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La mobilità studentesca interregionale in Italia: il caso degli studenti sardi all'Università di Pisa

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche Laurea magistrale in Studi Internazionali

TESI DI LAUREA

La mobilità studentesca interregionale in Italia:

il caso degli studenti sardi all'Università di Pisa

RELATORE: CANDIDATO:

PROF. GABRIELE TOMEI DAVIDE SCHIRRU

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Sommario

INTRODUZIONE ... 1

CAPITOLO 1 Le migrazioni interne in Italia dall’Unità ai giorni nostri ... 3

1.1 Le migrazioni interne in Italia ... 3

1.2 Dall’Unità al periodo tra le due guerre ... 4

1.3 Dal dopoguerra agli anni Novanta ... 10

1.4 Dagli anni Novanta a oggi: la ripresa dei flussi... 14

CAPITOLO 2 Le migrazioni interne dalla Sardegna dall’Unità ai giorni nostri ... 21

2.1 La Sardegna nell’Ottocento ... 21

2.2 L’emigrazione sarda tra l’Unità e le due guerre ... 23

2.3 La Sardegna nel secondo dopoguerra ... 26

2.4 Le migrazioni dal dopoguerra agli anni Novanta ... 30

2.5 Mobilità intra-regionale, sotto popolamento e spopolamento ... 34

2.6 Dagli anni Novanta ad oggi ... 36

2.7 Migrazioni qualificate: il caso del Master & Back ... 38

CAPITOLO 3 La mobilità studentesca interregionale in Italia ... 41

3.1 Mobilità per studio e migrazioni interne ... 41

3.2 La mobilità nella società post-industriale ... 44

3.3 Migrazioni interne e migrazioni internazionali ... 47

3.4 Capitale umano e Brain drain ... 48

3.5 Le teorie migratorie ... 52

3.6 Contributi dalla letteratura sociologica ed economica allo studio della mobilità studentesca ... 55

3.7 Il ruolo del sistema universitario italiano ... 60

3.8 Un fenomeno del tutto nuovo? ... 64

3.9 Un fenomeno in evoluzione ... 67

CAPITOLO 4 La mobilità studentesca dalla Sardegna: il caso degli studenti sardi nell’Ateneo di Pisa ... 74

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4.2 Un quadro d’insieme sull’economia della Sardegna ... 77

4.3 La mobilità per studio dalla Sardegna negli ultimi dieci anni ... 81

4.3.1 Il Dataset ... 81

4.3.2 Nota metodologica ... 82

4.3.3 L’andamento delle immatricolazioni... 82

4.3.4 Gli iscritti alla specialistica... 85

4.4 Gli iscritti sardi fuori sede ... 86

4.4.1 Come si comportano rispetto agli iscritti delle altre regioni del Mezzogiorno? ... 87

4.4.2 Come è cambiato l’atteggiamento degli iscritti sardi rispetto a dieci anni prima in relazione alle altre regioni del Mezzogiorno? ... 89

4.4.3 Le traiettorie principali della mobilità per studio dalla Sardegna ... 89

4.4.4 Gli immatricolati in Sardegna residenti in altre regioni italiane ... 91

4.4.5 Il livello sub-regionale della mobilità studentesca sarda ... 91

4.5 I sardi all’Università di Pisa... 93

4.6. Gli studenti sardi nell’Ateneo di Pisa. Risultati dell’analisi qualitativa ... 95

4.6.1. Nota metodologica ... 95

4.6.2. Come nasce la scelta di mobilità? ... 97

4.6.3. Interconnessi, mobili, isolati…... 102

4.6.4. Il rapporto con la Sardegna e le prospettive per il futuro... 105

4.7 Considerazioni conclusive ... 109

CONCLUSIONI ... 111

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INTRODUZIONE

Le migrazioni interne hanno da sempre caratterizzato il panorama della mobilità in Italia. A partire dalla fine dell’Ottocento, con l’acuirsi dei divari tra il Nord e il Sud del Paese, i flussi migratori hanno iniziato a rappresentare una costante dello sviluppo economico e demografico italiano. A seguito della Seconda Guerra Mondiale e dello sviluppo massiccio dell’industria del Nord Italia, i flussi migratori dal Mezzogiorno si sono fatti sempre più consistenti, raggiungendo l’acme nel ventennio a cavallo fra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, interessando milioni di persone. Gli anni ottanta hanno rappresentato invece una fase di stasi nell’evoluzione della mobilità interna.

Al passaggio dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione, l’attenzione degli studiosi si è rivolta maggiormente a questi fenomeni, che per l’Italia di allora rappresentavano una assoluta novità. Solo a partire dalla fine degli anni Novanta si torna a parlare di mobilità interna, ponendo in particolare l’accento sugli elementi di rottura dei nuovi fenomeni migratori, caratterizzati da una forte presenza di persone con alti livelli di qualificazione. Da un punto di vista numerico non si sono certo raggiunti i livelli che hanno caratterizzato il ventennio tra gli anni Cinquanta e Settanta, ma le nuove caratteristiche delle migrazioni interne hanno attirato nuovamente le attenzioni degli accademici e dell’opinione pubblica.

All’interno di questo quadro si inserisce anche il fenomeno della mobilità studentesca di lungo-raggio, che vede lo spostamento di migliaia di studenti ogni anno dalle regioni del Mezzogiorno verso gli Atenei del Centro-Nord Italia. Il presente lavoro si pone dunque come obiettivo quello di descrivere ed esplorare alcuni aspetti del fenomeno della mobilità studentesca interregionale in Italia negli ultimi anni, con particolare riguardo al caso della Sardegna e della mobilità per studio degli studenti sardi nell’Ateneo Pisano. Il tema della mobilità studentesca interregionale rappresenta un fenomeno particolare nell’ambito della sociologia delle migrazioni, sia in quanto avviene all’interno dei confini del paese e sia in quanto esso è strettamente legato alla durata del percorso di studi. Tuttavia, come evidenziato da parte della letteratura, la mobilità studentesca di lungo raggio, orientata quasi esclusivamente dalle regioni del

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Mezzogiorno verso quelle del Centro-Nord, potrebbe rappresentare un’anticipazione di un futuro percorso migratorio più strutturato.

I primi due capitoli sono organizzati come un preambolo storico sul ruolo che le migrazioni interne in Italia hanno svolto e svolgono nel mutamento economico, sociale e demografico del Paese. Il secondo capitolo in particolare è rivolto alla descrizione dei fenomeni di mobilità dalla Sardegna alla Penisola, seguendo la stessa ripartizione cronologica utilizzata nel primo capitolo, che divide i fenomeni migratori in tre macro-fasi, cioè dall’Unità al periodo tra le due guerre mondiali, dal dopoguerra agli anni Ottanta, e infine dagli anni Novanta ad oggi.

Dopo i grandi flussi che hanno caratterizzato lo scenario delle migrazioni interne italiane nel secondo dopoguerra, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta si è assistito ad una sorta di declino dei flussi migratori. La seconda metà degli anni Novanta rappresenta un punto di snodo, poiché i flussi migratori interni riprendono con una certa intensità e con nuove caratteristiche, interessando in particolare le fasce della popolazione più istruita, come i diplomati e i laureati. In questo quadro si inserisce anche la mobilità per studio, che negli ultimi anni sta assumendo proporzioni sempre più imponenti, seguendo sempre la direttrice che dalle regioni del Mezzogiorno porta verso il Centro-Nord.

Il terzo capitolo si occupa di inquadrare il fenomeno alla luce dei contributi della letteratura accademica sul tema delle migrazioni altamente qualificate sia interne che internazionali e di descrivere i caratteri e le dinamiche principali della mobilità interregionale per studio in Italia e la sua evoluzione nel tempo.

Il quarto ed ultimo capitolo invece, nel descrivere la mobilità degli studenti sardi e focalizzandosi maggiormente sulle dinamiche della Sardegna, cerca di rinvenire elementi di discontinuità, laddove presenti, fra gli studenti sardi e gli studenti delle altre regioni del Mezzogiorno. Per questa ragione si è deciso di effettuare anche delle interviste semi-strutturate ad un gruppo di venti studenti sardi iscritti nell’Ateneo di Pisa, per via della attrattività che la città toscana ha sempre esercitato e continua ad esercitare sugli studenti sardi. L’obiettivo delle interviste è quello di cercare di approfondire ulteriori elementi che non emergono dalla semplice lettura dei dati, provando a suggerire altre linee di interesse per future indagini di ricerca sul tema della mobilità studentesca dalla Sardegna e dal Mezzogiorno.

