Erga Omnes
Una residenza universitaria
totalmente accessibile ed inclusiva
Università di Pisa Scuola di Ingegneria D.E.S.T.e.C.
CdLM in Ingegneria Edile-Architettura a.a. 2018-2019
candidato: Lorenzo Ciancarini relatori: prof. arch. Luca Lanini
Indice
0. Introduzione 7
1. La residenza per studenti 8
1.1 Cenni storici 9
1.2 Modelli insediativi, tipologici, esigenziali 10
1.3 Aree funzionali 17
1.4 La situazione pisana 20
2. Le disabilità 23
2.1 Disabilità motorie 26
2.2 Disabilità sensoriali 30
2.2.1 Linee guida per la progettazione 31
2.3 Disabilità intellettive 33
2.3.1 Linee guida per la progettazione 38
2.4 La vita indipendente 40
2.5 Disabilità e Università 43
2.5.1 Soggetti e ruoli 43
2.5.2 L’USID a Pisa 46
3. Strategia progettuale 47
3.1 Caso studio: La Casa Comune, Milano 49
3.2 Approccio programmatico 53
4. Progetto 57
4.1 Programma funzionale 66
4.3 Gli elementi della casa 79
4.3.1 Camera da letto 80
4.3.2 Zona giorno: cucina e soggiorno 82
4.3.3 Bagno 84
4.3.4 Porte e finestre 86
4.4 Gli ambienti dello studentato 88
4.4.1 Accesso, hall d’ingresso, portineria 88
4.4.2 Ballatoio e servizi di piano 88
4.4.3 Spazi comuni 89 4.4.4 Copertura 90 4.4.5 Seminterrato 90 4.6 Soluzioni tecnologiche 91 5. Conclusioni 96 6. Bibliografia 98
Cronologia
2900 a.C. ca. Una donna della città di Shahr-e Sukhte, oggi in Iran, viene sepolta indossando una protesi oculare, la più antica mai ritrovata finora. Si tratta di un oggetto di forma emisferica di 3 cm di diametro, realizzato in materiale leggero e ricoperta da una sottile lamina d’oro.
1000 a.C. ca. Gli egiziani sono pionieri dell’utilizzo di protesi ai piedi: una mummia vicino l’antica Tebe viene rinvenuta con ancora indosso un alluce di legno, costruito con una tecnologia tale da essere usato sia scalzi che indossando i sandali.
X-V sec. a.C Nell’antica Sparta, i neonati vengono abbandonati sul monte Taigeto se giudicati inadeguati dopo un’esame di vitalità. Recenti studi archeologici sembrano però smentire la tradizione; una qualche selezione comunque esisteva e probabilmente si limitava a relegare ai ceti sociali più bassi i figli più deboli o con disabilità.
525 d.C. In Cina si costruiscono sedie a ruote destinate specificatamente alla mobilità di persone con disabilità.
1563 Viene ucciso il corsaro francese François le Clerc detto Gamba di Legno, possessore della più antica protesi per arti inferiori documentata.
1620 Juan de Pablo Bonet pubblica a Madrid «Reduction de las letras y Arte para enseñar
á ablar los Mudos» (Sommario delle lettere e l’arte di insegnare a parlare ai sordi),
considerato il primo trattato moderno in materia di linguaggio dei segni.
1655 Stephan Farffler, un orologiaio paraplegico ventiduenne, si costruisce la prima sedia a ruote autopropulsiva, mediante un sistema di ingranaggi e pulegge.
1760 L’abate Charles-Michel de l’Épée fonda a Parigi la prima scuola pubblica per sordi.
1819 Il trono di Re Giovanni VI del Portogallo viene equipaggiato di braccioli forati che, sebbene all’osservatore esterno sembrino bocche di leone riccamente scolpite, fungono in realtà da altoparlanti che mediante un tubo portano il suono
direttamente all’orecchio del Re; i visitatori dovevano infatti inginocchiarsi e parlare direttamente nelle bocche.
1824 Il quindicenne non vedente Louis Braille inventa il sistema di lettura e scrittura tattile a rilievo che prenderà il suo nome.
1862 Ad alcuni pazienti del Royal Asylum for Idiots di Earlswood in Inghilterra il dottor John Langdon Down associa una distinta forma di ritardo mentale, coniando il termine «mongoloide». Quasi cento anni dopo, nel 1961, diciannove genetisti scrivono al direttore di Lancet affinché questo termine venga abbandonato perché fuorviante ed imbarazzante; si inizia dunque ad usare il termine sostitutivo «Sindrome di Down».
1896 Una legge dello stato del Connecticut proibisce alle persone affette da epilessia e ritardo mentale di sposarsi; dieci anni dopo l’Indiana diventa il primo stato a praticare la sterilizzazione obbligatoria. Le teorie eugenetiche riscuotono molto successo negli Stati Uniti, con largo supporto del mondo culturale e scientifico: fino agli anni Settanta, infatti, sono attive politiche di eugenetica in ben 32 stati dell’Unione, sostenute anche da pronunciamenti della Corte Suprema. Analoghe pratiche sono in uso nello stesso periodo anche in Belgio, Canada, Giappone, Svezia e Germania.
1898 Miller Reese Hutchinson, ingegnere elettronico, assembla il primo apparecchio acustico elettrico per un suo amico d’infanzia.
1903 Helen Keller pubblica la sua autobiografia The Story of My Life e l’anno dopo diventa la prima persona sordo-cieca a laurearsi.
1912 Viene inventato l’optofono, uno strumento in grado di convertire caratteri in suoni per le persone non vedenti, da Edmund E. Fournier d’Albe, fisico irlandese.
1932 Franklin Delano Roosevelt, rimasto parzialmente paralizzato dopo aver contratto la poliomielite, viene eletto 32° Presidente degli Stati Uniti.
1933 Gli ingegneri meccanici Harry C. Jenkins e Herbert Everest, costretto
all’immobilità a causa di un incidente sul lavoro, inventano il primo modello di sedia a rotelle leggera e pieghevole in acciaio.
1943 Donald Triplett è la prima persona a cui viene diagnosticato un disturbo dello spettro autistico.
1960 Roma ospita i primi Giochi paralimpici estivi. Già dal 1948 il neurochirurgo tedesco Ludwig Guttmann organizzava una competizione sportiva per veterani della seconda guerra mondiale nella cittadina inglese di Stoke Mandeville; questa è però la prima occasione in cui le competizioni si svolgono nella stessa sede e nello stesso anno delle Olimpiadi.
1962 Ed Roberts, sulla sedia a rotelle per la poliomielite, intenta una causa giudiziaria per ricevere l’assistenza medica che necessita per assistere alle lezioni della
University of California, Berkeley; nello stesso semestre, James Meredith necessita di un’azione legale per diventare il primo studente nero alla University of
Mississippi.
1979 Steven Hawking, vincolato all’immobilità a causa di una malattia del motoneurone, diventa titolare della cattedra lucasiana di matematica
dell’Università di Cambridge, ruolo che era stato di Newton 300 anni prima e che Hawking manterrà per i successivi 30 anni.
1992 La Sindrome di Asperger entra ufficialmente del manuale diagnostico pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
1994 Viene assegnato il Premio Nobel per l’Economia per i suoi studi di matematica applicata alla teoria dei giochi a John Nash, dopo una vita passata a combattere una grave forma di schizofrenia paranoide.
2001 L’americano Erik Weihenmayer è il primo non vedente a raggiungere la cima dell’Everest.
2012 Oscar Pistorius diventa il primo atleta amputato a gareggiare ai Giochi Olimpici, arrivando fino alla semifinale nei 400m piani. Nato con una malattia congenita caratterizzata dall’assenza di perone, ad 11 mesi di età entrambe le gambe erano state amputate tra caviglia e ginocchio.
0. Introduzione
«Occorre che lo studente si appassioni ai fatti più interessanti: la vita, la società e cioè agli altri uomini. Perché la formazione dell’architetto non si raggiunge, come ho già detto, inventando nuove forme, ma attraverso un continuo contatto con ciò che vive intorno».
Giovanni Michelucci 1
L’obiettivo di questa tesi è la progettazione di un edificio residenziale universitario totalmente accessibile ed inclusivo per gli studenti dell’Università di Pisa, affinché tutti possano vivere un’esperienza universitaria equa.
La totale accessibilità può essere raggiunta mediante la progettazione di ogni elemento pensando all’utente con disabilità. Troppo spesso, infatti, gli edifici pubblici si limitano ad essere a norma, rinunciando a fornire spazi che siano anche funzionali ad una persona su sedia a ruote o con disabilità visiva. La sfida è dunque pensare ad ambienti che siano pronti ad accogliere qualunque studente, potendo contare su abitazioni pensate per un’utenza che sia la più ampia possibile.
