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«Il nesso inscindibile». Continuità tra politica estera e politica di difesa dell’Italia repubblicana nel Mediterraneo (1973-80)

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«Il nesso inscindibile».

Continuità tra politica estera e

politica di difesa dell’Italia

repubblicana nel Mediterraneo

(1973-1980)


(2)

Introduzione 1

Cap. I. Il contesto internazionale 5

1.1. Distensione e autonomia: controversie e paradossi 6

1.1.1 Equilibrio, stabilità, rigidità: chiavi di volta del co-dominio bipolare 9

1.1.2 La fine della distensione 11

1.2 La CSCE: la distensione in Europa 12

1.2.1 La Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa: le prospettive

dell’Atto Finale 14

1.2.2 La «dimensione mediterranea» dell’Atto Finale 15

I.2.3 La politica mediterranea della CEE: primi tentativi di multipolarismo? 18 1.2.3 Guerra, petrolio, bipolarismo: la neutralizzazione della GMP 22

1.2.4 Conclusioni 24

Cap. II. L’opzione mediterranea, tra fedeltà atlantica e integrazione europea 28

2.1 La strategia dell’ancoraggio 29

2.2 La politica mediterranea del centro-sinistra 31

2.3. Gli anni Settanta 37

2.3.1. Aldo Moro: il demiurgo della politica mediterranea italiana (1973-1976) 37

2.3.2. I governi di “solidarietà nazionale” (1976-1979) 54

2.3.3. I governi Cossiga (agosto 1979 - settembre 1980) 67

Cap. III. L’evoluzione della politica di difesa 71

3.1 Lo sfaldamento del Fianco Sud della NATO 72

3.2. “Prospettive ed Orientamenti” (1973) 80

3.2.1. La situazione politico-militare nell’area Mediterranea 80 3.2.2. Dal Concetto Strategico italiano ai compiti della Marina Militare: teoria e

pratica di un impegno rinnovato 82

(3)

3.2.4. Dissuasione e prevenzione: la centralità della Marina Militare 88

3.3 “Libro Bianco della Difesa” (1977) 89

3.3.1. La situazione internazionale nei riguardi della sicurezza 91

3.3.2. La funzione politico-strategica dell’Italia 92

3.3.3. La politica di sicurezza, tra solidarietà atlantica e scelta europea 94 3.4. “Indirizzi di Politica Militare” - Lelio Lagorio (1980) 99 3.4.1. L’Italia, l’Alleanza Atlantica e le nuove sfide alla sicurezza 100 3.4.2. Il ruolo italiano: l’orizzonte allargato della politica di difesa 105

IV. Conclusioni 110 BIBLIOGRAFIA 118 Fonti Primarie 118 1) Fonti Inedite 118 2) Fonti Edite 120 Fonti Secondarie 121 1) Volumi 121 2) Articoli su rivista 122 2) Articoli in volume 123

(4)

Introduzione

Una nazione si assume delle responsabilità non solo perché dispone delle risorse per farlo, ma soprattutto perché ha una determinata visione del proprio destino .1

(H. Kissinger) All’origine di questa tesi c’è un interrogativo: per quali ragioni l’Italia nel 1982 decise di compiere le sue prime missioni militari al di fuori dei confini nazionali dai tempi della fine del secondo conflitto mondiale? Quali sono state le motivazioni - politiche e strategiche - che hanno spinto l’Italia repubblicana a questo passo assolutamente inedito?

Le due missioni - MFO (Multinational Force Observer) in Sinai e MFL 2

(Multinational Force in Lebanon) - impegnarono l’azione internazionale del Paese su 3

due diversi livelli: la politica estera e la politica di difesa nazionali. Queste giunsero

H. Kissinger, Policentrismo e politica internazionale, Mondadori, Milano, 1969, p. 89

1

A garanzia del rispetto del Trattato di pace firmato tra Egitto e Israele nel 1979 a Camp

2

David, venne istituita - concordemente alla volontà dei firmatari - una forza multinazionale di osservatori. Il suo compito era di verificare che le disposizioni del trattato venissero rispettate da entrambe le parti. Il governo italiano, all’indomani della firma, si offrì di partecipare con un contingente militare alla Forza Multinazionale. Nel marzo 1982 Egitto, Stati Uniti ed Israele accettarono la proposta italiana: venne dunque messa a disposizione della MFO un contingente navale - composto da tre dragamine della Marina Militare - la cui responsabilità primaria era il pattugliamento degli Stretti di Tiran, al fine di assicurarvi completa libertà di navigazione. Per una trattazione della missione militare in Sinai - sulla quale non esiste una bibliografia molto consistente - rimando al volume collettaneo curato da Alessandro Migliazza (Id. (a cura di), Le forze multinazionali del Libano e del Sinai, A. Giuffrè, Milano, 1988).

In seguito all’invasione israeliana del Libano nel 1982, la situazione del paese, già dilaniato

3

da sette anni di guerra civile, precipitò. Il governo libanese si risolse di chiedere aiuto militare all’estero per pacificare la situazione, come già fece nel 1958 il presidente Camille Chamoun. Gli ambasciatori di Stati Uniti, Francia e Italia ricevettero dunque formale invito da parte del Ministro degli Esteri del Libano, e acconsentirono all’invio di truppe di terra in agosto. Il compito principale del contingente italiano fu di consentire ai guerriglieri dell’OLP una via di fuga sicura da Beirut, assediata dalle Israeli Defence Force. La missione venne completata in circa due settimane, e il 12 settembre le truppe italiane lasciarono il paese. Due giorni dopo la partenza del contingente internazionale, il neo-presidente eletto del Libano Bachir Gemayel venne ucciso in un attentato, a cui seguì come ritorsione il massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila da parte dei miliziani cristiano-maroniti a lui fedeli. Il governo libanese si trovò dunque costretto a rinnovare l’invito, stavolta estendendolo anche al Regno Unito. L’Italia acconsentì nuovamente, inviando il 26 settembre un contingente che stavolta sarebbe rimasto a Beirut fino al 6 marzo 1984. ITALCON (denominazione ufficiale della missione in Libano) ha maggiormente attirato l’attenzione degli analisti, perciò ad oggi si dispone di una bibliografia più ampia. Tra i testi principali, segnalo: F. Tana (a cura di), La lezione del Libano: la missione della Forza Multinazionale e la politica italiana, FrancoAngeli, Milano, 1985; G. Nebiolo, Gli italiani a Beirut: storia e cronaca della missione di pace in Libano, Bompiani, Milano, 1984.

(5)

dunque a compenetrarsi in un «nesso inscindibile» , il che rende necessario, per 4

provare a rispondere alla domanda iniziale, tenere contemporaneamente conto dell’evoluzione di entrambe. Il concetto di evoluzione è centrale in questa tesi, poiché ritengo che le due missioni siano la manifestazione più evidente di un percorso teorico in corso dal decennio precedente, il culmine di un processo di rivalutazione dell’utilizzo del dispositivo militare in politica estera. Per rispondere alla domanda presentata, è necessario dunque stabilire se davvero sia esistita una continuità a livello programmatico tra quanto portato avanti dall’Italia negli anni Settanta e gli interventi in Sinai e Libano del 1982. Se esiste continuità infatti vuol dire l’intreccio tra politica estera e politica militare non fu una prerogativa soltanto degli anni Ottanta.

