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CAPITOLO 2 Le migrazioni interne dalla Sardegna dall’Unità ai giorni nostri

2.4 Le migrazioni dal dopoguerra agli anni Novanta

Nel periodo di massima espansione dei movimenti migratori in l’Italia, cioè a partire dalla metà degli anni Cinquanta e fino al 2014, si stima che i movimenti migratori abbiano interessato circa 800.000 sardi. Di questi movimenti solo il 25% si è diretto verso l’estero, di cui il 93% in Europa, principalmente in Germania, Belgio, Francia e Svizzera (Zurru e Puggioni, 2017).

Per quanto riguarda il periodo che va dal 1958 al 2014 l’emigrazione sarda può essere distinta in 4 distinte fasi (Zurru e Puggioni, 2017: 14):

1 la prima, rappresentata da minatori provenienti dai centri minerari del Sulcis-

Iglesiente;

2 la seconda, di origine contadina e, almeno nella fase iniziale, proveniente dai

comuni rurali delle regioni centro-occidentali;

3 la terza, di tipo pastorale e proveniente dalle zone interne;

Le prima tre fasi hanno interessato in particolar modo il trentennio che va dal 1950 al 1980. Nel 1951, dunque prima dell’inizio dell’esodo di massa di fine anni Cinquanta, i nati in Sardegna e residenti in altre regioni italiane ammontavano a 78 mila unità, dieci anni dopo erano raddoppiate, contando 142 mila unità, diventando 245 mila nel decennio della “rinascita” al censimento del 1971 (Pracchi e Terrosu Asole, 1989). La Rudas invece stima i movimenti verso altre regioni italiane nel periodo 1955-1971 in 307.759 unità, a cui si aggiungono ulteriori 60 mila unità stimate nel triennio 1951- 1954. Alle migrazioni interne vanno poi a sommarsi i 93 mila sardi emigrati all’estero, principalmente verso altri paesi europei (Rudas, 1974). La crisi del bacino carbonifero e l’esodo dalle campagna furono due dei momenti caratterizzanti del fenomeno migratorio sardo nel dopoguerra. L’attesa e i tempi lunghi sulle prospettive della rinascita sarda generarono un sentimento di sconforto nella popolazione, come posto in risalto da Lussu:

La fiducia nel Piano è andata via via decadendo nella vana attesa e in gran parte del popolo sardo ha finito per consumarsi. Centomila giovani all’incirca, certamente di più, i migliori, i più istruiti, i più preparati, molti già specializzati, hanno disertato città e campagne e hanno cercato fuori dall’Isola il lavoro che non avevano trovato nella propria terra. Il punto di partenza del Piano è questo: la Sardegna si sta spopolando. Per cui questo è il problema che si pone: come arginare questa emigrazione di natura patologica e come gradatamente richiamare gli emigrati ed inserirli nella nostra rinascita? (Lussu, 1963 in Ruju, 1998)

Il primo periodo dunque, a metà degli anni Cinquanta, interessa in particolare le zone del Sud-Ovest della Sardegna, cioè le zone dei bacini minerari e carboniferi. Le mete privilegiate del primo periodo migratorio furono quelle di Roma e delle regioni industrializzate del Nord Italia, tra cui Piemonte, Lombardia e Liguria. Queste stesse mete interessarono anche i flussi che caratterizzarono la seconda fase migratoria, cioè quella legata agli spostamenti provenienti dalla zona Centro-Occidentale e dal mondo agricolo. Nel 1964 quasi il 74% dei comuni registra un calo della popolazione residente rispetto a quella censita nel 1961. Le zone di fuga che prima avevano interessato le zone minerarie del Sulcis-Iglesiente, ora interessano quasi tutto il contesto rurale, specie le zone contadine, e arrivando già ad interessare le aree pastorali (Rudas, 1974). Allo spopolamento delle aree interne, si contrappone tuttavia un addensamento, non compensatorio, in poli di sviluppo demografico, situati

