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CAPITOLO 3 La mobilità studentesca interregionale in Italia

3.7 Il ruolo del sistema universitario italiano

Un sistema universitario di qualità svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo culturale, economico e sociale di una regione o di un paese. Una Università di qualità opera sul territorio rafforzando il livello culturale delle comunità, disegna le geometrie delle città, le popola e ne alimenta gli spazi di cultura, può rappresentare un key driver per lo sviluppo, attirando talenti e collaborando attivamente col tessuto economico e culturale del territorio. Allo stesso modo, l’Università può contribuire alla

desertificazione dei territori, affossarne la crescita economica (Manfredi e Asprone, 2017).

Il sistema universitario italiano intanto in questi anni ha subito importanti tagli al finanziamento statale ordinario e le entrate complessive degli Atenei italiani sono state ridotte del 20% circa a partire dal 2008 mentre il personale docente si è ridotto del 15% (Manfredi e Asprone, 2017). Fra il 2008 e il 2015 il numero dei docenti è calato del 7% nelle Università del Nord, del 22% in quelle del Centro e del 18% in quelle del Sud (Viesti, 2017). Ciò ha avuto degli effetti negativi sulla qualità e quantità dell’offerta formativa. L’offerta di corsi disponibili nel Mezzogiorno si è ulteriormente ridotta rispetto al resto del paese, pur essendo già inferiore. Nel 2007-2008 al Sud solo il 78% degli studenti aveva un’offerta formativa in almeno otto aree disciplinari a un’ora di distanza dalla propria residenza, contro il 94% degli studenti del Centro- Nord(Viesti, 2017). Come evidenziato da Viesti (2016), a partire dal 2007 l’offerta formativa si è ulteriormente contratta, e fino al 2015 il numero dei corsi universitari è sceso da 5557 a 4238, segnando un -23,7%. Il calo è stato più marcato nel Centro Italia e nelle Isole, e soprattutto nell’area sociale e umanistica. In misura maggiore sono diminuiti i corsi di laurea triennale rispetto ai corsi di laurea Magistrale. È interessante notare anche la distribuzione territoriale dell’offerta formativa, con una spiccata specializzazione degli Atenei del Centro-Nord, per cui al Nord ci sono 107 corsi magistrali per 100 triennali, 112 al Centro, 94 al Sud e solo 85 nelle Isole. Questo si ripercuote anche sul numero di immatricolati ai corsi di laurea magistrale negli Atenei del Centro-Nord da parte di studenti residenti nel Mezzogiorno. Stando ai dati riferiti al 2010 riportati da Viesti (2016), il 13% dei laureati nel Sud continentale e il 21% nelle isole si sono iscritti a corsi magistrali in Atenei del Centro-Nord.

Inoltre, il sistema universitario italiano ha dovuto fare i conti con il forte calo delle immatricolazioni che da più di dieci anni a questa parte sta coinvolgendo tutto il paese, con particolare riguardo per le Università del meridione. La fase di forte espansione delle immatricolazioni nei primi anni duemila è dovuta in buona parte anche alla riforma dei curricula (il 3+2) introdotta in Italia a partire dal 1999 e che in parte ha compensato l’effetto del decremento demografico. Le Università riconosciute dal MIUR sono diventate 81 nel 2006 a fronte delle 55 del 1990 (Zurru, 2016a), e i comuni italiani che ospitano almeno un corso di laurea di primo o secondo livello o a

ciclo unico sono passati da 217 a 251 dal 2003 al 2006 (Affuso e Vecchione, 2012), trasformando la geografia dell’offerta formativa e modificandone anche la domanda di mobilità da parte degli studenti (Zurru, 2016a). Nel periodo successivo, conseguentemente al calo della domanda universitaria e ad una logica di contenimento dei costi, i comuni ospitanti corsi di laurea tra il 2006 e il 2010 sono passati da 251 a 222 (Affuso e Vecchione, 2012).

Come messo in evidenza da Manfredi e Asprone (2017), la spinta seguita alla riforma del sistema universitario si è esaurita nel giro di pochi anni, soprattutto nel meridione, complice il calo demografico, la minore propensione dei diplomati ad iscriversi all’Università e la mobilità tra regioni. I ventenni nel 1981 erano nel Mezzogiorno 346.000, nel 2014 si sono ridotti a 235.000 e, secondo le stime Istat si ridurranno ulteriormente da qui al 2035, diventando 188.000. Anche il Centro-Nord ha sperimentato un calo analogo, passando da 535.000 nel 1981 a 350.000 nel 2014, tuttavia le previsioni Istat indicano una ripresa, stimando che nel 2035 saranno 408.000 (D’Antone e Miotti, 2016).

Il calo demografico nella coorte dei giovani tra i 17-20 anni è stato compensato in parte dalla diminuzione degli abbandoni scolastici. Questo però non si è riverberato sul numero di immatricolazioni all’Università, a riprova del fatto che vi sia una minore propensione dei diplomati ad iscriversi all’Università, probabilmente anche a causa della crisi economica che proprio in questi anni ha colpito le famiglie italiane. Le immatricolazioni totali hanno subito un calo importante a partire dal 2002, con una contrazione del 28% al Sud. Il calo degli immatricolati è comune a tutto il Paese, tuttavia nel Mezzogiorno è ancora più marcato. Tra l’anno accademico 2003-2004 e l’anno accademico 2014-2015 il calo è stato del 20,4% su base nazionale. Solo alcuni Atenei, perlopiù localizzati nel Centro-Nord mostrano un aumento degli immatricolati, tra questi in particolare i politecnici, come quello di Torino (Cersosimo et al., 2016a). Il declino è più marcato al Sud e nelle Isole, dove il calo è stato nel primo caso del 25,5% e nel secondo del 30,2%. Il calo è stato evidente anche al Nord e al Centro, dove si è registrato un -11% nel primo caso e -23,7% nel secondo (Cersosimo et al., 2016a). Tra il 2008 e il 2014 gli studenti universitari sono calati del 9% (Viesti, 2017) e solo in questi ultimi due anni si sta vedendo una parziale inversione di tendenza. A ciò si aggiunga il fatto che il sistema universitario italiano non sembra in grado di

attrarre studenti stranieri. Nell’anno accademico 2014-2015 infatti gli immatricolati stranieri risultano essere appena 3500, appena l’1,3% del totale (Cersosimo et al., 2016a).