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CAPITOLO 1

Le migrazioni interne in Italia dall’Unità ai giorni nostri

1.1 Le migrazioni interne in Italia

Le migrazioni interne e internazionali hanno da sempre caratterizzato lo sviluppo economico e demografico dell’Italia (Bonifazi, 2015). Sebbene gran parte degli studi e dell’attenzione a partire dalla fine dell’Ottocento siano stati catalizzati dalle grandi migrazioni verso l’estero, in particolare verso l’America e le regioni del Centro Europa, le migrazioni interne hanno sempre fatto da sfondo alle dinamiche evolutive economiche e sociali dell’Italia, accentuando o perpetuando i divari economici tra Nord e Sud del paese, storicamente divisi a partire dall’Unità d’Italia.

Per comodità le migrazioni interne possono essere divise in tre macro-fasi, che vanno dall’Unità d’Italia al periodo tra le due guerre mondiali, dal secondo dopoguerra agli anni Ottanta, e dagli anni Novanta ad oggi, seguendo cioè l’andamento dei flussi migratori. Diversi autori, tra cui Gallo (2012), seguono questa ripartizione che verrà utilizzata anche in questo elaborato.

Gli anni Settanta hanno rappresentato un crocevia sia nell’evoluzione dei fenomeni migratori italiani sia nel loro studio. Difatti, il passaggio dell’Italia da paese caratterizzato da forti spinte migratorie interne ed esterne a paese di immigrazione, ha catalizzato l’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica (Panichella, 2012). Lo sviluppo del progetto di integrazione europea con la creazione dell’Unione Europea negli anni Novanta e la liberalizzazione degli spostamenti intracomunitari ha influito anche sullo sviluppo dei fenomeni immigratori in Italia, che in questi anni ha visto crescere la componente straniera residente e la mobilità in ingresso. Il nuovo millennio si sta caratterizzando per le recenti spinte migratorie, soprattutto composte da richiedenti asilo e rifugiati, un fenomeno del tutto nuovo nella storia italiana e comunitaria.

Nonostante il tema delle migrazioni interne sia passato in secondo piano, vista anche le contemporanea fase di declino verificatasi negli anni Ottanta, il movimento migratorio, seppur carsico, è rimasto vivo. In particolare negli ultimi anni sta

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assumendo nuovo vigore e si sta caratterizzando per alcuni elementi di discontinuità dei flussi rispetto agli anni Sessanta e Settanta.

All’interno di questo quadro si inserisce anche il fenomeno della mobilità per studio. Questo fenomeno, seppur complesso nelle sue dinamiche, sta suscitando il crescente interesse degli studiosi sia delle discipline economiche che sociologiche, e anche un nuovo interesse e una certa preoccupazione nell’opinione pubblica, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno.

1.2 Dall’Unità al periodo tra le due guerre

Ben prima delle grandi migrazioni transoceaniche di fine Ottocento l’Italia era caratterizzata da corposi flussi migratori all’interno dei suoi stessi confini. Nel censimento della popolazione del 1861 promosso dal governo di allora si affermava che «3/4 dell’emigrazione resta in paese e ¼ soltanto espatria» (Gallo, 2012: 8). Eppure a partire dall’Unità e fino agli inizi del nuovo secolo gli strumenti di rilevazione non furono in grado di annotare sistematicamente gli spostamenti della popolazione italiana all’interno dei confini del paese (Ramella, 2009). Questi spostamenti di popolazione erano legati perlopiù alla stagionalità del lavoro, ai cicli produttivi dell’agricoltura e alle varie specializzazioni regionali, «ogni anno circa 185.000 cittadini italiani si guadagnavano da vivere grazie al ricorso agli spostamenti periodici, di cui più di 140.000 rivolti all’interno dei confini» (Gallo, 2012: 8). Il raggio di questi movimenti restava tuttavia circoscritto, in ragione soprattutto dell’arretratezza nel sistema dei trasporti italiano. Con l’avvio del processo di ammodernamento del paese seguito all’Unità d’Italia e la conseguente costruzione di infrastrutture che collegassero le diverse aree dell’Italia, i flussi presero a crescere. Alcuni poli attraevano in particolare i flussi migratori interni, si tratta della Valle del Po, verso cui si dirigevano circa 50.000 persone l’anno e della fascia costiera che si estendeva da Piombino fino alle campagne a sud di Roma, e che ogni anno attirava

non meno di 100.000 persone, sia dall’Italia centrale che meridionale (Gallo, 2012). L’inquadramento statistico di questi fenomeni era reso difficile sia dalla

carenza di strumenti adeguati per la misurazione dei flussi sia dalla loro temporaneità, che non permetteva di registrare il soggetto mobile. Nel 1905 si cercò di quantificare gli spostamenti dei lavoratori stagionali tramite due inchieste promosse dall’Ufficio

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del lavoro presso il ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel 1905 e nel 19010-1911 (Ramella, 2009). Alla luce di questi nuovi dati, i fenomeni di mobilità rurale possono essere suddivisi in quattro macrosistemi migratori:

Procedendo da nord a sud nella penisola, troviamo il sistema migratorio padano, che ruotava soprattutto intorno alla lavorazione del riso (ma non solo), il sistema dell’Italia centrale, in cui la Maremma e l’Agro romano richiamavano una composita schiera di lavoratori migranti, il sistema dell’Italia meridionale, dove era la Puglia a giocare un ruolo determinante, e infine la Sicilia. (Gallo, 2012: 21)

Queste zone erano principalmente a vocazione agricola, il richiamo dei lavoratori dalle zone circostanti seguiva perciò l’andamento dei cicli delle colture, nello specifico quelle del riso, del grano e delle viti.

Le prime rilevazioni svolte dall’Ufficio del lavoro a partire dal 1905 permettono di evidenziare alcuni tratti comuni di questa fitta rete di percorsi migratori che collegavano aree diverse del paese ai principali bacini di attrazione. La mobilità era prevalente in particolare nei mesi tra maggio e luglio, ed erano principalmente gli uomini a spostarsi per lavoro. Queste caratteristiche rimasero una costante delle migrazioni interne dell’Italia contemporanea, almeno finché resistette un modello agricolo così vivace e produttivo (Gallo, 2012).

Solo a partire dal 1902 si cercò di avviare con una certa sistematicità la rilevazione dei trasferimenti di residenza anagrafica tramite le anagrafi dei singoli comuni, deputati a registrare cancellazioni e trasferimenti di residenza (Ramella, 2009). La crescita del fenomeno delle migrazioni interne determinò un’accresciuta attenzione da parte dei governi verso questo fenomeno, portando alla fondazione dell’Istituto centrale di statistica (Istat) nel 1926 (Ramella, 2009).

La seconda metà dell’Ottocento si caratterizzò anche per un vasto ricorso ai sistemi di bonifica, in particolare nel nord del paese, e all’impiego dei braccianti in queste operazioni e nella costruzione di infrastrutture pubbliche. Accanto a questi fenomeni andava espandendosi la crescita dei centri urbani, dovuta allo sviluppo in Europa del moderno sistema capitalista che faceva delle città il proprio centro economico e di sviluppo. Anche in Italia si assistette a fenomeni di inurbamento che interessarono in particolare le città del Centro-nord. Questo fenomeno era perlopiù

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legato ai nuovi assetti politici e burocratici dell’Italia post-unitaria, in cui i centri di grandi dimensioni andavano acquisendo via via maggiore potere. In particolare Roma agli inizi del Novecento vide crescere la propria popolazione in maniera esponenziale, richiamando afflussi massicci di popolazione dalle regioni circostanti (Gallo, 2012).

Queste città si caratterizzavano per essere centri di scambio, luoghi di consumo e produzione di servizi. L’industrializzazione che iniziò a caratterizzare la geografia e l’economia italiana a partire dalla seconda metà dell’Ottocento si concentrò non tanto nelle grandi città, quanto nei centri medi e minori e degli snodi dei trasporti.

Promuovere l’industria nelle campagne o nei centri minori voleva dire collocare l’attività di fabbrica all’interno di contesti dominati da altri tipi di economie e produzioni, consentendo così di sfruttare la pluriattività rurale per il contenimento dei salari e della conflittualità

(Gallo, 2012: 67).

Non erano dunque le grandi città ad attirare i flussi migratori maggiori, quanto le zone circostanti che si andavano man mano specializzando in determinati settori produttivi lungo tutta la penisola. La crescita urbana fu caratterizzata piuttosto dall’afflusso di impiegati e professionisti, operanti nel settore terziario. Rimaneva comunque una mobilità generalmente a corto-medio raggio. Solo agli inizi del Novecento con l’evoluzione massiccia dei poli industriali si iniziò a intravvedere una mobilità di più lungo raggio, generalmente orientata verso il Nord Italia.

