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Uso di marker molecolari per la definizione della qualità alimentare e relazioni con le nuove tendenze in atto nel mercato alimentare italiano

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Academic year: 2021

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(1)

Facoltà di Economia

Dipartimento di Management

DOTTORATO IN MANAGEMENT, BANKING

AND COMMODITY SCIENCES

XXXII CICLO

Curriculum: Commodity Sciences

Uso di marker molecolari per la definizione della

qualità alimentare e relazioni con le nuove

tendenze in atto nel mercato alimentare italiano

Tutor Dottoranda

(2)
(3)

Indice

CAPITOLO 1

Introduzione

1.1 Quadro economico del settore alimentare italiano

3

1.1.1 Export e import del settore alimentare

3

1.1.2 Previsioni per il 2019: l’importanza dei prodotti italiani

4

1.2 Aspettative e richieste dei consumatori italiani

6

1.3 Definizione della qualità alimentare

7

1.3.1 Sicurezza alimentare: un prerequisito della qualità

8

1.3.2 Indicatori convenzionali vs markers molecolari

10

CAPITOLO 2

Approccio sperimentale

2.1 Alcuni richiami sulle tecniche cromatografiche impiegate nello

sviluppo della tesi

13

2.1.1 Gascromatografia (GC)

16

2.1.1.1 Tecnica estrattiva HS-SPME

18

2.1.1.2 Accoppiamento GC-MS

21

2.1.2 Cromatografia Liquida ad Alte Prestazioni (HPLC)

25

2.1.2.1 Accoppiamento HPLC-DAD

28

2.2 Tecniche di analisi chemiometrica

29

2.2.1 La struttura multivariata dei dati

30

2.2.2 Analisi esplorativa dei dati

32

(4)

PARTE I

Valorizzazione delle produzioni artigianali: la craft beer

CAPITOLO 1. Birra industriale vs birra artigianale

39

1.1 Composizione della birra

39

1.2 Processo di produzione della birra

40

1.2.1 Fasi iniziali

40

1.2.2 Fasi finali di pastorizzazione/microfiltrazione

42

1.3 La tipologia di birra Lager Pilsner

43

1.4 Legislazione italiana ed internazionale

44

CAPITOLO 2. Scopo del lavoro e stato dell’arte

46

CAPITOLO 3. Parte sperimentale

48

3.1 Materiali e metodi

48

3.1.1 Selezione e conservazione del set di campioni

48

3.1.2 Ottimizzazione dell’analisi HS-SPME/GC-MS

48

3.1.3 Analisi statistica e software

50

3.2 Risultati e discussioni

50

3.2.1 Analisi cromatografica: determinazione della

componente aromatica

50

3.2.2 Analisi chemiometrica dei dati sperimentali

53

3.2.2.1 Analisi esplorativa e classificazione dei dati

53

3.2.2.2 Analisi PLS-DA

58

PARTE II

Tutela dei prodotti italiani: la Grappa IG

CAPITOLO 1. Prodotti ad Indicazione Geografica (IG): la grappa

67

1.1 Composizione chimica della grappa

67

(5)

1.1.2 La frazione polifenolica

70

1.1.3 La componente aromatica

71

1.1.3.1 Composti aromatici varietali

72

1.1.3.2 Composti di fermentazione

73

1.2 Processo di produzione della grappa

75

1.2.1 Distillazione

75

1.2.2 Maturazione o invecchiamento

77

1.2.3 Classificazione

78

1.3 Dati di mercato e legislazione

79

1.3.1 Tipologie di acquavite sul mercato

80

CAPITOLO 2. Scopo del lavoro e stato dell’arte

82

CAPITOLO 3. Parte sperimentale

85

3.1 Materiali e metodi

85

3.1.1 Selezione e conservazione del set di campioni

85

3.1.2 Pre-trattamento dei campioni e materiali utilizzati

85

3.1.3 Ottimizzazione dell’analisi HS-SPME/GC-MS

89

3.1.4 Ottimizzazione dell’analisi HPLC-DAD

91

3.2 Risultati e discussioni

92

3.2.1 Risultati analisi HS-SPME/GC-MS: approccio

chemiometrico

92

3.2.1.1 Analisi PLS-DA

93

3.2.1.2 Identificazione dei VIP sui cromatogrammi GC

94

3.2.1.3 Analisi SIMCA

97

3.2.2 Risultati analisi HPLC-DAD

98

3.2.2.1 Caratterizzazione qualitativa della frazione

polifenolica

98

3.2.2.2 Analisi chemiometrica dei dati sperimentali:

(6)

PARTE III

Caratterizzazione della pasta di semola integrale di grano

duro

CAPITOLO 1. Pasta normale vs pasta integrale

109

1.1 La pasta alimentare

109

1.2 Composizione della pasta di semola di grano duro

111

1.3 Processo di produzione della pasta secca

115

CAPITOLO 2. Scopo del lavoro e stato dell’arte

118

CAPITOLO 3. Parte sperimentale

121

3.1 Materiali e metodi

121

3.1.1 Campionamento

121

3.2 Prove preliminari

122

3.2.1 Contenuto fenolico totale (TPC): saggio colorimetrico

Folin-Ciocalteu

122

3.2.2 Quantificazione acidi fenolici: analisi HPLC-DAD

124

3.2.3 Quantificazione carotenoidi: analisi HPLC-DAD

126

CONCLUSIONI E SVILUPPI FUTURI DEL LAVORO

129

SITOGRAFIA

132

(7)
(8)

1

CAPITOLO 1

(9)

2 Il settore agroalimentare italiano rappresenta un’eccellenza che primeggia sul piano della qualità, della sicurezza alimentare, dell’innovazione tecnologica, della sostenibilità, della biodiversità e del rispetto della tradizione. L’Italia è, infatti, un Paese caratterizzato da grandi diversità territoriali e climatiche che si sono conformate in culture, storie e tradizioni, eccezionalmente varie ed uniche. L’Italia si consolida come seconda potenza agricola dell’UE, contraddistinta da un’ampia gamma di prodotti di alta qualità, di prodotti certificati ai vertici dei mercati internazionali (come DOP, IGP), dagli stretti legami con il territorio e con il patrimonio culturale, dagli alti standard di sicurezza e da un’elevata capacità di abbinare tradizione e costante innovazione di processo e di prodotto. Sebbene nel nostro Paese il settore agroalimentare abbia assistito alla progressiva riduzione del numero di aziende di piccole e piccolissime dimensioni specializzate in produzioni artigianali, di recente si sta assistendo ad un fenomeno in controtendenza. Infatti, diverse aziende italiane stanno puntando a rilocalizzare (reshoring) le attività produttive sul territorio nazionale, puntando sulla forza lavoro locale, sulle materie prime italiane e rivisitando i processi produttivi tradizionali; questo perché il Made in Italy, inteso come produzione italiana al 100%, è considerato un valore distintivo sempre più richiesto dai consumatori, anche quelli stranieri. Questa politica è in linea con le strategie dell’UE in tema agroalimentare, che intendono promuovere i prodotti tradizionali e di elevata qualità, tra esigenze di sicurezza e strategie di promozione del mercato e della concorrenza. Alcune fasce di consumatori, soprattutto i cosiddetti affluent, ritengono peraltro di verificare l’origine dei prodotti o il metodo di lavorazione adottato per la loro produzione, e di essere quindi disposti a riconoscere un premium price ai prodotti a marchio 100% Made in Italy, che continua ad essere in testa alle classifiche di preferenza, o ai prodotti realizzati con processi produttivi artigianali nel rispetto dei disciplinari di produzione o, per alcuni casi, delle leggi in materia di artigianalità. Le imprese del Made in Italy, così come quelle artigianali, sono distribuite solo in alcuni territori che nel tempo hanno avuto le capacità tecniche, oltre che economiche, di valorizzare il proprio prodotto grazie ad esempio all’ottenimento di certificazioni, marchi di origine, di specialità tradizionale o perché ottenuti secondo ricette e metodi tramandati negli anni, che nessun processo industriale è stato in grado di imitare realmente. L’Italia esprime una cultura di produzione leader nel mondo per diversi prodotti alimentari, confermata anche dal successo di Expo 2015, che ha fatto conoscere il food Made in Italy nel mondo. L’Italia, con la sua tradizione artigianale, con il suo heritage culturale ed estetico, ma anche con la sua tradizione di ricerca e innovazione, può puntare ad un’idea di futuro rilanciando metodi produttivi tradizionali che uniti alla qualità di prodotto/processo possano rispondere alla sfida della globalizzazione.