Per quanto riguarda l’inclusione, il problema è che spesso gli studentati a camere ad albergo sono luoghi di non-socializzazione, dove ognuno si ritira nel proprio mondo privato. In questo modo, chi ha più difficoltà, perché parte di una minoranza, ha ancora meno occasioni per fare amicizia. La vita dello studente universitario infatti non è solo andare a lezione e preparare gli esami, ma è fatta anche dell’incontro di molte nuove persone, che lo si faccia a mensa, mentre si studia o uscendo la sera.
Partendo dalla definizione di questi due problemi, si è pensato ad una tipologia ad appartamento, più propriamente dei nuclei integrati, in cui lo studente con disabilità viva insieme ad altri studenti, a loro volta con e senza disabilità, così da creare una socialità forzata solo inizialmente. Il progetto consiste nella ristrutturazione totale di un edificio già presente nel patrimonio edilizio
dell’Università, gettando le basi per un modello economicamente vantaggioso e replicabile per futuri interventi simili.
Schematizzando per capitoli la struttura della presente tesi, si ha:
1. definizione di studentato e delle sue tipologie e funzioni, analisi della situazione attuale a Pisa;
2. si esaminano i requisiti che le varie disabilità introducono nella progettazione architettonica;
3. si affronta il problema dell’inclusione, portando il caso studio di Milano. Si pongono poi gli obiettivi nei confronti degli utenti, tracciando un profilo più preciso con i report delle interviste;
4. descrizione del progetto, definendo il programma e verificando l’accessibilità di ogni elemento;
1. La residenza per studenti
La transizione verso l’università è un momento cruciale nella vita di ogni studente, a maggior ragione per coloro che scelgono di iscriversi ad un ateneo lontano da casa. L’esperienza di lasciare la famiglia e andare a studiare fuori costituisce infatti il primo assaggio di vita indipendente dai
genitori. Ognuno vive questa transizione in modo diverso e mentre alcuni si adattano velocemente e bene, altri trovano più difficoltà.
Molti studenti arrivano all’università in quella che è considerata un’età particolarmente vulnerabile: tra i 18 e i 25 anni di età non si è certamente più adolescenti, ma non si è ancora considerati pienamente adulti. Da un certo punto di vista possono sembrare le condizioni ideali, si hanno tutti gli onori della vita indipendente senza gli oneri a cui un adulto normalmente deve sottostare; tuttavia, la transizione dall’adolescenza all’età adulta è un meccanismo complesso, pieno di
aspettative (personali ed esterne) su ciò che il futuro riserverà. Tutto questo può provocare grande ansia mentre si cerca di realizzarsi ed enorme scoramento quando non si riesce nel proprio intento.
Uno degli sforzi più notevoli che questa transizione richiede agli studenti è il cambiamento del proprio stile di vita. Secondo Lester (2013) la sensazione di benessere degli studenti è fortemente ridotta durante i primi semestri rispetto a quello percepito prima di entrare all’università; inoltre, viene dimostrato come questa transizione abbia un impatto sulla salute mentale e il rendimento accademico degli studenti, rischiando dunque di avere un effetto duraturo su tutto il resto della carriera universitaria. È utile notare, infine, che ogniqualvolta viviamo un evento stressante il nostro corpo subisce degli stimoli fisiologici: è necessario un veloce adattamento alla nuova situazione per evitare la spossatezza causata da questa risposta biologica allo stress e che ha una correlazione dimostrata con il rischio di ammalarsi, riducendo ulteriormente la sensazione di benessere.
Per lo sviluppo personale degli studenti, è dunque importante comprendere i fattori coinvolti nella transizione per supportare e aiutare chi si trova in difficoltà. Tra questi Lester cita il raggiungimento di un equilibrio tra vita accademica e vita sociale, la creazione di una forte rete sociale in cui inserirsi, un positivo supporto genitoriale e ovviamente la scelta del giusto corso di laurea da seguire. A tutto questo si aggiunge il fatto di doversi creare una nuova routine domestica lontano da familiari e amici adesso lontani. In questo senso, scegliere dove vivere e con chi diventa una scelta molto importante; per uno studente con disabilità, poi, tutte queste problematiche sono amplificate da fattori che saranno analizzati nei capitoli successivi.
Per tutti coloro che scelgono di frequentare l’università lontani da casa, lo studentato è con ogni probabilità la scelta più immediata: una soluzione che non solo appare come un completamento ovvio e funzionale dell’esperienza universitaria, ma anche come naturale adempimento pedagogico dell’offerta formativa, segnando per lo studente quel passaggio dalla vita familiare alla vita
semplice posto letto, bensì aspirano ad essere veicolo di integrazione sociale e culturale, un luogo con capacità di confronto, scambi umani e scientifici, e garanzia di adeguati spazi di studio, riposo e svago.
1.1 Cenni storici
Le residenze per studenti, così come le conosciamo oggi, nascono solo dopo l’Unità d’Italia, sul modello di quanto era già stato sperimentato in passato. Le prime costruzioni indipendenti
destinate a specifiche funzioni di ospitalità e studio furono i collegium, sovvenzionati da papi, sovrani e esponenti dell’alta nobiltà e iniziate a proliferare in tutta Europa a partire dal XIV secolo. Dopo il Concilio di Trento (XVI secolo) e la clericizzazione dell’educazione, i Gesuiti per primi resero sistematica la tipologia architettonica del collegio, fissando le piante-tipo di edifici in cui si svolgevano sia funzioni didattiche che abitative. Lo schema a celle venne poi superato in epoca illuministica passando ad un impianto a camere multiple in grado di ospitare fino a quattro studenti, trovando così lo spazio per molte funzioni da condividere, quali biblioteche, sale studio, aule
ricreative. Il collegio acquista in questo periodo una tale importanza da essere inserito nei piani di sviluppo urbanistico delle città (Bellini et al, 2015). In occasione del progetto della Città
Universitaria di Roma nel 1935 accanto ai vari istituti compaiono le Case dello Studente: l’esempio di questo progetto farà scuola in molte città italiane tra gli anni Trenta e Quaranta, tra cui Bologna, Genova, Messina, Napoli, Roma e Pisa. Questa impostazione planimetrica, che è ancora di grande attualità, prevede una ripartizione delle funzioni per piani: tutte le funzioni pubbliche ai piani seminterrato e rialzato, la funzione residenziale ai piani fuori terra.
Oggi le residenze universitarie non vengono più considerate come semplici strutture ricettive per l’ospitalità temporanea al pari di alberghi o ostelli, ma rappresentano ambiti di formazione e crescita, luoghi per l’apprendimento e l’educazione, quali parti integranti delle comunità universitarie.
La sfida che questa tipologia impone è quella di trovare formule abitative in grado di favorire forme di coabitazione fra giovani di varia origine, provenienza, cultura e religione, anche in relazione all’intensificarsi dei processi di internazionalizzazione degli scambi culturali in corso negli atenei. In Italia il valore sociale della residenza studentesca è stabilito dal DL 112/2008, convertito in Legge 113/2008, che all’art.11 annovera tra le categorie destinatarie di alloggi sociali anche «d) studenti
fuori sede». In questo modo le residenze universitarie sono state collocate a pieno titolo nel campo
degli interventi di social housing , cioè di quegli interventi a forte connotazione sociale destinati a coloro che non riescono a soddisfare le proprie necessità abitative per ragioni economiche o per mancanza di un’offerta adeguata; quella per l’alloggio è infatti la voce di spesa più onerosa per gli studenti fuori sede.
Inoltre, queste attrezzature collettive rappresentano un indicatore che denota fortemente l’efficienza del sistema universitario di un Paese, tanto da costituire un parametro di confronto sui livelli di istruzione superiore in ambito internazionale (Bellini et al, 2015). La loro presenza infatti misura implicitamente la disponibilità di una comunità a investire risorse economiche nella formazione di più alto grado e, conseguentemente, la volontà di far crescere il suo capitale umano e sociale.
1.2 Modelli insediativi, tipologici, esigenziali
Le residenze universitarie devono in primo luogo assicurare ai loro ospiti un adeguato livello di riservatezza, da non intendersi come isolamento o estraniamento dagli altri, ma più semplicemente come salvaguardia dell’intimità personale e della propria individualità. Lo studente non deve stare isolato, ma ha la necessità di vivere a diretto contatto con i propri coetanei: deve quindi poter contare su una composizione, accortamente dosata, di aree private autonome e di zone comuni, secondo un principio non di netta e assoluta separazione, bensì di progressiva gradualità e sequenza. Questi aspetti si traducono in termini tipologici da una parte in unità ambientali dotate di
caratterizzazioni funzionali atte a soddisfare le necessità primarie del vivere come dormire, mangiare e lavarsi, dall’altra in ambiti spaziali destinati al coinvolgimento delle relazioni interpersonali che portano lo studente a condividere con altri funzioni come il soggiornare, il rilassarsi, lo studiare in compagnia, il pranzare e il cucinare tutti insieme. La soglia che definisce il passaggio dalla
dimensione individuale a quella collettiva determina ciò che l’utente può svolgere senza invadere la sfera altrui e ciò che, diversamente, può condividere con altri (Bellini et al, 2015).