Il 1901-1911 è la fase del «decollo» industriale del paese, dall’apparire dei primi tratti di una società urbano-industriale matura, per lo meno in alcune aree del paese, di sensibili progressi nei comparti più moderni dell’agricoltura. (Sori, 1979: 446)

Tra la fine dell’Ottocento e la Grande Guerra si andò a formare quell’agglomerato produttivo, noto come triangolo industriale, compreso fra le città di Torino, Genova e Milano. Tale fase segnò per il Mezzogiorno un passaggio storico. Se fino ad allora le differenze esistenti tra Nord e Sud erano evidenti ma non eccessivamente marcate, a partire dalla fine dell’Ottocento questo divario inizia a diventare importante, trasformandosi in un meccanismo economico autoperpetuante, che divaricava ulteriormente le due aree del paese. In questo senso si muoveva anche l’analisi che Gramsci fece della Questione Meridionale nel corso dei suoi scritti,

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sottolineando come l’intero processo si costituisse come una stabile dominanza incapace di superarsi:

La egemonia del Nord sarebbe stata “normale” e storicamente benefica se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale) anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrato sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente “perpetuo” per l’esistenza di una industria settentrionale (Gramsci, 1975: 131)

L’arrivo della Grande Guerra sconvolse bruscamente gli equilibri sociali e demografici italiani. Circa 5 milioni di italiani indossarono la divisa dell’esercito tra il 1915 e il 1918 (Gallo, 2012). La difficoltà nel reperire la manodopera necessaria alla perpetuazione dei cicli agricoli e del lavoro in fabbrica causò non pochi problemi all’economia italiana. La guerra impegnò la popolazione sia sul fronte che nelle linee retrostanti, coi rifornimenti ai combattenti. Lo Stato si assunse il ruolo di mediatore tra le richieste che venivano dal fronte e la crescente spinta della manodopera dal Sud. Questo comportò che tra il 1916 e il 1917 dal Sud partirono almeno 210.000 persone dirette verso il fronte (Gallo, 2012).

Il dopoguerra fu caratterizzato da acute tensioni nelle campagna meridionali, caratterizzate dalla presenza di forti proteste soprattutto tra quei braccianti costretti a spostarsi per decine di chilometri per lavorare, e che chiedevano migliori condizioni di lavoro. L’avvento del fascismo, forte della retorica sull’importanza della società rurale, cercò di orientare i flussi migratori in modo tale da favorire le politiche del regime, irrigidendo il mercato del lavoro su logiche corporative e territorialmente suddivise, con la mediazione degli Uffici di collocamento adeguatamente preposti a tali scopi. Il ruolo dello Stato si faceva sempre più pressante nell’organizzare e indirizzare i flussi di manodopera, specie per quanto riguardava la realizzazione di opere pubbliche come le bonifiche. La creazione nel 1931 di un Commissariato per le

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migrazioni interne era proprio volta a questo obiettivo, controllando e organizzando gli spostamenti della manodopera e registrando e vidimando quelli spontanei (Gallo, 2012). L’obiettivo dunque non era tanto quello di bloccare lo spostamento dei lavoratori, quanto piuttosto di organizzarlo secondo logiche organiche al sistema statuale fascista, volto a evitare che si creassero sacche di disoccupazione o di oscillazione da una grande opera all’altra che avrebbero potuto creare tensioni fra lavoratori locali e migranti. In questo senso le opere di bonifica dell’Agro Pontino o in Sardegna furono un successo per il regime, che riuscì a trasferire lì migliaia di coloni provenienti dall’Emilia Romagna e dal Veneto. Dal preteso controllo delle migrazioni e dai vincoli imposti dal regime nasce dunque quel luogo comune che ha dominato buona parte del periodo fascista e del secondo dopoguerra, cioè che durante gli anni del fascismo i movimenti migratori interni fossero stati irrilevanti e che la società italiana fosse caratterizzata da un sostanziale immobilismo, e che gli studi storiografici successivi avrebbero smentito (Treves, 1976).

Difatti sulla scia della Grande Guerra e a partire dagli anni Trenta si innescarono una serie di meccanismi che avrebbero portato all’esodo dal Mezzogiorno che ha caratterizzato l’Italia del secondo dopoguerra. A partire dal 1923 vasti movimenti di popolazione iniziarono ad interessare tutta la penisola italiana, segnando un punto di svolta nella storia delle migrazioni interne in Italia (Treves, 1976). Gli anni Trenta, caratterizzati dalle leggi vincolistiche del regime sui movimenti interni della popolazione, videro più di un milione di persone cambiare residenza ogni anno nei primi tre anni del decennio, arrivando a toccare il picco nel 1937, anno in cui si trasferirono di residenza un milione e mezzo di persone (Treves, 1976). Fenomeni di costante inurbamento della popolazione rurale iniziarono a verificarsi già a partire dal 1931. Su questi due fenomeni impattò soprattutto il blocco delle emigrazioni verso l’estero, dovuto sia al controllo coercitivo operato dal regime che alle leggi che in alcuni stati, mete tradizionali di emigrazione come gli Stati Uniti, impedivano l’arrivo di migranti da oltreoceano. Sebbene le migrazioni verso l’estero e le migrazioni interne si fossero fino ad allora tradizionalmente integrate a vicenda, questo rapporto simbiotico cessò di funzionare, creando degli scompensi all’interno dello stato. I tradizionali flussi diretti all’estero si orientarono dunque verso il Centro e il Nord Italia, «le persone residenti in regioni diverse da quella di nascita aumentarono del

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60% tra il 1921 e il 1931; in quello stesso decennio il Veneto perse quasi il 10% dei suoi abitanti a causa dei trasferimenti in altre regioni, soprattutto verso la Lombardia» (Gallo, 2012: 120-121).

Durante il Ventennio fascista iniziano a mutare strutturalmente i quadri della realtà economica e sociodemografica italiana. Si allargano i divari di ricchezza tra il Centro-Nord e il Meridione, rendendo esplicita la spaccatura in due del paese. I sistemi produttivi delle regioni più avanzate iniziarono ad affidarsi alla manodopera del Sud, distante anche centinaia di chilometri. L’evoluzione dei trasporti contribuì ad accelerare questo processo. La scomparsa delle campagne e il progressivo inurbamento della popolazione erano già evidenti allora, nonostante nella retorica del regime questo fenomeno andasse strenuamente combattuto, in favore invece della retorica della vita rurale. Questo fu particolarmente evidente per le città del Centro e del Nord Italia negli anni a cavallo tra il 1921 e il 1936, specialmente per Roma (+74%), Milano (36%), Bologna (+32%), Torino (+26%) e Genova (+17%), mentre fu meno evidente nei grossi centri del Meridione (Gallo, 2012).

Già nel 1927 il regime prese delle importanti decisioni per cercare di limitare l’esodo rurale verso le città, prima vietando la costruzione di nuovi stabilimenti industriali in centri sopra i 100.000 abitanti, e poi a partire dal 1928 dando la possibilità alle Prefetture di emanare ordinanze che impedissero o limitassero l’aumento della popolazione residente nelle città. Visti gli scarsi risultati di queste politiche nel 1939 venne formulato uno strumento legislativo ancora più coercitivo, stabilendo che nessuno potesse trasferire la propria residenza in comuni con popolazione superiore ai 25.000 abitanti, o in comuni d’importanza industriale, anche con popolazione minore, senza un’adeguata giustificazione, legata a motivi di lavoro o altri giustificati motivi (Gallo, 2012). Questa legge verrà abolita solo nel 1961, causando non pochi problemi sia nella rilevazione degli spostamenti che per gli stessi migranti, costretti a vivere in uno stato di “illegalità” (Treves, 1976). Il blocco dell’emigrazione verso l’estero, valvola di sfogo per la manodopera del meridione, e il decremento dei tassi di natalità nel settentrione durante il ventennio furono le due cause scatenanti dell’impennata nei flussi che seguì la fine del secondo conflitto mondiale. La fine del conflitto bellico creò una enorme confusione in tutto il paese, dovuto ai rientri dall’estero e dal ritorno dei militari. Fu l’inizio delle grandi migrazioni italiane, inizialmente dirette verso

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l’estero, verso quei paesi distrutti dalla guerra che avevano bisogno di manodopera per la ricostruzione, e poi all’interno dello stesso paese. All’inizio furono i Settentrionali a prendere la strada verso l’estero, ma a stretto giro fu l’emigrazione dal Meridione a caratterizzare gli anni del dopoguerra e del successivo boom economico.

