• Non ci sono risultati.

Aldo Moro: il demiurgo della politica mediterranea italiana (1973-1976)

Cap II L’opzione mediterranea, tra fedeltà atlantica e integrazione europea

2.3. Gli anni Settanta

2.3.1. Aldo Moro: il demiurgo della politica mediterranea italiana (1973-1976)

Le reazioni del governo italiano alla guerra furono sintetizzate nell’intervento che il Ministro degli Esteri Aldo Moro fece alla Camera dei Deputati 135

nei giorni immediatamente successivi all’inizio del conflitto, il 18 ottobre 1973, in risposta alle interrogazioni presentate dai parlamentari dei vari partiti.

Il discorso merita di essere analizzato approfonditamente perché riassume con precisione la posizione del Ministro su aspetti che finirono per esulare dal

A. Varsori, L’Italia cit., p. 190

132

C. M. Santoro, La politica estera di una media potenza. L'Italia dall'Unità ad oggi, Il

133

Mulino. Bologna, 1991, p. 204

E. Calandri, Il Mediterraneo cit., p. 363

134

http://legislature.camera.it/_dati/leg06/lavori/stenografici/sed0168/sed0168.pdf, ultimo

135

conflitto in sé e si allargarono all’intera politica mediterranea, fissando sia obiettivi che linee guida.

Moro esordì dando una personale interpretazione sulla ragione per cui il conflitto fosse deflagrato, dopo tre anni e due mesi di tregua «nonostante non vi fosse alcun vincolo giuridico per l’Egitto»: l’ambiguità della Risoluzione 242 delle Nazioni Unite. Alla risoluzione non era seguito «un accordo di pace, raggiunto neppure nel 1949, ma nemmeno quel risultato minore ed intermedio costituito da un armistizio che invece nel 1949 era stato possibile realizzare». Nell’incapacità di offrire una risoluzione chiara ai contendenti stava quindi la possibilità che in conflitto riesplodesse, come infatti poi avvenne il 6 ottobre del 1973. Eppure «questa risoluzione […] resta[va] la sola base per progredire verso la pace» nelle convinzioni di Moro, che successivamente ribadiva l’equidistanza del governo italiano rispetto ai contendenti, seguendo la linea tracciata da Fanfani in seguito al conflitto del 1967. L’esistenza di Israele doveva essere garantita entro confini sicuri e accettati dal resto degli stati arabi. La chiave della sicurezza israeliana stava però nella «soluzione del problema dei palestinesi, il quale non [era] solo economico-sociale, ma politico». L’equidistanza tra i contendenti si arricchiva dunque della constatazione che quella dei palestinesi non fosse una problematica di rifugiati, ma di diritto all’auto- determinazione dei popoli. Un altro passo verso il riconoscimento del popolo palestinese come un attore di cui tenere primariamente conto nelle future trattative di pace. Una convinzione che lentamente si era diffusa tra i partiti della coalizione di governo fino ad essere abbracciata dalla maggioranza delle forze parlamentari .136

La matrice irenista del pensiero politico di Moro poneva come primario obiettivo la pacificazione del conflitto arabo-israeliano, per tre motivi principali:

primo, destabilizzava lo spazio geopolitico mediterraneo, in cui l’Italia era immersa; secondo, coinvolgeva paesi con cui l’Italia intratteneva relazioni amichevoli; terzo, le

tensioni espresse rischiavano di compromettere il processo di distensione in corso in Europa. La stessa matrice lo portava alla convinzione che «il conflitto potrà spegnersi soltanto se si cercherà un assetto non fondato sulla armi […] ma sulla comprensione». Il Ministro elencava dunque le iniziative italiane nel segno di questo imperativo nel corso degli anni precedenti, volte alla «riapertura del canale di Suez, all’intesa per un embargo o quanto meno per una limitazione dell’invio di armi ai paesi nel campo di battaglia e alla predisposizione di garanzie internazionali per l’osservanza della tregua».

Sul piano della cooperazione internazionale si concentrava dunque l’azione dell’Italia, fino a considerare l’ONU «la sede naturale per la risoluzione del conflitto», sulla linea tracciata da Amintore Fanfani all’indomani della Guerra dei Sei Giorni. La concertazione multilaterale veniva poi corroborata dall’iniziativa italiana per «una consultazione europea sulla crisi, con l’obiettivo di fissare una linea comune e perciò più efficace che non [fosse] quella espressa dai singoli membri della Comunità».