Anche il flusso di mobilità degli studenti dalle regioni del Sud verso gli Atenei del Centro-Nord è aumento in questi anni. I residenti al Sud che si immatricolano in Atenei del Centro-Nord è passato infatti dal 18% del 2004 al 24% del 2015 (Manfredi e Asprone, 2017), incidendo sul calo delle immatricolazioni nelle regioni del Sud e indebolendo gli Atenei meridionali a favore di quelli del Centro-Nord.

Inoltre, anche dal punto di vista dei finanziamenti economici agli Atenei, il sistema universitario italiano sta passando un periodo non facile, dovuto alla contrazione della spesa pubblica in parte già in atto e di certo incentivata dalla crisi economica che ha pesantemente investito il paese negli ultimi dieci anni. L’Italia infatti si ritrova nelle ultime posizioni tra i paesi europei per spesa in ricerca e sviluppo in rapporto al PIL, a causa anche della contenuta spesa privata (Manfredi e Asprone, 2017), attestandosi all’1% del PIL negli ultimi anni, un valore significativamente più basso rispetto a quello della media di tutti i paesi dell’OCSE (1,6%) e di quelli europei (1,4%) (Viesti, 2017). Viesti in diversi studi condotti sul sistema universitario italiano mette in evidenza come nel 2015 il finanziamento pubblico per l’Università sia stato di circa 7 miliardi di euro in Italia, contro i 28,7 miliardi della Germania e i 23,7 miliardi della Francia (Viesti, 2016; Viesti, 2017). Il finanziamento pubblico copre solo i due terzi della spesa totale dell’Università, contro una media europea del 78% e Ocse del 70%. Il restante terzo viene principalmente da soggetti privati e dalle tasse pagate dagli studenti universitari. Queste ultime costituiscono un sesto delle entrate degli Atenei, una delle quote più alte a livello europeo. Tuttavia queste cifre non sono sufficienti per garantire una buona copertura del diritto allo studio, con forti differenze tra il Nord, in cui oltre il 90% degli studenti riceve una borsa di studio contro il 50% degli idonei del Mezzogiorno (Manfredi e Asprone, 2017). Il confronto con gli altri paesi è ancora più desolante, se si tiene conto del fatto che in Italia solo l’8% degli studenti riceve una borsa di studio, contro il 25% dei tedeschi e il 35% dei francesi (Manfredi e Asprone, 2017). L’Italia ha infatti investito 228 milioni di euro per il diritto allo studio nel 2014, mentre Francia e Germania rispettivamente 2,04 miliardi la prima e 2,28 miliardi la seconda. A ciò si aggiunga che anche la disponibilità di

posti letto (3%) e posti mensa (2%) risulta irrisoria se proporzionata al numero degli iscritti (Viesti, 2017).

Il rischio paventato da Viesti (2017) è quello di dividere gli Atenei in tre gruppi «la serie A è rappresentata da alcuni Atenei esclusivamente del Nord; la serie B dalle Università del Nord «periferico», del Centro e del Sud continentale; la serie C da quelli delle Isole.» (Viesti, 2017: 620). Tutti i provvedimenti di revisione e redistribuzione dei fondi alle Università, secondo Viesti (2016; 2017), hanno avuto come effetto quello di ridimensionare il sistema di istruzione terziaria nel Mezzogiorno e in parte anche nel Centro Italia «con un notevole contributo al peggioramento delle condizioni economiche e sociali; e delle prospettive di sviluppo.» (Viesti, 2017: 631).

Questo quadro influisce pesantemente sulla quota di laureati, che in Italia è fra i più bassi d’Europa. Nel 2014 infatti in Italia ci sono stati 374 mila laureati, contro i 741 mila della Francia e i 558 mila della Polonia, che tuttavia ha i due terzi della popolazione italiana. Nella strategia Europa 2020, l’Unione Europea si è data l’obiettivo di avere il 40% dei giovani fra i 30 e i 34 anni laureati. L’Italia per ora è solo al 25%, insieme alla Romania, rappresentando il valore più basso fra i 28 Stati membri (Viesti, 2017). Su cento persone tra i 25 e i 34 anni, solo 24 hanno un titolo di istruzione terziaria, contro il 38% della media dell’Unione Europea e il 41% della media OCSE (De Angelis et al., 2017). Le cause individuate da De Angelis et al. (2017) attengono principalmente al ruolo dell’Università e al contesto in cui è inserita:

Il primo è legato alla scarsa efficacia del sistema universitario […] Il secondo risiede nella carenza di risorse finalizzate a facilitare la partecipazione agli studi, in particolare di chi provenga da famiglie meno abbienti e abbia l’esigenza di spostarsi sul territorio. Il terzo attiene alla struttura dell'offerta formativa […] Il quarto è insito nella debolezza degli incentivi economici a laurearsi: il mercato del lavoro italiano, pur garantendo migliori opportunità ai laureati rispetto ai diplomati, offre nel complesso vantaggi meno significativi rispetto ad altri paesi, soprattutto nelle prime fasi della carriera lavorativa, richiedendo tempi più lunghi per il recupero dell’investimento in istruzione (De Angelis et al., 2017: 5).