1.3 Dal dopoguerra agli anni Novanta

L’Italia del dopoguerra era ancora un paese sostanzialmente sottosviluppato in cui l’industria poteva vantare un certo progresso confinato però alle sole regioni nord-occidentali, con un peso comunque relativo sull’economia nazionale, mentre l’agricoltura continuava ad essere ancora il comparto più importante, soprattutto al Sud, pur presentando caratteri di arretratezza (Ginsborg, 1989). La società era prevalentemente giovane, composta dal 26% di giovani sotto i 15 anni, dal 66% della fascia fra 15 e 64 anni e dall’8% di persone sopra i 65 anni (Sonnino, 1995). Si stavano preparando gli anni del boom economico che avrebbe portato l’Italia ad essere uno dei paesi più industrializzati del mondo occidentale. Già a partire dal 1948 si iniziò a intravedere un generale fermento nella popolazione italiana che cercava di fuggire dalle campagne e da contesti economici stagnanti verso la città e l’industria. Alla data del censimento del 1951, circa 1.500.000 italiani si trovano momentaneamente fuori dal proprio comune di residenza, ma sempre all’interno dei confini nazionali (Sonnino, 1995):

L’Italia è quindi solcata, in questi anni, da una pluralità di percorsi migratori di breve, medio e lungo raggio che denotano una contemporanea molteplicità di direzioni prevalenti: dal Sud verso il Centro e il Nord-Ovest, dall’Est verso l’Ovest, dai piccoli e medi centri verso i medi, grandi e grandissimi aggregati urbani, dalla montagna verso la collina e la pianura, dal settore agricolo verso l’industria, l’artigianato, il terziario. (Sonnino, 1995: 537)

Anche le regioni dell’Est parteciparono dunque al grande processo di rimescolamento della popolazione italiana nel dopoguerra. Dal Veneto tra il 1955 e il 1961 emigrarono 237.000 persone, dirette sia verso l’estero, in particolare Germania e Svizzera, che soprattutto verso le regioni ad Ovest come Lombardia e Piemonte (Signorelli, 1995). Tuttavia questi flussi scemarono nel corso degli anni Sessanta e Settanta, e anche le regioni del Nord-Est andarono a costituire quel terzo polo di

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sviluppo denominato Terza Italia (Bagnasco, 1977). Il contributo maggiore in termini numerici lo diedero sicuramente l’Italia meridionale e le due grandi isole. Il divario tra le varie parti della penisola si faceva sempre più evidente, eredità degli anni precedenti al conflitto. Il reddito pro-capite nel 1951 nell’Italia nordoccidentale superava del 43% quello della media nazionale, mentre dall’altra parte della penisola questo era del 32% inferiore alla media (Gallo, 2012). Al processo di modernizzazione non ha dunque fatto seguito un processo di razionalizzazione dell’economia e di superamento degli squilibri territoriali (Sonnino, 1995). Si gettavano così le basi per il grande esodo che dalla metà degli anni Cinquanta e per il ventennio successivo avrebbe caratterizzato i flussi migratori nella penisola. Tra il 1955 e il 1975 il saldo migratorio complessivo ammontava a 2.344.839 unità (Berti, 2008). Fu il periodo di massima espansione dei flussi, e secondo i dati Istat, le cancellazioni anagrafiche dai comuni del Mezzogiorno si aggirarono intorno ai 3,7 milioni, mentre le iscrizioni, e dunque i rientri, intorno ai 1,4 milioni (Berti, 2008).

I flussi andarono di pari passo con le congiunture economiche del paese, aumentando o contraendosi a seconda dell’andamento dei cicli. Il picco del fenomeno migratorio interno tra Sud e Centro-Nord avvenne nel triennio tra il 1961 e il 1963, in cui il saldo migratorio segnò la cifra record di 655.099 unità (Pugliese, 2006). Riprese poi con altrettanta intensità sul finire degli anni Sessanta, per poi iniziare a scemare conseguentemente alla grande crisi petrolifera del 1973 che destabilizzò l’intero sistema economico occidentale e segnò un punto di svolta fondamentale nel fenomeno delle migrazioni interne italiane e in Europa in generale.

Rispetto al fenomeno delle migrazioni verso l’estero, che ebbero il picco massimo nel decennio a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, le migrazioni interne interessarono un arco temporale molto più lungo. Mentre le migrazioni interne si caratterizzavano per la durata spesso definitiva e strutturata del progetto (Pugliese, 2006), le migrazioni verso l’estero avevano il carattere della circolarità, ed erano dunque legate a progetti precari, strettamente legati alla durata dell’impiego e alle caratteristiche produttive dei cicli di produzione dei paesi Europei in fase di ricostruzione1. È da notare poi come le migrazioni verso l’estero si caratterizzarono

1 Negli anni del dopoguerra viene coniato il termine di gastarbeiter per indicare i lavoratori ospiti,

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per una composizione piuttosto omogenea di persone con bassi tassi di scolarizzazione, mentre le migrazioni interne interessarono anche una fascia di popolazione piccolo borghese e molto scolarizzata, seppur minoritaria (Ascoli, 1979). In entrambi i casi i fenomeni originano dallo squilibrio Nord-Sud e quindi dal carattere dualistico dello sviluppo economico italiano (Pugliese, 2006).

Parallelamente si sviluppavano due fenomeni che avrebbero interessato l’Italia da Sud a Nord, cioè l’esodo agricolo e il processo di industrializzazione e l’esodo rurale e il progressivo inurbamento della popolazione. Nell’arco dei quarant’anni compresi tra il 1951 e il 1991 la popolazione occupata in agricoltura passò dal 42,2% al 7,6%, contestualmente quella occupata nell’industria passò dal 32,1% del 1951 al 44,3% del 1971, decrescendo poi al 35,6% del 1991, e orientandosi al sempre più importante settore terziario dei servizi, cresciuta dal 25,7% al 56,7% nello stesso periodo considerato (Pugliese, 2006). Se l’espulsione dalle campagne, complice anche lo sviluppo della meccanizzazione del settore agricolo, fu uno dei fattori cosiddetti di

push o espulsione, la crescente industrializzazione del nord fu uno dei principali fattori

di pull o attrazione. Il modello di sviluppo fordista-taylorista, che non richiedeva esperienze pregresse nel settore industriale, garantiva la possibilità di occupare su vasta scala operai non specializzati che si adattassero però ai ritmi imposti dal lavoro in fabbrica. In questo senso la forza lavoro Meridionale, giovane e ben disposta al lavoro, fornì un bacino di manodopera essenziale per lo sviluppo dell’industria italiana, andando a sostituire spesso e volentieri alcuni segmenti della manodopera locale (Pugliese, 2006). Il flusso più consistente si diresse infatti verso il triangolo industriale di Torino, Milano e Genova. Anche altre zone più periferiche furono interessate dai flussi migratori, seppur di minore entità, ma che contribuirono allo sviluppo di certi segmenti del paese più in ombra rispetto alle grandi città e ai grandi comparti industriali nel Nord Italia, la cosiddetta “Terza Italia”.

Sul finire degli anni Sessanta le migrazioni interne ripreso vigore, interessando in particolare giovani e con maggiori livelli di scolarizzazione (Gallo, 2012). Fu l’ultimo atto della Grande Migrazione iniziata negli anni Cinquanta. Il declino del modello fordista, il ridimensionamento del ruolo della grande industria a partire dalla fine degli anni Settanta e lo sviluppo di un modello di industria più piccola e diffusa caratterizzata dalle imprese a gestione familiare, furono uno dei motivi che

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maggiormente contribuì al calo delle partenze. Si andava sviluppando un modello economico e di impresa diffusa, soprattutto nel Centro Italia e nel Nord-Est, a scapito delle tradizionali zone di immigrazione del Triangolo Industriale.

Tra il 1976 e il 1995 l’occupazione operaia nel settore industriale subirà un calo di circa un milione di unità (Pugliese, 2006). Il 1980 rappresenta uno snodo fondamentale per l’industria italiana, che attraversava un periodo di forte ristrutturazione che portò alla cassa integrazione per migliaia di operai. Il modello di occupazione stabile e a tempo pieno non è più quello prevalente, mentre si sviluppano forme di lavoro part-time o temporanee (Pugliese, 2006). Il fatto stesso che il lavoro non sia più legato ad una occupazione stabile fa sì che anche i flussi siano provvisori e sfuggano alle rilevazioni anagrafiche, non dando una reale impressione della portata del fenomeno. Negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta le partenze si mantengono sempre sotto le 100.000 unità, e anche i ritorni verso il Meridione si mantengono piuttosto stabili, caratterizzati soprattutto da lavoratori anziani che hanno esaurito la loro esperienza migratoria (Pugliese, 2006). Inoltre, preso atto dei divari sempre maggiori tra il Sud e il Nord del paese, lo Stato cercò di intervenire con strumenti volti ad ampliare e aiutare il mercato del lavoro meridionale nella transizione da una società prevalentemente agricola ad una moderna e industriale:

Tra il 1970 e il 1989 nel Mezzogiorno vengono creati circa 600.000 nuovi posti di lavoro pubblico, meno in valore assoluto rispetto a quelli creati nel Centro-Nord e non molti di più se si rapportano alla popolazione: ciò che fa davvero impressione è il rapporto con il totale dei nuovi posti creati. Al Sud i posti di lavoro pubblico rappresentano il 64% mentre nel Centro-Nord solo il 38%. (Berti, 2008: 23)

Si andava però sviluppando l’idea di un presunto immobilismo dei giovani meridionali, adagiati sull’ipotetico ammortizzatore sociale rappresentato dalle famiglie, che garantivano ai giovani di non doversi assumere la responsabilità di un nuovo percorso migratorio (Pugliese, 2006). Negli anni Ottanta i flussi migratori continuarono comunque, ma in proporzioni decisamente minori e interessando perlopiù ceti professionali e intellettuali attratti dall’ampio ventaglio di occasioni offerto dal mercato del lavoro del Centro-Nord o giovani con alti tassi di scolarizzazione. È proprio negli anni Ottanta che si inizia a parlare di emigrazione dei

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cervelli (Sestito, 1991 in Piras, 2005), intesa come la partecipazione di persone con elevati livelli di scolarizzazione o di professionalità al mercato del lavoro italiano e internazionale.