Si ricavano tre modelli insediativi possibili:
1. quello urbano posto in contesti centrali della città, quale parte integrante del tessuto residenziale
2. quello collocato in zone intermedie tra periferia e centro dove l’integrazione con l’esistente non sempre è compiuta
3. quello ubicato in zone esterne e lontane dal centro della città, in aree caratterizzate dalla presenza di molti spazi verdi.
Il modello urbano coincide spesso con strutture di antica costruzione, realizzate in epoche
precedenti, nel momento in cui la dimensione delle città era più contenuta, mentre oggi si ritrovano in zone centrali o semicentrali della stessa città. In questo caso si parla di modello europeo, in ragione del fatto che ha avuto origine proprio nel vecchio continente: questa soluzione insediativa è prevalente in Germania, Francia, Spagna e Italia, dove le strutture per la residenza universitaria funzionano in modo del tutto svincolato e indipendente. Gli altri modelli invece prevedono un assetto insediativo caratterizzato dalla presenza di cluster di edifici, generalmente a bassa densità, distribuiti attorno a spazi aperti ricchi di vegetazione, dove le strutture didattiche, i dipartimenti, i
laboratori, le biblioteche appaiono fortemente integrati tra loro e con la residenza. Nei casi più importanti ci si trova di fronte a vere e proprie microcittà costruite da edifici destinati alla formazione.
Le residenze universitarie, in coerenza con altre strutture ricettive, possono assumere le più svariate configurazioni morfo-tipologiche. Facendo riferimento a questi aspetti, è possibile individuare alcune soluzioni prevalenti: unità puntuali, lineari, lineari chiuse, a sviluppo orizzontale o verticale. L’organizzazione tipologica delle soluzioni a sviluppo lineare o verticale non si differenzia molto dall’impianto tipo delle residenze plurifamiliari a più unità abitative. In genere si hanno edifici stretti e lunghi con più vani scala che servono sistemi di distribuzione lineari, a ballatoio o corridoi centrali, chiusi o aperti, che a loro volta disimpegnano più unità abitative per piano. Mentre le zone residenziali vengono solitamente ridistribuite all’interno dell’organismo edilizio in analogia con quanto avviene per l’edilizia abitativa collettiva, la distribuzione e la collocazione delle zone di servizi rappresentano una delle componenti tipologiche caratterizzanti. Questi spazi possono occupare diversi livelli o porzioni della residenza: l’intero piano terra, gli ambiti di approdo dei connettivi verticali, le estremità dell’edificio, la copertura, e possono essere integrati o scorporati rispetto all’organismo edilizio (vedi figura 1).
Fig. 1.1: modelli tipologici dei servizi comuni (S) nelle residenze universitarie (rielaborazione da Bellini, 2015)
S S S S S S S S S S S S S S S S S S S S S S S S S
I connettivi a ballatoio e a corridoio centrale rappresentano le soluzioni maggiormente adottate per gli spazi serventi, per ragioni di economicità e razionalità: i ballatoi necessitano di un numero limitato di scale e ascensori e permettono di disimpegnare, a costi contenuti e con ingombri limitati, un alto numero di unità abitative o altri spazi funzionali. È interessante rilevare la tendenza
attualmente in atto a non considerare questi impianti distributivi come dei semplici spazi serventi o comunque di servizio, ma a connotarli anche come spazi funzionali da mettere a disposizione. A fronte di un loro eventuale allargamento rispetto alla larghezza minima regolamentare, si possono infatti trasformare in punti di sosta, angoli di incontro, spazi vegetalizzati in quota e all’aperto, comodamente utilizzabili dagli utenti, ma anche da ospiti o semplici visitatori. Nel caso di ballatoi non confinati, la possibilità di trasformali in spazi comuni all’aperto può aumentare nei casi in cui si trovino in quota o si aprano verso zone protette come giardini introversi e corti chiuse.
La residenza per studenti progettata dallo studio francese Atelier Villemard Associés a Marne-La-Valléè pone il ballatoio su una corte centrale di ordine monumentale che crea un eccezionale spazio collettivo e serve le camere disposte verso l’esterno secondo un poligono che ricorda un pentagono (Figg. 1.2, 1.3, 1.4).
Tra il grande spazio pubblico esterno e i minialloggi singoli, questa agora è anche al centro dell’incontro tra le diverse scale di progettazione, quella urbana e quella domestica, e vuole fare comunità. L’atrio ha anche importanti caratteristiche energetiche, dal momento che permette ventilazione naturale tra le aperture in copertura e le grandi porte al pianterreno; grazie alla sua inerzia, riesce a raffrescare l’ambiente interno durante l’estate.
L’utenza delle residenze universitarie è quanto di più instabile e complesso ci possa essere, non fosse altro perché sempre mutevole nell’arco dei cicli di studi universitari e costantemente soggetta a un fisiologico ricambio di persone di diversa estrazione sociale, culturale o geografica. Tutto questo presuppone che nella progettazione degli spazi si tenga conto dell’eterogeneità di quelli che Bellini definisce i profili esigenziali dell’utenza, che differiscono in relazione al fatto che si tratti di studenti dei primi anni, di universitari maturi, oppure di professori o ricercatori in visita. Queste differenti tipologie di utenza presuppongono risposte differenziate in termini spaziali e organizzativi.
È possibile introdurre una classificazione che tiene conto del tipo di alloggio previsto, prescindendo dai modelli insediativi e tipologici trattati in precedenza. Considerando i modelli esigenziali previsti dalla Legge 338/2000 e dai suoi successivi decreti ministeriali attuativi, si possono individuare le seguenti soluzioni:
a) Ad albergo
È definito così in quanto ripropone concettualmente il tradizionale impianto tipologico distributivo delle strutture ricettive di tipo alberghiero: spazi comuni di piano (SC, in rosso), connettivi verticali e orizzontali (in arancione) e camere da letto in batteria (C, in blu).
Questo modello rappresenta la più elementare, ma anche la più diffusa modalità di alloggio; una naturale evoluzione delle celle monacali medioevali di cui mantiene i caratteri di riservatezza, essenzialità ed economicità, migliorando però le dotazioni, le metrature e i livelli di comfort. Le singola unità ospitano al massimo due persone e sono di norma dotate di servizio igienico dedicato. I requisiti dimensionali minimi sono:
• Camera singola ≥ 11,00 m2
• Camera doppia ≥ 16,00 m2
Per gli studenti con disabilità fisiche o sensoriali deve essere riservato un numero di posti alloggio superiore al 5% del numero di posti alloggio totali. In tal caso la superficie a posto alloggio deve essere incrementata almeno del 10%.
Fig. 1.5: schema concettuale del modello esigenziale ad albergo (L.Ciancarini, 2020)
SC
Secondo Samuels & Luskin (2008), questo modello rappresenta la soluzione abitativa preferita dagli studenti universitari dei primi anni del corso di studi, anche nella versione a due posti letto. Ciò che non viene ricavato all’interno degli alloggi, viene previsto negli spazi comuni:
preparazione e consumo dei pasti, studio con altri, divertimento e riposo, stare in compagnia di coetanei, ospitare amici o parenti, ecc. Sul piano teorico, questo comporta l’intensificarsi dei momenti di condivisione e di scambio sociale tra gli ospiti; in alcuni casi, può invece sortire l’effetto opposto dal momento che può indurre gli studenti ad appartarsi o ad estraniarsi dal resto della struttura, rimanendo soli.
L’interno di ogni cellula è molto semplice e prevede: scrivania per lo studio individuale,
armadio/guardaroba a più moduli e bagno privato. Gli arredi possono essere disposti su un solo lato della camera e la superficie è in generale pensata per garantire un minimo di flessibilità interna e consentire all’utente di personalizzare il proprio spazio privato.
b) A minialloggio
Prevede un’organizzazione spaziale con caratteri di elevata autosufficienza, autonomia e indipendenza, in quanto propone una formula abitativa a elevata privacy in grado di replicare una residenzialità molto prossima a quella domestica. Ogni unità (C, in blu) è più ampia della camera ad albergo ed è dotata di quanto richiede un abitare di tipo temporaneo: zona cottura, camera, servizio igienico privato e in alcuni casi zona giorno per l’ospitalità. Questo modello impone superfici degli spazi comuni (SC, in rosso) più contratte.