(10)

3 1.1 Quadro economico del settore alimentare italiano

Gli italiani sono il popolo europeo che dedica al cibo le maggiori attenzioni: ad oggi, periodo immediatamente successivo alla forte crisi economica che ha visto una forte riduzione della spesa alimentare, gli italiani continuano ad essere quelli che investono di più per il cibo. L’Italia vanta, infatti, una tradizione alimentare in generale sana e bilanciata, migliore di quella di molti altri Paesi. La dieta alimentare italiana è mutata negli anni, a partire dalla classica dieta mediterranea, modello nutrizionale riconosciuto dall’UNESCO come bene protetto e inserito nella lista dei patrimoni orali e immateriali dell’umanità nel 2010. Questo regime alimentare si fonda prevalentemente su cereali, frutta, verdura, olio di oliva (grasso insaturo), rispetto ad un più raro uso di carni rosse e grassi animali (grassi saturi), con un moderato consumo di pesce, carne bianca, legumi, uova, latticini, vino rosso, e dolci. I consumi degli italiani nel 2018, da un’analisi firmata Ismea su dati Istat, vedono il vino primeggiare nei prodotti Made in Italy, con un saldo positivo di 5.8 miliardi di Euro (rispetto ai 5.6 Mrd EUR del 2017), come pure gli ortaggi (+1.3 Mrd EUR) e le bevande (+1.1 Mrd EUR). Sul saldo negativo della bilancia commerciale dell’agroalimentare italiano pesano invece il pesce (-5.2 Mrd EUR), le colture industriali (-2.7 Mrd EUR), le carni (-3.1 Mrd EUR), oli e grassi (-1.5 Mrd EUR) e latte e derivati (-461 Mio EUR). I consumi del 2018, dunque, rilevano come l’alimentazione degli italiani stia mutando: essa è volta verso un minor consumo di proteine animali e un maggior ricorso agli ingredienti di origine vegetale, proiettata inoltre alla riscoperta di alimenti tradizionali ed artigianali, con una maggiore attenzione a prodotti di nicchia e qualitativamente superiori. Sono in crescita tutte le scelte più innovative e sperimentali, ma sicuramente la nuova frontiera del mercato riguarda i prodotti biologici e vegani. Naturalmente, la dieta italiana si ripercuote sul mercato del settore alimentare, che mantiene da sempre un trend positivo, anche per quanto riguarda importazioni ed esportazioni. Il comparto alimentare continua ad essere un portento dell’industria italiana, registrando nel 2018 circa 140 miliardi di Euro, con una crescita del 2% rispetto al 2017 (circa 137 Mrd EUR, pari all’8% del PIL); trend decisamente positivo soprattutto rispetto al quadriennio 2013-16, in cui era rimasto fermo a quota 132 miliardi di Euro, e, sul passo lungo, al periodo pre-crisi del 2007.

1.1.1 Export e import del settore alimentare

In generale, i dati dell’export e dell’import italiano permettono di leggere l’andamento del Paese e di comprendere l’effettivo stato di salute dell’economia, sia confrontando i risultati con quelli dell’anno precedente, sia con le performance del resto d’Europa e del mondo. Per il 2018 l’Italia ha esportato prodotti/servizi per 462 miliardi di Euro, con una crescita positiva del 3.1% rispetto al

(11)

4 2017 (449 Mrd EUR). Dal 2012 in poi l’Italia, infatti, ha sempre visto una crescita dell’export rispetto all’import, come riporta la Figura 1: nel 2018, l’export italiano è aumentato e di conseguenza anche l’import, con valori pari a 424 miliardi di euro (rispetto ai 401 Mrd EUR del 2017). I settori che hanno trainato questa crescita dell’export 2018 sono principalmente il settore dei motori (7.8%) e quello alimentare (3.8%). Per l’industria alimentare l’export 2018 ha raggiunto i 32.9 miliardi di Euro (+3% sul 2017) e dal 2007, ultimo anno pre-crisi, l’export ha segnato un aumento dell’81%. L’import 2018 del settore alimentare ha chiuso invece ad una quota di circa 21.8 miliardi di Euro, con un calo del -1.2% sull’anno precedente: ne esce un saldo attivo 2018 di 11.1 miliardi di Euro, in aumento del +12.1% su quello del 2017 (9.9 Mrd EUR). I Paesi europei sono i principali mercati di destinazione dei prodotti agroalimentari italiani, con 27.3 miliardi di Euro nel 2018 (+1.4% sul 2017); meno dinamiche sono state le esportazioni dirette verso i Paesi a livello mondiale, che nel 2018 sono cresciute dell’1% su base annua, con circa 14.5 miliardi di Euro (Figura 2). Tra i prodotti che hanno contribuito al trend positivo dell’export agroalimentare italiano, spiccano il vino ed i prodotti derivati dei cereali, con quote sul totale di circa il 15% per ciascuno (Figura 3). In particolare, i comparti del settore delle bevande che sono emersi maggiormente in modo positivo nel 2018 rispetto al 2017 sono stati quelli delle acquaviti e liquori (+24.1%) e della birra (+11.2%).

1.1.2 Previsioni per il 2019: l’importanza dei prodotti italiani

Il fatturato di settore per il 2019, dopo essere salito a quota 140 miliardi di Euro nel 2018, continuerà di sicuro a crescere per portarsi attorno ad una quota stimata pari a 142 Mrd EUR. Le previsioni 2019 dell’industria alimentare mostrano il consolidarsi della crescita dei consumi dei segmenti low cost e premium, agli estremi, ad ulteriore schiacciamento della fascia di acquisto centrale. Anche l’export, in assenza di forti turbative internazionali, dovrebbe confermare il trend positivo del 2018. L’export del food e del beverage italiano è cresciuto nell’ultimo decennio: la crescente predilezione di molti mercati per i prodotti alimentari di qualità offre spunti molto interessanti alla produzione italiana, caratterizzata da oltre 800 prodotti tipici a certificazione di origine garantita. E’ proprio per questo che le grandi potenzialità del food and beverage nazionale hanno bisogno di normative e strumenti di controllo sempre più rigidi, anche al fine di evitare il fenomeno della contraffazione alimentare, dato che l’Italia è proprio il Paese ad esserne più colpito. L’Italian Sounding, termine utilizzato per indicare la commercializzazione di prodotti che portano nomi di marchi italiani ma che in realtà non sono prodotti in Italia, è arrivato ormai a quota 90 miliardi di Euro; infatti, le potenzialità del Made in Italy alimentare vanno di pari passo ad un’alta vulnerabilità dei prodotti nel mercato internazionale. Ad esempio, l’export dei prodotti

(12)

5 ad Indicazione Geografica Protetta (IGP) ha registrato nel 2018 un aumento del 145%, a prova proprio del grande apprezzamento nel mercato internazionale dei nostri prodotti certificati.

Figura 1. Rappresentazione grafica dell’interscambio commerciale italiano degli ultimi dieci anni (nelle

ascisse, valori in milioni di Euro) [S1].

Figura 2.Principali destinazioni dei prodotti agroalimentari italiani (var.% 18/17 - tra parentesi è indicato il peso % del paese sull’export complessivo nel 2018). Fonte: elaborazioni ISMEA su dati ISTAT.

Figura 3. Saldo commerciale per comparti produttivi (valori espressi in milioni di Euro). Fonte: elaborazioni ISMEA su dati ISTAT.