Nel corso degli anni Ottanta, mentre l’industria del Nord riprendeva a crescere, nuovi segni di divario si profilavano tra le due grandi aree del paese. Nel 1987 la disoccupazione meridionale superava il 50% della disoccupazione nazionale. I cambiamenti economici internazionali di fine secolo lasciarono comunque degli strascichi importanti sull’economia del Sud, gettando i semi per la ripresa dei flussi migratori che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni. Il Meridione affrontò un periodo di sostanziale immobilismo, facendo registrare tra il 1991 e il 1996 la performance peggiore d’Europa, mentre il Nord, seppur in misura minore rispetto agli anni del boom economico, continuava a crescere contribuendo ad allargare la forbice fra le due aree del paese. Il Sud resta al palo, cresce la disoccupazione si perdono posti di lavoro in maniera consistente, con la disoccupazione al 23% nel 1998 (Berti e Zanotelli, 2008).

1.4 Dagli anni Novanta a oggi: la ripresa dei flussi

Il calo dei flussi migratori fra Sud e Nord negli anni Ottanta nonostante l’aumento dei differenziali nei tassi di disoccupazione e del divario dei mercati del lavoro fra le due macro-aree del paese diede vita al cosiddetto rompicapo empirico o empirical puzzle (Faini et al., 1997). È proprio a partire dalla metà degli anni Novanta che i flussi migratori interni hanno conosciuto un rinnovato vigore, anche se non in maniera tanto consistente quanto negli anni del grande esodo del dopoguerra. Si stima che nel ventennio tra il 1990 e il 2009 i trasferimenti di residenza tra Sud e Nord siano stati 2.385.000, con una punta massima nel 2000 di 147mila unità (Zurru, 2016a), contro i 3.700.000 avvenuti nel ventennio tra il 1955 e il 1975 (Gallo, 2012).

La ripresa dei flussi migratori ha dunque degli effetti sia sulle aree di partenza che di quelle di arrivo, contribuendo in particolare a spopolare le aree più arretrate del Sud, nonostante gli alti tassi di natalità:

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Tuttavia le partenze non riguardano solamente le zone rurali, come in una riproposizione del processo di abbandono delle campagne degli anni ’60, ma sempre più le aree urbane, le periferie degradate, i sobborghi delle grandi città del Sud. (Berti, 2008: 26)

Per quanto la componente degli spostamenti da Sud a Nord rappresenti ancora un carattere strutturale dei flussi migratori interni, la prevalenza negli ultimi anni è appannaggio degli spostamenti di corto e medio raggio, fra comuni, province o regioni limitrofe. Anche la composizione dei flussi è cambiata, non più legata alle dinamiche degli anni Cinquanta e Sessanta dell’esodo dalle campagne verso le fabbriche del Nord, composti prevalentemente da popolazione rurale con bassi livelli di istruzione e formazione professionale, ma composti invece da una larga parte di giovani con elevata scolarizzazione che cercano altrove la possibilità di far valere il proprio titolo di studio (Berti e Zanotelli, 2008). I valori medi di trasferimenti dei laureati si attestavano intorno a 7% nel 1996, passando poi ad una media del 12% fra il 2002 e il 2007 (Gallo, 2012), e come evidenzia Panichella:

Se si prendono in considerazione entrambi i momenti di mobilità, ovvero sia quella per studio sia quello post-lauream, si perviene al risultato che più della metà (52,8%) dei laureati meridionali si è spostata almeno una volta dalla zona di origine: la categoria dei mobili antelauream non tornati comprende il 38,3% dei laureati meridionali, mentre quella dei mobili ante-lauream tornati il 6,7% e infine quella dei mobili post-lauream il 7,8%. Questo dato confuta l’opinione comune che vuole i giovani italiani poco mobili, poiché la mobilità territoriale cambia radicalmente in base alla zona geografica presa in considerazione: da un lato si hanno i laureati delle regioni settentrionali, la cui mobilità è rara e si limita esclusivamente alla stessa ripartizione geografica; dall’altro, più della metà dei laureati del Mezzogiorno si è trasferita almeno una volta nelle regioni del Centro-Nord (Panichella, 2009: 233).

D’Antone e Miotti (2016), riportando i dati SVIMEZ, sostengono che i laureati siano oggi la componente maggiormente in crescita. Nel 2001 ne emigrano dal Mezzogiorno 13.000 (11% del totale), nel 2013 sono invece 30.000, cioè un quarto del totale. Nel decennio tra il 2002 e il 2013 ad emigrare sono oltre 252.000 laureati su circa 1.441.000 emigrati dal Mezzogiorno.

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Il modello di riferimento non è più quello dell’operaio impiegato nella fabbrica fordista, ma piuttosto del lavoro precario e a tempo determinato, su cui si fonda un progetto migratorio concepito come un’esperienza di breve durata, condizionato dalle scadenze delle nuove tipologie di contratto. Questo nuovo carattere delle migrazioni ne rende difficile persino la tracciabilità, poiché sono appunto precarie per natura, e spesso non lasciano traccia nel cambio di residenza o nel contratto di lavoro, oppure «emigrano di frequente anche nel corso dei loro studi e finiscono per essere precariamente impiegati in attività a basso livello soprattutto nell’area dei servizi anche a carattere stagionale» (Pugliese, 2006: 155).

È cambiato in questo senso anche il ruolo della famiglia del migrante che rispetto alle migrazioni degli anni Cinquanta è passata da destinataria delle rimesse dei migranti a fonte di sostentamento del progetto migratorio dei giovani, caratterizzato spesso da risorse insufficienti per il sostentamento, in considerazione dell’alto costo della vita e in particolare dell’alloggio (Pugliese, 2006). Soprattutto quando l’obiettivo è quello del perseguimento di un miglioramento della posizione sociale piuttosto che di quella economica:

Molti giovani scolarizzati preferiscono comunque spostarsi inseguendo un sogno, che talvolta rimane un miraggio di mobilità sociale: si preferisce svolgere una professione che gode di un elevato riconoscimento sociale e non guadagnare molto, se non addirittura rimetterci, piuttosto che fare un lavoro che non gode di un elevato riconoscimento sociale. (Berti, 2008: 28)

L’emigrazione ha rappresentato da sempre l’esperienza che più ha contribuito alla modernizzazione del Mezzogiorno, tramite il contributo economico e sociale con cui i processi migratori hanno permesso alle regioni del Sud di emanciparsi da una storica condizione di arretratezza (Rossi Doria, 1982). Le migrazioni interne hanno contribuito da un lato all’innalzamento dei livelli di istruzione di chi restava, garantendo grazie alle rimesse l’accesso all’istruzione, e alleggerendo la pressione demografica sulle campagne hanno migliorato la condizione di chi non sceglieva di partire. Dall’altro lato hanno anche apportato dei benefici alle aree di destinazione dei flussi, e ai tanti emigranti che hanno potuto sfruttare questa occasione come modalità di mobilità e ascesa sociale (Berti e Zanotelli, 2008). Tuttavia i nuovi flussi si

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inseriscono all’interno di un contesto sociale ed economico radicalmente mutato, ed è difficile stabilire se le nuove migrazioni abbiano ancora lo stesso impulso di rinnovamento e mobilità sociale che hanno avuto nel passato, o se invece non siano una delle cause della distanza che separa ancora la realtà delle economie del Centro-Nord da quelle del Meridione. La distanza fra il Centro-Centro-Nord e il meridione resta ancora importante e rappresenta uno dei caratteri salienti del sistema economico e produttivo italiano. Il prodotto interno lordo pro capite delle regioni meridionali è sceso con il nuovo millennio al di sotto del 60% di quello del resto del Paese, segnando una forte differenza rispetto all’80% registrato a fine Ottocento, che sintetizzava il rapporto tra il PIL delle due grandi aree del Paese, quando si misero in moto i primi flussi di migrazione interna diretti dal Sud verso le altre regioni (Bonifazi, 2013).