Il minialloggio viene solitamente preferito da un’utenza fatta di studenti degli ultimi anni di corso, dottorandi, ricercatori, professori in visita; tutti utenti che generalmente non esprimono particolari bisogni dal punto di vista della socializzazione.
Da normativa, i minialloggi devo rispettare i seguenti requisiti dimensionali di superficie netta:
– un posto alloggio ≥ 24 m2
– due posti alloggio in camera doppia ≥ 36 m2
– due posti alloggio in camera singola ≥ 42 m2
Fig. 1.6: schema concettuale del modello esigenziale a minialloggio (L.Ciancarini, 2020)
SC C C C C C C SC C C C C C C
c) A nucleo integrato
È la soluzione più vicina al normale appartamento privato che nelle grandi città molti studenti utilizzano come alternativa alla residenza. Il vantaggio di questo modello all’interno dello studentato è la presenza di servizi di supporto sia di tipo funzionale (lavanderie comuni, pulizie) sia di tipo ludico-ricreativo (attrezzature sportive e per lo svago, ecc.).
Questo modello è definito da un’unità spaziale formata da una serie di camere da letto (C, in blu) che gravitano attorno ad una zona giorno pertinenziale comune (ZG, in azzurro), in numero variabile da un minimo di 3 ad un massimo di 8.
Ogni nucleo possiede al suo interno tutto il necessario per rispondere ai bisogni di ospitalità degli studenti. Nel modello a nucleo integrato, la dimensione dello stare insieme, dello studiare in compagnia, del praticare attività sportive, dell’utilizzare laboratori informatici, nonché le attività culturali in gruppo vengono previsti in appositi luoghi concentrati, oppure frammentati in più punti. Inoltre, questo modello permette di contrarre e razionalizzare le superfici delle aree comunitarie (SC, in rosso).
In ragione del numero limitato di utenti, è certamente la soluzione più adatta a mediare tra le esigenze di privacy e socialità. Essendo organizzabili sulla base di moduli variabili per forma e superficie, i nuclei integrati possono essere impostati su ambienti meno standardizzati o
convenzionali che ben si adattano, per esempio, al recupero funzionale del patrimonio dismesso.
I requisiti dimensionali minimi sono:
– la superficie per posto alloggio deve essere di almeno 11,00 m2. Non sono ammesse camere
con più di due posti alloggio e la camera doppia dovrà essere di almeno 16,00 m2
– servizi igienici condivisibili al massimo per tre posti alloggio di almeno 3,00 m2
– spazi comuni di servizio residenziale collettivo di almeno 6,00 m2/p.a.
Fig.1.7: schema concettuale del modello esigenziale a nucleo integrato (L.Ciancarini, 2020)
C C ZG C SC SC ZG C C C ZG C C C
d) Modello misto
Si tratta di una soluzione che prevede la compresenza all’interno di una struttura di più modelli aggregativi tra quelli visti in precedenza e permette di rispondere simultaneamente alle variegate e mutevoli esigenze abitative di questo particolare tipo di utenza.
Come già è stato trattato, in genere i minialloggi vengono riservati ai docenti e al personale universitario, mentre le camere ad albergo possono essere messe a disposizione di studenti Erasmus e giovani borsisti.
1.3 Aree funzionali
I servizi e le attrezzature ad essi dedicate sono un’imprescindibile componente delle residenze per studenti, costituendo l’indicatore che più di altri ne determina il gradimento, la qualità e i costi gestionali. La presenza dei servizi e degli spazi comuni è di norma inversamente proporzionale a quanto è già a disposizione all’interno dei singoli alloggi, per cui a cellule abitative scarsamente attrezzate corrispondono solitamente residenze con un’elevata percentuale di attrezzature collettive e viceversa. Al di là dell’esplicito riconoscimento del ruolo e dell’importanza degli ambiti della
socialità, risulta evidente come la loro natura debba riguardare prioritariamente le attività di tipo quotidiano correlate al miglior funzionamento della struttura e al soddisfacimento dei bisogni fondamentali degli ospiti.
Gli spazi comuni sono per lo più ambienti flessibili non caratterizzati funzionalmente, che di volta in volta possono specializzarsi diventando sala proiezioni, sala da pranzo con cucina, sala riunioni, eccetera. Da questo punto di vista, secondo Bellini le tendenze che si registrano non prevedono unità ambientali rigide e vincolate, ma spazi frazionabili e suddivisibili in sottounità. A differenza di quanto accadeva in passato, quando si richiedevano grandi spazi o saloni, oggi si preferiscono, anche per ragioni gestionali, unità di minor superficie, eventualmente specializzate, da mettere a
disposizione di gruppi ristretti di studenti. Una certa flessibilità organizzativa dello spazio è comunque sempre gradita, potendo frazionare o dilatare lo spazio a seconda delle necessità.
L’insieme di questi servizi, siano essi destinati ai singoli studenti, a piccoli gruppi o all’intera
comunità, vengono inquadrati in aree funzionali. Per meglio definirne i ruoli si può, in prima analisi, fare riferimento a tre livelli: il primo attiene alla natura specifica della struttura, il secondo è
riconducibile ai supporti per lo studio e il terzo riguarda la qualità della vita singola e in condivisione.
Le attività del primo tipo concernono i servizi di base che una residenza deve possedere per
funzionare adeguatamente. Appartengono a questo livello il controllo e la sorveglianza, il servizio di pulizia delle camere e di cambio biancheria, la pulizia degli spazi comuni e altri.
Le attività di secondo tipo afferiscono agli spazi che permettono le attività di studio e formazione. Si tratta di aree per lo studio individuale o di gruppo che posso essere fornite di postazioni internet per la ricerca, di biblioteca o laboratori didattici.
L’ultima categoria fa riferimento a tutti quegli ambiti finalizzati al miglioramento del soggiorno degli utenti, come le sale per la musica, gli spazi TV, le palestre, sale giochi, ecc.
Secondo la normativa italiana, invece, si prevede la compresenza di sei diverse Aree Funzionali all’interno di uno studentato:
• AF1 - Residenza: comprende le funzioni residenziali per gli studenti, nelle tipologie già trattate;
• AF2 - Servizi culturali e didattici: comprende le funzioni di studio, ricerca, documentazione,
lettura, riunione, ecc. che lo studente compie in forma individuale o di gruppo anche al di fuori del proprio ambito residenziale privato o semiprivato; si può articolare in sala studio, aula riunioni, biblioteca;
• AF3 - Servizi ricreativi: comprende le funzioni di tempo libero finalizzate allo svago, alla formazione culturale non istituzionale, alla cultura fisica, alla conoscenza interpersonale e socializzazione, ecc., che lo studente compie in forma individuale o di gruppo al di fuori del proprio ambito residenziale privato o semiprivato; si può articolare in sala video, sala musica, spazio internet, sala giochi, palestra; può emergere anche l’opportunità di dotare le residenze di laboratori (a volte autogestiti) per attività culturali, musicali o teatrali, come pure di piccoli auditori e sale per la recitazione;
• AF4 - Servizi di supporto, gestionali e amministrativi: comprende le funzioni che supportano la funzione residenziale dello studente e le funzioni esercitate dal personale di gestione in ordine al corretto funzionamento della struttura residenziale; si può articolare in lavanderia, parcheggio biciclette, uffici di dirigente e portiere, archivio, guardaroba, magazzino.
• Accesso e distribuzione: comprende le funzioni di accesso, di accoglienza, di incontro e di scambio tra gli studenti e le funzioni di collegamento spaziale tra aree funzionali e all’interno di queste;
• Parcheggio auto e servizi tecnologici: comprende spazi di parcheggio auto/moto e la dotazione di vani tecnici e servizi tecnologici in genere.
Anche lo spazio all’aperto può rientrare negli ambiti che possono prevedere la realizzazione di servizi e attrezzature comuni. Tra i più gettonati ci sono gli impianti sportivi all’aperto, le terrazze praticabili, i parchi e i giardini. In modo è possibile mettere a disposizione degli ospiti ambiti per la ricreazione, il gioco e la pratica sportiva. Natura, dimensione e ricchezza di questi spazi sono
proporzionate al tipo di struttura, alla collocazione e al dimensionamento. Generalmente si tratta di soluzioni dai costi contenuti, che non prevedono interventi complessi e non richiedono
appesantimenti gestionali. Soluzioni più sperimentali si stanno approntando nell’ambito degli orti urbani e del verde verticale, la cui funzione oltre ad essere di tipo ricreativo può essere anche di tipo educativo e ambientale.
