerazione adeguata alle aspettative.

Ogni decisione presa non è però esente da rischi: le imprese, essendo fruitrici ed utilizzatrici di risorse, subiranno il rischio economico generale che si manifesta nelle tre componenti principali ovvero il rischio economico, finanziario e monetario; gli investitori, a loro volta, subiranno il rischio connesso alla gestione di scelte (errate) che

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influiscono inesorabilmente sulla componente monetaria, di cambio e di rischio di credito3.

Le imprese, per risolvere il problema finanziario, dovranno valutare accuratamente le proprie scelte finanziarie stabilendo un grado di rischio adeguato e coerente con la dimensione e la struttura delle fonti a disposizione. Non è da sottovalutare poi l’aspetto quantitativo del problema, relativo alla coerenza fra le dimensioni dei mezzi finanziari e le scelte connesse all’attivo dell’impresa o dell’investitore (a seconda dei casi), e qualitativo, relativo al bisogno di uniformità fra qualità degli investimenti e relativi mezzi finanziari a disposizione.

La tensione finanziaria rappresenta così il comune denominatore delle scelte finanziarie che differiscono fra loro in base al soggetto che le assume (impresa o investitore) e per gli scopi alle quali sono chiamate a rispondere.

La gestione finanziaria rappresenta, quindi, l’insieme delle dinamiche e dei fatti che consentono all’impresa di acquisire la capacità di acquisto necessaria per poter intraprendere e sviluppare i propri business.

Mediante l’analisi finanziaria è possibile individuare le modalità attraverso le quali l’impresa reperisce il capitale da terzi a titolo di rischio o di credito e la risultante composizione della struttura delle fonti che permette di conoscere, poi, il grado di dipendenza da terze economie.

Le scelte di tipo finanziario del soggetto economico non sono perciò unicamente correlate al reperimento di mezzi quantitativamente adeguati alla copertura di un fabbisogno ma sono il frutto di un processo decisionale articolato che interessa anche un giudizio qualitativo. Tale processo richiede l’analisi della struttura degli impieghi e delle fonti previste in futuro al fine di valutare l’opportunità di ricorrere al capitale a titolo di credito o a titolo di rischio in relazione al mantenimento di un equilibrio finanziario prospettico per l’impresa stessa.

La struttura delle fonti prescelta, peraltro, se condiziona il perseguimento dell’equilibrio finanziario, definito come la situazione in cui le condizioni previste future siano tali da assicurare una copertura finanziaria corrispondente ai fabbisogni finanziari, tenuto conto dei rischi connessi alla mancata realizzazione delle ipotesi formulate, diviene determinante soprattutto per il mantenimento dell’equilibrio economico dell’impresa. Ogni scelta finanziaria, infatti, può essere assunta purché

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esistano le condizioni di gestione economica per la sopportabilità futura dei maggiori oneri derivanti dalle modifiche della composizione della struttura.

La funzione finanza, interna alla struttura organizzativa dell’impresa, ha visto crescere negli ultimi anni in maniera esponenziale la propria importanza nello svolgere una funzione di filtro delle decisioni imprenditoriali relative al reperimento di strumenti finanziari caratterizzati da modalità di rimborso adeguate e con costi compatibili con il necessario mantenimento dell’equilibrio economico.

Il fronteggiamento tempestivo del fabbisogno di capitale diviene così un compito primario di tale funzione, indipendentemente dal grado di sviluppo di quest’ultima in relazione alle dimensioni dell’impresa e del relativo grado di indipendenza nei confronti dei soggetti decisionali.

Nelle piccole e medie imprese l’importanza della gestione finanziaria viene sovente sottovalutata, essendo molto spesso accentrata nelle mani del soggetto economico che, trovandosi di norma ad essere anche proprietario dei mezzi finanziari, rende quest’ultima una funzione di tipo strategico, non delegabile a terzi soggetti interni all’organizzazione.

Nelle imprese di maggiori dimensioni, strutturate e in forte espansione, al crescere del fabbisogno finanziario corrisponde un incremento dell’importanza del ruolo della funzione finanza. Essa, infatti, diviene un elemento centrale nella raccolta delle fonti esterne a titolo di capitale di rischio o di credito assumendo un ruolo proprio e definito che permette di soddisfare le esigenze degli investitori e garantisce la conservazione dei capitali all’interno dell’organizzazione.

Il punto centrale di tale funzione è garantire, verificare e permettere, in maniera trasversale rispetto alle altre funzioni aziendali, il mantenimento della sostenibilità/fattibilità finanziaria nel tempo delle scelte assunte all’interno delle varie aree della struttura.

Man mano che le imprese crescono e maturano, i loro flussi di cassa e la loro esposizione al rischio tendono ad assumere un andamento piuttosto regolare: al crescere dei flussi di cassa corrisponde un allineamento del rischio all’andamento medio del settore di riferimento.