F. Imperato, Tra equidistanza e filoarabismo cit., p. 75

Erano i primi segni dello slittamento della strategia dell’ancoraggio agli Stati Uniti alla concertazione europea. A riprova di questo raffreddamento dei rapporti con il leader del blocco occidentale stava il rifiuto da parte italiana di concedere le basi NATO presenti nel paese per l’assistenza militare ad Israele. Il ministro ricordava al Parlamento che «l’uso delle basi NATO è disciplinato da precise regole dell’alleanza, le quali vengono rigorosamente osservate». Non poteva esserci dunque che un’interpretazione strettamente difensiva dell’Alleanza Atlantica, nel nome di un pacifismo che, per essere realmente coerente, aveva portato l’Italia ad astenersi «da ogni intervento, in particolare da forniture di armi, che possa aggravare la situazione nelle zone di tensione». Moro paventava infatti la possibilità che

la guerra mediorientale [potesse] riaccendere, nella difesa delle posizioni dei contendenti e nella offerta, prima da una parte, poi dall’altra, di sempre nuove risorse per la guerra, una competizione tra le grandi potenze, le quali sembravano concordi nel volere insieme, in considerazione delle loro eccezionali responsabilità, prevenire e limitare i conflitti nel mondo ed i pericoli per la pace .137

L’intuizione di Moro era notevole: sul finire degli anni Sessanta, Stati Uniti e Unione Sovietica, nel nome della distensione, avevano eletto il Mediterraneo a principale luogo di scontro per l’egemonia. La strategia di rifornimento di armi e mezzi ai contendenti si configurava dunque come un conflitto per procura tra i due leader del bipolarismo, ma senza che essi avessero la concreta capacità di controllare i propri alleati nella regione né quindi di prevenire un escalation. Non era dunque il supporto militare né il ricorso alla forza la chiave per risolvere l’intricata vicenda mediorientale, che periodicamente esplodeva in rapidi e sanguinosi conflitti, in un clima di costante tensione che logorava tutte le parti coinvolte. Soltanto la «giustizia», ovvero che «i popoli del Medio Oriente e Israele [avessero] un’esistenza sicura e dignitosa, nell’ambito di confini presidiati dal consenso e, ove occorra, da una solida garanzia internazionale», avrebbe portato la pace. Poiché, ammoniva Moro, terminando il proprio intervento, «senza giustizia esplode la guerra, la guerra della disperazione».

Il discorso del Ministro tracciava dunque una serie di linee guida per l’azione politica italiana nel contesto del conflitto mediorientale in particolare e nel contesto mediterraneo in generale: a partire da una riflessione sull’equidistanza di fanfaniana memoria, ci si volgeva al suo superamento in virtù della considerazione della questione palestinese come questione politica; si promuoveva un’impostazione profondamente pacifista da contrapporre al supporto militare-logistico messo in campo dagli statunitensi; infine si auspicava un riorientamento della strategia dell’ancoraggio verso la Comunità Europea.

http://legislature.camera.it/_dati/leg06/lavori/stenografici/sed0168/sed0168.pdf, ultimo

137

La stessa Comunità recepì l’iniziativa italiana, emanando una Dichiarazione a firma congiunta a margine del Consiglio dei Ministri degli Esteri dei Nove svoltosi a Bruxelles il 6 novembre 1973 . La Dichiarazione intendeva esprimere con una sola 138

voce le convinzioni della Comunità riguardo la situazione in Medio Oriente. Divisa in cinque sezioni, stabiliva l’assoluta urgenza del rispetto delle disposizioni delle Risoluzioni 339 e 340 delle Nazioni Unite, che imponevano un cessate il fuoco immediato per le parti coinvolte ed un ritiro alle posizioni occupate prima del 22 ottobre. Al contempo, affermava che, per una pace giusta e durevole nel Medio Oriente fosse imprescindibile un’applicazione estensiva della Risoluzione 242 del 1967. Le negoziazioni tra le parti avrebbero dovuto avere luogo nel quadro istituzionale delle Nazioni Unite, ribadendo dunque il primato di un approccio multilaterale rispetto a trattative bilaterali tra Israele e i suoi avversari. Tali negoziazioni, il cui auspicio era che potessero far giungere ad un definitivo accordo tra le parti, avrebbero dovuto basarsi su alcuni principi fondamentali: l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la forza; la rinuncia da parte di Israele delle occupazioni territoriali conseguite in seguito al conflitto del 1967; il rispetto della sovranità, integrità territoriale e indipendenza di ogni stato della regione, nonché il diritto ad un’esistenza pacifica all’interno di confini sicuri e riconosciuti; l’impossibilità dello stabilire una pace che non tenesse conto dei legittimi diritti dei palestinesi. I Nove, in accordo con la Risoluzione 242, affermavano infine che l’eventuale - e auspicato - accordo dovesse essere oggetto di garanzie internazionali, necessariamente rafforzate dal dispiegamento di una forza di pace nelle zone interessate. Da ultimo, la Comunità approfittava dell’occasione per rinnovare la propria fiducia nei legami che da lungo tempo la univano con gli stati rivieraschi del Sud Est del Mediterraneo, rilanciando dunque il piano di negoziazione di accordi commerciali nel framework della Politica Globale Mediterranea, proclamata nel Summit di Parigi il 21 ottobre 1972.