È importante che l’intervento sia integrato nel contesto cittadino in cui è previsto, al fine di costituire un continuum nel tessuto sociale e dei servizi. Le destinazioni urbanistiche e le
localizzazioni relative all’edilizia residenziale studentesca devono discendere dallo studio di fattori relativi al contesto fisico-ambientale, sociale, storico, urbano dell’intervento. La dislocazione delle residenze per studenti deve tener conto della facile raggiungibili delle sedi universitarie e dei servizi che possono maggiormente interessare la popolazione studentesca considerando le distanze
percorribili a piedi o in bicicletta e la vicinanza alle fermate dei mezzi di trasporto pubblico cittadino.
1.4 La situazione pisana
Secondo i dati aggiornati al 2018, l’Università di Pisa conta 45.868 studenti iscritti ai corsi di laurea, di cui 27.638 risiedono in provincia di Pisa o in quelle limitrofe (Massa-Carrara, Lucca, Prato, Firenze, Livorno), per cui alla fine di ogni giornata di lezione o di studio tornano alle abitazioni famigliari. Operando una semplificazione, utile quanto meno per avere delle dimensioni di massima, i restanti studenti sono fuori sede o pendolari settimanali, ovvero che risiedono fuori Pisa e
normalmente abitano in città solo durante la settimana. A questi numeri si aggiungono circa 2.000 iscritti a dottorati e master di I e II livello, 1550 docenti e 1620 tecnici-amministrativi, di cui non è disponibile il dato della residenza.
Come si può vedere dal grafico in figura 1.8, il numero di studenti che risiedono abbastanza vicini al luogo di lezione (in verde) ha negli ultimi 10 anni un andamento negativo, a fronte di un numero di iscritti totali (in blu) sostanzialmente costante. I numeri sembrano dunque indicare che il bacino di persone che necessitano una sistemazione su Pisa si stia allargando. I numeri reali dei fuorisede a Pisa, degli aventi diritto ad un posto alloggio e di quanti effettivamente sono costretti a trovarsi un alloggio in maniera autonoma, non sono chiari.
Fig.1.8: andamento di studenti iscritti totali e studenti residenti a Pisa o province limitrofe, serie storica 2009-2018. Dati UnipiStat
20000 25000 30000 35000 40000 45000 50000 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Studenti iscritti Studenti residenti a Pisa o province limitrofe
Le 10 strutture residenziali per studenti a Pisa sono gestite dal Diritto allo Studio Universitario Toscana (d’ora in avanti DSU Toscana) e differiscono notevolmente per numero di posti disponibili totali, numero di posti per studenti con disabilità, modelli insediativi, servizi e posizione geografica (figure 1.9 e 1.10). Il servizio residenze è assegnato agli studenti fuori sede sulla base dei requisiti economici e di merito stabiliti dal bando di concorso per assicurare il diritto allo studio.
Secondo i dati riportati nel Bilancio sociale del 2017, le strutture del DSU Toscana a Pisa contano 1528 posti letto, circa il 3% degli iscritti: conti alla mano, è ovvio che la maggior parte degli studenti in cerca di alloggio è dunque costretta a rivolgersi al mercato privato, facendo inevitabilmente salire il costo degli studi universitari. In futuro, sono previste le aperture di altre due residenze, San Cataldo e Paradisa, che dovrebbero aumentare notevolmente i posti disponibili, aggiungendo circa 750 letti.
Solo quattro residenze sono all’interno della cerchia delle mura medievali (tratteggiate in nero), il limite entro il quale generalmente si iscrive il centro storico; in queste quattro, sono disponibili solo 6 posti per studenti con disabilità. Questo si traduce sicuramente in un disagio per gli studenti e in un maggior dispendio di risorse dell’USID per quanto riguarda il servizio di trasporto. Le residenze di recente edificazione fuori dal centro città certamente sono state occasione per l’istituzione di strutture più grandi e più moderne, ma rappresentano un problema per quanto riguarda
l’integrazione degli studenti all’interno della vita cittadina e di ateneo.
Fig.1.9: mappatura delle residenze universitarie gestite dal DSU Toscana a Pisa; sono evidenziati il centro storico, in nero, e il luogo di progetto, in rosso (L.Ciancarini, 2020)
Per uno studente con disabilità tutte queste difficoltà sono amplificate. I posti disponibili nelle varie strutture sono quasi tutti in camere a tipologia ad albergo, singole o monolocali; solo due posti letto a Pisa sono in un alloggio che conta almeno 2 persone. Tutti questi posti alloggio sono ovviamente resi accessibili secondo la normativa vigente, ma hanno gravi carenze per quanto riguarda
l’inclusione: può sembrare paradossale, ma il contesto dello studentato spesso impedisce invece che favorire la socializzazione, proprio per le caratteristiche tipologiche più vicine all’albergo di molte delle residenze. Quanto asserito è stato confermato dagli stessi studenti con disabilità, in particolare quelli con disabilità più gravi, attualmente presenti all’Università di Pisa, che l’autore ha potuto intervistare sull’idoneità delle strutture attuali.
Fig. 1.10: i numeri delle residenze del DSU Toscana a Pisa, ordinate per tipologia alloggi (L.Ciancarini, 2020)
Tipologia alloggi Nome Posti Posti disabilità Servizi
Albergo Praticelli 791 36 217 camere singole con bagno
258 camere doppie con bagno (36 per disabili) 29 bilocali con angolo cottura e bagno
sala studio ed altri spazi comuni, sala TV, lavanderia, bar, palestra, servizio mensa
Via da Buti 24 - camere (doppie e singole con bagno)
cucina comune, sala studio, sala tv/cinema, lavanderia
Minialloggi Campaldino 48 - 24 monolocali da 2 posti letto con punto cottura e servizio
igienico, lavanderia in comune
Fascetti 170 1 170 monolocali a 1 posto letto con punto cottura e bagno
biblioteca, sala proiezioni, sala musica, lavanderia Nucleo integrato o
misto Don Bosco 146 - 12 appartamenti a 2 posti letto 5 appartamenti a 4 posti letto
17 appartamenti a 6 posti letto
biblioteca, sala proiezioni, sala computer, lavanderia
Garibaldi 46 1 11 bilocali (1 posto per disabile)
4 appartamenti a 3 posti letto 3 appartamenti a 4 posti letto sala studio, sala computer, lavanderia
Mariscoglio 116 - 18 bilocali
20 appartamenti a 4 posti letto
sala tv, sala computer, spazi comuni, lavanderia
Nettuno 100 4 39 monolocali a 1 posto letto con cucina e bagno (4 per
disabili)
19 monolocali a 2 posti letto con cucina e bagno 9 bilocali a 2 posti letto con cucina e bagno 1 appartamento con 4 posti letto
sale studio, spazi comuni, biblioteca, lavanderia
Rosellini 81 1 6 appartamenti a 2 posti
9 appartamenti a 4 posti
3 appartamenti a 5 posti (con posto per disabili) 3 appartamenti a 6 posti
biblioteca, sala polivalente, sala studio, lavanderia
Gambacorti 6 - 3 camere doppie, cucina e due bagni
2. Le disabilità
La disabilità è una condizione umana.
Quasi chiunque ad un certo punto della sua vita subisce temporaneamente o permanentemente una riduzione delle proprie capacità e coloro che invecchiano hanno sempre più difficoltà nel
compensare quelle più gravi. Molte famiglie hanno al loro interno un membro con disabilità e molti normodotati accettano la responsabilità di prendersi cura dei loro parenti o amici in difficoltà. In tutte le epoche storiche si sono affrontate le questioni morali e politiche su come includere e supportare al meglio le persone con disabilità e le risposte a questo problema diventano via via più critiche a causa della sempre crescente aspettativa di vita e dell’invecchiamento della popolazione che ne consegue. Il modo in cui la società risponde alla disabilità è cambiato sostanzialmente dagli anni ’70 in poi, spinto per lo più dall’auto-organizzazione delle persone e dalla conseguente
tendenza nel riconoscergli un problema di diritti umani. Storicamente ci si è limitati a trovare soluzioni fondamentalmente segreganti, come istituti residenziali e scuole speciali; si è poi passati ad attuare politiche di inclusione sociale ed educativa e il moltiplicarsi delle ricerche in campo medico e sociale ha portato a riconoscere che la disabilità sta nell’ambiente circostante tanto quanto nei corpi. In altre parole, spesso la disabilità ha più a che fare con quello che non viene permesso di fare piuttosto che con le mancanze fisiologiche vere e proprie.