L’aumento della disoccupazione al Nord, i bassi differenziali salariali fra le diverse ripartizioni, il costo della vita e le difficoltà legate al mercato immobiliare vengono individuate come le concause del declino dei flussi migratori interni che ha caratterizzato la fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta, e come abbiamo visto precedentemente, anche il ridimensionamento della forza attrattiva della grande industria e l’ascesa di un modello industriale su piccola scala che avrebbe rappresentato il modello prevalente negli anni a venire, caratterizzato per una maggiore flessibilità organizzativa e un livello di qualifiche da parte dei lavoratori più elevato (Piras, 2007):

Altri elementi chiamati in causa per spiegare il calo dei flussi migratori interni in quegli anni sono stati: la progressiva riduzione del divario nei livelli di reddito pro capite tra le due aree del paese; il massiccio intervento del settore pubblico, sia attraverso interventi diretti di creazione di posti di lavoro, sia tramite la concessione di trasferimenti di varia natura, nonché la riduzione dei differenziali salariali in seguito all’abolizione delle gabbie salariali alla fine degli anni ’60; la presenza di inefficienze nel mercato del lavoro e di elevati costi di migrazione; il mismatch nei diversi mercati regionali del lavoro causato da più fattori concomitanti. (Piras, 2007: 121)

Il fenomeno va dunque osservato nella sua interezza, a partire dagli anni Cinquanta, e analizzato come un continuum storico-temporale. In questo senso la metà degli anni Novanta rappresenta uno snodo fondamentale rispetto al decennio precedente, segnando una sostanziale inversione di tendenza. Questo fenomeno va

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compreso nel consolidamento del dualismo socioeconomico territoriale che la fine dell’intervento pubblico statale non è stato in grado di invertire. I valori del saldo migratorio del Sud segnano una perdita di 47.000 unità nel 1995, arrivando a quasi 83.000 nel 2000, scendendo poi a 69 mila nel 2001 e a 63 mila nel 2002 (Bonifazi e Heins, 2005). Alla ripresa delle migrazioni tra Sud e Nord del paese si è affiancato anche un sostanziale spopolamento delle aree interne del Mezzogiorno, determinato da un ulteriore concentramento nelle aree pianeggianti di quelle stesse regioni (Pugliese, 2006). La mobilità interna appare in crescita, interrompendo la tendenza che ha caratterizzato gli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Gli spostamenti di breve raggio sono diventati un elemento fortemente caratterizzante della mobilità interna in Italia negli ultimi vent’anni. Tuttavia, questo dato evidenzia come la maggiore mobilità di breve raggio delle regioni centro-settentrionali implichi un maggiore dinamismo del tessuto economico delle regioni del Centro-Nord, mettendo in luce i divari ancora persistenti con il Mezzogiorno (Bonifazi e Heins, 2009).

La generale diminuzione dei livelli di mobilità interna al Mezzogiorno è un segnale significativo di una riduzione delle già limitate capacità attrattive della ripartizione anche sulla media e breve distanza, di un minor dinamismo complessivo della società meridionale e di un allargamento della distanza con il resto del paese. (Bonifazi e Heins, 2009: 513)

Il Mezzogiorno continua ad essere caratterizzato da forti flussi in uscita in direzione del Centro-Nord. Il fenomeno oltre a coinvolgere le fasce di popolazione più giovani, come accadeva in passato, coinvolge anche le fasce fra i 30 e i 40 anni (Berti e Zanotelli, 2008). Infatti la ripresa consistente dei flussi degli anni Novanta presenta delle caratteristiche piuttosto nuove, sia nell’orientamento dei flussi, diretti verso Nord-Est (Pugliese, 2002) che nella composizione interna degli stessi.

Tuttavia, come sottolinea Bubbico, l’enfasi posta sulle migrazioni qualificate rischia di far dimenticare il fatto che la componente maggiore dei flussi migratori da Sud a Nord sia ancora quella operaia e a bassa qualificazione (Bubbico, 2011). La ripresa dell’emigrazione dei soggetti low-skilled si incrocia appunto col dinamismo dei laureati meridionali che ha caratterizzato questi ultimi anni, mettendo in evidenza come la debolezza persistente di molte aree del Mezzogiorno abbia reso difficile l’inserimento nel mondo del lavoro anche della manodopera meno qualificata, e

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contestando la tesi di una presunta immobilità della forza lavoro meridionale dovuta alla disoccupazione volontaria o a forme di salario di riserva su cui per anni si è incentrata certa letteratura che indagava sulle cause della disoccupazione e della scarsa mobilità nel Mezzogiorno (Bubbico, 2011).

L’aumento della componente altamente qualificata nei flussi che a partire dagli anni Novanta hanno ripreso ad interessare il Paese tuttavia non trova riscontro unanime in tutta la letteratura accademica. Alcuni autori tra cui Viesti (2005), Piras (2005) e Scarlato (2007) sostengono che le migrazioni qualificate nelle proporzioni attuali rappresentino un fenomeno sostanzialmente nuovo rispetto al passato, e come afferma Piras «negli ultimi vent’anni del secolo scorso il Mezzogiorno ha sofferto di una vera e propria emorragia di risorse umane qualificate che hanno abbandonato le loro regioni di residenza per trasferirsi nel resto del mondo» (Piras 2005: 160).

Mentre altri come Laganà e Violante (2011) mettono in evidenza come questi flussi siano sempre esistiti e rappresentino una costante dei flussi migratori interni in Italia, sostenendo come i soggetti maggiormente qualificati abbiano una maggiore propensione a migrare. In questo senso si muove anche l’analisi di Panichella (2012) secondo cui i flussi interni sono sempre stati caratterizzati da una componente strutturale, qualificata e che è sempre emigrata, e da una componente congiunturale, scarsamente qualificata, influenzata dalle favorevoli congiunture createsi durante gli anni del boom economico, con lo sviluppo industriale delle regioni del Centro-Nord da una parte e la crisi dell’agricoltura meridionale. Anche Pugliese tuttavia sostiene che le migrazioni qualificate non rappresentino un fenomeno del tutto nuovo nel panorama delle migrazioni interne in Italia:

Quella del laureato è l’unica emigrazione che c’è sempre stata, soprattutto nell’ultimo trentennio, anche quando il saldo migratorio delle regioni del Sud appariva prossimo allo zero. Ciò che ora viene presentato come una novità è un fenomeno che si è andato consolidando da quasi mezzo secolo e che era forte e intenso anche quando tutti si chiedevano perché non si emigrava più dal Sud. (Pugliese, 2011: 22).

Inoltre, come dice lo stesso Pugliese, l’emigrazione del laureato non è tanto diversa da quella che ha caratterizzato gli anni Cinquanta e Sessanta, perché come allora si parte con l’equivalente di una valigia di cartone (Pugliese, 2011).

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A margine di questo complesso dibattito sulle migrazioni interne che ciclicamente torna ad interessare gli studiosi e la politica si inserisce anche un altro fenomeno piuttosto nuovo, legato cioè alla mobilità per studio. Questi flussi presentano delle caratteristiche piuttosto peculiari rispetto alle migrazioni classiche, infatti non prevedono ad esempio il cambio di residenza, sfuggendo quindi alle rilevazioni censuarie o anagrafiche, e sono molto spesso temporanee, cioè strettamente legate al periodo di studi. Rappresentano però un altro versante di analisi nel momento in cui queste migrazioni possono rappresentare una sorta di trampolino di lancio verso un progetto migratorio più definito e strutturato alla fine del ciclo di studi o possano anche contribuire alla mobilità sociale dei migranti (Berti e Zanotelli, 2008; Panichella, 2012). Anche questi flussi, prevalentemente orientati da Sud a Nord, possono contribuire a creare ulteriori squilibri fra il Meridione e il Centro Nord Italia, sottraendo ulteriore capitale umano alle regioni più in difficoltà, rappresentando una nuova o ulteriore forma di brain drain dalle regioni del Mezzogiorno. Questo discorso verrà ripreso più compiutamente e descritto nei tratti essenziali nel terzo capitolo, in particolare con riguardo al caso sardo nel contesto della mobilità per studio dal meridione verso il resto d’Italia.

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CAPITOLO 2

Le migrazioni interne dalla Sardegna dall’Unità ai giorni

nostri

2.1 La Sardegna nell’Ottocento

I fenomeni migratori nella Sardegna dell’Ottocento rimasero sporadici e perlopiù stagionali almeno fino all’ultimo decennio del secolo. Fino ad allora si emigrava principalmente verso il Nord Africa e la Corsica, per compiere lavori stagionali (Ortu, 1983). Il trentennio a cavallo dell’Unità d’Italia rappresentò un momento di importanti sconvolgimenti nell’assetto sociale ed economico sardo.