La volontà di Aldo Moro di una consultazione europea, che fissasse una linea comune per risultare più efficace, poteva dirsi inequivocabilmente realizzata. La Dichiarazione infatti ripercorreva quasi pedissequamente le posizioni espresse nell’intervento del Ministro il 18 ottobre, stabilendo l’assoluto primato della Risoluzione 242 come chiave di volta per un futuro accordo tra le parti, da cui derivavano la necessità del rispetto dei confini e del riconoscimento del diritto all’esistenza di tutti gli stati della regione, da garantirsi con una forza di pace su mandato delle Nazioni Unite. Dove invece la Dichiarazione non arrivava a spingersi tanto quanto il politico italiano era la questione palestinese: mentre Moro parlava esplicitamente di «problema politico», i Nove adottavano la dicitura più inconsistente di «legittimi diritti dei Palestinesi», che non escludeva che la questione potesse essere affrontata come un problema di rifugiati.

https://www.cvce.eu/content/publication/1999/1/1/a08b36bc-6d29-475c-

138

La questione mediorientale tornò al cento del dibattito il 23 gennaio successivo, quando Moro intervenne davanti alla Commissione Esteri del Senato . Su invito 139

della Commissione, il Ministro intendeva chiarire sia l’evoluzione della congiuntura internazionale sia le contromisure prese dall’Italia per rispondervi. Sul conflitto arabo-israeliano, non ci si discostava dalle dichiarazioni precedenti, se non per chiarire che

Si tratta[va] di un problema di un problema politico da cui non [era] possibile fare astrazione per una stabile sistemazione della zona mediorientale. Si tratta[va] quindi di tutelare i diritti nazionali del popolo palestinese al quale deve essere lasciata la possibilità di decidere del proprio destino.

Per la prima volta dunque Moro affermava la necessità di una sistemazione statuale del popolo palestinese, abbandonando l’idea che fosse semplicemente sufficiente una autonomia amministrativa negli stati che al momento ospitavano i rifugiati della naqba del 1948 e della guerra del 1967: Giordania in primis, che con il Settembre Nero del 1970 aveva posto la pietra tombale sulla realizzabilità di una soluzione del genere. Era il definitivo superamento della storica posizione di equidistanza adottata dai governi italiani fino ad allora. La vicinanza alle sorti del popolo palestinese si innestava sulla tradizionale amicizia dell’Italia con il resto dei paesi arabi. Anche con la Libia, nonostante l’espulsione della comunità italiana nel 1970 in seguito alla rivoluzione del Colonnello Gheddafi, i rapporti erano in netto miglioramento. Il Governo desiderava infatti «superare ogni ostacolo che si [frapponesse] ad un’intesa di vasta portata, richiesta dalla vicinanza geografica e della complementarità dei due Paesi.»

La crisi energetica d’altronde imponeva che le forniture petrolifere ancora esistenti fossero garantite al disopra di ogni attrito o incomprensione. Ma - continuava il Ministro - una reale risoluzione non avrebbe potuto prescindere dal «mettere in comune le rispettive risorse al fine di promuovere un’integrazione veramente efficace tra i paesi consumatori e i paesi produttori». L’appello di Moro ripercorreva quello della Comunità del 6 novembre, con cui si invitavano i paesi rivieraschi all’adesione alla Politica Globale Mediterranea. Rispetto al soluzioni bilaterali, per uscire dall’impasse dell’embargo petrolifero non esisteva soluzione migliore che un raccordo tra i paesi consumatori. «Non si tratta[va] di costituire un fronte antagonista rispetto ai paesi produttori», quanto piuttosto di lanciare una concertazione comunitaria che permettesse ai Nove di parlare con una sola voce e ottenere maggiori chance di successo.