L’ambiente in cui vive una persona ha un enorme impatto sull’esperienza e sulle conseguenze della disabilità: ambienti inaccessibili creano barriere alla partecipazione e all’inclusione. Anche la salute è fortemente condizionata da fattori ambientali come acqua pulita, igiene, nutrizione, povertà,
condizioni di lavoro, clima, accesso alle cure. Come è stato giustamente sottolineato
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la diseguaglianza è la causa maggiore di scarsa salute, e quindi di disabilità. Così, l’ambiente circostante può essere cambiato per migliorare le condizioni di salute, per prevenire le disparità e aumentare la qualità della vita delle persone con disabilità. Tali cambiamenti possono essere indotti dalla legislazione, da modifiche delle politiche sociali, edifici competenti o sviluppi tecnologici; sono proprio questi i cambiamenti che questa tesi vuole contribuire ad attuare.
La disabilità è complessa, dinamica, multidimensionale e continuamente messa in discussione.
Negli ultimi decenni, i movimenti per i diritti delle persone con disabilità, insieme alle numerose ricerche in campo medico e sociale, hanno identificato e denunciato apertamente il ruolo delle barriere fisiche e sociali nella disabilità. La transizione da una prospettiva medica e individuale ad una strutturale e sociale è stata descritta come un cambiamento dal paradigma medico ad uno sociale in cui le persone vengono disabilitate più dalla società che dai propri corpi. Questi due paradigmi sono stati spesso presentati in forma dicotomica, ma questa visione è contraddittoria e fuorviante, poiché la disabilità non è un fatto né puramente medico né puramente sociale. È
necessario avere dunque un approccio bilanciato, dando il giusto peso a tutti gli aspetti della
disabilità. Come sostiene Zygmunt Bauman (1996), «La realtà umana è caotica e ambigua - per cui le decisioni morali, diversamente dai principi etici astratti, sono ambivalenti».
La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) individua il funzionamento e la disabilità come un’interazione dinamica tra condizioni di salute e fattori contestuali, sia personali che ambientali. Funzionamento è un termine ombrello che comprende tutte le funzioni corporee, le attività e la partecipazione; allo stesso modo disabilità serve come termine ombrello per menomazioni, limitazioni dell’attività o restrizioni della partecipazione. L’ICF elenca anche i fattori ambientali che interagiscono con tutti questi costrutti.
La classificazione ha diversi scopi e può essere utilizzata in discipline e settori diversi. I suoi scopi principali possono essere così sintetizzati:
• fornire una base scientifica per la comprensione e lo studio della salute, delle condizioni, conseguenze e cause determinanti ad essa correlate;
• stabilire un linguaggio comune per la descrizione della salute e delle condizioni ad essa correlate allo scopo di migliorare la comunicazione fra i diversi utilizzatori, tra cui gli operatori sanitari, i ricercatori, gli esponenti politici e la popolazione, incluse le persone con disabilità;
• rendere possibile il confronto fra dati raccolti in Paesi, discipline sanitarie, servizi e in periodi diversi;
• fornire uno schema di codifica sistematico per i sistemi informativi sanitari.
In base ai principi dell’ICF, possiamo distinguere le varie disabilità che possono interessare gli utenti della nuova residenza universitaria in tre macro-categorie: disabilità motorie, disabilità sensoriali, disabilità intellettive.
Ognuna di queste verrà analizzata più nel dettaglio nei paragrafi successivi, concentrandosi soprattutto sui risvolti che ognuna implica in una progettazione architettonica che voglia essere il più possibile accessibile e inclusiva.
La disabilità è anche un problema per lo sviluppo, perché è spesso associata alla povertà, in maniera pericolosamente bidirezionale: la disabilità aumenta il rischio di povertà e la povertà amplifica le difficoltà dovute alla disabilità. Il World Health Survey, promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) tra il 2002 e il 2004, ci restituisce una fotografia della disabilità a livello mondiale, benché ormai datata (Fig. 2.1). Al progetto hanno partecipato 70 nazioni scelte in base alla posizione geografica, al reddito pro capite con particolare attenzione a quelli medi e bassi, e alla popolosità. 59 di queste (64% della popolazione globale) hanno fornito dati sufficienti per ottenere ad una stima della prevalenza della disabilità negli adulti.
Il tasso di prevalenza è stato dunque stimato al 15.6%, che corrispondono a 960 milioni persone nel 2004 e 1,1 miliardi nel 2020. Il dato della prevalenza varia dall’11.8% delle nazioni ad alto reddito pro capite al 18% delle nazioni a basso reddito; questi dati si riferiscono ad adulti che vivono
significative difficoltà nel funzionamento della vita di tutti i giorni. Stimare quante persone necessitano di servizi particolari richiederebbe informazioni più specifiche che non sono state raccolte in questo progetto. I gruppi più vulnerabili, in cui si ha una maggiore prevalenza, sono le donne, gli anziani e i più poveri; per tutti questi gruppi il tasso è maggiore nei paesi in via di
sviluppo: ad esempio la prevalenza della disabilità delle persone sopra i 60 anni nelle nazioni a basso reddito è del 43.4%, contro il 29.5% nelle nazioni ad alto reddito.
Fig. 2.1: prevalenza di disabilità gravi e medio-gravi nei paesi che parteciparono al World Health Survey del 2004 e che qui sono suddivisi per ricchezza media della popolazione, divisa a sua volta per genere e per fasce di età. (World Health Organisation, 2011)
2.1 Disabilità motorie
Questa macro-categoria, che in Italia interessa oltre un milione di persone, comprende un’ampia varietà di condizioni. Di fatto il movimento può essere danneggiato in uno degli aspetti che lo caratterizzano e precisamente: il tono muscolare, la postura, la coordinazione e la prassìa.
Con il termine tono muscolare si intende l’attività del muscolo che si mantiene e si adatta ai bisogni delle azioni da svolgere che si realizzano grazie alle cellule nervose che innervano il muscolo. La postura corrisponde all’atteggiamento spaziale assunto dal corpo umano in seguito a una
distribuzione differenziata del tono muscolare dipendente dalla personalità, dallo stato d’animo, dal sesso, dall’età e da eventuali patologie. La coordinazione, invece, è la capacità di eseguire un movimento, controllandolo e regolandolo in base alle necessità. Infine, la prassia è l’abilità di compiere correttamente gesti coordinati e diretti al perseguimento di uno scopo.
Queste considerazioni comportano necessariamente delle modifiche alle prassi e ai paradigmi architettonici tradizionali. La crescente consapevolezza della difficoltà di queste situazioni, infatti, fece maturare nel corso degli anni Ottanta la necessità di un intervento legislativo organico in materia, per regolare le tematiche delle barriere architettoniche. Con la legge 13/89 si è dunque fornito i progettisti di alcune precise indicazioni per una corretta progettazione senza impedimenti nell’ambito dell’edilizia residenziale. Queste disposizioni oggi si applicano a tutti gli edifici di nuova costruzione, sia privati che pubblici, agli interventi di ristrutturazione e a tutti gli spazi esterni di pertinenza e di accesso agli stessi.
La legge 13/89 consta di 12 articoli, i cui contenuti sono stati integrati dal Decreto del Ministro dei lavori pubblici del 14 giugno 1989, n.236 che ha ampliato e precisato la nozione di «barriera
architettonica» delineando inoltre tre diversi livelli qualitativi di progettazione ed edificazione, attraverso i concetti di accessibilità, visitabilità e adattabilità.
Citando direttamente il D.M., «per barriere architettoniche si intendono:
• gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea;
• gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature o componenti;
• la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono l’orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti, per gli ipovedenti e per i sordi».
Per accessibilità si intende la possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l’edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia.
Esprime dunque il più alto livello di qualità dello spazio costruito in quanto ne consente la totale fruizione nell’immediato. Per legge il requisito deve essere garantito come minimo per gli spazi esterni e per le parti comuni; devono inoltre essere accessibili almeno il 5% degli alloggi previsti negli interventi di edilizia residenziale sovvenzionata (con un minimo di 1 unità immobiliare per ogni intervento), gli ambienti destinati ad attività sociali (come quelle scolastiche, sanitarie, assistenziali, culturali, sportive) e gli edifici sedi di aziende o imprese soggette alla normativa sul collocamento obbligatorio.
Per visitabilità si intende la possibilità, anche da parte di persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di accedere agli spazi di relazione e ad almeno un servizio igienico di ogni unità immobiliare. Sono considerati spazi di relazione gli spazi di soggiorno o pranzo dell’alloggio e quelli dei luoghi di lavoro, servizio ed incontro, nei quali l’utente entra in rapporto con la funzione svolta. Rappresenta un livello di accessibilità limitato ad una parte più o meno estesa dell’edificio o delle unità immobiliari, che consente comunque ogni tipo di relazione fondamentale anche alla persona con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale. Nelle unità immobiliari visitabili di edilizia residenziale deve essere consentito l’accesso, da parte di persona su sedia a ruote, alla zona di soggiorno o di pranzo, ad un servizio igienico e ai relativi percorsi di collegamento.