Questa tesi si innesta su di un generale processo - in corso in ambito accademico - di rivalutazione della politica mediterranea dell’Italia nel dopoguerra. Diversi autori si sono confrontati con la stagione del neo-atlantismo ed hanno analizzato compiutamente le scelte politiche dell’Italia all’indomani del termine del secondo conflitto mondiale, nel contesto della decolonizzazione e della ristrutturazione dei rapporti euro-mediterranei ed euro-atlantici . Per quanto riguarda 5

il periodo della distensione, rispetto ad un tradizionale giudizio negativo del ruolo geopolitico dell’Italia nel contesto mediterraneo, vari contributi hanno rilevato le opposizioni ed i vincoli a cui era sottoposta l’Italia, ed alla luce di questi hanno approfondito l’integrazione tra politica europea e politica mediterranea negli anni Settanta, evidenziando l’avvento di un’armonizzazione tra i due percorsi che fino ad allora avevano proceduto separatamente . Nel contesto della Guerra Fredda, per 6

quanto riguarda l’evoluzione del dispositivo militare italiano, Stefano Silvestri,

Testi e Documenti della Politica estera italiana, “Dichiarazioni programmatiche del

4

Presidente del Consiglio Andreotti (4 agosto)”, Ministero degli Affari Esteri - Servizio Storico e Documentazione, 1976, p. 99

Per una trattazione esaustiva della politica mediterranea dell’Italia dagli anni

5

immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale fino alla stagione del neo-atlantismo, rimando, tra gli altri, ai seguenti volumi: E. Di Nolfo, R. H. Rainero, B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa, 1950-1955, Marzorati, Milano, 1990; A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana nel Mediterraneo, La Nuova Italia, Scandicci, 1996; B. Bagnato, Petrolio e politica. Mattei in Marocco, Polistampa, Firenze, 2004; E. Bini, La potente benzina italiana. Guerra fredda e consumi di massa tra Italia, Stati Uniti e Terzo mondo (1945-1973), Carocci Editore, Roma, 2013.

Ritengo di grandissimo spessore il lavoro di Elena Calandri, che ha rappresentato un

6

riferimento imprescindibile nella scrittura di questa tesi, attraverso i suoi contributi in volumi collettanei quali: M. De Leonardis (a cura di), Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2003; A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Tra Guerra Fredda e distensione, Vol. I, tomo 1, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; E. Calandri, D. Caviglia, A. Varsori (eds), Détente in Cold War Europe - Politics and Diplomacy in the Mediterranean and the Middle East, I. B. Tauris, London, 2016; A. Varsori, B. Zaccaria (eds) Italy in the International System from Détente to the End of the Cold War: the Underrated Ally, Palgrave Macmillan, Cham, 2018.

(6)

Maurizio Cremasco e Carlo Maria Santoro avevano dato un contributo prezioso all’analisi delle scelte italiane in politica di difesa già negli anni Ottanta e Novanta . 7

Mancano invece contributi più recenti che, nell’analizzare la politica mediterranea dell’Italia nel periodo della Guerra Fredda a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, abbiano messo sufficientemente in luce il percorso - politico e strategico - che ha tentato di dare nuova credibilità al ruolo che lo strumento militare ha avuto nel sostenere la politica estera italiana nel bacino mediterraneo. Si tratta una lacuna rilevata anche dalla storiografia militare , imputabile all’insufficienza di fonti primarie 8

e di pubblicazioni, che ritengo debba essere colmata. Stante la presenza di studi che indagano sul rapporto tra politica militare e politica estera italiana all’indomani della fine della Guerra Fredda , e che ci forniscono un prezioso modello di analisi, si 9

registra la mancanza di un simile approccio per quanto riguarda gli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta: in quei decenni, lo sforzo bellico italiano è stato sino ad oggi drasticamente ridimensionato dagli accademici , che, quando se ne occupano , 10 11

attribuiscono alle missioni in Sinai e Libano nel 1982 e a Suez 1985 un carattere di eccezionalità, sottovalutando la continuità esistente nella storia militare repubblicana.

In particolare, mi riferisco al volume scritto a quattro mani da Stefano Silvestri e Maurizio

7

Cremasco (Id., Il Fianco Sud della NATO: rapporti politici e strutture militari nel Mediterraneo, Feltrinelli, Milano, 1980). Per quanto riguarda Santoro, rimando agli ormai “classici” L’Italia e il Mediterraneo (Id., L’Italia e il Mediterraneo. Questioni di politica estera, FrancoAngeli, Milano, 1988) e La politica estera di una media potenza (Id., La politica estera di una media potenza. L'Italia dall'Unità ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1991).

Vedi N. Labanca, Defence policy in Italian Republic; frames and issues, in «UNISCI

8

Discussion Papers», Vol. 25, January 2011, pp. 145-165 e Id., La Repubblica e il militare, in P. Bianchi e N. Labanca (a cura di), L’Italia e il “militare” - Guerre, Nazione, Rappresentazioni dal Rinascimento alla Repubblica, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2014.

Rimandoal lavoro di Fabrizio Coticchia, in particolare a F. Coticchia, Qualcosa è cambiato?

9

L’evoluzione della politica di difesa italiana dall’Iraq alla Libia (1991-2011), Pisa University Press, Pisa, 2013 e P. Ignazi, G. Giacomello, F. Coticchia, Italian Military Operations Abroad - Just Don’t Call It War, Palgrave Macmillan, Cham, 2012.

Ad esempio il volume di Natalino Ronzitti (a cura di), La politica estera italiana. Autonomia,

10

Interdipendenza, Integrazione e Sicurezza, Edizioni di Comunità, Roma, 1977, presenta diversi saggi che rimarcano su di un contributo militare italiano alla NATO ridotto ai minimi termini. Sulla stessa linea, cfr.Angelo Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Il Mulino, Bologna, 1997), che parla di «assoluto privilegio accordato al welfare piuttosto che al warfare» nel caso dell’Italia (p. 237).

Ad esempio, Luigi Caligaris e Maurizio Cremasco nel volume collettaneo scritto

11

all’indomani del termine della missione militare italiana in Libano: F. Tana (a cura di), La lezione del Libano: la missione della Forza Multinazionale e la politica italiana, FrancoAngeli, Milano, 1985. Recentemente, anche Antonio Varsori ha analizzato la politica militare italiana degli anni Ottanta, tracciandone un bilancio sostanzialmente positivo: A. Varsori, B. Zaccaria (eds) Italy in the International System from Détente to the End of the Cold War: the Underrated Ally, Palgrave Macmillan, Cham, 2018.

(7)

Questa tesi dunque si propone dunque di colmare quanto più possibile le lacune rilevate e soprattutto di procedere unitariamente con lo studio della defence

policy e della politica estera dell’Italia, superando l’approccio che le ha viste

indagate separatamente. L’analisi verrà strutturata secondo lo schema dei tre livelli: nel primo capitolo verrà approfondito il contesto internazionale in cui si dispiega la politica estera dell’Italia. Verranno dunque presentati i vincoli e le opportunità che la distensione - e il suo tramonto nel 1980 - comportò per gli attori intermedi dello scenario internazionale. A livello regionale si vedrà come l’Europa dei Nove giocò la propria partita nel Mediterraneo, ritenuto il naturale complemento della sua proiezione geopolitica. A livello nazionale ci si concentrerà sull’Italia, paese rivierasco per eccellenza. Al centro del secondo capitolo ci sarà infatti l’analisi del legame tra integrazione europea e proiezione mediterranea, divenuto più stretto alla fine degli anni Sessanta, nonché la politica messa in atto nei confronti della questione palestinese, del mondo arabo e della cooperazione tra i paesi rivieraschi. Nel terzo e ultimo capitolo l’analisi verterà invece sulla defence policy dell’Italia nel corso della Guerra Fredda. Dapprima essa verrà contestualizzata nei mutamenti dello scenario regionale, specificatamente per quanto riguardava le minacce alla sicurezza nazionale. Verrà perciò presentata l’evoluzione del Fianco Sud della NATO, di cui l’Italia, nel corso degli anni Settanta, fu l’anello centrale. La crisi del sistema difensivo “atlantico” nel Mediterraneo fece da sfondo al generale ripensamento della politica di sicurezza nazionale, di cui costituì l’innesco principale. Le fonti su cui condurre l’analisi saranno i documenti prodotti in sede parlamentare, dai resoconti stenografici delle sedute di Camera e Senato ai bollettini prodotti dalle Commissioni Esteri dei due rami del Parlamento. Inoltre, verranno utilizzati anche i testi e i documenti prodotti dal Ministero degli Affari Esteri, compresi gli interventi dei Ministri nei vari fori di discussione nazionali e internazionali. Contestualmente, verranno presi in esame i documenti strategici prodotti in sede di governo e in ambito militare, di cui verranno evidenziati i fattori di continuità, nonché il dibattito parlamentare sul tema, al pari di quello sulla politica estera. Il ricorso ai documenti d’archivio permetterà di fare luce sul modo in cui il governo italiano e le forze politiche della maggioranza rafforzarono il legame tra integrazione europea e proiezione mediterranea.