(13)

6 1.2 Aspettative e richieste dei consumatori italiani

La crisi economica che ha colpito il Paese a partire dal 2007-2008 ha portato ad una diminuzione generale dei consumi, investendo naturalmente anche il mercato alimentare italiano. Il reddito pro-capite è sceso e conseguentemente è diminuito anche il potere d’acquisto delle famiglie, costringendole a ridimensionare il proprio budget ed a razionalizzare i consumi. Attualmente, tenendo conto delle percezioni dei consumatori e dei loro comportamenti propri di quest’epoca storica, è possibile valutare dei “fattori di cambiamento” nelle preferenze alimentari [S2]:

• dei “paradigmi”, o “megatrend”, che rappresentano le grandi trasformazioni sociali o economiche che concorrono a definire i nuovi modelli di consumo: sono modelli di lungo periodo visibili già attualmente, ma che determinano le tendenze che caratterizzeranno i decenni a venire;

• delle “forze di cambiamento e/o conservazione”, i “motori” della trasformazione dei comportamenti sociali o, al contrario, i “custodi” dello status quo;

• delle “tendenze alimentari”, che derivano dall’interazione tra i paradigmi e le forze di cambiamento e/o conservazione. Tali tendenze attualmente possono essere così riassunte:

✓ gusto (inteso come piacere), ossia il raggiungimento di un senso di appagamento e soddisfazione tramite il cibo;

✓ attenzione alla salute, con la valutazione da parte del consumatore degli aspetti organolettici e nutrizionali dei cibi;

✓ naturalità, ovvero il ritorno alla semplicità, con la riduzione al minimo di interventi e manipolazioni sui cibi;

✓ orientamento al passato, ovvero la conservazione delle tradizioni tramite la scelta di cibo locale e regionale, che enfatizza il rapporto tra cibo e territorio;

✓ orientamento al futuro, con la valorizzazione del progresso e la globalizzazione dei sapori;

✓ tecnologia, ovvero lo sforzo innovativo su sollecitazione di un consumatore sempre più informato ed esigente;

✓ cibo prodotto “di lusso”, in termini di maggiore qualità e di difficile reperibilità di determinati alimenti;

✓ sostenibilità, che fa riferimento a un consumatore “consapevole” e coinvolto nella tutela dell’ambiente e della qualità dei prodotti.

L’industria alimentare dunque sta mutando, condizionata dal cambiamento dei desideri e delle scelte dei consumatori, i quali seguono i nuovi trend del cibo. La scelta di un alimento di maggiore

(14)

7 qualità, non necessariamente più costoso, è basilare per il consumatore diventato ormai più esperto ed informato, e per questo più attento anche alla qualità nutrizionale. Come anche la scelta del cibo locale, dei prodotti Made in Italy, o il fenomeno del cibo “a kilometro zero”, che è forse il più importante tra i trend del cibo. Di conseguenza, la comunicazione circa la qualità degli alimenti è fondamentale per il consumatore odierno, e da parte delle aziende dovrà essere necessariamente integrata con altri valori etici, quali la salute ed il benessere del territorio, dei dipendenti, ecc.

1.3 Definizione della qualità alimentare

La dinamica internazionale del mercato dei prodotti agroalimentari ha subìto recentemente importanti trasformazioni, dall’ingresso dei nuovi Paesi esportatori (come, ad esempio, la Cina), fino ad arrivare alla revisione della politica agricola europea, orientata alla riduzione della quantità offerta a vantaggio, invece, della qualità del prodotto. Infatti, la valorizzazione dei prodotti agroalimentari di qualità rappresenta per il Sistema Paese un fattore competitivo per affrontare la sfida generata dalla globalizzazione dei mercati. Le caratteristiche qualitative e la tipicità delle produzioni legate soprattutto alle tradizioni e alla cultura di specifici territori costituiscono un tema di crescente attualità su cui si concentrano fortemente le attenzioni dei consumatori e delle aziende, sollecitando a tutti i livelli, l’assunzione di iniziative di tutela, informazione e promozione, e lo sviluppo di attività di ricerca in grado di promuovere la qualità del prodotto attraverso indicatori scientificamente misurabili. In generale, dunque, la definizione di qualità dei prodotti agroalimentari non è, né può essere, univoca, in quanto essa deve essere definita rispetto alla capacità del prodotto di soddisfare i bisogni espressi o latenti dei consumatori; naturalmente, il rapporto tra i consumatori ed il prodotto, specie nel caso dei prodotti alimentari, ha una forte componente soggettiva. Per questa ragione, se da un lato è necessario proseguire in un percorso di sempre più attenta e precisa definizione delle caratteristiche misurabili ed oggettive dei prodotti alimentari, dall’altro è importante prestare attenzione anche ad altre caratteristiche, non necessariamente tutte facilmente misurabili, che permettono ad un prodotto alimentare di essere percepito come di qualità “superiore” rispetto ad altri. Le componenti soggettive della qualità rappresentano una difficoltà per le aziende in quanto non facili da identificare, classificare e valutare per la loro portata economica; allo stesso tempo, però, esse rappresentano anche una grande opportunità, poiché è proprio dalla capacità di soddisfare con successo questa domanda di qualità che possono scaturire le migliori opportunità economiche per un dato prodotto e/o per una data azienda (marketing agroalimentare). Il consumatore odierno è, infatti, più attento e consapevole, sempre più attratto e disposto a pagare un premium price per un prodotto di qualità maggiore. Ad esempio, i prodotti

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8 ritenuti artigianali o tipici, per le loro caratteristiche intrinseche, per il legame con il territorio stesso e con gli usi e costumi locali, costituiscono una garanzia di qualità anche nell’ottica di una crescente domanda di sicurezza alimentare. In questo contesto, la richiesta da parte del consumatore si manifesta sempre più con l’esigenza di avere informazioni chiare relative alle caratteristiche intrinseche dei prodotti. Va comunque sottolineato che troppo spesso si abusa del concetto di qualità e di superiorità del prodotto, associando ad esempio espressioni quali “prodotto artigianale” o di “qualità superiore” a fasi secondarie del processo di lavorazione o ad elementi come l’origine delle materie prime, che potrebbero non avere alcuna incidenza reale sulla qualità del prodotto finale, a tutto discapito dei produttori più onesti, artigiani o industriali, e della corretta tutela dei consumatori. Nel settore alimentare, lo scenario competitivo è caratterizzato dalla presenza sul mercato di una pluralità di marche, poche delle quali detengono stabilmente elevate quote di mercato. Le altre marche, magari legate a prodotti ottenuti ancora oggi con metodi di lavorazione artigianale, sebbene siano note ai consumatori, raggiungono quote di mercato di gran lunga inferiori, dato che la concorrenza sugli scaffali e le tendenze di mercato rendono sempre più vulnerabili le posizioni acquisite. Si aggiunga, inoltre, la significativa quota di mercato raggiunta dalle private labels, ovvero i prodotti a marchio del distributore (ad esempio Auchan, Coop, Conad, Carrefour), venduti a prezzi ridotti ma sempre prodotti in impianti industriali di proprietà delle aziende leader. A priori, quindi, nell’alimentare si deve parlare di differenziazione senza poter ipotizzare necessariamente la presenza di una qualità “migliore” rispetto ad una “peggiore”, ma piuttosto la presenza di beni di qualità semplicemente diversa. Sono le preferenze effettive ed i comportamenti di consumo che definiscono, in ultima analisi, quale sia la percezione dei diversi mix di caratteristiche dei prodotti alimentari. Questo aspetto è importante per almeno due ragioni: anzitutto, i diversi strumenti disponibili per identificare prodotti “di qualità” nell’agroalimentare (DOP, IGP, STG, DOC, DOCG, BIO, ecc.) non portano “necessariamente” alla formazione di una graduatoria e quindi di una differenza di prezzo univoca tra i diversi prodotti. In secondo luogo, data la soggettività della percezione e della valutazione della qualità, essa non deve essere considerata stabile nel tempo: un prodotto può guadagnare o perdere in apprezzamento per il suo livello qualitativo anche se restassero ferme tutte le sue caratteristiche.