Per adattabilità si intende la possibilità di modificare nel tempo lo spazio costruito a costi limitati, allo scopo di renderlo completamente ed agevolmente fruibile anche da parte di persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale. Rappresenta un livello ridotto di qualità, potenzialmente suscettibile, per originaria previsione progettuale, di trasformazione in livello di accessibilità; l’adattabilità è, pertanto, un’accessibilità differita.
L’articolo 4 del decreto è poi totalmente dedicato ai criteri di progettazione per l’accessibilità di tutte le unità ambientali e delle loro componenti:
• porte • pavimenti • infissi esterni • arredi fissi
• terminali degli impianti • servizi igienici
• cucine
• balconi e terrazze • percorsi orizzontali • scale e rampe
• ascensori, servoscala e piattaforme elevatrici • autorimesse
• percorsi esterni • parcheggi • segnaletica.
L’articolo 8 invece consta di tutte le specifiche funzionali e dimensionali degli stessi elementi o unità ambientali elencate in precedenza, cruciali per una corretta progettazione.
Per quanto riguarda gli edifici pubblici si è dovuto attendere fino alla promulgazione della Legge quadro sull’handicap, la 104 del 1992. La norma è particolarmente incentrata sugli aspetti sociali legati alla prevenzione, cura e integrazione della persona con disabilità; tuttavia alcuni commi si occupano nello specifico delle barriere architettoniche, introducendo tutele in diversi campi (sanità, assistenza, scuola, formazione, lavoro, trasporti, giustizia, ecc.). In ogni caso se ne evince che le persone con disabilità in nessun caso possono essere escluse dal godimento di servizi, prestazioni e opportunità ordinariamente goduti da ogni cittadino.
In particolare, la Legge 104/92 prevede che il rilascio delle concessioni edilizie sia vincolato al rispetto della normativa in materia di barriere; siano dichiarate inagibili e inabitabili (e sanzionati i responsabili) le opere realizzate in edifici pubblici o aperti al pubblico in modo tale da
compromettere l’accessibilità ai disabili; sia riservata una quota di fondi per opere nell’edilizia residenziale pubblica; che siano adeguati i regolamenti edilizi comunali alle norme vigenti. Ovviamente sono previste delle deroghe, in genere per motivi storico artistici.
Infine, il D.P.R. 24 luglio 1996, n.503 «Regolamento recante norme per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici»rimanda al D.M. n.236/1989 per quanto riguarda le disposizioni operative per l’abbattimento delle barriere architettoniche che devono essere applicate anche agli edifici e spazi pubblici. Le norme si applicano agli edifici e spazi pubblici di nuova costruzione o a quelli esistenti qualora sottoposti a ristrutturazione, oltre che agli edifici e spazi pubblici sottoposti a qualunque altro tipo di intervento edilizio suscettibile di limitare
l’accessibilità e la visitabilità, (almeno per la parte oggetto dell’intervento stesso). Si applicano inoltre agli edifici e spazi pubblici in tutto o in parte soggetti a cambiamento di destinazione se finalizzata all’uso pubblico, nonché ai servizi speciali di pubblica utilità.
C’è poi un’ultima considerazione da sottolineare e cioè che accanto alle norme esistono accorgimenti basati sull’esperienza dei quali si deve tener conto se si vuole essere veramente accessibili. In altri termini: non basta essere a norma per poter definirsi accessibili a tutti, proprio perché non esiste una soluzione ideale per ogni barriera architettonica. Per fare un esempio, una rampa a norma, poiché della pendenza dell’8%, può essere troppo ripida per una persona anziana in carrozzella. La soluzione che vada bene per tutti non esiste, dal momento che non si può sempre disegnare
un’architettura sviluppata solo in orizzontale. La cosa migliore dunque è pensare all’utenza ampliata, cercando di considerare nel modo più largo possibile le caratteristiche dell’utenza, e permettere poi una personalizzazione dell’intervento nel caso in cui si verifichino esigenze peculiari.
Le persone con disabilità motoria necessitano di adeguate caratteristiche ambientali, semplici ma per loro determinanti, che si perseguono con accorgimenti e metodiche progettuali basati sul rispetto di norme e standard prestazionali appropriati. Pertanto nella progettazione degli edifici accessibili, ma anche nei manuali tecnici e nelle normative per l’eliminazione delle barriere
e di inversione di marcia, con delle superfici circolari con diametro di 1,50 m. Di conseguenza vengono a modificarsi gli usuali rapporti tra le superfici dei diversi ambienti all’interno dell’alloggio.
Spesso vengono proposte soluzioni che attribuiscono agli ascensori, ai servizi igienici, corridoi, cucine e soggiorni, superfici ben maggiori di quelle utilizzate di norma. Gli spazi adiacenti come camere da letto e disimpegni risultano ridotti e sacrificati, a parità di dimensione totale dell’unità immobiliare.
Peraltro, se si considerano più attentamente le dimensioni medie di una persona su sedia a ruote (Fig.2.2) e i relativi movimenti di rotazione possibili, si nota come l’effettiva necessità di spazio libero per compiere dette rotazioni è relativa solo alla parte più bassa degli ambienti: in particolare in corrispondenza delle gambe e dei piedi della persona seduta e per una porzione di circa 70 cm dal pavimento.
2.2 Disabilità sensoriali
Questa espressione indica soprattutto tre tipologie di disabilità:
• la cecità, o ipovisione, con visus non superiore a 3/10;
• la sordità, o ipoacusia, con perdita uditiva superiore a 25 decibel in entrambe le orecchie;
• la sordocecità caratterizzata dalla compresenza delle due disabilità sensoriali visive e uditive.
La disabilità sensoriale pregiudica spesso la vita di relazione e la comunicazione, ma anche la vita autonoma e quella quotidiana.
L’ipovisione è quella condizione di riduzione permanente della funzione visiva che non permette a un individuo il pieno svolgimento della sua attività di relazione, la conduzione di una normale attività lavorativa, il perseguimento delle sue esigenze ed aspirazioni di vita.
L’acutezza visiva o acuità visiva o visus è definita come la capacità dell’occhio di risolvere e percepire dettagli fini di un oggetto; essa viene misurata in decimi, così come le lunghezze vengono misurate in metri. Un occhio viene definito normale, o emmetrope, quando la sua visione naturale è pari ai dieci decimi, anche se il valore dei 10/10 preso come riferimento non è l’acutezza visiva massima ma è il valore definito cut-off per una visione considerata normale.
Sul piano legislativo, l’ipovisione è sempre stata correlata all’entità del visus; solo recentemente sono state introdotte e considerate anche le alterazioni del campo visivo. Con la Legge del 3 aprile 2001 n.138 è stata infatti introdotta una nuova classificazione per le minorazioni visive, in cui si
considerano cinque diverse classi, tre per l’ipovisione e due per la cecità:
• ipovisione lieve, quando il visus corretto è maggiore di 2/10, ma non superiore a 3/10, o quando il campo visivo presenta un residuo perimetrico inferiore al 60%;
• ipovisione medio-grave, quando il visus corretto è maggiore di 1/10, ma non superiore a 2/10, o quando il campo visivo presenta un residuo perimetrico inferiore al 50%;
• ipovisione grave, quando il visus corretto è maggiore di 1/20, ma non superiore a 1/10, o quando il campo visivo presenta un residuo perimetrico inferiore al 30%;
• cecità parziale, quando il visus corretto è inferiore oppure uguale a 1/20 e maggiore di 3/100 o quando il campo visivo presenta un residuo perimetrico inferiore al 10%;
• cecità totale, quando il visus corretto è inferiore a 3/100 e quando il residuo perimetrico è inferiore al 3%.
Secondo i dati INPS , nel 2016 in Italia vi erano 116.932 persone cieche invalide, mentre secondo 2
l’OMS nel mondo ci sono almeno 300 milioni di persone con disabilità visiva grave, un dato che secondo l’ente è destinato ad aumentare, anche se c’è da notare come gli ipovedenti siano in numero nettamente maggiore dei ciechi (di circa sei volte). Le cause di questo fenomeno sono molteplici: sicuramente al primo posto figura l’invecchiamento della popolazione, mentre il miglioramento, in termini di prevenzione e terapia, che l’oftalmologia ha fatto registrare negli ultimi anni riesce a bloccare allo stato di ipovisione molte gravi patologie che in passato avrebbero certamente portato alla cecità.