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Le scelte di finanziamento adottate da un’impresa rifletteranno i cambiamenti dovuti al mutare della crescita e dimensione aziendale, a seconda delle fasi e del ciclo di vita nei quali quest’ultima si trova4.

1. Fase di avviamento (start-up): è la fase iniziale, immediatamente successiva alla creazione di un’attività. Solitamente in questa fase la struttura finanziaria è composta prevalentemente da capitale netto, investito dai proprietari, e da debito bancario. Le scelte di finanziamento saranno limitate, l’attenzione sarà focalizzata sulla ricerca di clienti e sulla stabilizzazione di mercato.

2. Fase di espansione: col crescere delle dimensioni e della quota di mercato aumentano le esigenze di finanziamento. L’impresa non è ancora in grado di generare elevati flussi di cassa e allo stesso tempo necessita di una crescente quota di finanziamento, spingendo così il management verso il capitale netto privato o il venture capital. È in questa fase che alcune imprese getteranno le basi per la quotazione, decidendo di raccogliere i fondi necessari mediante l’emissione di azioni.

3. Fase di crescita elevata: con il passaggio allo stato di impresa quotata, aumentano le scelte di finanziamento a disposizione. Nonostante i ricavi siano, in questa fase, in forte crescita, molto spesso gli utili rimarranno inferiori così come i flussi di cassa interni necessari alle operazioni di reinvestimento. Le imprese tenderanno perciò ad aumentare le emissioni di capitale mediante azioni ordinarie, warrant e altre forme di equity o, in alternativa, ricorreranno al debito convertibile.

4. Fase avanzata di maturità: allo stabilizzarsi della crescita si assiste al verificarsi di due fenomeni: utili e flussi di cassa cresceranno rapidamente, come conseguenza degli investimenti già effettuati, e la necessità di investire in nuovi progetti tenderà a diminuire. Gli effetti di tali fenomeni produrranno un maggior ricorso al finanziamento interno e una variazione del finanziamento esterno utilizzato, ricorrendo con elevata probabilità al debito bancario o ad obbligazioni societarie. 5. Fase di declino: si tratta dell’ultima fase del ciclo di vita di una impresa. I ricavi e i profitti diminuiranno con l’aumentare del livello di obsolescenza delle attività e il progressivo rafforzamento delle imprese concorrenti. Gli investimenti, con molta probabilità, continueranno a produrre flussi di cassa ma con velocità decrescente e senza possibilità effettive di reinvestimento. Il finanziamento interno, solitamente,

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supera le necessità di reinvestimento, rendendo improbabile l’emissione di nuove azioni od obbligazioni; il debito in circolazione, piuttosto, verrà ritirato e le azioni proprie saranno riacquistate. In un certo senso, in questa fase l’impresa liquida se stessa.

Non tutte le imprese logicamente attraversano tutte e cinque le fasi, e non tutte operano le stesse scelte. Alcune non superano la fase start-up, altre nonostante il successo non diventano società quotate in borsa. Vi sono poi società che, pur trovandosi in una fase di crescita elevata, sembrano non avere necessità di finanziamento esterno, in quanto i fondi interni si dimostrano più che sufficienti per finanziare tale crescita. «Ci sono imprese in fase high-growth che emettono debito, e imprese in fase low-growth che raccolgono capitale a titolo di proprietà»5.

Per concludere, nonostante le numerose eccezioni, il quadro del ciclo di vita fornisce un utile meccanismo per spiegare il motivo per cui i diversi tipi di imprese operano determinate scelte, e capire perché in alcune situazioni si comportano in modo diverso dalle nostre aspettative.

3. Finanziamento interno ed esterno a confronto

[…] Ad ogni entrata monetaria ottenuta mediante accensione di un finanziamento corrisponderà un’uscita monetaria futura legata al momento dell’estinzione del debito. Tale momento differisce a seconda del tipo di finanziamento scelto e la composizione del passivo dovrà pertanto essere adeguata alle necessità di mantenimento di un equilibrio finanziario e monetario nel corso del tempo. L’analisi e la conoscenza delle tipologie di strumenti finanziari potenzialmente ottenibili diviene perciò di fondamentale importanza non soltanto per lo sviluppo dell’attività d’impresa ma anche, e soprattutto, per il governo6.

Come affermato in precedenza, nella fase iniziale dell’attività d’impresa, i mezzi raccolti sono prevalentemente composti da capitali conferiti a titolo di rischio da soggetti che decidono di rinunciare ad un consumo immediato di potere d’acquisto (dislocandolo all’impresa) con lo scopo di ottenere un ben più ampio potere d’acquisto futuro. L’arco temporale di riferimento coincide con la vita dell’impresa e la remunerazione di tali capitali è strettamente correlata e dipendente dai risultati economici della società.