1.3.1 Sicurezza alimentare: un prerequisito della qualità

Un prerequisito per la definizione di qualità alimentare è sicuramente la sicurezza: in campo alimentare si parla di “food security” - la sicurezza degli approvvigionamenti, ovvero la disponibilità di alimenti in quantità adeguata a soddisfare i 5 bisogni basilari - e di “food safety” - l’assenza di possibili impatti negativi sulla salute dei consumatori. Nel passaggio dalla prima alla

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9 seconda si potrebbe riassumere uno dei principali cambiamenti della politica agroalimentare dell’Unione Europea nel corso degli ultimi decenni: mentre negli obiettivi della PAC (Politica Agricola Comune) del Trattato di Roma del 1957 si leggeva, in modo esplicito, “garantire la sicurezza degli approvvigionamenti”, nella ridefinizione degli stessi in occasione della stesura di Agenda 2000 [S3], si legge che “la salute, in particolare la sicurezza degli alimenti, costituisce la principale preoccupazione”; dunque, dall’attenzione primaria alla quantità di cibo disponibile a quella per la sua “qualità”, intesa soprattutto nel senso di sicurezza sanitaria [S4]. La maggiore attenzione alla sicurezza sanitaria degli alimenti è dovuta soprattutto ai grandi cambiamenti che si sono realizzati nei sistemi agroalimentari moderni: progressivamente, infatti, è aumentata negli anni la distanza tra chi produce le materie prime agricole ed il consumatore finale, con una conseguente “spersonalizzazione dei rapporti” lungo la filiera che ha portato ad una modifica del sistema informale di garanzie che invece, un tempo, era più garantito. Oggi, infatti, l’acquisto dei prodotti alimentari avviene in misura largamente prevalente all’interno di punti vendita della GDO, senza contatti con il personale. La catena scelta, in qualche misura, insieme ai diversi tipi di marchio e di informazioni in etichetta che il prodotto può presentare, sono i nuovi elementi di garanzia, in sostituzione di quelli offerti dai sistemi di rapporti personali di un tempo. La crescente spersonalizzazione degli scambi ma anche la globalizzazione dei mercati hanno portato, quindi, anche ad una percezione diversa dei rischi e ad una maggiore difficoltà ed importanza dei controlli formali e/o istituzionali. Non di rado, l’opinione pubblica esprime perplessità sulla qualità di prodotti di importazione o di provenienza ignota e manifesta una spiccata preoccupazione quando percepisce l’incertezza relativa a certi aspetti qualitativi dei prodotti alimentari che, anche solo in parte, utilizzino materie prime agricole di provenienza lontana. Nell’attenzione all’indicazione dell’origine delle materie prime agricole vi è certamente anche una componente di domanda di sicurezza: l’origine, in altri termini, può essere anche un indicatore indiretto di sicurezza alimentare. Il soddisfacimento della domanda di qualità è dunque un tema molto complesso perché legato ad un insieme multi-fattoriale di componenti chimico-fisiche, nutrizionali, sanitarie, tecnologiche, sensoriali, ecc., molto difficili da definire in modo univoco e comunque estremamente variabili nel tempo e nello spazio. Infatti, anche durante il processo di produzione e conservazione dell’alimento, i principi nutritivi, così come le proprietà organolettiche, possono subire diverse trasformazioni, alcune delle quali sono volute e guidate dall’uomo, altre sono dovute a delle vere e proprie alterazioni dell’alimento, e quindi dovrebbero essere ritardate o addirittura ostacolate poiché potrebbero costituire un rischio per la sicurezza dei consumatori, non solo dal punto di vista igienico, ma anche della qualità nutrizionale ed organolettica.

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10 1.3.2 Indicatori convenzionali vs markers molecolari

Le strategie messe in atto dall’UE in materia di sicurezza alimentare, tra i vari punti come per esempio controlli più rigorosi, limiti di sicurezza per i materiali a contatto con gli alimenti, incentivi per l’innovazione in campo alimentare, ecc., intendono promuovere i prodotti alimentari tradizionali e di elevata qualità, lasciando ai Paesi membri di definire le proprie strategie. Tuttavia, per garantire che un prodotto di qualità superiore o un prodotto artigianale rispetti realmente le caratteristiche evocate dalla sua definizione (spesso utilizzata dai produttori esclusivamente come pubblicità per l’azienda), è nata l’esigenza di introdurre strumenti sempre più specifici al fine di tutelare congiuntamente sia i consumatori che i produttori, questi ultimi spesso vittime di concorrenza sleale. In questo scenario, il prezzo indica la qualità del prodotto alimentare, pertanto stabilizzare il rapporto qualità/prezzo costituisce un indicatore fondamentale della politica di marca, e la sua caratterizzazione attraverso parametri oggettivi e misurabili è di grande utilità per valorizzare i prodotti e difenderli sul mercato globale. In tale contesto, diffondere nel mondo un prodotto alimentare la cui qualità sia stata valutata e garantita attraverso specifici marker (oltre a quelli stabiliti dal legislatore) significa diffondere la cultura italiana. Tuttavia, è possibile ottenere ulteriori informazioni sulle caratteristiche e la “storia” del prodotto mediante la determinazione di altri parametri non tradizionali, ossia indicatori innovativi genericamente definiti come marker molecolari. Da un’attenta valutazione degli indicatori convenzionali si comprende come i controlli effettuati routinariamente dai produttori, oltre a garantire la sicurezza dal punto di vista igienico, siano principalmente incentrati su fattori correlabili alla “qualità percepita”, ovvero a quella richiesta dal consumatore. Tali controlli, tuttavia, trascurano completamente gli aspetti nutrizionali e tecnologici che invece contribuiscono significativamente alla qualità totale del prodotto finale e che, benché non percepiti in maniera diretta al momento del consumo, rappresentano un valore aggiunto di cui tener conto per differenziare i prodotti di alta gamma rispetto a quelli a più basso costo. Un altro elemento che gli indicatori convenzionali non prendono in considerazione è quello del flavour, ovvero la combinazione di sapore e aroma, benché questa proprietà sensoriale abbia generalmente un impatto significativo sulle preferenze del consumatore. Tuttavia, le caratteristiche nutrizionali e organolettiche di un alimento/bevanda potrebbero essere opportunamente utilizzate per discriminare i vari prodotti disponibili sul mercato, in modo da valorizzare quelli che al termine del processo tecnologico utilizzato per la loro produzione conservino intatta la propria qualità. La definizione di nuovi indicatori, specifici del valore nutrizionale o del flavour di un prodotto, da valutare in aggiunta ai parametri convenzionali, presuppone l’individuazione e la successiva quantificazione di marker molecolari di prodotto e/o di processo. I marker di prodotto sono molecole caratteristiche di un determinato

(18)

11 prodotto, o ingrediente, che possono essere assunte come un tracciante nell’alimento finito; i marker di processo rappresentano invece molecole di neo-formazione derivanti da reazioni indotte dal processo produttivo, oppure da molecole naturalmente presenti nell’alimento e modificate durante la lavorazione. Mediante tali descrittori è possibile definire classi differenti di qualità, valutare la genuinità ed accertare la corretta denominazione di molti alimenti (ad es. imitazione fraudolenta di prodotti a marchio DOP o IGP; individuazione di eventuali frodi commerciali derivanti da prodotti venduti come di alta gamma ma in realtà non conformi a quanto dichiarato sulla confezione; individuazione di prodotti ottenuti da processi industriali ma venduti come prodotti artigianali). In letteratura sono da tempo noti ed utilizzati diversi marker molecolari, utili per la descrizione dei processi produttivi, tra cui: i prodotti derivanti dalla reazione di Maillard, le molecole derivanti dall’ossidazione dei lipidi, i composti di neo-formazione che generano aromi (“flavour”), le molecole derivanti da trattamenti microbiologici (ad esempio fermentazioni) e i prodotti che causano diminuzione del valore nutrizionale [1-7]. Grazie alle loro caratteristiche di formazione, al loro significato biologico, biochimico e chimico, i marker molecolari sono dunque di grande utilità, non solo per valutare la qualità e la sicurezza degli alimenti e per mantenere sotto controllo la shelf-life, ma anche per descrivere, ed eventualmente ottimizzare, i processi e i meccanismi di reazione che avvengono durante i trattamenti tecnologici, in particolare quelli termici, che rappresentano la fase che provoca maggiori alterazioni della qualità nutrizionale/organolettica del prodotto finito. La conoscenza delle reazioni chimiche che avvengono negli alimenti può, infatti, essere il parametro critico per l’eliminazione delle caratteristiche indesiderate e dannose dei processi produttivi e di conservazione.