I deficit della funzione uditiva vengono, invece, definiti ipoacusie e dal punto di vista clinico-audiometrico vengono schematicamente in tre forme principali:
• Ipoacusie di trasmissione o conduzione: sono legate ad alterazioni di tipo malformativo, traumatico e più spesso infiammatorio dell’apparato di trasmissione dei suoni. Le ipoacusie di trasmissione non determinano mai una diminuzione molto grave, il deficit in genere non supera i 50-55 dB in quanto rimane integro il sistema di percezione;
• Ipoacusie neurosensoriali, dovute a cause che agiscono sull’apparato di percezione;
• Ipoacusie di tipo misto, legate a fattori che agiscono sull’apparato di trasmissione e su quello di percezione contemporaneamente o in tempi successivi, ed è l’evenienza più frequente. Si tratta di eventi malformativi, distrofici, traumatici, flogistici. La gravità della lesione dipende in larga misura dalla maggiore o minore compromissione delle strutture neurosensoriali.
Secondo le stime dell’OMS, soffre di ipoacusie disabilitanti almeno il 5% della popolazione
mondiale, ovvero 466 milioni di persone in tutto il mondo, ed è stimato che questo dato è destinato a raddoppiare entro il 2050, per meccanismi analoghi a quelli già citati per la cecità. 3
2.2.1 Linee guida per la progettazione
In assenza di visione, la persona dipende in prima battuta dal suo udito, un fatto che permette di sviluppare significativamente il riconoscimento delle percezioni uditive. Di contro, il senso della vista diventa primario per chi ha disabilità uditive. Studi come quello di Rhyl (2010) sull’uso dei sensi delle persone con disabilità sensoriale in uno spazio architettonico forniscono alcune importanti informazioni sugli specifici requisiti progettuali necessari per incrementare la fruibilità e la qualità architettonica nei confronti di questo particolare gruppo di utenti. Inoltre, aiutano a farsi un’idea più precisa sugli output sensoriali a cui chiunque è sottoposto, dal momento che anche chi non ha disabilità registra le esperienze sensoriali, sebbene inconsciamente.
Si introduce quindi il concetto di accessibilità sensoriale che diviene decisivo per garantire a chiunque la possibilità di partecipazione e una vita adeguata in un determinato spazio. Il termine accessibilità, in conseguenza delle leggi sulle barriere architettoniche, viene principalmente usato per
http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?lingua=italiano&id=2389&area=prevenzioneIpovisione&menu=prevenzione
qualificare un progetto che segua la suddetta normativa, ma come si è già detto questo non è sufficiente a garantire eque opportunità. Ryhl sostiene inoltre che la stessa ricerca nel campo della disabilità, in architettura si concentra per lo più sulla fruibilità e sulle disabilità motorie e che i pochi studi sulla disabilità sensoriale si limitano a lavorare su senso dell’orientamento e comunicazione, e non tentano quasi mai di stabilire dei precisi requisiti progettuali da considerare ogniqualvolta si vogliano correlare le necessità delle disabilità sensoriali e il vivere in uno spazio architettonico di qualità.
Per i ciechi, l’udito e il tatto sono i sensi primari attraverso i quali riconoscere e vivere lo spazio architettonico. Le proporzioni e le qualità acustiche sono percepite quasi come sinonimi, poiché grandi spazi aperti hanno per natura una bassa qualità acustica e dunque una bassa qualità architettonica per questo gruppo di utenti. Una stanza dalla geometria complessa, soprattutto in sezione, può essere molto problematica: una differenza di quota come tre gradini può porre lo stesso livello di disturbo all’orientamento e alla comunicazione di un vano scale. Le aperture sono
importanti poiché forniscono un collegamento con l’esterno; inoltre, una luce filtrata è preferibile a quella diretta, che può causare dolori agli occhi.
Gli ipovedenti possono contare anche sulla vista residua sebbene possa variare moltissimo a seconda dei casi. Le persone che vedono di più provano benessere nell’osservare l’esterno attraverso grandi finestre e aperture; al contrario, coloro che hanno meno vista residua preferiscono un’illuminazione più soffusa e uniforme in tutte le zone della casa. Uno spazio di bassa qualità acustica è meno disabilitante rispetto al primo gruppo di utenti, ma rimane comunque la prima causa di malessere all’interno di uno spazio.
Visione e tatto sono i sensi primari per le persone sorde, che hanno bisogno di grandi spazi aperti per ricevere almeno le informazioni visive di attività che non possono sentire. Grandi aperture e ampi spazi sono equamente importanti e mutuamente interconnessi; l’una senza l’altra porta ad una perdita significativa di qualità architettonica percepita. Si tratta dunque di raggiungere la giusta sinergia di proporzioni spaziali, apertura delle finestre e connessione visiva. Inoltre, le finestre dovrebbero dispiegare la vista in più direzioni, stando però attenti a non aprire viste dietro ad
elementi di disturbo come scale anti-incendio o insegne pubblicitarie, che sono anzi causa di fastidio per le persone sorde.
In tutti i casi è opportuno che l’architettura sia abbinata alla presenza di facilitatori, dispositivi che aiutano queste persone a muoversi liberamente e a svolgere le attività a cui si dedicherebbe chiunque. È molto importante, per le persone disabili, che l’architetto riesca a celare il tentativo di rendere agevole l’uso di quell’ambiente, effettuando delle scelte di tipo inclusivo. Esistono, infatti, dei
facilitatori che, opportunamente collocati all’interno dell’edificio che si vuole rendere accessibile per i non vedenti, aiutano il visitatore nell’orientamento e nei movimenti. Si tratta principalmente di dispositivi che stimolano l’utilizzo dei sensi diversi dalla vista, come avviene quando si installa un percorso olfattivo, con il quale il non vedente viene guidato dagli aromi percepiti dal suo olfatto, oppure quando si opta per le più tradizionali mappe tattilo-visive, utili all’orientamento e alla percezione nello spazio.
2.3 Disabilità intellettive
I Disturbi del neurosviluppo sono un gruppo di condizioni che hanno tipicamente inizio nelle prime fasi dello sviluppo, spesso prima che il bambino inizi la scuola elementare, e sono caratterizzati da deficit dello sviluppo che causa una compromissione del funzionamento personale, sociale, scolastico o lavorativo. Lo spettro dei deficit dello sviluppo varia da limitazioni molto specifiche
dell’apprendimento o del controllo delle funzioni esecutive fino alla compromissione globale delle abilità sociali o dell’intelligenza. I disturbi del neurosviluppo si presentano frequentemente in concomitanza; per esempio, individui con disturbo dello spettro dell’autismo spesso presentano disabilità intellettiva, e molti bambini con disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) hanno anche un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA). In alcuni disturbi il quadro clinico comprende sintomi di eccesso, ma anche deficit della comunicazione sociale che sono accompagnati da comportamenti eccessivamente ripetitivi e da una ristretta gamma di interessi.
Disturbo dello sviluppo intellettivo
È caratterizzato da deficit delle capacità mentali generali, come il ragionamento, la risoluzione di problemi, la pianificazione, il pensiero astratto, la capacità di giudizio, l’apprendimento scolastico e l’apprendimento dall’esperienza. I deficit comportano una compromissione del funzionamento adattivo tale che l’individuo risulta incapace di soddisfare gli standard di autonomia e di responsabilità sociale in uno o più aspetti della vita quotidiana, comprese la comunicazione, la partecipazione sociale, l’attività scolastica o lavorativa, e l’autonomia a casa o nella comunità. Il ritardo globale dello sviluppo, come suggerisce il termine, viene diagnosticato quando un individuo non riesce a raggiungere le tappe attese dello sviluppo in diverse aree del funzionamento intellettivo. La diagnosi viene utilizzata per individui incapaci di sottoporsi a valutazioni sistematiche del
funzionamento intellettivo, compresi i bambini che sono troppo piccoli per partecipare a test standardizzati. La disabilità intellettiva può derivare da un danno subito durante il periodo dello sviluppo in seguito, per esempio, ad un grave trauma cranico: in questo caso può essere diagnosticato anche un disturbo neuro-cognitivo.
Non bisogna però dimenticarsi che il progetto di questa tesi è pensato per studenti universitari, quindi persone che hanno completato tutti i necessari cicli scolastici precedenti: una possibile disabilità intellettiva sarà dunque al massimo di lieve gravità.
Nei bambini e negli adulti con disabilità intellettiva lieve, per quanto riguarda l’ambito concettuale, sono presenti difficoltà nell’apprendimento di abilità scolastiche quali lettura, scrittura, capacità di calcolo, concetto del tempo o del denaro, che rendono necessaria qualche forma di supporto in una o più aree di apprendimento per poter soddisfare le aspettative correlate all’età. Negli adulti, sono compromessi il pensiero astratto, la funzione esecutiva (per esempio, pianificazione, elaborazione di strategie, definizione delle priorità e flessibilità cognitiva) e la memoria a breve termine, così come