5 Damodaran, Roggi, Finanza Aziendale. Applicazioni per il management, cit., p. 400. 6 Ibidem p. 410.

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Diversamente, in presenza di capitali raccolti mediante collocamento di strumenti finanziari sul mercato, l’impresa si trova nella fase dei disinvestimenti dove, in cambio di un rimborso o di una remunerazione periodica e definita, in una o più tranches pattuite a scadenze prestabilite, viene trasferito all’impresa il potere d’acquisto degli investitori.

Le due fonti di finanziamento principali sono caratterizzate e contraddistinte fra loro dal grado di accessibilità, dalla durata temporale e dalle modalità di rimborso/remunerazione.

a) Grado di accessibilità

Il grado di accessibilità alle fonti è vincolato prevalentemente dai costi e dalle dinamiche legate alla struttura decisionale dell’organizzazione. I capitali ottenuti dall’impresa a titolo di credito sono caratterizzati da una rigidità di fondo dovuta agli oneri finanziari che influiscono direttamente sul risultato economico della società. Diversamente, nei capitali ottenuti a titolo di rischio, tale elemento di rigidità non è presente in quanto l’eventuale distribuzione di utili è posticipata rispetto alla determinazione del risultato economico di periodo.

Inoltre, maggiori sono le esigenze del soggetto economico di detenere il controllo dell’organizzazione, minore è il grado di accessibilità ai capitali a titolo di rischio, problematica che non si presenta, invece, in presenza di capitali attinti a titolo di credito, poiché questi ultimi non implicano modifiche nell’assetto strutturale e di controllo dell’impresa.

Un’altra distinzione che caratterizza le fonti di finanziamento è dovuta alla loro origine: distinguiamo le fonti di finanziamento in esogene ed endogene.

Le endogene, ottenute attraverso capitali a titolo di rischio, sono caratterizzate prevalentemente da aumenti di capitale sociale aperti a soggetti già detentori di capitale nella società e dall’autofinanziamento. Quest’ultimo permette al capitale proprio di avere un grado di elasticità maggiore rispetto ad operazioni di tipo esogeno estranee all’esercizio; risulta uno strumento necessario ogni qual volta si abbia l’esigenza di ridurre gli oneri finanziari aumentando i propri mezzi in funzione di una variazione del rischio.

La caratteristica principale delle fonti di finanziamento endogene è l’assenza di modifiche alla struttura del controllo dell’organizzazione e il mantenimento dello stesso livello di oneri finanziari, senza per ciò comportare un aumento dei costi finanziari.

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Tali mezzi sono vincolati all’esistenza di risultati economico-reddituali passati e ad una prospettiva di redditi futuri tali da soddisfare le aspettative di coloro che hanno apportato capitali in azienda a titolo di rischio, sia mediante distribuzione di dividendi che attraverso il reinvestimento di utili nell’attività d’impresa.

I mezzi finanziari, invece, vengono definiti esogeni ogni qual volta il capitale venga raccolto presso terze economie estranee alla compagine sociale, le quali mettono a disposizione dell’impresa potere d’acquisto in funzione di una remunerazione. Tuttavia, quando i mezzi sono ottenuti con vincoli di credito, questi ultimi vengono considerati di tipo endogeno poiché sono gli stessi azionisti a conferire potere d’acquisto alla società.

Molteplici fattori interni e esterni influenzano l’ottenimento sul mercato dei capitali necessari per le operazioni di finanziamento: il rischio, la redditività, lo sviluppo, la struttura decisionale e la forma giuridica sono un esempio di fattori interni determinanti. Tra gli esterni non possiamo non citare la congiuntura economica e del mercato, i costi di accesso, le modalità di comportamento degli altri operatori.

La distinzione tra fattori interni ed esterni ci è utile per comprendere e valutare il grado effettivo di dipendenza dell’impresa da terze economie e per giustificare i comportamenti e le scelte di coloro che hanno apportato all’impresa capitale a titolo di rischio e, a fronte di un aumento del fabbisogno finanziario, decidono di coprirlo con capitale a titolo di credito.

b) La durata temporale

La durata temporale è un elemento di fondamentale importanza in quanto permette di stabilire il momento di estinzione/rimborso del capitale.

Il capitale ottenuto mediante vincoli di credito è caratterizzato da una durata temporale definita che permette di prevedere nel tempo, e nelle modalità, le uscite monetarie a cui l’impresa dovrà far fronte. Ciò comporta per il soggetto economico la necessità di definire con chiarezza un’adeguata programmazione finanziaria in modo da poter gestire accuratamente i problemi di riequilibrio finanziario dell’organizzazione7.

Il capitale conferito a titolo di rischio, invece, fa parte delle fonti di finanziamento a disposizione dell’impresa per l’intera durata della vita aziendale e, pertanto, la sua durata temporale è vincolata all’esistenza dell’impresa stessa.

Riferimenti

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