(19)

12

CAPITOLO 2

Approccio

Sperimentale

(20)

13 Il presente lavoro di tesi ha visto l’utilizzo di un sistema di strumentazioni analitiche altamente sensibili e l’utilizzo di modelli statistici multivariati, i quali hanno permesso di individuare potenziali marker di prodotto e/o processo per valorizzare differenti prodotti alimentari, considerati di fascia di qualità superiore, e per valutarne l’autenticità rispetto a quanto riportato in etichetta. L’approccio sperimentale impiegato nelle diverse fasi del presente lavoro di ricerca ha previsto l’utilizzo di tecniche di separazione cromatografiche quali la cromatografia liquida ad alta prestazione (HPLC) accoppiata a rivelatore UV (DAD) e la gas cromatografia (GC) accoppiata alla spettrometria di massa (MS), previo pretrattamento dei campioni ed estrazione dei composti di interesse dalle diverse matrici alimentari in esame (nel secondo caso si è fatto ricorso alla tecnica di campionamento SPME). I dati ottenuti dalle differenti tecniche cromatografiche sono stati successivamente trattati utilizzando un approccio statistico multivariato (c.d. tecniche chemiometriche), al fine di massimizzarne i risultati. In questo capitolo saranno trattati i principi teorici, le applicazioni ed i vantaggi/svantaggi delle tecniche utilizzate.

2.1 Alcuni richiami sulle tecniche cromatografiche impiegate nello sviluppo della tesi

La cromatografia è una tecnica di separazione in grado di separare una miscela complessa nei suoi componenti, al fine di effettuare l’analisi sia qualitativa che quantitativa. Con il termine cromatografia si intende un metodo fisico di separazione basato sulla distribuzione differenziale dei componenti fra due fasi: una fase fissa (o stazionaria) e una fase mobile (o eluente), che si muove in modo continuo in una direzione definita lungo la fase stazionaria [8]. Una separazione cromatografica è basata sulla diversa affinità che i vari componenti di una miscela mostrano per le due fasi: la fase stazionaria (costituita da un solido o un gel) rimane fissa, mentre la fase mobile (liquida o gassosa) fluisce su di essa, trascinando con sé i componenti della miscela che risultano più affini ad essa. Questo fenomeno, denominato ripartizione, è sfruttato per la separazione degli analiti, i quali a seconda delle loro caratteristiche chimico fisiche (affinità, polarità, peso molecolare), interagiscono più o meno stabilmente con la fase stazionaria, mostrando, così, un diverso tempo di ritenzione (RT, Retention Time) (Figura 4), ovvero eluiranno a tempi diversi. Il RT è il tempo necessario alla sostanza iniettata per essere eluita dalla colonna cromatografica. La concentrazione di una sostanza ripartita tra due diverse fasi liquide segue infatti la legge di Nernst: K = [X]1⁄[X]2 , in cui K è la costante di ripartizione (o di distribuzione) e rappresenta, a

temperatura costante, il rapporto tra le concentrazioni del soluto nelle due fasi a contatto fra loro. Di conseguenza, gli analiti che hanno minore affinità con la fase stazionaria saranno i primi ad eluire e quindi a raggiungere il rivelatore, ovvero la strumentazione finale che permette l’identificazione e la quantificazione dei composti. Al fine di modificare la ripartizione tra le varie

(21)

14 sostanze è possibile intervenire sulle condizioni di analisi, effettuando un’ottimizzazione del metodo cromatografico, che dipenderà dalla tecnica cromatografica utilizzata e dalla matrice da analizzare. Le interazioni che si verificano tra le sostanze da separare e le due fasi sono deboli, mentre svolge un ruolo solitamente decisivo la polarità delle due fasi. La tecnica cromatografica da utilizzare è scelta in base al tipo di composti da analizzare: nel caso di analiti volatili o volatilizzabili, termicamente stabili, non ionici, si utilizza la gascromatografia (GC); per analiti non volatili o poco volatili, ionici, ionizzabili o non ionici, termicamente instabili, la cromatografia liquida (LC); per analiti non volatili o termicamente instabili, ma non rivelabili dai comuni detector per LC, si lavora in cromatografia fluida supercritica (SFC). Tra le principali tecniche cromatografiche (Figura 5), nel presente lavoro di tesi sono state utilizzate:

• Gas cromatografia, GC (Gas Chromatography): il campione, in fase gassosa, è iniettato all’interno di una colonna capillare sulle cui pareti interne sono presenti reagenti con i quali i diversi composti presenti nel campione interagiscono (fase stazionaria), e che vengono trascinati all’uscita della colonna da un gas inerte (fase mobile). I rivelatori per GC sono di diversi tipi, in questo studio è stato utilizzato uno spettrometro di massa (MS). • Cromatografia liquida ad alta prestazione, HPLC (High Performance Liquid

Chromatography, nota un tempo come High Pressure Liquid Chromatography): il campione, portato in soluzione, è iniettato ad alta pressione nella colonna ed i vari composti interagiscono con diverse velocità con i reagenti presenti sulle pareti interne della colonna stessa (fase stazionaria), al passaggio di una fase mobile costituita da un liquido. Anche nel caso dell’HPLC i rivelatori possono essere di diverso tipo, in questo studio è stato utilizzato un rivelatore a serie di diodi (DAD, Diode Array Detector).

Le tecniche cromatografiche hanno lo svantaggio di essere distruttive nei confronti del campione, in quanto operano esclusivamente su campioni in soluzione o in fase vapore, a seconda della tecnica cromatografica utilizzata; tuttavia, necessitando di quantità ridotte di campione (fino a 1 µl di soluzione, corrispondente a pochi mg di campione solido), presentano un grande vantaggio nell’analisi di una vasta tipologia di matrici.

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15

Figura 4. Parametri principali monitorati in un cromatogramma: il tempo morto, to (il tempo richiesto

affinché le molecole di solvente, o altro composto non ritenuto dalla fase stazionaria, attraversino la colonna); il volume morto, Vo (volume di fase mobile contenuto nella colonna); W (larghezza del picco). La

relazione che lega il tempo di ritenzione (tr, o RT) con il volume di ritenzione (Vr) è la velocità di flusso F

(mL/min) = Vr/tr.

Figura 5. Schema delle principali tecniche cromatografiche.

CROMATOGRAFIA

Gascromatografia (GC) (fase mobile: gas)

Cromatografia gas-solido o di adsorbimento (fase fissa: solido)

Cromatografia gas-liquido o di ripartizione (fase fissa: liquido)

Cromatografia liquida (LC, HPLC) (fase mobile: liquido)

Cromatografia liquido-liquido

o liquida di ripartizione

(fase fissa: liquido)

Cromatografia liquido-solido (fase fissa: solido)

Cromatografia liquido-solido

o liquida di adsorbimento

(fase fissa: solido)

Cromatografia a scambio ionico (fase fissa: resina

scambiatrice)

Cromatografia a esclusione dimensionale (fase fissa: gel)

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16 2.1.1 Gascromatografia (GC)

La gascromatografia è una tecnica cromatografica molto diffusa, utilizzata in chimica analitica, basata sulla ripartizione dei composti di interesse (analiti) vaporizzati ed eluiti attraverso una colonna capillare (fase stazionaria) con l’aiuto di un gas di trasporto, o carrier gas (fase mobile), con il quale però non ci sono interazioni chimiche significative. Le analisi gas cromatografiche sono adatte per analiti volatili, termicamente stabili, non polari, o che possono esser resi tali da opportune reazioni. A livello strumentale, è composta generalmente dagli elementi riportati in Figura 6.

Figura 6. Schematico diagramma dei componenti principali di un sistema GC [9].

Il campione viene introdotto nel GC e trasportato da un flusso di gas inerte (come He, H2, N2)

attraverso l’iniettore. L’iniettore ha diverse funzioni: oltre al ruolo di ingresso per il campione, deve vaporizzare, mescolare con il gas di trasporto e portare il campione alla testa della colonna; di conseguenza la scelta della tecnica e delle condizioni d’iniezione è molto importante, soprattutto per l’analisi quantitativa [10].