Oltre gli auspici esisteva però una realtà ben diversa. Moro era costretto a rilevare che «il recente vertice di Copenaghen [del 15 dicembre] non è stato un grande successo» perché, pur avendo riconosciuto la necessità di un’intesa tra i

http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/276688.pdf, ultimo accesso del

139

membri della Comunità Europea, non ne erano state precisate le modalità: il deludente risultato era stato la mancanza di una posizione comune di fronte alla stretta energetica.

Seppur deficitaria di risultati concreti, «la volontà manifestata dai Nove di procedere sulla via dell’unità introduce[va] un elemento nuovo nella situazione internazionale e nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa». Era la possibilità che, nei mutamenti innescati dalla distensione, l’Europa potesse porsi come quarto polo dell’ordine internazionale, accanto alla Cina e alle due superpotenze. Il Vecchio Continente si trovava davanti alla sfida di definire concretamente la propria identità geopolitica e di renderla compatibile con i vincoli di amicizia che la legavano agli Stati Uniti, ponendosi finalmente su un piano paritario ora che il rilassamento delle tensioni bipolari sembrava avere allontanato la minaccia della distruzione totale.

«La prospettiva di pace e di una più giusta e feconda convivenza internazionale» rimanevano al primo posto tra gli obiettivi della politica estera nazionale. L’irenismo di Moro fungeva dunque da raccordo tra le varie istanze dell’azione internazionale dell’Italia: un Mediterraneo stabile avrebbe garantito gli approvvigionamenti energetici e la sicurezza delle rotte commerciali da cui dipendeva l’economia nazionale; la neutralizzazione dei conflitti locali, il cui riverbero poteva mettere a rischio il processo di distensione, avrebbe incentivato la dissoluzione dei vincoli di appartenenza di blocco che limitavano le scelte politiche degli attori minori, garantendo infine una più ampia autonomia. Appare dunque fondamentalmente corretta l’interpretazione di Angelo Panebianco , per il quale 140

alla base dell’irenismo italiano degli anni Settanta stessero esigenze eminentemente nazionalistiche. Infatti, il connubio irenismo-nazionalismo era praticato anche da altri elementi della classe dirigente italiana. Il predecessore di Moro, Giuseppe Medici, nel corso della sua visita in Libano nel febbraio 1973, identificava nella «rilevante presenza di circa trecentomila profughi» palestinesi la causa principale delle difficoltà che stava attraversando il Paese dei Cedri, per poi confermare «la posizione del Governo italiano favorevole ad una soluzione globale del Medio Oriente, articolata in un “pacchetto” da attuare in tempi successivi», aggiungendo che

una delle fasi fondamentali di tale processo resta la riapertura del Canale di Suez: quando fossero iniziati i lavori per la riapertura, l’allargamento e l’ammodernamento del Canale, tutta la regione che gravita intorno a questa via d’acqua subirebbe un avvio su strada dalle quali sarebbe difficile tornare indietro .141

A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Il Mulino,

140

Bologna, 1997, pp. 245-250

Testi e Documenti della Politica estera italiana, “Libano - Visita del Ministro degli esteri

141

Medici (7-8 febbraio)”, Ministero degli Affari Esteri - Servizio Storico e Documentazione, 1973, p. 241.

L’iniziativa italiana di pace nel Mediterraneo si inseriva dunque nel quadro più ampio delle esigenze economiche nazionali, minacciate dalle tensioni regionali.

Moro, con il suo ritorno alla guida della Farnesina dopo la breve parentesi di Medici durante il secondo governo Andreotti, aveva ormai chiaramente stabilito le tre direttrici principali della propria politica mediterranea: ancoraggio alla politica mediterranea della CEE, contemporaneamente al mantenimento di stretti rapporti bilaterali con i paesi arabi; supporto esplicito alla causa nazionale palestinese, stante il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele; stabilizzazione della regione e approccio irenista alle conflittualità locali.

Lo statista pugliese fu sempre un convinto assertore della necessità di un approccio comunitario al mondo arabo e alle tensioni regionali, e la Dichiarazione del Consiglio Europeo del 6 novembre 1973 sembra confermare che la politica inaugurata al Summit di Parigi del 1972 fosse sui binari giusti. La necessità di un approccio concertato a livello europeo era condivisa anche da Mariano Rumor, presidente del consiglio del nuovo esecutivo di centro-sinistra sorto nel luglio 1973 dopo il governo centrista di Andreotti. Nella sua visita a Londra dell’8 e 9 dicembre 1973 - una settimana prima del previsto vertice di Copenaghen tra i ministri degli esteri della CEE, il presidente esprimeva

una particolare convergenza di vedute con il Primo Ministro britannico. Italia e Inghilterra [erano] profondamente convinte dell'importanza dell'unità comunitaria in questo particolare momento e della importanza del ruolo che l'Europa [potesse] e [dovesse] ancora svolgere per contribuire sollecitamente ad una sistemazione pacifica nel Medio Oriente .142