(8)

Cap. I. Il contesto internazionale

L’obiettivo di questo capitolo è rilevare le contraddizioni insite al periodo della distensione, ed in particolare i paradossi politici che si sono registrati tra gli obiettivi dichiarati del processo e i risultati effettivi delle strategie messe in atto dalle superpotenze.

Si dimostrerà che sono sussistite tutta una serie di divergenze tra teoria e prassi: l’obiettivo di superare la pregiudiziale ideologica nelle relazioni 12

internazionali si risolse in un irrigidimento delle appartenenze di blocco; il potenziale pluralismo decisionale che la distensione sembrava poter garantire venne brutalmente ricondotto al co-dominio bipolare delle superpotenze tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando la distensione entrò in crisi.

La vittima esemplare del processo di distensione sarà appunto il multipolarismo , 13

una evoluzione dello scenario internazionale che essa stessa aveva innescato. Sarà forse questa la contraddizione più paradossale tra le opportunità che la distensione sembrava aver garantito e che invece contribuì in modo decisivo a far tramontare. Nel primo paragrafo analizzerò in che modo, a livello internazionale, il processo di distensione sia stato interpretato da Stati Uniti e Unione Sovietica, e come esso sia stato utilizzato nella gestione dei rapporti inter-blocco e

intra-blocco . In particolare, verrà valutato il rapporto dialettico tra il concetto di 14

autonomia e il processo di distensione e come questo rapporto si sia declinato secondo logiche di subordinazione che la distensione stessa doveva far decadere. Nel secondo paragrafo valuterò l’impatto della distensione sulla Comunità Economica Europea durante il decennio degli anni Settanta. L’elemento dirimente della questione sarà la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa: le sue conseguenze a livello regionale, il riverbero sulle relazioni tra le potenze leader dei due blocchi e gli alleati minori e il progressivo iato di allineamento tra CEE e Stati Uniti all’interno dell’Alleanza Atlantica saranno tutti fattori di tensione che problematizzeranno la distensione stessa.

Queste premesse fanno da sfondo alla tesi centrale, ma sono fondamentali per chiarire le difficoltà e gli ostacoli che l’Italia ha incontrato nelle sue strategie

Si intende la contrapposizione tra modello “occidentale” e modello comunista, sorta in

12

seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Elena Calandri ha parlato di «illusione del multipolarismo», nel descrivere l’evoluzione del

13

quadro internazionale a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta (in Id., Il Mediterraneo nella politica estera italiana, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Tra Guerra Fredda e distensione, Vol. I, tomo 1, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003).

Per rapporti intra-blocco si intendono le relazioni tra partner della stessa alleanza; per

14

relazioni inter-blocco invece quelle tra membri di alleanze contrapposte. Devo queste espressioni a Carlo Santoro, che le utilizza nel suo L’Italia e il Mediterraneo. Questioni di politica estera, FrancoAngeli, Milano, 1988.

(9)

politiche e militari. Lo scenario internazionale ha comportato rallentamenti e involuzioni in un processo politico il cui obiettivo di fondo era l’ampliamento dei margini di manovra da parte dell’Italia nel proprio contesto regionale. L’intera politica estera dell’Italia, nel corso della sua storia post-unitaria, può infatti essere vista come uno sforzo senza fine di trovare un ruolo nello scenario internazionale confrontandosi con i propri deficit strutturali . Esaminare le modalità con cui il 15

processo di distensione e i suoi corollari coercitivi hanno influenzato la politica estera e la politica di difesa italiane nel Mediterraneo chiarirà la natura del percorso intrapreso dal paese a partire dalla fine degli anni Sessanta.

1.1. Distensione e autonomia: controversie e paradossi

Per distensione si intende una fase della Guerra Fredda che va dal 1963 al 1980 durante la quale si è registrato un generale declino dell’indice di bipolarizzazione . Il termine utilizzato in lingua inglese è détente, mutuato dal 16

francese, che significa rilassamento: la distensione infatti può essere definita come il progressivo rilassamento delle tensioni ideologiche e della rigida struttura bipolare del sistema internazionale .17

Il Partial Ban Test Treaty , firmato da Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno 18

Unito nel 1963 è generalmente considerato come il primo passo significativo del processo di distensione. È infatti la prima volta che stati con tecnologia militare atomica decidono di limitare spontaneamente i loro progetti di sviluppo nel campo delle armi nucleari, al fine di prevenire una escalation della Mutual Destruction

Assured, la capacità di distruzione reciproca attraverso l’uso di sempre più potenti

ordigni. Il processo di distensione si è dipanato negli anni alternando a frangenti di stallo nelle relazioni tra USA e URSS momenti di maggior collaborazione, che hanno dato il via ad una serie di trattati ratificati dalle superpotenze lungo tutti gli anni Sessanta e Settanta. Vanno segnalati principalmente tre di questi trattati, la cui attuazione ha segnato passi decisivi nella strutturazione del co-dominio bipolare successivo al secondo conflitto mondiale:

-

Il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP), aperto a tutti gli Stati del mondo dal 1968 ed entrato in vigore nel 1970. L’obiettivo del trattato era prevenire appunto la diffusione di arsenali nucleari oltre ai paesi già detentori (al tempo,

P. Ignazi, F. Giacomello, F. Coticchia, Italian Military Operations Abroad: Just Don't Call it

15

War, Palgrave Macmillan, Cham, 2012, p. 40

Si intende per indice di bipolarizzazione il livello di conflittualità tra i due blocchi

16

contrapposti. Per una trattazione più ampia del concetto, si rimanda a C. M. Santoro, L’Italia e il Mediterraneo cit., p. 15

R. Gualtieri, The Italian political system and détente (1963 – 1981), in «Journal of Modern

17

Italian Studies », Vol. 9, N. 4, 2004, 428-449 (p. 428)

https://disarmament.un.org/treaties/t/test_ban, ultimo accesso del 08.06.2019

(10)

USA, URSS, Francia, Regno Unito e Cina), nonché promuovere la cooperazione nell’uso pacifico dell’energia nucleare e puntare ad un disarmo generale del potenziale atomico militare .19

-

Gli Strategic Arms Limitation Talks (SALT): due round di conferenze bilaterali tra Stati Uniti e Unione Sovietica riguardo al controllo reciproco degli armamenti, condotti dal 1969 al 1979 . «Lo scopo dei SALT era quello di concordare e 20

cristallizzare una situazione di sostanziale equilibrio tra le due Superpotenze nella capacità distruttiva reciproca. L’intesa comportava l’accettazione del concetto di parità strategica, basata sul criterio dell’equivalenza approssimativa del potenziale nucleare ».21

-

La Conference on Security and Cooperation in Europe (CSCE), aperta nel 1973 a Helsinki e terminata nel 1975 con l’emissione dell’Atto Finale, riguardante l’assetto di una coesistenza quanto più pacifica possibile tra i due blocchi lungo il confine europeo .22

Uno dei primi «paradossi» del processo di distensione scaturisce proprio dal 23

massiccio incremento del potenziale militare, che lentamente ha eroso la sua interrelazione con l’aspetto politico delle relazioni internazionali. Il Segretario di Stato americano Henry Kissinger rilevava come «le due superpotenze hanno la capacità 24

di distruggersi l’un l’altra. Ma esse incontrano enormi difficoltà nel tradurre questa capacità in termini politici, se si eccettua il caso di di prevenire una minaccia diretta alla propria sopravvivenza ». 25

Un trattato si rese inevitabile in seguito alla rapida escalation del rischio di conflitto nucleare avvenuta negli anni precedenti, dapprima con la Crisi di Berlino del 1961 e in seguito con la Crisi dei Missili di Cuba del 1962. Il principio di mutua distruzione era alla base del processo di distensione: dal momento che l’utilizzo di armi nucleari diventava sempre più improbabile, lo stesso concetto di deterrenza perdeva significativamente di valore nel contenimento della superpotenza avversaria. La reciproca minaccia di distruzione costrinse quindi Stati Uniti e Unione

https://www.un.org/disarmament/wmd/nuclear/npt/, ultimo accesso del 08.06.2019

19

https://static.history.state.gov/frus/frus1969-76v32/pdf/frus1969-76v32.pdf, ultimo

20

accesso del 08.06.2019

Libro Bianco della Difesa - La sicurezza dell’Italia ed i problemi delle sue Forze Armate,

21

stampato a cura del Ministero della Difesa, 1977, p. 18.

https://www.osce.org/helsinki-final-act?download=true, ultimo accesso del 08.06.2019

22

J. M. Hanhimäki, “Conservative Goals, Revolutionary Outcomes: the Paradox of

23

Détente”, Cold War History, Vol. 8, N. 4, 2008, pp. 503-512.