Uno dei nodi cruciali nella rottura degli equilibri interni della già fragile realtà socioeconomica sarda, che portò alla nascita di importanti flussi migratori tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, fu l’imposizione del “Regio editto sopra le chiudende” del 1820, che autorizzava i privati a chiudere i terreni di cui fosse certa la proprietà, eccetto quelli gravati da servitù di qualsiasi genere. Questo editto fu voluto dal governo regio per cercare di modernizzare l’arretrato sistema agricolo e pastorale sardo, caratterizzato da forme di proprietà comunitarie. L’editto del 1820 contribuì alla lacerazione del tessuto sociale sardo, ingenerando forme di opposizione sia tra contadini e pastori, che tra gli abitanti e le autorità sabaude, in particolare nelle zone dell’interno (Ortu, 1983).

Nel 1865 l’abolizione degli ademprivi, cioè i diritti di pascolo, pesca, caccia, legnatico e acqua, rappresentò un ulteriore elemento di rottura del sistema socio-economico sardo, poiché garantiva da secoli la sopravvivenza delle fasce di popolazione più povere (Ortu, 1983). La politica fiscale del governo e i tentativi di rivoluzionare il sistema agro-pastorale sardo non giovarono all’economia della Sardegna, ma contribuirono invece alla frammentazione di quei precari equilibri che persistevano da secoli. La costante di questi tentativi di modernizzazione dell’isola, che caratterizzeranno anche i decenni successivi, è rappresentata dal fatto che tutte queste scelte fossero calate dall’esterno:

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Nel momento in cui, sulle basi di una fiorente agricoltura, le regioni nord-occidentali del Regno consolidano il processo di accumulazione di capitali, che consentono l’avvio di processi produttivi di tipo industriale, l’intero sud in generale e la Sardegna in particolare non vedono mutare le condizioni di crisi produttiva e la causa dei sistemi con i quali vengono applicati, perpetuano ed anzi aggravano le caratteristiche arcaiche; mentre l’adozione di strumenti di prelievo fiscale adeguati alle condizioni delle regioni più floride si rivelano, ancora nell’Isola atti di rapina e di vessazione degli strati di popolazione più poveri, quali i braccianti, i piccoli proprietari ed i pastori. (Ortu, 1983: 24)

Gli ultimi vent’anni dell’Ottocento furono particolarmente duri per l’economia dell’isola. Uno degli ultimi atti che sancì definitivamente l’inizio di una profonda crisi, soprattutto nel settore agropastorale, fu la denuncia nel 1887 del trattato commerciale tra la Francia e l’Italia del 1863 e l’avvio in quegli anni di una politica di protezionismo doganale del Regno d’Italia, volta sostanzialmente a proteggere i capitali del Nord Italia dalla concorrenza estera. La Francia rappresentava in quel momento uno dei principali sbocchi per la produzione sarda, sia di formaggi che di pelli, sughero e minerali (Ortu, 1983). L’interscambio con il mercato francese ammontava a 731 milioni nel 1887, precipitando poi a 300 milioni tra il 1891 e il 1894. Sempre nel 1887 una profonda crisi colpì il settore bancario sardo. Non ultimo, l’invasione della filossera nel 1883 diede un duro colpo alla produzione vitivinicola sarda (G.G. Ortu, 1998).

L’emigrazione, che fino alla metà del secolo fu osteggiata dalla monarchia e che fino ad allora aveva presentato caratteri di sporadicità, iniziò a rappresentare alla fine del secolo una delle poche alternative per i sardi, ritardando ancor più la crescita demografica dell’isola e caratterizzandosi come un fenomeno endemico. Non era quindi l’eccedenza della popolazione la causa delle migrazioni, ma piuttosto le cause economiche, anche in una situazione di sotto popolamento.

Commercianti romani e napoletani, attratti dal basso prezzo del latte sardo, impiantarono caseifici in Sardegna, sconvolgendo le forme tradizionali di produzione e importando un modello industriale del tutto nuovo. I pastori per far fronte alle richieste del mercato italiano e internazionale incrementarono il numero degli ovini fino a raddoppiarne la presenza e la superficie dedicata al pascolo, restringendo così l’area coltivata e causando l’espulsione di braccianti e contadini dalla terra, mentre i

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canoni di affitto salivano alle stelle, insieme al costo della vita (Ortu, 1983). Ma immediatamente anche quei mercati si saturarono, i prezzi alti limitarono i guadagni al minimo e il prodotto non riuscì a trovare sbocchi sul mercato. L’apertura verso il mercato americano nei primi anni del Novecento rappresentò solo una breve parentesi, cui seguirà poi lo scoppio di rivolte popolari in diversi centri dell’isola. Contestualmente anche il settore minerario alla fine del secolo entrò in crisi.

Le condizioni di vita in Sardegna tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento erano caratterizzate da estrema miseria e povertà. La speranza di vita alla nascita era di 31,6 anni al censimento del 1871, simile ai livelli delle altre regioni del Mezzogiorno, ma decisamente più bassa rispetto alla media italiana e alle regioni del Centro-Nord (Felice, 2007). Vent’anni più tardi, nel 1891, la speranza di vita in Sardegna raggiunse i 37,6 anni, superando il resto del Mezzogiorno rimanendo però notevolmente al di sotto della media nazionale; anche il numero di persone alfabetizzate aumentò, rimanendo sempre una delle percentuali più alte fra le regioni del Mezzogiorno, ma ben al di sotto della media nazionale (Felice, 2007). Su queste basi iniziarono a prendere forma i primi flussi migratori rivolti sia verso le altre regioni italiane che verso l’estero, e che avrebbero caratterizzato lo sviluppo demografico della Sardegna per gli anni a venire.

2.2 L’emigrazione sarda tra l’Unità e le due guerre

L’emigrazione sarda ha sempre avuto dei caratteri peculiari che l’hanno resa e tuttora la rendono diversa dal resto delle regioni meridionali e italiane in generale. In primo luogo il ritardo nel suo inizio e la minore intensità sono due degli aspetti peculiari di questo fenomeno. Questo ritardo può essere ascritto alla persistenza di elementi culturali che hanno condizionato la coscienza dei bisogni individuali e collettivi. In particolare la condizione di spopolamento dell’isola e l’isolamento forzato di molti centri, dovuta alla scarsità di infrastrutture di collegamento, possono essere alla base del tardivo avvio dei processi migratori (Gentileschi, 1995a). Gentileschi riprendendo la Teoria della transizione demografica2 (Zelinsky, 1971) affronta le dinamiche

2 La Teoria della transizione demografica, elaborata agli inizi del Novecento, è un modello

spazio-temporale utilizzato dai demografi per spiegare il passaggio da una popolazione che ha tassi di natalità e mortalità elevati a una popolazione con tassi di natalità e mortalità bassi.

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migratorie della Sardegna partendo proprio dall’analisi degli aspetti demografici e socio-economici dell’isola. La Sardegna ha attraversato con un certo ritardo, tipico dello sviluppo dell’isola, le diverse fasi dell’evoluzione demografica. Fino ai primi anni del Novecento l’isola si trovava ancora nella sua fase industriale o

pre-moderna, caratterizzata da un lento incremento naturale dovuto agli alti tassi di natalità

e agli altrettanto alti tassi di mortalità, e contrassegnata da una bassissima propensione agli spostamenti. Solo nei primi anni del Novecento si compie il passaggio alla fase di

transizione, contrassegnata da un sensibile abbassamento della mortalità e da una

persistente alta natalità, per cui si creano le condizioni per una rapida crescita della popolazione e per uno sviluppo della mobilità territoriale. Segue la fase

post-transizionale o moderna caratterizzata da un tasso di mortalità stazionario e da bassi

livelli di natalità, con una conseguente limitazione della crescita demografica ed un affievolimento dei livelli di emigrazione, in cui prendono piede forme di mobilità territoriale tipiche delle società industrializzate (Gentileschi, 1995a). La Sardegna è arrivata a questo stadio con ampio ritardo rispetto al resto d’Italia. Nella seconda metà dell’Ottocento la Sardegna era interessata da forti correnti immigratorie, soprattutto da parte di persone attive nel settore del commercio e dell’industria mineraria provenienti da diverse parti d’Italia. L’industria mineraria arrivò ad occupare 16.000 addetti nel 1906, ma l’eccedenza di manodopera contribuiva a tenere i salari bassi e l’aumento del costo della vita ne sviliva il potere d’acquisto (Gentileschi, 1995b). La crescita demografica e le condizioni dell’economia nei primi anni del Novecento favorirono lo sviluppo del fenomeno migratorio sardo. Fino ad allora infatti l’emigrazione aveva rappresentato un fenomeno piuttosto marginale. Come nota Crespi infatti «l’emigrazione ha rappresentato per l’isola un fenomeno di scarso rilievo fino all’ultimo decennio del secolo scorso: di fatto essa è cominciata nel 1895.» (Crespi, 1963: 186) Il riferimento è però al movimento migratorio verso l’estero, che in quegli anni era ancora piuttosto ridotto. Mentre per quanto riguarda il movimento migratorio verso la penisola, già nel censimento del 1881 i sardi interessati da questi flussi consistevano in 15.817, diventati poi 17.135 nel 1901, 20.135 nel 1911 e 24.812 nel 1921 (Mori, 1934 in Rudas, 1974), rappresentando un fenomeno di non poco conto se paragonato agli espatri. Le regioni maggiormente interessate furono la Liguria, il Piemonte, il Lazio, la Toscana, ma anche la Campania e la Sicilia, geograficamente e

