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Cesare Pavese: il mito, la politica e la Storia.

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(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LINGUA E LETTERATURA

ITALIANA

TESI DI LAUREA

Cesare Pavese: il mito, la politica e la Storia

Candidata

Relatrice

I

SABELLA

V

ULLO

Prof.ssa A

NGELA

G

UIDOTTI

Controrelatore

Prof. L

UCA

C

URTI

(2)

Indice

Introduzione

p. 4

Capitolo I

Crescere a Torino tra gli anni Dieci e gli anni Venti: un’educazione liberale

1.1 Primi passi: la scoperta della letteratura 12

1.2 Apprendistato poetico: dall’epistolario con Mario Sturani a

Lotte dei giovani 15

1.3 Il dopoguerra a Torino: tra il Biennio rosso e le riviste gobettiane 31

1.4 Augusto Monti erede gobettiano 40

1.5 Scuola come «palestra di vita» 47

1.6 La confraternita degli ex alunni del D’Azeglio: primo esperimento

collettivo 54

Capitolo II

L’età delle traduzioni e Lavorare stanca

2.1 Leone Ginzburg: tra impegno politico e editoria 61

2.2 Cesare Pavese e Augusto Monti: un rapporto difficile 69

2.3 Gli anni universitari: le poesie precedenti a Lavorare stanca 76

2.4 L’esordio come esperto di letteratura americana: l’inizio della biografia intellettuale di Pavese

2.4.1 Gli studi sulla poesia di Walt Whitman 84

2.4.2 Sinclair Lewis 91

2.4.3 Sherwood Anderson 98

2.5 Lavorare stanca

2.5.1 Le poesie politiche 105

2.5.2 I mari del Sud e la poesia-racconto 114

2.5.3 Città e campagna: uno scontro dialettico 121

(3)

Capitolo III

Il mestiere di vivere e il passaggio alla prosa

3.1 Il confino e Il mestiere di vivere 145

3.2 Brancaleone calabro: verso il recupero della classicità e una nuova poetica

3.2.1 La lettura dei classici 153

3.2.2 L’immagine-racconto 156

3.3 Ritorno alla narrativa

3.3.1 Terra d’esilio e altri racconti di Notte di festa 163

3.3.2 Dal racconto al romanzo: Il carcere 170

3.4 Verso il realismo simbolico: Paesi tuoi 181

Conclusioni

194

(4)

I

NTRODUZIONE

A quasi settant’anni dalla morte di Cesare Pavese la sua opera continua a suscitare l’interesse dei lettori e degli studiosi, come dimostrano le continue ristampe einaudiane dei romanzi e delle poesie dell’autore e la fondazione di enti volti alla conservazione delle carte manoscritte e al monitoraggio degli studi pavesiani nel panorama letterario internazionale. Il «Centro Interuniversitario per gli Studi di Letteratura Italiana in Piemonte “Guido Gozzano – Cesare Pavese”» dell’Università di Torino, diretto da Mariarosa Masoero, custodisce gli scritti autografi di Gozzano e Pavese e promuove mostre, convegni e altre iniziative culturali sui due autori1. All’interno del «Centro

Pavesiano Museo casa natale» (CE. PA. M.) nel 2001 è stato istituito l’«Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo», diretto da Antonio Catalfamo, che, anche grazie alla collaborazione di studiosi stranieri, si occupa di registrare, su dei volumi pubblicati con cadenza annuale, le pubblicazioni inerenti all’opera di Cesare Pavese in tutto il mondo. I dati riportati dall’«Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo» non testimoniano soltanto un crescente interesse per la produzione dello scrittore langarolo oltre i confini nazionali, ma evidenziano anche la presenza dell’opera pavesiana al di là delle aree della tradizionale influenza della cultura italiana (Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada). Nel 2001, ad esempio, è stata pubblicata in Messico la traduzione in spagnolo dell’intera opera poetica di Pavese in due volumi recanti il titolo di La poesia completa de Cesare Pavese, a cura di Elvia de Angelis2; nello stesso anno in Brasile è comparsa la prima edizione di