L’iniezione può avvenire in diverse modalità [11]:

• Split/Splitless. Nel liner il campione viene vaporizzato (alte temperature) e, mediante l’impostazione dal software, una valvola (split valve) modifica la quantità di campione che viene iniettato. Nella modalità split la valvola resta aperta, consentendo la parzializzazione del campione ed evitando, a volte, l’aggiunta di solvente diluente: ad esempio, uno splittaggio nella proporzione 100 : 1 vale a dire che, per ogni cento parti di campione, solo una parte entra nella colonna e il resto viene scaricato. Questa modalità è utile quando la concentrazione dei componenti del campione può sovraccaricare la colonna, determinando una perdita di risoluzione (allargamento dei picchi cromatografici), ma non è ottimale per le analisi quantitative, in quanto il rapporto di split cambia anche con piccole variazioni delle condizioni d’iniezione (i componenti più volatili vengono trasferiti meglio in colonna rispetto ai componenti meno volatili). Quando invece

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17 i componenti di interesse sono presenti in tracce, l’approccio da seguire sarebbe quello di pre-concentrare il campione prima dell’iniezione, e si ricorre alla modalità splitless: sempre tramite il software, durante l’iniezione la valvola di split viene chiusa ed aperta in modo programmato, per consentire alla maggior parte del campione di raggiungere la colonna. Questa modalità comporta un miglioramento nella risoluzione dei picchi dei componenti presenti in tracce e nella separazione sia di analiti volatili che poco volatili. Dunque, le modalità di iniezione split e splitless offrono il vantaggio dell’analisi dei componenti su un ampio intervallo di concentrazione, senza la necessità di lunghe diluizioni o pre-concentrazioni dei campioni.

• PTV (Programmable Temperature Vaporizer, vaporizzatore a temperatura programmata) (Figura 7): è un iniettore concettualmente simile al modello split/splitless che consente di introdurre il campione ad una temperatura relativamente bassa (c.d. “iniezione a freddo”). Questo approccio evita tutti gli inconvenienti relativi all’iniezione in un’area calda [12]: non vi è nessuna vaporizzazione selettiva del campione, è possibile introdurre un volume riproducibile (anche nel caso di un campione diluito in un solvente altamente volatile) ed inoltre il rischio di degrado termico del campione è ridotto (nell’iniezione a caldo i composti vengono trasferiti all’ingresso proprio al loro punto di ebollizione). Dopo l’iniezione, il PTV viene rapidamente riscaldato per trasferire i componenti vaporizzati nella colonna capillare, e l’introduzione può avvenire in modalità split, splitless o split-solvent. I vantaggi dell’iniezione split/splitless sono combinati con quelli dell’iniezione a freddo sulla colonna (mancanza di discriminazione e decomposizione), e dunque il PTV fornisce un alto livello di riproducibilità e un’elevata precisione soprattutto nell’analisi quantitativa di miscele costituite da composti con differenti pesi molecolari, punti di ebollizione e polarità.

Figura 7. Iniettore PTV: per modificare rapidamente la temperatura, la camera di iniezione è

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18 • On column. Non è una tecnica di vaporizzazione: il campione infatti viene iniettato a freddo direttamente nella colonna capillare (“cold on-column” o COC), utilizzando una particolare micro-siringa il cui ago (in acciaio o silice) ha un diametro generalmente di 0.15 mm. Questa modalità è utilizzata soprattutto per l’analisi di composti termicamente labili o di composti ad alto punto di ebollizione.

Una volta iniettato il campione, questo attraversa la colonna posta in un forno termostatato. La colonna è costituita da un tubo capillare in silice, lungo diversi metri, sulle cui pareti interne è depositato un sottile strato di fase stazionaria. La tipologia di colonna utilizzata varia in base ai composti da analizzare, ovvero la fase stazionaria dovrà mostrare un certo grado di affinità con gli analiti in esame. Dopo un certo tempo, i componenti separati fuoriescono con il flusso di gas inerte dall’estremità opposta della colonna, ove è posto un opportuno rivelatore (detector) in grado di registrare il segnale. I rivelatori di uso generale, e dunque più diffusi, sono lo spettrometro di massa (MS, Mass Spectrometry) e il rivelatore a termoconducibilità (TCD, Thermal Conductivity Detector). Per la rivelazione di sostanze più specifiche, come le sostanze alogenate o le sostanze azotate e fosforate, vengono utilizzati, rispettivamente, il rivelatore a cattura di elettroni (ECD) e il rilevatore a ionizzazione di fiamma (FID) o il rivelatore NPD (noto anche come TSD, Thermionic Specific Detector).

2.1.1.1 Tecnica estrattiva HS-SPME

La tecnica di microestrazione in fase solida, o SPME (Solid-Phase MicroExtraction), è stata sviluppata per rispondere alla crescente esigenza di metodi analitici rapidi e affidabili ed ha acquisito sempre più popolarità proprio grazie alla sua semplicità, velocità e sensibilità. I primi lavori sulla tecnica prevedevano l’impiego di fibre ottiche di silice fusa rivestite con fasi stazionarie polimeriche che venivano immerse in campioni acquosi e poi introdotte nell’iniettore del GC. Quest’ultima fase richiedeva però l’apertura dell’iniettore, con conseguente perdita di pressione che comprometteva l’analisi [13]. Tuttavia, la tecnica SPME ha avuto un rapido sviluppo grazie all’incorporazione della fibra all’interno dell’ago di una specie di siringa (sistema denominato holder): il primo dispositivo, più simile a quelli odierni, fu introdotto nel 1993 dall’azienda Supelco. Uno dei numerosi vantaggi della tecnica SPME è anche l’ampia applicabilità a diverse tipologie di matrici e analiti: inizialmente utilizzata per lo studio di inquinanti nelle acque, rappresenta ad oggi una delle tecniche maggiormente utilizzate per l’analisi del flavour degli alimenti e delle bevande [2-7, 14, 15]. L’SPME è infatti una tecnica di estrazione/concentrazione di composti da qualsiasi tipo di matrice (solida, liquida o gassosa) in modalità “solvent-free” (consumo di solvente nullo o irrisorio). Inoltre, la tecnica ha anche dei vantaggi per il campione: ne sono necessarie piccole quantità, la fase preparativa è molto semplice e veloce e può essere

(26)

19 facilmente automatizzata [16]. La componente fondamentale della tecnica è una fibra di silice fusa rivestita da una fase stazionaria adsorbente (film polimerico). La fibra, che può essere di diverse lunghezze (generalmente 1 cm) e spessore (7-100 μm), è posta nella parte terminale di un pistoncino all’interno di un sistema a “siringa” in acciaio inossidabile (come una classica siringa cromatografica) che permette di esporla e ritirarla nelle diversi fasi. Il principio sul quale si basa la tecnica SPME è la ripartizione degli analiti tra il campione ed il polimero che riveste la fibra: una volta completata l’estrazione, effettuata, nel caso dell’HS-SPME, esponendo la fibra al campione nello spazio di testa (HS, Head Space), gli analiti trattenuti nel film vengono desorbiti direttamente nell’iniettore del gascromatografo (GC) ed analizzati, come schematizzato in Figura 8. In dettaglio, la tecnica HS-SPME prevede i seguenti passaggi:

• Fase di incubazione: un volume noto di campione è trasferito in una fiala successivamente chiusa ermeticamente con tappo a corona (p.e. una ghiera di alluminio) dotato di setto (p.e. in PTFE/silicone). In questo step gli analiti si distribuiscono tra le due fasi a contatto, ossia si instaura un equilibrio chimico tra la fase liquida del campione e la fase gassosa sovrastante la matrice, definita spazio di testa (HS).

• Fase di estrazione: la microestrazione in spazio di testa (HS-SPME) viene effettuata esponendo la fibra alla fase vapore che si trova in equilibrio con la soluzione, sulla base del principio di ripartizione. L’estrazione è considerata completa quando viene raggiunto l’equilibrio tra le concentrazioni di analita nella soluzione e nel film polimerico della fibra. • Fase di desorbimento: il desorbimento degli analiti dalla fibra avviene direttamente

nell’iniettore del gascromatografo. Si tratta di un desorbimento termico, realizzato impostando la temperatura in base al tipo di fibra utilizzata e alla tipologia di analiti in esame.