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marittimamente più unite all’isola (Rudas, 1974). Secondo Golini invece nel 1921 i nati in Sardegna ma residenti in altre regioni italiane erano 43.068, diventati poi 60.629 nel censimento successivo del 1931 (Golini, 1974). Una quota rilevante di questi movimenti interessava anche alcune regioni del Mezzogiorno come Campania, Puglia e la Sicilia. Ma le direttrici più importanti si sono orientate sempre verso le regioni del Centro e del Nord, principalmente il Lazio, prima regione fino al censimento del 1971, Piemonte, Lombardia, Liguria e Toscana (Golini, 1974). Solo verso il finire del XIX secolo l’emigrazione verso l’estero sopravanzò all’immigrazione, evidenziando anche in questo caso un’altra peculiarità dell’emigrazione sarda che soprattutto nei periodi delle grandi migrazioni tra la fine del XX secolo e le due guerre mondiali si è prevalentemente orientata verso l’Europa e il bacino mediterraneo piuttosto che verso le mete transoceaniche. Dal 1876 al 1942 il 64% degli espatri sardi si sono diretti verso l’Europa e il bacino Mediterraneo, mentre ben l’89% degli espatriati meridionali si sono dirette verso paesi transoceanici(Zurru e Puggioni, 2017).

Nel periodo che va dal 1876 al 1942 migrarono verso l’estero 133.425 sardi, di cui ben il 55% concentrato nel periodo tra il 1906 e il 1914 (Zurru e Puggioni, 2017). L’esplosione dei flussi migratori a partire dalla fine dell’Ottocento rappresentava la risposta ad una situazione economica e sociale ormai insostenibile. Se per molti sardi ormai l’emigrazione era l’unica alternativa percorribile, questo fenomeno non faceva che aggravare la situazione di prostrazione economica e sociale dell’isola, che si impoveriva e si andava desertificando sempre più (Rudas, 1974). Pais-Serra nella

Relazione d’inchiesta sulle condizioni economiche e della pubblica sicurezza in Sardegna del 1896 mette in evidenza come il fenomeno migratorio sardo rappresenti

un vero e proprio danno per l’Isola:

La più terribile prova della miseria in Sardegna, perché è indizio che comincia a mancare in modo assoluto il mezzo di vivere comunque, anche con stento! Perché il sardo, e specialmente il contadino, non abbandonerebbe mai l’isola, sol se potesse con un cibo qualsiasi e con il più faticoso lavoro, sfamarsi (Pais-Serra, 1896 in Rudas, 1974).

Tuttavia i movimenti migratori interni, sia per le proporzioni che per la concezione marginale che di essi avevano gli studiosi, non hanno rappresentato un oggetto di forte attenzione nelle ricerche storiche e demografiche, se non a partire dagli

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anni Cinquanta, quando l’esodo di massa dal Mezzogiorno e dalla Sardegna verso il Centro-Nord ha interessato migliaia di persone. Durante il periodo fascista sia i movimenti migratori verso altre regioni italiane che verso l’estero furono piuttosto limitati, e anzi, proprio la Sardegna fu destinataria di quei progetti di colonizzazione interna voluti dal regime a seguito delle imponenti opere di bonifica o di costruzione di nuovi insediamenti abitativi, come nel caso di Arborea e Carbonia. Sarà solo nel secondo dopoguerra che i flussi conobbero una intensità mai vista prima, tanto da essere chiamati “nuova” emigrazione, per via della portata assolutamente rivoluzionaria.

2.3 La Sardegna nel secondo dopoguerra

La Sardegna del secondo dopoguerra si presenta come una società ancora fragile, caratterizzata da spopolamento, povertà, malattie e isolamento, «solo marginalmente toccata da quei processi di sviluppo e modernizzazione che già avevano interessato altre aree italiane ed europee» (Bottazzi, 1999: 11). Tuttavia la Sardegna non viveva una situazione peggiore di altre regioni del Mezzogiorno e del Centro-Nord. La metà della popolazione sarda era impegnata in agricoltura, l’attività industriale era concentrata nell’area del Sulcis-Iglesiente e interessava prevalentemente il comporto estrattivo, mentre il settore terziario riguardava per metà la Pubblica Amministrazione e per un terzo il commercio. La popolazione era prevalentemente distribuita nelle aree rurali e i centri con caratteristiche urbane erano pochi (Bottazzi, 1999). Due eventi importanti caratterizzarono lo sviluppo della Sardegna nel secondo dopoguerra, l’attuazione della legge stralcio di riforma agraria del 1951 e il piano di rinascita del 1962 (Cadoni, 1983). Agli inizi degli anni Cinquanta la Sardegna era la regione meno coltivata e più disboscata d’Italia, anche se il prodotto lordo del settore primario era comunque superiore sia a quello industriale che a quello dei servizi, considerato però che i sei decimi di questo prodotto erano generati dall’allevamento (Ruju, 1998). Il settore primario impiegava il 51% del totale della popolazione attiva in Sardegna, ma era composto in maniera piuttosto eterogenea. Il 47% del totale degli addetti al settore primario risultava infatti essere un dipendente, rappresentando il 15% in più rispetto al dato medio nazionale (Ruju, 1998). La sconfitta della malaria nell’immediato dopoguerra rappresentò un intervento di

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straordinaria importanza, consentì un enorme abbassamento dei livelli di mortalità e eliminò una delle cause storiche dell’arretratezza dell’isola. La riforma agraria del 1951 fu la risposta alle azioni di lotta delle masse bracciantili e dei contadini poveri nell’immediato dopoguerra in tutta Italia. In Sardegna venne costituito l’ETFAS (Ente per la trasformazione agraria della Sardegna), e si distribuirono migliaia di ettari di terra contribuendo alla modernizzazione del quadro economico e sociale dell’agricoltura isolana. Gli esiti della riforma agraria non furono tuttavia del tutto positivi, anche perché il settore agricolo avrebbe conosciuto proprio in quel periodo un calo generalizzato degli addetti, diretti verso le industrie, e che avrebbe coinvolto tutta la penisola. Su queste basi si mise in moto quel processo rivoluzionario che ha trasformato tanto rapidamente e in profondità la Sardegna nelle sue strutture economiche e sociali.

Il passaggio da una società prevalentemente agricola ad una società industriale e da questa ad una società terziaria è stato il paradigma prevalente nei modelli di sviluppo delle società occidentali (Bottazzi, 1999). La Sardegna ha affrontato questo processo di transizione in maniera particolarmente veloce, passando dall’oltre il 50% di addetti in agricoltura nel 1950 a poco più del 10% in trent’anni. Lo stesso processo di transizione ha richiesto non meno di sessant’anni nelle regioni del Centro-Nord. Inoltre il settore industriale non ha mai avuto un numero di addetti considerevolmente superiore alla quota del terziario, a differenza di quanto avvenuto nelle regioni del Centro-Nord. L’esodo agricolo sembrerebbe dunque essere stato assorbito dal settore terziario, saltando quel processo di industrializzazione che ha caratterizzato le regioni europee oggi più avanzate (Bottazzi, 1999) e facendo sì che «la Sardegna sia diventata post-industriale senza mai essere stata compiutamente industriale» (Bottazzi, 1999: 29). Tuttavia anche le altre regioni del Mezzogiorno e gran parte delle regioni del Sud Europa hanno affrontato dinamiche simili a quelle della Sardegna (Bottazzi, 1999). La storia dell’industria sarda è stata segnata da due modelli di sviluppo industriale diversi per origine e dinamiche. Il settore estrattivo è sempre stato quello prevalente nell’industria sarda, perlomeno fino agli anni Sessanta del Novecento, pur interessando quasi esclusivamente una parte ridotta dell’isola, cioè quella del Sulcis-Iglesiente. In questo settore erano occupati anche lavoratori provenienti da altre regioni italiane, in particolare piemontesi, bergamaschi e toscani. Questo settore che ha sempre

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