Henry Kissinger, Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato degli Stati

24

Uniti durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford tra il 1969 e il 1977, assoluto protagonista della politica estera statunitense nella prima metà degli anni Settanta.

H. A. Kissinger, Policentrismo e politica internazionale, Mondadori, Milano, 1969, p. 74

(11)

Sovietica a rivalutare altre opzioni nella competizione per la leadership globale, come la diplomazia e il conflitto militare per procura.

La capacità di distruzione globale aveva anche un ulteriore effetto avverso ai disegni egemonici superpotenze: essa arrivava a minare gli stessi vincoli di dipendenza tra alleati minori e leader di blocco. Fintantoché la minaccia di distruzione veniva vissuta dalle potenze minori come tangibile, la loro fedeltà all’alleato maggiore era indiscussa, dato che il leader del singolo blocco era la garanzia della sopravvivenza rispetto alla cancellazione. Abbiamo già visto come l’incremento costante della forza nucleare sia stato inversamente proporzionale alla possibilità di utilizzo di ordigni atomici. La pace globale era basata sulla promessa di una totale distruzione in caso di attacco, ma i presupposti per cui la promessa venisse mantenuta venivano a cadere: nessuno dei due contendenti mostrava l’intenzione di compiere per primo l’offensiva che avrebbe comportato un olocausto nucleare.

Pertanto, come sosteneva Kissinger, «quanto più a lungo si mantiene la pace (vale a dire, quanto più efficace si dimostra la politica dei deterrenti) tanto più numerosi argomenti si forniscono a quanti si oppongono alle stesse premesse della politica difensiva» . 26

L’impossibilità pratica dell’utilizzo dell’arsenale nucleare da parte di USA e URSS comportava quindi un effetto disgregante all’interno dei rispettivi blocchi, alimentando spinte centrifughe da parte degli alleati minori. Essa fondamentalmente erodeva le premesse del bipolarismo stesso. La distensione può essere perciò interpretata come la registrazione del fait accompli da parte delle superpotenze: la

mutual assured destruction le costrinse ad impostare le proprie relazioni secondo

dinamiche meno aggressive. La conseguenza principale di questo mutamento decisivo nel clima politico globale fu un progressivo rilassamento delle tensioni politiche e ideologiche della Guerra Fredda, così come della rigida struttura bipolare del sistema internazionale. La comparsa di nuovi soggetti politici sempre più autonomi, derivante dalla decadenza dei presupposti di appartenenza di blocco, non fece che acuire la crisi delle rispettive egemonie delle superpotenze: la distensione fu quindi una manifestazione della crisi del dominio bipolare di fronte ad un nuovo ciclo di globalizzazione . In un certo senso, i due fenomeni si innescarono a 27

vicenda: quanto più le tensioni bipolari si ridussero, tanto più emersero nuovi attori politici. Tanto più nuovi attori giocavano nello scenario internazionale, tanto più la contrapposizione bipolare si faceva meno netta.

Questa interpretazione “passiva” del processo di distensione è però complementare ad un’altra, “reattiva”, con la quale instaura un rapporto dialettico. Il funzionamento del co-dominio bipolare si strutturava secondo una dinamica

Ivi, p. 76

26

R. Gualtieri, Italian political system cit., p. 443

(12)

«feudale», chiedendo subordinazione ed offrendo in cambio sicurezza . Come 28

abbiamo constatato, l’avvio del processo di distensione era parallelo alla messa in dubbio - da parte degli alleati minori - di questo modello di gestione delle relazioni

intra-blocco. La prima vera rivoluzione che la distensione portò con sé però attiene

al regno delle relazioni inter-blocco, cioè tra le due superpotenze egemoni. Essa infatti aspirava alla creazione di uno scenario internazionale in cui le tensioni bipolari potessero essere risolte attraverso il dialogo. L’obiettivo era di garantire una reciproca sicurezza dell’abbandono della minaccia di attacco diretto. La competizione permaneva nelle relazioni USA-URSS, ma acquisiva nuove forme. Al contempo, il presupposto per una convivenza pacifica diventava, agli occhi dei leader delle alleanze contrapposte, l’esclusività nelle relazioni inter-blocco. L’esclusività era già caratteristica delle relazioni bipolari: fin dall’inizio della Guerra Fredda, gli alleati minori venivano espropriati di una parte della loro sovranità che viene in un certo modo delegata all’alleato maggiore nella gestione delle relazioni dirette tra i due poli . La stessa bipolarità militare diventava fonte di rigidità, in 29

politica estera. La reciproca sfiducia delle superpotenze ed il loro arsenale nucleare comportava che qualsiasi equilibrio fosse raggiunto, esso venisse considerato al tempo stesso «precario ed inflessibile» . Le superpotenze avevano perciò estrema 30

riluttanza a concedere spazi di intervento agli attori minori nelle relazioni

inter-blocco: la progressiva esclusività dei processi decisionali era frutto della pressoché

assoluta concentrazione che USA e URSS avevano l’una nei confronti dell’altra. Qualsiasi dinamica locale - attenente cioè alle potenze minori - non aveva peso nelle loro agende politiche, se non nella misura in cui queste problematiche periferiche potessero garantire un vantaggio nella loro competizione - o mettere a repentaglio l’equilibrio bipolare . 31

1.1.1 Equilibrio, stabilità, rigidità: chiavi di volta del co-dominio bipolare

L’equilibrio, come fattore decisivo nei rapporti internazionali, è una delle conseguenze primarie della Guerra Fredda stessa. È la reciproca deterrenza - il cosiddetto «equilibrio del terrore » - a postulare la divisione del mondo in due 32

blocchi contrapposti. La distensione aggiunse alla questione della parità in termini di

C. M. Santoro, L’Italia e il Mediterraneo. Questioni di politica estera, FrancoAngeli, Milano,

28

1988, p. 65 Ivi, p. 145

29

H. A. Kinssinger, Policentrismo cit., p. 68

30

E. G. H. Pedaliu, “A Sea of Confusion”: The Mediterranean and Détente, 1969–1974,

31

Diplomatic History, Vol. 33, N. 4, 2009, pp. 735-750 (p. 735)

Così lo definiva Aldo Moro nel 1968, citato in R. Gualteri, Italian political system cit., p.

32

(13)

arsenali nucleari la questione della reciproca garanzia delle sfere di influenza. Inoltre, il mantenimento dell’equilibrio slitta dalla contrapposizione bipolare diretta alla gestione degli alleati minori, le cui azioni nello scenario internazionale sono viste sempre come una potenziale minaccia per il suo mantenimento.

È stata infatti l’amministrazione Nixon (1969-1974) a identificare la distensione come uno strumento utile alle superpotenze a superare le difficoltà domestiche e a riaffermare il controllo sui rispettivi blocchi . Il suo futuro consigliere 33

per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, nel 1969 descriveva in questo modo le tensioni tra leader di blocco e potenze minori:

i piccoli paesi sono divisi tra il desiderio di protezione e il desiderio di sfuggire al dominio delle grandi potenze. Entrambe le superpotenze sono assillate dal desiderio di mantenere la supremazia nella cerchia dei loro alleati e di accrescere la propria sicurezza di fronte all’avversario. Il fatto che alcuni di questi obiettivi possano anche dimostrarsi incompatibili rispetto ad altri aumenta la tensione del sistema internazionale . 34

Il successore di Nixon alla presidenza, Gerald Ford, descrisse la distensione come «pace attraverso la forza», interpretandola come un equilibrio statico tra le due superpotenze. In questi termini, le preoccupazioni americane riguardo il sistema internazionale erano concentrate sulla stabilità, basata sul mantenimento degli equilibri militari, politici ed economici tra le due superpotenze . La stabilità era 35

presentata da USA e URSS ai loro alleati come la promessa di una coesistenza pacifica nel mondo bipolare: le due superpotenze avrebbero offerto sicurezza in cambio di subordinazione, fintanto che l’equilibrio tra loro fosse stato mantenuto. Nei sensi sopra esposti la stabilità era strettamente legata all’equilibrio di potere e sopratutto al suo mantenimento costante nel tempo, mantenimento che era costantemente minacciato - nell’ottica dei leader del bipolarismo - dagli interventi delle potenze minori nello scenario internazionale. La stabilità perciò era sia una funzione dei rapporti inter-blocco, sia dei rapporti intra-blocco.