Per effettuare un’analisi mediante estrazione SPME è necessario ottimizzare le condizioni operative, considerando la variazione di alcuni parametri quali [17,18]:

• Fibra: esistono diversi tipologie di film polimerici in commercio, ognuno con diverse caratteristiche (Tabella 1). La scelta della tipologia di fibra più opportuna per una specifica analisi dipende dagli analiti da analizzare (peso, dimensione molecolare, volatilità e polarità) e dalla complessità delle matrici. Rivestimenti costituiti da un solo polimero sono più adatti per estrarre composti apolari (p.e. PDMS, apolare), mentre rivestimenti maggiormente polari (p.e. PA), sono adatti per l’estrazione di composti polari (fenoli, alcoli, acidi carbossilici). Nel caso di matrici complesse vengono solitamente usate le fibre multifasiche, come per esempio la fibra DVB-CAR-PDMS, che permettono di ridurre i tempi di estrazione, con ottime prestazioni, in un range di concentrazione più ampio

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20 rispetto alle fibre monofasiche o bifasiche. Altro parametro da tenere in considerazione è lo spessore della fibra: film spessi permettono l’estrazione di più composti rispetto all’utilizzo di film sottili; di contro, quest’ultimi risultano migliori per l’isolamento e la preconcentrazione di sostanze con un alto punto di ebollizione.

• Tempo (t) di estrazione: un tempo di estrazione maggiore favorisce l’occupazione di molti siti polimerici sulla fibra da parte delle molecole di analita, ma di contro un tempo prolungato, quando tutti i siti sono occupati, non ha effetto sull’efficienza della preconcentrazione del campione.

• Temperatura (T) di estrazione: dato che la costante di distribuzione di una sostanza tra la fibra ed il campione dipende dalla temperatura, un incremento della T di estrazione facilita il trasporto degli analiti dalla soluzione allo spazio di testa, ma T troppo elevate possono causare un prematuro desorbimento di analiti.

• Agitazione del sistema: la strumentazione è dotata di un sistema di agitazione del campione durante le fasi di incubazione e/o estrazione. Agitare il campione durante queste fasi può aumentare la resa dell’estrazione e ridurne i tempi.

• Aggiunta di sale: l’aggiunta di NaCl in fase di preparazione del campione (nel caso di campioni liquidi) può essere utile poiché aumenta l’efficienza di estrazione di molti analiti, in particolare dei composti polari e volatili, ma può diminuire la solubilità degli stessi in soluzione, perciò aumenta la quantità di analita assorbito sulla fibra [19].

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21

Tabella 1. Caratteristiche delle fibre SPME disponibili in commercio (Supelco). Supporto della fibra in silice

fusa (StableFlex), o metallo, rivestiti di uno dei polimeri elencati (PDMS, polidimetilsilossano; PA, poliacrilato; PEG, polietilenglicole; DVB, divinilbenzene; CAR, carboxen) [21].

2.1.1.2 Accoppiamento GC-MS

I rivelatori Thermal Conductivity Detector (TCD) e Flame Ionization Detector (FID) sono quelli universali, ma lo spettrometro di massa (MS) rappresenta il rivelatore ideale per la gascromatografia, perché permette di analizzare in tempo reale i singoli picchi in uscita dalla colonna, effettuando sia un’analisi qualitativa che quantitativa, mediante il confronto dello spettro ottenuto con quelli nelle banche dati. Uno spettrometro di massa, infatti, è uno strumento altamente selettivo in grado di separare e identificare una sostanza in funzione del suo rapporto massa/carica (m/z). Gli spettrometri di massa accoppiati a sistemi cromatografici sono strumenti costituiti da diversi componenti, necessari soprattutto a causa della differenza di pressione operativa dei due strumenti (alta pressione del GC, > 760 torr, e vuoto spinto della MS) (Figura 9) [22]:

• Sistema iniziale di introduzione del campione nel rivelatore (interface), ovvero il sistema cromatografico.

• Sistema di alto vuoto, 10-5/10-7 torr (vacuum system) generato da specifiche pompe.

• Ionizzazione dell’analita (ion source): la sorgente ionica serve a volatilizzare e ionizzare il campione, formando gli ioni gassosi degli analiti o di loro frammenti. La sorgente ionica più utilizzata in GC-MS è quella a ionizzazione elettronica (EI), presente infatti anche nella strumentazione a disposizione per il presente lavoro. Nella EI, gli analiti vaporizzati sono soggetti ad un bombardamento elettronico mediante elettroni (e-) emessi da un filamento

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22 riscaldato, alcuni dei quali provocano l’eccitazione elettronica delle molecole dell’analita; alcune eccitazioni causano la completa rimozione di un elettrone da una molecola di analita, formando un “radicale catione”: M + e- → M + 2e-. Lo ione M è denominato

“ione molecolare”, poiché il suo m/z corrisponde alla massa M dell’analita. Vengono prodotti prevalentemente ioni a singola carica e viene trasferita energia allo ione molecolare generato: l’energia massima trasferibile è la differenza tra quella degli elettroni (tipicamente 70 eV) e quella di ionizzazione dell’analita (6-10 eV).

• Analisi della massa (mass analyser): l’analizzatore è il dispositivo che separa gli ioni gassosi in base al loro rapporto m/z. Questa separazione può avvenire nello spazio (ossia deviandoli su diverse traiettorie) o nel tempo (ossia facendogli percorrere la stessa traiettoria, ma in tempi diversi). Nel presente lavoro di tesi, la strumentazione utilizzata è stata un GC-MS con un analizzatore (nello spazio) a singolo quadrupolo (Q) ed un GC-MS con analizzatore (nel tempo) a trappola ionica (IT).

Il quadrupolo è costituito da quattro barre metalliche cilindriche (da 5 a 20 cm di lunghezza con diametri di circa 6 mm) con funzione di elettrodi, montate parallelamente su supporti ceramici che garantiscono un’elevata stabilità meccanica (Figura 10). Gli ioni provenienti dalla sorgente vengono accelerati da un potenziale di 5-15 V ed immessi nello spazio tra le barre. Barre opposte sono collegate elettricamente tra loro: una coppia al polo positivo e l’altra al polo negativo di un generatore variabile di corrente continua (DC); inoltre alla prima coppia è applicato un potenziale variabile in corrente alternata a radiofrequenza e alla seconda coppia un segnale sfasato di 180°. Il quadrupolo funziona dunque come un filtro di massa variabile a banda stretta, che trasmette soltanto gli ioni entro un limitato intervallo di valori m/z. Questo analizzatore ha trovato negli ultimi anni una vasta applicazione per l’accoppiamento GC/MS, o LC/MS, per una serie di motivi quali la sua semplicità e compattezza, l’elevata velocità di scansione, sensibilità, range dinamico lineare ampio (analisi quantitativa affidabile). Di contro, tra i limiti di un quadrupolo ci sono la risoluzione, che limita l’accuratezza con cui si rivela il valore m/z di uno ione (100 - 300 ppm, dipendendo dallo stato di carica) e il range m/z esplorabile (massimo 2000 m/z, solo alcuni strumenti fino a 4000 m/z, limitazione nell’analisi di sostanze ad alto peso molecolare) [23].

La trappola ionica (ion trap) opera su un principio analogo a quello del quadrupolo, ma non agisce come un filtro di massa. È costituita da un elettrodo centrale ad anello, di sezione semicircolare, e da una coppia di elettrodi a calotta (c.d. “geometria a sandwich”) (Figura 11). Gli ioni vengono introdotti attraverso un’apertura ricavata nell’elettrodo di testa e restano intrappolati al centro della cavità delimitata dall’anello grazie ad un gas

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23 inerte (ad es. He) e all’alto vuoto (≈10-5 torr). All’elettrodo ad anello viene poi applicato un

potenziale variabile a radiofrequenza (RF), che aumentato progressivamente fa sì che le orbite degli ioni con m/z maggiore vengano stabilizzate, mentre si destabilizzano quelle degli ioni più leggeri (m/z piccoli), i quali vengono espulsi sequenzialmente, al crescere dell’m/z, dalla cavità della calotta inferiore, fino ad arrivare al detector. Gli spettrometri a trappola ionica sono molto usati negli accoppiamenti GC/MS, o LC/MS, data la compattezza, la robustezza, la sensibilità, la risoluzione unitaria ed i costi inferiori a quelli di un quadrupolo [24].

• Rilevazione (detector): consente di misurare la quantità di ioni che emergono dall’analizzatore di massa, convertendone l’energia cinetica in corrente elettrica.

• Elaborazione dell’informazione: il sistema di elaborazione dati registra i segnali elettrici e li converte in uno spettro di massa, ovvero un diagramma che grafica l’abbondanza degli ioni in funzione del loro rapporto massa/carica (Figura 12); ad ogni picco del cromatogramma corrisponderà dunque uno spettro di massa corrispondente ad uno specifico composto.