prevalentemente in corrispondenza dei nuclei urbani e proto-industriali dell’isola. I flussi verso l’esterno in questa fase si diressero principalmente nelle città capoluogo di regione e di provincia o si distribuivano nei centri industriali del circondario (Rudas, 1974). Torino, Genova, Milano e Roma attrassero i flussi più importanti. In particolare verso Roma si orientò circa l’82% dell’emigrazione sarda verso il Lazio nel periodo compreso tra il 1955 e il 1967 (Rudas, 1974). I flussi erano composti in origine da operai qualificati, come i minatori espulsi dai bacini estrattivi a causa della crisi del settore, e successivamente da braccianti agricoli, contadini, piccoli artigiani, manovali (Rudas, 1974). Questo fenomeno è reso abbastanza chiaramente dal calo degli addetti nel settore agricolo e pastorale, che dai 221 mila del 1951 a 166 mila nel 1961 fino a ridursi a 91 mila nel decennio successivo (Rudas, 1974). Una ulteriore componente importante di questi flussi si diresse poi verso la Liguria e verso le aree della Maremma e della bassa Toscana, caratterizzando la terza fase dell’esodo migratorio dalla Sardegna, composto in prevalenza da pastori provenienti dalle aree interne, incidendo profondamente sia sul piano economico che su quello demografico delle aree di provenienza (Zurru e Puggioni, 2017). I pastori sardi subentrarono perlopiù ai mezzadri e ai contadini delle aree di arrivo, lì dove vi erano ampie zone da dedicare al pascolo, determinando una «migrazione familiare a carattere permanente e definitivo, connessa ad un trasferimento di impresa» (Furati, 1973: 8) I pastori infatti oltre che portare con sé la propria famiglia, partivano anche con le greggi al seguito. L’emigrazione pastorale ha mostrato ottime capacità di espansione e di adattamento ai nuovi ambienti. Difatti questo fenomeno ha interessato sia la zona di Civitavecchia che la Maremma toscolaziale, fino ad arrivare e consolidarsi nel Senese (Rudas, 1974). Le migrazioni dei pastori sardi in Toscana hanno seguito l’esodo dei mezzadri locali; infatti negli anni Cinquanta quando sono iniziati i flussi meridionali prima e sardi poi, la Toscana presentava il più alto indice de deruralizzazione (Meloni, 1995). Infatti il fenomeno migratorio si orientò in quelle aree dove era più diffusa la mezzadria, come Firenze, Arezzo, Pisa, Livorno e in particolare Siena (Meloni, 1995). Questo tipo di emigrazione ha comunque garantito la conservazione e il riuso di quelle aree abbandonate dai mezzadri, pur con formule e attività per certi versi innovative, dando vita ad un modello di integrazione positivo e stabile nel tempo.

Gli emigrati oltre che caratterizzarsi per la giovane età e per una forte componente femminile, si caratterizzavano per il basso titolo di studio. Dalle analisi della Rudas per il triennio 1964-1967 emerge come il 77% della popolazione sarda emigrata rientrasse nella fascia di scolarità elementare, e solo il 7% avesse un titolo di diploma o di laurea (Rudas, 1974). Tuttavia il confronto operato tra gli emigrati e la popolazione residente di età superiore ai 6 anni mette in evidenza come i gruppi di emigrati presentino livelli di scolarizzazione più alti, avvalorando l’ipotesi che l’emigrazione dal sud e dalle isole mobiliti soggetti mediamente più istruiti rispetto ai gruppi dei territori di provenienza (Rudas, 1974). Lo studio mette comunque in evidenza come il tasso di scolarizzazione sia comunque modesto, principalmente di livello elementare, e comunque generalmente più basso dei livelli delle aree di destinazione (Rudas, 1974). Secondo la Rudas l’alta partecipazione di donne e giovani da lato esprime la presa di coscienza dei problemi della realtà sociale in cui vivono, e conseguentemente la modificazione del proprio status in connessione col rapido mutamento della società, dall’altro lato insiste sul fatto che pur intrecciandosi fattori culturali e psicosociali che integrerebbero lo stimolo economico, quest’ultimo rimanga sempre l’aspetto caratterizzante della scelta migratoria, legato agli squilibri e sperequazioni territoriali e sociali (Rudas, 1974). Le condizioni di sottosviluppo dell’isola sarebbero dunque la matrice di questi fenomeni:

Deve, infatti, essere riconosciuto nella situazione di base del migrante un bisogno “aperto”. E anche se tale bisogno non è necessariamente riconducibile a una pura spinta economica, ma può essere più o meno colorito e integrato da motivazioni psico-sociali e culturali, resta tuttavia il fatto che, a monte di tali motivazioni e nel quadro entro cui esse si collocano, vi è una condizione generale di arretratezza e di insufficienza dei contesti di partenza, che non permette il soddisfacimento del bisogno stesso, non consentendo, in ultima analisi, al migrante di autorealizzarsi nel suo luogo di origine (Rudas, 1974: 71).

L’emigrazione sarda, in particolare dal secondo dopoguerra, si configura perciò come un fenomeno particolarmente negativo, in quanto si sovrappone ad una struttura dinamica e insediativa già carente ed alterata (Rudas, 1974). In questo senso l’emigrazione è stata letta storicamente come uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo dell’isola, perpetuando una situazione di cronico spopolamento e isolamento di certe aree, in particolare quelle interne.