Come ricordato precedentemente, la dinamica “sicurezza-subordinazione” doveva rafforzarsi attraverso la distensione, nelle intenzioni delle superpotenze. Intendiamo come “subordinazione” l’impossibilità di operare al di fuori dei propri confini senza vincoli imposti dalle potenze egemoni. Al suo opposto si trova “l’autonomia”, in quanto possibilità di operare scelte inserite in una situazione ma non condizionate. A metà tra questi due poli dello spettro degli atteggiamenti in politica estera si trova

Ibidem

33

H. A. Kinssinger, Policentrismo cit., p. 69

34

S. Silvestri (a cura di), Crisi e controllo nel Mediterraneo: materiali e problemi, Il Mulino,

35

(14)

“l’interdipendenza”, intesa come azione internazionale legata a vincoli di appartenenza politica .36

Il principio per cui la sicurezza internazionale derivasse dalla stabilità dello scenario globale, funzione dell’equilibrio statico tra le superpotenze, implicava una rigidità mai sperimentata prima negli ambiti in cui la distensione si trovava ad operare. È già stato citato lo slittamento del concetto di equilibrio dal campo strategico a quello geopolitico: in termini pratici, questo comportò una cristallizzazione della divisione bipolare, primariamente nel continente europeo. La distensione perciò si è connotata come un processo intrinsecamente votato alla conservazione degli equilibri geopolitici. Sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica la considerarono come un valido strumento per mantenere lo status quo in Europa e sancire in via definitiva la divisione bipolare del continente . La natura coercitiva di questo processo era 37

resa ancora più stridente dalla contestuale pacificazione delle relazioni internazionali. Anche al picco del processo di distensione, le nazioni mediterranee allineate al blocco occidentale - quelle considerate più instabili da parte delle amministrazioni USA - erano obbligate a modellare le proprie strategie in politica estera nelle maglie di un framework che non era mai stato tanto rigido durante l’intero arco della Guerra Fredda .38

1.1.2 La fine della distensione

Durante il mandato di Jimmy Carter dal 1977 al 1981 come presidente degli Stati Uniti fu presa in considerazione un’interpretazione più elastica della distensione bipolare, secondo il principio di “non interferenza-non indifferenza ”. Probabilmente 39

il passaggio di consegne da Henry Kissinger a Zbigniew Brzezinski come Consigliere per la Sicurezza Nazionale fu decisivo. Ma lo stesso principio non concesse all’Italia, nello stesso periodo, la creazione di un governo che includesse nella maggioranza il Partito Comunista Italiano. Il rispetto dell’equilibrio bipolare e i suoi imperativi geopolitici era ancora il cardine delle valutazioni americane riguardo gli equilibri domestici degli alleati. Allo stesso tempo, l’innalzarsi della tensione con l’Unione Sovietica in seguito all’invasione dell’Afganistan innescò una reazione anti-comunista che precluse definitivamente qualsiasi chance di pacifica convivenza tra

Le definizioni sono tratte da E. Di Nolfo, La politica estera Italiana tra interdipendenza e

36

integrazione, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana cit., p. 17

M. Del Pero, F. Romero, The United States, Italy and the Cold War: Interpreting and

37

Periodising a Contradictory and Complicated Relationship in A. Varsori, B. Zaccaria (eds) Italy in the International System from Détente to the End of the Cold War: the Underrated Ally, Palgrave Macmillan, Cham, 2018, p. 26

E. G. H. Pedaliu, “A Sea of Confusion” cit., p. 743

38

G. Formigoni, L’Italia nel sistema internazionale degli anni ’70: spunti per riconsiderare la

39

(15)

le due superpotenze: la rigidità delle rispettive sfere d’influenza, risultato tangibile del processo di distensione, aumentò proporzionalmente all’intensificarsi della tensione bipolare, impedendo quasi evoluzione virtuosa .40

Il processo di distensione si considera terminato nel gennaio 1980, con il rifiuto a tempo indeterminato da parte del presidente USA Jimmy Carter di ratificare i SALT II firmati l’anno precedente, come ritorsione per l’invasione sovietica dell’Afganistan. La crescente aggressività della politica estera sovietica, come reazione al progressivo declino del sistema comunista e della sua influenza internazionale, rese possibile al presidente statunitense Ronald Reagan, in carica dal gennaio 1981, di lanciare la sua “seconda Guerra Fredda”, che sancì un deciso innalzamento della contrapposizione bipolare e la definitiva battuta d’arresto ai progetti di coesistenza pacifica tra i due blocchi .41

Alla base di questo nuovo corso stava la terza interpretazione della distensione, oltre a quella “conservatrice” di Kissinger, legata agli imperativi geopolitici, e quella “multipolare” degli alleati europei del blocco atlantico. Il suo più deciso promotore fu Zbigniew Brzezinsky, che riteneva ormai di poter «fare a meno della distensione, contestando innanzitutto, e radicalmente, la legittimità del rango tenuto dall’Unione Sovietica come co-garante delle basi elementari del sistema internazionale .» Si apriva dunque una fase, per l’azione politica statunitense nello 42

scenario globale, non più volta alla neutralizzazione del multipolarismo in uno sforzo coreografico con l’URSS, ma alla resa dei conti definitiva con l’avversario sovietico, con l’obiettivo di un mondo definitivamente “unipolare”: la fine della storia .43

1.2 La CSCE: la distensione in Europa

Abbiamo visto come la distensione si sia stata declinata con metodi più o meno coercitivi, al fine di preservare quanto più possibile le rispettive sfere di influenza delle due superpotenze. Questo non significò che la competizione per il dominio globale fosse terminata: semplicemente, le superpotenze si resero conto che la deterrenza nucleare era un ottimo strumento per prevenire la sconfitta totale, ma era di per sé inefficace da utilizzare in un’ottica offensiva. Sopratutto, la distensione escluse che il teatro europeo potesse ancora essere valido in termini competitivi. Perciò, sempre nell’ottica di garantirsi un margine di sicurezza reciprocamente riconosciuto, venne lanciata la Conferenza per la Sicurezza e la

R. Gualtieri, The Italian political system cit., p. 442

40

Ibidem

41

R. D’Agata, Il contesto europeo nella distensione internazionale, in A. Giovagnoli, S. Pons,

42

L’Italia repubblicana cit., p. 328

Secondo la fortunata definizione di Francis Fukuyama, tratta dal suo saggio The End of

43

(16)

Cooperazione in Europa (CSCE). Per gli Stati europei allineati, la Conferenza rappresentava la messa in sicurezza sia dei propri confini e regimi interni sia della propria incolumità di fronte allo spettro di un’offensiva da parte del blocco avversario.

La distensione apriva inoltre la possibilità di un progressivo allentamento delle appartenenze di blocco, e di conseguenza ampliava i margini di manovra degli alleati minori. Ai suoi inizi, sembrò poter garantire una maggiore autonomia da parte degli Stati europei, che vedevano scemare la necessità di protezione da parte del leader di blocco e quindi potevano ambire a maggiore libertà di azione. Agli inizi degli anni Settanta, con la progressiva cristallizzazione del confine centrale tra i due blocchi nel continente europeo, i margini di manovra dei paesi occidentali si dipanavano in due direzioni: ampliamento della CEE e stabilizzazione del Mediterraneo.