Dialoghi con Leucò, la cui traduzione è stata affidata a Nilson Mouline3; nel 2003 in

Olanda sono state pubblicate le poesie di Lavorare stanca e di Verrà la morte e avrà i tuoi

1 Il «Centro Interuniversitario per gli Studi di Letteratura Italiana in Piemonte “Guido Gozzano – Cesare

Pavese”» conserva inoltre le carte autografe di Massimo D’Azeglio, Edoardo Calandra, Domenico Lanza, Giovanni Cena, Enrico Thovez, Carlo Vallini, Francesco Pastonchi, Carlo Calcaterra, Francesco Chiesa e Maria Luisa Belleli.

2 CESARE PAVESE, La poesia completa, traducción y prólogo de ELVIA DE ANGELIS, México, Papeles

Privado, 2001.

(5)

occhi con il titolo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, tradotte da Willem von Toorn e da Petha de Voogd4.

Questi dati sono indubbiamente indice di un interesse sempre attuale nei confronti di Pavese e tale che egli possa ormai essere definito un classico della letteratura. La fortuna di Pavese in Italia non è tuttavia sempre stata lineare5: nel primissimo

dopoguerra l’autore conobbe un periodo di notevole successo che culminò nel giugno del 1950, due mesi prima del suicidio, con l’assegnazione del Premio Strega; negli anni immediatamente seguenti la scomparsa, l’interesse per l’opera di Pavese si attutisce considerevolmente almeno fino al 1958, in occasione cinquantenario della nascita. In questo lasso di tempo, inoltre, l’opera di Pavese è oggetto di interventi poco lusinghieri, come quello contenuto nell’articolo di Alberto Moravia, Pavese decadente, pubblicato sul «Corriere della sera» del ventidue dicembre 1954 e ora incluso in L’uomo come fine e altri saggi6. Moravia definisce Il mestiere di vivere un «libro penoso» e aggiunge:

questa pena, a ben guardare, viene soprattutto dalla combinazione singolare di un dolore costante, profondo e acerbo con i caratteri meschini, solitari e quasi deliranti di un letterato di mestiere. […]. In Pavese c’è il letterato, prima di tutto e soltanto, così nella vita come nell’opera. E quel dolore che si è detto non sembra trovare espressione nella vita né nell’opera, rimane senza sfogo di azione e senza purificazione poetica, lo porta finalmente al suicidio.7

Moravia fornisce una «rappresentazione grottesca e volutamente provocatoria»8 di

Pavese e, applicando sullo scrittore langarolo l’etichetta di «decadente» in accezione negativa, lo inserisce, come farà Furio Jesi nel 1964 ma in modo assai più documentato9, all’interno del filone dei decadenti europei che ha le sue origini in

Nietzsche:

4 CESARE PAVESE, De dood zal komen en jouw ogen hebben, traduzione di WILLEM VON TOORN e PETHA DE

VOOGD, Amsterdam, De Bezige Bij, 2003.

5 Per la storia della fortuna critica di Pavese si rimanda a MAURO PONZI, La critica e Pavese, Bologna,

Cappelli, 1977.

6 ALBERTO MORAVIA, Pavese decadente, in ID., L’uomo come fine e altri saggi, Milano, Bompiani, 1963, pp.

89-93.

7 Ivi, pp. 89-90.

8 SAVERIO IEVA, Moravia contro Pavese. Un esempio di critica «parodica»?, in «Italies», n. 4/1, 2000, p. 435. 9 Cfr. FURIO JESI, Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito, in ID., Letteratura e mito, Torino, Einaudi, 1968,

pp. 131-160. Pur collocando la produzione di Pavese nel solco del decadentismo, Jesi non conferisce a questo termine un’accezione negativa ma ne traccia le coordinate storiche, filosofiche e letterarie. Secondo Jesi la riflessione sul mito di Pavese è influenzata dall’estetica e dalla poesia tedesca di fine Ottocento e di inizio Novecento che ha i suoi esponenti in Rilke, Frobenius, Mann e George e affonda le sue radici in Nietzsche e Goethe.