Esisteva infatti una sostanziale sintonia di vedute tra il presidente del Consiglio e il Ministro degli Esteri, che si sarebbe mantenuta anche durante i successivi governi Moro , in cui Rumor avrebbe preso il suo posto alla guida della Farnesina.143

L’offensiva petrolifera che si materializzava in maniera sempre più preoccupante nei mesi successivi alla Guerra di Ottobre disintegrò ogni possibilità di fronte comune tra i paesi europei consumatori. Non bisogna dimenticare inoltre la determinata opposizione statunitense a qualsiasi progetto di autonomia europea nel Mediterraneo: lo stesso Nixon il 9 febbraio 1974 - proprio a ridosso della data d’inizio della Conferenza per l’Energia che si sarebbe tenuta a Washington dall’11 al 14 febbraio - minacciava gli europei di un disimpegno americano dal continente nel

Testi e Documenti della Politica estera italiana, “Gran Bretagna - Visita del Presidente del

142

Consiglio Rumor (8-9 dicembre)” Ministero degli Affari Esteri - Servizio Storico e Documentazione, 1973, p. 221

L. Monzali, Aldo Moro e la politica estera italiana (1963-1978) in in F. Imperato, R. Milano,

143

caso in cui non avessero terminato di perseguire i propri interessi nazionali e regionali .144

La GMP veniva considerata dall’amministrazione statunitense come un tentativo degli stati europei del blocco occidentale di affermare la propria identità su un piano paritario a quello americano , come d’altro canto aveva chiaramente 145

affermato Aldo Moro nel suo intervento alla Commissione Affari Esteri del Senato il 23 gennaio 1974 .146

La disgregazione del fronte comunitario costrinse invece gli europei a trovare soluzioni bilaterali alla crisi energetica: la piega presa dagli eventi era per Moro fronte di grande insoddisfazione, palpabile anche nelle sue comunicazioni alla Commissione Esteri della Camera del 28 febbraio 1974 . In quella sede, di ritorno 147

dalla Conferenza di Washington, nel rispondere alle critiche che imputavano all’Italia di essersi «avventurata sul terreno dei rapporti bilaterali, i quali rischia[va]no di determinare un clima di gara e di concorrere all’aumento dei prezzi», il Ministro affermava che «la stretta della crisi energetica consiglia[va] di non abbandonare» i contatti diretti con i paesi produttori, dal momento che, chiedeva retoricamente, «del resto, chi si è offerto di provvedere, su un piano globale, alle nostre necessità?» La successive intese con la Libia e l’Iran dimostrarono comunque la capacità italiana di un’azione efficace in risposta alla crisi , grazie sopratutto ai proficui 148

rapporti ereditati dai precedenti governi. Dopo oltre un quindicennio, l’Italia ripercorreva le strade battute nella stagione del neo-atlantismo , rispolverando le 149

opzioni di autonomia nazionale nel contesto mediterraneo. Non mancando comunque di lamentare l’occasione perduta, dato che la crisi mediorientale sembrava offrire all’Europa l’occasione di capitalizzare la sua storica presenza politica ed economica nei paesi rivieraschi.

Per Moro l’approccio multilaterale era lo strumento migliore per sfuggire alle logiche coercitive del bipolarismo , la cui natura cogente si profilava sempre più 150

chiara agli occhi dello statista pugliese. D’altro canto, l’avvio della CSCE, la crisi dell’amministrazione Nixon e il progressivo crollo delle dittature militari dei paesi euro-mediterranei (Portogallo, Grecia e in seguito Spagna) sembravano aprire nuovi

E. Bini, Reshaping cit., p. 201

144

Ivi, p. 196

145

http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/276688.pdf, ultimo accesso del

146

08.06.2019

http://legislature.camera.it/_dati/leg06/lavori/Bollet/19740228_00.pdf, ultimo accesso del

147

08.06.2019

L. Monzali, Aldo Moro cit., p. 34.

148

G. Formigoni, L’Italia nel sistema internazionale cit., p. 287

149

L. Tosi, La strada stretta cit., p. 242

spazi per il definitivo superamento del sistema bipolare . Eppure proprio negli anni 151

Settanta le strutture multilaterali erano in netta crisi: le Nazioni Unite erano spesso paralizzate dalla politica dei veti incrociati, mentre si profilava una contrapposta