D’altro canto, le superpotenze avevano una visione completamente diversa della questione. Nixon e Kissinger ritenevano la distensione una semplice trasfigurazione della strategia di contenimento, con cui speravano di vincere la competizione per la supremazia nel lungo periodo, mentre i sovietici vi intravedevano l’opportunità per rafforzare la propria posizione nello scenario globale. Avendo rinunciato all’Europa come teatro di confronto, Stati Uniti e URSS scelsero di spostare la competizione altrove, e precisamente nel Mediterraneo. In quest’area gli USA non avrebbero permesso alla distensione di generare alcun vuoto di potere, poiché temevano che sarebbe stato riempito dalla massiccia presenza navale che i sovietici stavano costituendo. La distensione perciò rimaneva più che altro un esercizio teoretico concentrato sulla riduzione degli armamenti e sul Fronte Centrale, ma le superpotenze erano esitanti nell’allargare questi parametri ad altre aree. Dato che il Mediterraneo era considerato un corollario indispensabile per la sicurezza in Europa, gli USA non potevano permettere che la distensione diventasse un fattore di re-distribuzione di potere al suo interno. Per questo motivo, gli USA esclusero il Mediterraneo dal processo distensivo ed intensificarono il proprio controllo sugli sviluppi politici interni degli alleati minori nella regione .44

In questi termini, la distensione si arricchiva di un altro aspetto contraddittorio: tra le primarie conseguenze, vi era lo slittamento della competizione globale dallo scenario europeo al bacino mediterraneo, ma al contempo i principali attori coinvolti - USA e URSS - non avrebbero permesso che i suoi principi vi si estendessero. Per quanto l’obiettivo della distensione fosse considerato essere la diminuzione delle ragioni di conflitto, era la distensione stessa a promuoverne di nuove: la distensione finiva per neutralizzare sé stessa.

E. G. H. Pedaliu, Fault lines in post-war Mediterranean and the “Birth of Southern

44

Europe”, 1945-1979, in E. Calandri, D. Caviglia, A. Varsori (eds), Détente in Cold War Europe. Politics and Diplomacy in the Mediterranean and the Middle East, I. B. Tauris, London, 2016, pp. 24-26

(17)

Gli Stati europei si ritrovarono in un certo senso intrappolati in questa

conventio ad excludendum, per cui le loro effettive possibilità di autonomia venivano

frustrate dallo stesso processo che le aveva generate. In particolare, furono gli stati del bacino mediterraneo - allineati e non - a percepire infine la distensione come «una forza centrifuga che aggravava le dinamiche conflittuali generate dalla decolonizzazione e dalla Guerra Fredda nella regione, anziché alleviarle ».45

1.2.1 La Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa: le prospettive dell’Atto Finale

Firmato ad Helsinki il 1º agosto 1975 da trentacinque nazioni , l’Atto Finale 46 47

sanciva il termine di una conferenza durata più di due anni. I sovietici lo considerarono un passo avanti fondamentale nel dialogo Est-Ovest, che confermava definitivamente lo status quo politico e territoriale in Europa, mentre l’obiettivo principale dei paesi occidentali, considerato raggiunto, era di neutralizzare gli effettivi negativi della Cortina di Ferro . L’obiettivo degli stati firmatari era di «dare 48

pieno effetto ai risultati della Conferenza e ad assicurare i vantaggi derivanti da questi risultati fra i loro Stati e in tutta l'Europa e in tal modo ad ampliare, approfondire e rendere continuo e duraturo il corso della distensione» .49

Il primo punto si riferisce al rispetto dell’integrità territoriale degli stati firmatari, nel segno di un reciproco riconoscimento di uguaglianza e sovranità. La sovranità implicava anche la libertà per ogni stato di scegliere il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale, nonché la libertà di appartenere o no ad organizzazioni internazionali, trattati bilaterali o multilaterali e alleanze nonché il diritto alla neutralità tra i blocchi . Il punto dell’integrità territoriale venne affrontato 50

con accuratezza: nel punto IV è affermata l’astensione «da qualsiasi azione incompatibile con i fini e i principi dello Statuto delle Nazioni Unite contro l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o l'unità di qualsiasi Stato partecipante, e in particolare da qualsiasi azione del genere che costituisca minaccia o uso della

Ivi, p. 27

45

Austria, Belgio, Bulgaria, Canada, Cecoslovacchia, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia,

46

Repubblica Federale di Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Jugoslavia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Monaco, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Democratica Tedesca, Romania, San Marino, Santa Sede, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

https://www.osce.org/it/mc/39504?download=true, ultimo accesso del 08.06.2019

47

N. Badalassi, Sea and Détente in Helsinki: The Mediterranean Stake of CSCE, 1972-1975,

48

in E. Calandri, D. Caviglia, A. Varsori (eds), Détente cit., p. 61

Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa: Atto Finale - Helsinki 1975, p. 1

49

Ivi, p. 2

(18)

forza» , affermando l’esclusività del ricorso a mezzi pacifici nella risoluzione delle 51

controversie . La definitiva sanzione delle rispettive sfere di influenza è stabilita al 52

punto VI, che stabilisce l’inammissibilità di qualsiasi intervento, diretto o indiretto, negli affari interni o esterni che rientrino nella competenza interna di un altro stato partecipante, escludendo quindi la possibilità di interventi armati o di minacce alla sicurezza . 53

L’Atto Finale della CSCE era l’esemplificazione più compiuta dei principi alla base del processo distensivo: la promozione della cooperazione e del disarmo e la rinuncia allo strumento militare per ottenere la supremazia in Europa da parte dei blocchi. La preoccupazione principale delle superpotenze, nel processo distensivo, era che le azioni degli attori minori potessero metter a rischio la divisone geopolitica delle sfere d’influenza. Al contempo, poiché la distensione dava agli alleati l’opportunità di sganciarsi progressivamente dai vincoli di subordinazione, Stati Uniti e Unione Sovietica temevano sia l’insorgere di vuoti di potenza in aree critiche, che avrebbero alterato l’equilibrio faticosamente raggiunto, sia dinamiche di diffusione di potenza, che avrebbero innalzato il rango internazionale degli attori emergenti e messo in dubbio il co-dominio bipolare . 54

1.2.2 La «dimensione mediterranea» dell’Atto Finale

L’Atto Finale della CSCE contiene una sezione specifica dedicata al Mediterraneo, che sembrava dare sostanza alle preoccupazioni delle superpotenze, poiché ritagliava margini d’azione per i paesi firmatari in un ambito che le superpotenze avevano eletto a nuovo teatro della competizione bipolare, e da cui erano intenzionate a tenere al di fuori le potenze minori. Partendo dal presupposto che la sicurezza in Europa fosse interconnessa con la sicurezza globale in generale ed con la sicurezza delle zone adiacenti in particolare, il documento affermava che il processo distensivo dovesse estendersi anche al Mediterraneo. Veniva perciò affermata l’intenzione, da parte degli stati partecipanti,

di condurre le loro relazioni con gli Stati mediterranei non partecipanti nello spirito dei principi enunciati nella Dichiarazione sui Principi che reggono le relazioni fra gli Stati partecipanti poiché il rafforzamento della sicurezza e l’intensificazione della cooperazione stimolerebbero positivi processi nella regione mediterranea , 55 Ivi, p. 4 51 Ivi, p. 5 52 Ivi, p. 6 53

C. M. Santoro, Il Mediterraneo cit., p. 15

54

Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa: Atto Finale - Helsinki 1975, p. 39

(19)

in cui si concentrano un gran numero di fattori di crisi. L’obiettivo finale diventa perciò «contribuire alla pace, di ridurre le forze armate nella regione, di consolidare la sicurezza, di diminuire le tensioni nella regione e ampliare l'ambito della cooperazione» .56

L’inclusione della “dimensione mediterranea ” nell’Atto Finale della CSCE 57

rappresentava il tentativo, da parte degli stati europei allineati al blocco occidentale, di sfruttare l’insorgere del multipolarismo innescato dalla distensione ed ampliare la propria indipendenza dalle dinamiche bipolari. In Francia, prima De Gaulle e poi Pompidou ritennero che la distensione tra le superpotenze stava portando ad un co-dominio globale ed ad una divisione tra blocchi ancora più solidi che avrebbe definitivamente fugato ogni possibilità per la Francia e la CEE di ritagliarsi un ruolo nello scenario internazionale . L’Italia allo stesso tempo non vedeva possibilità di 58

giocare un ruolo decisivo nel concerto delle superpotenze, e perciò concentrò la propria attenzione sulla CSCE, intraprendendo quindi ogni iniziativa per assicurarsi che la Conferenza considerasse la sicurezza nel Mediterraneo come un elemento fondante della sicurezza in Europa .59

Il dibattito tra i partecipanti, che potremmo semplificare in una contrapposizione tra le istanze delle superpotenze e quelle dei non-allineati , era 60

piuttosto acceso: la portata dei principi della CSCE doveva essere globale o regionale? I paesi rivieraschi esclusi dalla Conferenza avevano serie ragioni per volere un’estensione dei principi anche all’area mediterranea: in particolare, le tensioni crescenti nel Mediterraneo minacciavano costantemente la sicurezza degli stati della regione e incentivavano una crescente presenza militare da parte delle superpotenze nell’area senza che questa sembrasse in grado di risolvere la conflittualità endemica.