(6)

Le idee di Pavese sono più importanti dei suoi libri […]; ma sono le idee di un critico e di un letterato, ossia riflessioni sulle opere e dopo le opere, non per le opere e prima delle opere. Esse, in altri termini, non possono non ispirare opere assai diverse da quelle dalle quali traggono ispirazione: nascono, poniamo, dal vagheggiamento del logos erodoteo ma approdano a un neonaturalismo dialettale. Esse sono, in sostanza, le idee del decadentismo europeo, da Nietzsche in su, per cui, erroneamente, si vagheggia un tempo mai esistito in cui gli uomini agissero per motivi irrazionali, scambiando così per irrazionalità ciò che era, al momento, la sola razionalità possibile. Sono le idee non soltanto di Nietzsche ma di D’Annunzio, di Lawrence e di tanti altri, rinsanguate con la lettura dei libri di etnologia e con l’interpretazione tendenziosa della letteratura classica americana10.

La condanna sprezzante di Moravia nei confronti del decadentismo pavesiano, inoltre, investe il piano politico poiché

Pavese […] propone di gettare a mare cultura e storia e di affrontare la realtà come qualche cosa che non si conosce e che non si vuole neppure conoscere, appunto in maniera mitologica, la maniera che i decadenti attribuiscono agli arcaici, ai primitivi, ai negri e al popolo. Si tratta, come si vede, delle stesse preoccupazioni anticulturali che sono all’origine di tutti i movimenti di estrema cultura di avanguardia che ci sono stati in Europa negli ultimi cinquant’anni: decadentismo, negrismo, neoprimitivismo, surrealismo, eccetera, eccetera. Di passaggio, questo esasperato irrazionalismo e antistoricismo sono quanto di più diverso e di più ostile ci possa essere al comunismo e all’arte come il comunismo la intende.11

Pavese non affronta affatto «la realtà come qualche cosa che non si conosce e che non si vuole neppure conoscere»: punto fermo della sua letteratura è proprio l’osservazione della realtà, che egli carica di un significato simbolico per scorgerne una verità più profonda e meno oggettiva, che scavi fino al significato ultimo dell’esistenza. Si tratta di un obiettivo che Pavese si prefigge fin dai suoi studi su Walt Whitman del quale ammira la capacità di osservare la realtà «con occhi vergini», per «arrivare a quell’ “ultimate grip of reality”»12. Realtà e mito in Pavese si completano e compensano in un

unico disegno che tende alla scoperta di una realtà più profonda e vera. La lettura di Moravia è decisamente riduttiva e pecca indubbiamente di superficialità, specialmente quando attribuisce a Pavese «una vanità, infantile, smisurata, megalomane», «un’invidia anch’essa infantile», «una mancanza stizzosa di generosità e di carità verso amici e sodali», «una credenza ingenua, inspiegabile nella letteratura come società» e «un estetismo inguaribile fino in punto di morte»13; l’intervento di Moravia è dunque volto

10 ALBERTO MORAVIA, Pavese decadente, cit., p. 91. 11 Ivi, pp. 91-92.

12 CESARE PAVESE, Interpretazione di Walt Whitman, poeta, in «La Cultura», 12, n. 3, luglio-settembre 1933;

poi inID., La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1990, pp. 132 (da cui si cita).