L’informazione che si ottiene dal rivelatore a spettrometria di massa può essere gestita in diverse modalità:

• TIC (Total Ion Current) si misura, in ogni istante della corsa cromatografica, la corrente ionica totale generata dai vari ioni che si formano dal soluto in quell’istante;

• SIM (Single Ion Monitoring) si misura il segnale a m/z (rapporto massa/carica) fissa; il cromatogramma che si ottiene indica la presenza soltanto dei soluti dai quali si genera un frammento avente quel valore di m/z.

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24

Figura 10. Configurazione di un analizzatore Quadrupolare (Q).

Figura 11. Configurazione di un analizzatore a Trappola Ionica quadrupolare (IT).

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25 2.1.2 Cromatografia Liquida ad Alte Prestazioni (HPLC)

Rispetto alla gas-cromatografia, la cromatografia liquida permette di analizzare sostanze non volatili e termicamente instabili.

La strumentazione HPLC (Figura 13) è costituita principalmente da [25,26]:

• Solventi con sistema di pompaggio: si ha la necessità di degassare i solventi, dato che i gas dell’atmosfera si dissolvono nella fase mobile provocando la formazione di bolle d’aria e disturbi al sistema di rivelazione, ed è fondamentale che i solventi siano filtrati, al fine di evitare che le particelle in sospensione, presenti anche nei solventi molto puri, danneggino la colonna. Le pompe sono costituite da materiali chimicamente inerti (guarnizioni in teflon o acciaio inossidabile) e costituiscono la parte più importante di un HPLC poiché regolano il flusso, che deve essere mantenuto costante, in un intervallo da 0.1 a 10 mL/min. Esistono quattro tipi principali di pompe: circa il 90% dei sistemi HPLC disponibili in commercio dispongono di pompe reciprocanti o alternative a pistone, ma esistono anche le pompe pneumatiche, ad amplificazione e a siringa.

• Sistema di miscelazione: consente di ottenere separazioni cromatografiche riproducibili, conseguendo una perfetta miscelazione dei solventi della fase mobile, soprattutto quando si lavora in gradiente.

• Iniettore/Loop: l’iniettore è il dispositivo che porta il campione, iniettato in forma liquida, dalla pressione atmosferica alla pressione presente in testa alla colonna (in genere ≈ 100 atm). Gli iniettori a valvola (microsample injector valve), consentono di introdurre il campione con notevole riproducibilità (0.1%) e senza significative interruzioni di flusso grazie al Loop, un tubo capillare avente un volume tarato montato su un disco metallico (Figura 14). L’immissione del campione in colonna avviene in due fasi: nella fase di caricamento (load) il campione viene introdotto dentro il loop, che non è in serie al circuito di fase mobile, e dunque viene riempito con la siringa fino a quando il liquido iniettato (campione) inizia ad uscire dallo scarico; nella fase di iniezione, viene ruotata la valvola in posizione di inject, così che i collegamenti fra i circuiti cambiano in modo da portare il loop in serie con il circuito della fase mobile, ed il campione viene portato in colonna. I volumi del loop variano fra 1 µL fino a 1 mL.

• Pre-colonna: è una piccola colonna (lunga pochi cm) contenente lo stesso materiale usato per il riempimento della colonna, ma con particelle più grandi; funziona come un filtro e viene sostituita periodicamente.

• Colonna: le colonne per HPLC sono costruite in acciaio inossidabile levigato, impaccate con materiali di diverso tipo e a diversa granulometria. Hanno lunghezze standard (5, 10,

(33)

26 15 e 25 cm) e diversi diametri interni, dai 20-100 µm delle nano-bore a > 4.6 mm delle wide-bore; le più usate sono le colonne analitiche o normal-bore, con un diametro interno tra 3 e 4.6 mm. La fase stazionaria è generalmente composta da microparticelle di gel di silice di dimensioni di 3-10 µm, i cui centri attivi sono rappresentati dai gruppi silanolici (Si-OH). I tipi di riempimenti usati per le colonne cromatografiche sono: a particelle porose (primi anni ‘70), pellicolari, a perfusione, e le fasi monolitiche (non costituite da particelle). Inoltre, si può lavorare in fase normale (o diretta) o in fase inversa (RP-HPLC, Reversed phase HPLC): in fase diretta la fase stazionaria è polare e la fase mobile è non polare (o meno polare); in fase inversa invece la fase stazionaria è apolare mentre la fase mobile è polare o comunque più polare (acqua, tamponi acquosi, metanolo, acetonitrile, ecc.) (Figura 15). Nella fase inversa, metodica più utilizzata, gli analiti instaurano interazioni apolari con la fase stazionaria e la separazione cromatografica avviene principalmente sulla base delle caratteristiche della fase mobile. Gli analiti polari eluiscono per primi e quelli non polari per ultimi. Tutto ciò si basa sulla “teoria solvofobica”, che spiega la RP-HPLC in termini di bilanciamenti tra variazioni di energia libera e di entropia, e di interazioni acqua-acqua instaurate quando l’analita si lega alla fase stazionaria: piuttosto che l’attrazione per la fase stazionaria, è la repulsione per la fase mobile a controllare la ritenzione dell’analita. La C18 (anche indicata con ODS) è la fase stazionaria di gran lunga più utilizzata in HPLC, il cui nome deriva dalla natura dell’impaccamento usato, ovvero una molecola costituita da 18 atomi di carbonio.

• Sistema di termostatazione: è indispensabile per alcune colonne e rivelatori, e migliora la riproducibilità della corsa cromatografica (tempi di ritenzione).

• Detector: sistema di rilevazione degli analiti ed elaborazione del cromatogramma; i rivelatori più usati sono: assorbanza UV/Vis (UV/Vis), fluorescenza (Fl), indice di rifrazione (RI), spettrometro di massa (MS). Il detector utilizzato nel presente lavoro è rivelatore a fotodiodi (DAD), che verrà trattato nel paragrafo successivo.

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27

Figura 13. Schema delle parti principali di un sistema HPLC.

Figura 14. Iniettore a valvola; posizioni di load e inject.

Figura 15. Interazioni fase stazionaria/fase mobile di una cromatografia in fase diretta (A), con fasi

stazionarie polari costituite da silica, alumina, fasi legate amino-, ciano-, o fenil-, e fasi mobili non polari, e fase inversa (B), con fase stazionaria idrofobica legata a gel di silice (C18, C8) e fasi mobili polari.

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28 2.1.2.1 Accoppiamento HPLC-DAD

I rivelatori ultravioletto (UV) utilizzati in HPLC possono essere a lunghezza d’onda (λ) fissa, che hanno ridotta sensibilità, o a lunghezza d’onda (λ) variabile, in grado di registrare lo spettro completo di assorbimento UV. Di quest’ultimi, il più diffuso è il rivelatore a serie di diodi, o DAD (Diode Array Detector), composto da una sorgente VIS (lampada ad alogeno/tungsteno, 380-800 nm) e una sorgente UV (lampada ad arco di deuterio, 190-380 nm). Il fascio di luce policromatica, focalizzata da lenti acromatiche e da un filtro di olmio, attraversa la cella a flusso, ed il fascio di luce emergente viene focalizzato da una fenditura su un reticolo monocromatore che disperde la luce su dei fotodiodi collocati in serie (“diode array”) (Figura 16). Ciascun fotodiodo misura l’intensità del segnale ad una certa lunghezza d’onda (λ) ed è collegato con un processore che registra, istante per istante, tutti i segnali di assorbanza forniti dai sensori della serie di fotodiodi. Il DAD, dunque, fornisce lo spettro UV-VIS completo dei soluti che eluiscono dalla colonna e, per confronto con gli spettri di eventuali standard o molecole target, permette di effettuare il riconoscimento e la quantificazione dei composti analizzati.

Figura

Figura 3 .  Saldo commerciale per comparti produttivi (valori espressi in milioni di Euro)
Figura 6. Schematico diagramma dei componenti principali di un sistema GC [9].
Tabella 1. Caratteristiche delle fibre SPME disponibili in commercio (Supelco). Supporto della fibra in silice
Figura 17. Fasi principali della pattern recognition. Regression: analisi diagnostica sulla bontà del modello
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