In particolare, la delegazione maltese e il primo ministro Dom Mintoff si distinsero - nel 1973, agli inizi della Conferenza - nel denunciare l’esclusione del Mediterraneo e dei conflitti regionali dalle discussioni tra le delegazioni e l’egemonia che le superpotenze stavano costruendo nel bacino. In particolare, Malta lamentava la concentrazione pressoché assoluta nei dibattiti riguardo la stabilizzazione del Fronte Centrale ed una messa in secondo piano delle problematiche della regione

Ivi, p. 40

56

N. Bozic, Un punto di vista jugoslavo in S. Silvestri (a cura di), L’uso politico della forza

57

militare nel Mediterraneo, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 141 E. G. H. Pedaliu, “A Sea of Confusion” cit., p. 744

58

Ibidem

59

Con i paesi dell’Europa occidentale portatori di istanze più sfumate tra i due estremi.

(20)

meridionale, arrivando a minacciare l’uscita dell’isola dal dispositivo militare NATO 61

se la questione mediterranea non fosse stata inclusa nell’Atto Finale e principi della distensione non fossero applicati alla regione . 62

La nuova balance of power nel Mediterraneo, costituitasi in seguito alla CSCE, non era quindi estranea al confronto Est-Ovest, anzi sembrava dare vita ad una sorta di corsa al riarmo in questo mare. Abbiamo quindi contemporaneamente una crescente concentrazione militare nel Mediterraneo, ed un distacco di questa area dalle dinamiche di difesa dello scacchiere centro-europeo . Nonostante gli 63

sforzi dei paesi rivieraschi - sia partecipanti che non alla Conferenza - i principi della distensione non trovavano applicazione nella regione: la presenza militare delle superpotenze aumentava, e la cooperazione ed il disarmo non trovavano terreno fertile in un territorio dilaniato da conflitti di cui non si riusciva ad intravedere conclusioni a breve termine.

La contraddizione evidente era che, nonostante la questione mediterranea fosse stata inclusa nelle disposizioni finali della Conferenza, l’opposizione delle superpotenze estendeva la competizione bipolare ad una zona che fino ad allora ne era stata relativamente risparmiata. Alla progressiva pacificazione del Fronte Centrale corrispondeva un inasprimento delle tensioni in quello meridionale, nonostante i tentativi da parte dei paesi europei di intervenire.

Le superpotenze si opposero all’inclusione della “dimensione mediterranea” nell’atto finale della CSCE e al fatto che ci fosse un collegamento tra la cooperazione e la sicurezza dell’Europa con il Mediterraneo. Esse affermavano che non fosse possibile estendere la distensione anche al Mediterraneo, dato che la sua instabilità era endemica e non dipende dalla contrapposizione bipolare. Il punto centrale della loro opposizione era appunto il fatto che inserire il Mediterraneo nelle disposizioni della CSCE significava aggiungere una dimensione alla Conferenza che non fosse circoscritta allo scontro tra NATO e Patto di Varsavia: in pratica la “dimensione mediterranea” aveva conferito all’Atto Finale un carattere universale, esplicitamente non di blocco, volendo estendere i principi della distensione anche a quegli stati non direttamente coinvolti nel conflitto bipolare .64

Almeno per quanto riguarda la formalizzazione dei principi, sembrava che gli stati europei avessero vinto contro l’ossessione delle superpotenze nel voler ricondurre le dinamiche internazionali all’interno del framework bipolare. La “dimensione mediterranea” sembrava dare nuovo adito al multipolarismo e alla diffusione di potenza, attraverso l’assunzione di nuove responsabilità da parte degli

E di conseguenza il crollo dell’equilibrio geopolitico che era la premessa irrinunciabile per

61

la prosecuzione della Conferenza stessa. N. Badalassi, Sea and Détente cit. p. 65

62

S. Silvestri, Crisi e controllo cit., p. 44

63

N. Bozic, Un punto di vista cit., pp. 140-141

(21)

attori fino ad allora rimasti in seconda linea nello scenario post-bellico. Stante l’obiettivo finale dei paesi non-allineati - le generale smilitarizzazione del Mediterraneo conseguente al ritiro delle forze armate delle superpotenze dalla regione - i paesi europei sapevano che uno scenario di questo tipo fosse irrealizzabile, almeno a breve termine.

I.2.3 La politica mediterranea della CEE: primi tentativi di multipolarismo?

Questo non aveva già impedito, nel nome della distensione, alcune prese di posizione contro il dominio bipolare: già nel 1969 il lancio della Politica di Cooperazione Europea (EPC) aveva come preciso obiettivo il riunire in una sola voce le rimostranze dei paesi dell’Europa occidentale contro l’assoluta preminenza di Stati Uniti e Unione Sovietica nelle relazioni inter-blocco tra Est e Ovest . Le 65

opportunità di coagulare le diverse opinioni dei paesi membri della CEE, al fine di ottenere maggior peso internazionale e maggiori possibilità di successo nel conseguire i propri obiettivi, aumentavano con il progredire del processo distensivo. Per i leader europei, la distensione era lo scenario migliore per sperimentare i limiti e le opportunità della nuova stagione della Guerra Fredda, e il Mediterraneo era l’area più naturale per le iniziative del nuovo polo europeo . L’intelaiatura su cui costruire 66

un nuovo modello di interventismo europeo nella ragione era costituita da due pilastri: i legami post-coloniali che la Francia ancora deteneva con i paesi del Maghreb e la fitta rete di trattati commerciali bilaterali che i singoli paesi europei avevano stipulato negli anni con i vari paesi rivieraschi.

L’impulso decisivo ad un approccio più organico ed integrato tra i vari paesi europei venne dal proseguimento della costruzione comunitaria. Questo comportò che, da un punto di vista commerciale e politico, l’Europa mediterranea non si limitasse più ai soli stati meridionali: gli altri paesi della Comunità si consideravano ormai altrettanto rivieraschi, dato che le loro frontiere, grazie all’unione doganale, coincidevano con i confini meridionali della Comunità. La CEE si trovò quindi nella necessità di coordinare le vecchie e nuove convenzioni stipulate nell’area mediterranea entro una struttura più organica e, soprattutto, meglio definita . 67

L’iniziativa di per sé presentava notevoli difficoltà: infatti, Il Mediterraneo era storicamente un teatro di politiche bilaterali e, per tutta la Guerra Fredda, rimase irriducibile ai tentativi di sviluppare schemi stabili di cooperazione politica

N. Badalassi, Sea and Détente cit. p. 67

65

E. Calandri, The United States, the EEC and the Mediterranean: Rivalry or

66

Complementary? In E. Calandri, D. Caviglia, A. Varsori (eds) Détente cit., p. 47

M. P. Belloni, La politica mediterranea della CEE (trattative, accordi, dissensi), «Rivista di

67

(22)

multilaterale . Francia e Italia svilupparono politiche mediterranee che puntavano ad 68

una maggiore stabilizzazione dell’area e alla creazione di uno scenario più congeniale per lo sviluppo economico che garantisse loro una maggiore indipendenza negli affari internazionali, ma la Guerra dei Sei Giorni aumentò considerevolmente l’importanza del Mediterraneo nella politica estera americana. Il periodo successivo alla fine del conflitto vide una rapida espansione della presenza navale sovietica nel bacino. Al contempo, la guerra per la prima volta rese evidente la crescente dipendenza della riva settentrionale del Mediterraneo rispetto al petrolio arabo. Gli stati mediterranei sviluppati dovettero perciò cominciare a riconfigurare le relazioni con i paesi rivieraschi della sponda Sud e questo diede loro l’opportunità di perseguire politiche più indipendenti .69

Nel 1972, al summit di Parigi, venne lanciata la Politica Mediterranea Globale (Global Mediterranean Policy, GMP), il cui obiettivo era di creare entro il 1977 una zona di libero scambio tra i paesi mediterranei e la CEE: l’aggettivo “globale" aveva un significato sia geografico sia tematico, e implicava l’adozione di una politica regionale che prevedesse una larga varietà di disposizioni e strumenti. L’obiettivo era di utilizzare come leva i trattati commerciali e gli aiuti allo sviluppo da parte dei paesi della Comunità Europea per intessere una rete quanto più ampia possibile di connessioni politiche ed economiche tra i paesi rivieraschi. Gli europei infatti ritenevano che un approccio di questo genere avesse maggiori possibilità di successo nel neutralizzare le tensioni endemiche del bacino, piuttosto che la strategia promossa dagli Stati Uniti del supporto militare agli stati mediterranei moderati . La politica degli USA aveva infatti l’effetto opposto di aumentare il 70

volume complessivo degli arsenali convenzionali nella regione, aumentando di conseguenza le capacità militari degli stati coinvolti e la loro disponibilità al conflitto armato. Gli europei al contrario, sempre nel nome di un approccio regionale - contrapposto a quello globale degli americani - ritenevano che fosse necessario 71

E. Calandri, Il Mediterraneo nella politica estera italiana, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura

68

di), L’Italia repubblicana cit., p. 353

E. G. H. Pedaliu, “A Sea of Confusion” cit., p. 738

69

Il principio con cui gli USA valutavano l’allineamento degli stati arabi, agli inizi degli anni

70

Settanta, era il loro grado di coinvolgimento nel conflitto arabo-israeliano. Pur partendo da una dinamica locale, il governo statunitense la riconduceva inesorabilmente al conflitto bipolare, poiché stabiliva una proporzionalità diretta tra opposizione ad Israele ed allineamento al blocco sovietico. Seppur relativamente datata, la dottrina Eisenhower («Gli Stati Uniti potevano fornire aiuti economici e militari a paesi che avessero subito un’aggressione da parte di potenze comuniste, arrivando fino all’intervento armato.», M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Laterza, Bari, 2018, p. 109) aveva ancora credito presso la presidenza USA.

L’uso dell’aggettivo globale ha valenza diversa in questo caso, rispetto alla GMP: va

71

ricondotto infatti alla convinzione - di Nixon e Kissinger - per cui le dinamiche internazionali acquistano senso solo all’interno del framework del conflitto tra i blocchi, perciò su scala mondiale.

(23)

intervenire alla radice delle cause di conflitto nella regione. D’altro canto, gli stessi paesi del bacino mediterraneo sembravano preferire un tipo di cooperazione esclusivamente economica come quella offerta dal CEE rispetto alla protezione americana troppo ricca di sottintesi militari .72

La stessa amministrazione Nixon non aveva mai nascosto la propria contrarietà a questo tipo di politica da parte degli alleati europei. Nel rapporto inviato al Congresso il 3 maggio 1973, il presidente degli Stati Uniti affermava che

gli europei hanno perseguito in sostanza una politica economica regionalistica, pretendendo al tempo stesso di conservare un appoggio e un impegno politico intatti da parte degli Stati Uniti. A questo punto si pone un interrogativo fondamentale: il principio di unità atlantica è conciliabile con la politica economica sempre più nettamente regionalistica della Comunità Europea? .73

Le preoccupazioni economiche superavano in quel momento quelle politiche: Washington mal tollerava i tentativi di costruire un mercato unico con i paesi rivieraschi non allineati, quando ancora permanevano barriere doganali tra gli Stati Uniti e la Comunità Europea. Senza lasciare molto spazio ad interpretazioni, l’amministrazione americana si schierava apertamente contro la GMP, ed anche all’interno della CEE le posizioni al riguardo erano diversificate. In particolare, gli stati settentrionali - nella loro logica continentale - non vedevano vantaggi nell’apertura dei propri mercati ai prodotti mediterranei e spingevano piuttosto per una maggior integrazione dei sistemi politico-economici dei paesi membri meridionali con quelli del Nord Europa. L’Italia stessa - paese mediterraneo per eccellenza - aveva delle obiezioni, temendo sopratutto l’esposizione dei produttori agricoli del Meridione ad una concorrenza che il Mercato Unico fino ad allora aveva risparmiato. La Francia - maggior sponsor dell’iniziativa - non aveva sufficiente forza per contrastare allo stesso tempo gli alleati europei ed il leader di blocco . 74

Di conseguenza, la politica di integrazione delle democrazie mediterranee nella CEE portò ad una nuova fase di sviluppo politico ed economico nei paesi coinvolti, ma comportò il progressivo abbandono della politica mediterranea comunitaria . Le dinamiche della distensione accentuarono questo processo, 75

poiché entrambe le superpotenze puntavano ad escludere altri attori dalla

M. P. Belloni, La politica mediterranea cit., p. 563

72

Citato in F. Gozzano, La NATO e i rapporti euroamericani dell’ultimo decennio, in N.

73

Ronzitti (a cura di), La politica estera cit., p. 178. In ogni caso, tra le conseguenze della Guerra del Kippur ci fu proprio la fine dell’incompatibilità tra appartenenza atlantica e rapporti con i paesi arabi, ma fu questo cambiamento a permettere agli americani di scavalcare gli europei nella regione mediorientale: un ulteriore passo verso il ridimensionamento del multipolarismo.

E. Calandri, The United States cit., p. 46

74

Ivi, p. 48

(24)

competizione nel bacino mediterraneo. L’entrata di Grecia, Spagna e Portogallo nella Comunità Europea nel corso degli anni avrebbe istituzionalizzato la sempre più netta separazione tra le due rive del Mediterraneo, enfatizzata dalla Guerra Fredda e completata dalla distensione: rispetto ad un Nord in via di stabilizzazione politica e crescita economica, rimaneva un Sud incastrato nelle proprie crisi cicliche e dirompenti. La strada dell’integrazione europea dei paesi della sponda Nord fu paradossalmente il fattore determinante per il fallimento della Politica Mediterranea Globale. «La nascita dell’Europa Meridionale» fu il frutto della nuova stagione di 76

cooperazione con le socialdemocrazie del Nord Europa. La strada dell’integrazione europea appariva ora come la migliore strategia per superare gli assetti politico-militari e politico-economici nel Mediterraneo, frutto dei rapporti di potere tra Stati Uniti e Unione Sovietica nell’area che avevano in sostanza vanificato i tentativi 77

degli anni precedenti.

Ancora nel 1972, sempre nell’ambito della Politica di Cooperazione Europea ma anche nel Consiglio Atlantico e nelle dichiarazioni programmatiche di governo, il gruppo dirigente italiano alla guida del paese (Moro, Andreotti, Medici) propose una Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione nel Mediterraneo, da tenersi quando la situazione politica generale l’avesse consentito. Replicando il modello della CSCE - prevista per l’anno successivo ma in preparazione da tempo - essa sarebbe stata aperta a tutti i paesi rivieraschi più gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica . Moro in 78

particolare era convinto che l’affievolimento del coinvolgimento americano nel bacino e il contemporaneo aumento della presenza navale sovietica fossero i maggiori fattori di destabilizzazione nell’area: la sua era una presa di posizione in linea con l’approccio classico del mondo politico italiano, che fin dagli albori della Guerra Fredda considerava la penetrazione sovietica nel Mediterraneo come la minaccia principale per gli interessi occidentali e la causa principale dell’instabilità regionale .79

Instabilità che periodicamente esplodeva nelle drammatiche guerre del lungo conflitto arabo-israeliano. Proprio per questo motivo, una Conferenza per la Cooperazione e la Sicurezza nel Mediterraneo non avrebbe avuto ragion d’essere senza la presenza di Israele, ormai a pieno diritto stato mediterraneo al pari degli altri. Ma la lunga Guerra d’Attrito che lo impegnava con l’Egitto fin dal termine della Guerra dei Sei Giorni era vicina a deflagrare in un nuovo, sanguinoso conflitto che

E. G. H. Pedaliu, Fault lines cit., p. 31

76

S. Silvestri, Crisi e controllo cit., p. 153

77

E. Calandri, Il Mediterraneo cit., p. 373

78

B. Bagnato, Alcune considerazioni sull’anti-colonialismo italiano, in E. Di Nolfo, R. H.

79

Rainero, B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa, 1950-1955, Marzorati, Milano, 1990, pp. 302-303

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