(7)

esclusivamente a sottolineare il proprio giudizio negativo sulla letteratura di Pavese, una stroncatura che non perderà occasione di ribadire sedici anni dopo sulle colonne de «L’Espresso»14. L’anno successivo, nell’ottobre del 1955, Carlo Salinari si allinea

all’interpretazione moraviana e adotta la categoria di decadentismo per definire i caratteri dell’opera di Pavese; tuttavia l’articolo di Salinari15, al contrario di quello di

Moravia, tenta una sistemazione e un bilancio dell’opera dell’autore langarolo e ne riconosce la complessità e l’interesse. Salinari attribuisce a Pavese una «funzione culturale» ma ritiene che tale funzione sia «stata maggiore della resa artistica» e individua nello scrittore langarolo «il punto di approdo del decadentismo italiano, la conclusione del processo di revisione della nostra cultura letteraria che ebbe inizio negli ultimi decenni del secolo scorso»16. Salinari inoltre, rispetto a Moravia, approfondisce

maggiormente l’aspetto mitico della poetica pavesiana e, pur ancorando l’opera dell’autore piemontese alla nozione di decadentismo, non trascura di offrirne un quadro completo e articolato, sottolineandone alcuni concetti, come quello di «realismo simbolico»17, che verranno ripresi dalla critica nei decenni successivi. In ogni

modo, dopo l’articolo di Moravia, la nozione di decadentismo diventerà una «pietra di inciampo»18 contro cui si dovrà scontrare buona parte della critica pavesiana.

Negli anni sessanta l’opera di Pavese è al centro degli interessi degli studiosi e delle iniziative editoriali: nel 1960 Davide Lajolo scrive la prima biografia dell’autore, Il «vizio assurdo», e vi acclude alcune lettere inedite; nel 1966 vengono pubblicate in due grossi volumi le Lettere a cura di Lorenzo Mondo e Italo Calvino; nel 1967 Pavese diventa oggetto di studi anche oltre i confini nazionali da parte del critico francese Dominique Fernandez, che nel suo saggio, L’échec de Pavese, si prefigge l’obiettivo di applicare la psicanalisi alla biografia e all’esegesi dell’opera dell’autore. Sempre in quel decennio l’interesse per la produzione di Pavese assume dimensioni di massa, soprattutto tra i

14 Cfr. ALBERTO MORAVIA, Fu solo un decadente, in «L’Espresso», 12 luglio 1970, p. 14. Sebbene

l’intervento del 1954 non avesse raccolto consenso dalla critica, fatta eccezione dell’articolo di Salinari che comunque riconosce alla produzione di Pavese un notevole spessore letterario, Moravia negli anni non rivide le sue posizioni ma, anzi, le confermò.

15 CARLO SALINARI, La poetica di Pavese, in «Il Contemporaneo», 1° ottobre 1955, poi in ID., Preludio e fine

del realismo in Italia, Napoli, Morano, 1967 (da cui si cita).

16 Ivi, p. 89.

17 «I fatti, gli uomini e gli ambienti attraverso cui si sviluppa la vita storica dell’autore diventano la

indispensabile verifica della validità del simbolo, della sua credibilità, della sua capacità di suggestione. Per questo le situazioni pavesiane hanno sempre un appiglio con la realtà storica (l’antifascismo, la resistenza, la post-resistenza). Per questo la definizione finale che Pavese darà della sua arte potrà essere quella di realismo simbolico». Ivi, p. 94.

(8)

giovani nel periodo delle contestazioni, perché i romanzi e le poesie sembrano rappresentare il malessere e il disagio delle future generazioni.

Fino alla prima metà degli anni Settanta l’opera di Pavese continua a suscitare un vivo interesse e viene posta maggior attenzione alla lettura politica e biografica dei romanzi, per registrare, invece, un significativo calo nella seconda metà del decennio che perdura negli anni Ottanta. Negli anni Novanta la critica è tornata a interessarsi della produzione di Pavese e si è fatta sempre più selettiva, isolando alcuni aspetti e alcuni scritti perché considerati meglio riusciti di altri: da più di vent’anni, infatti, l’attenzione degli studiosi si concentra sui testi in cui Pavese ha esposto le sue teorie sul mito e sulla concezione irrazionalistica della vita. Da questo atteggiamento è derivata, da un lato una notevole riconsiderazione di uno scritto che al momento della sua pubblicazione, nel 1947, non ricevette la giusta attenzione, Dialoghi con Leucò, e, dall’altro, una svalutazione di un romanzo come Il compagno perché reputato troppo propagandistico e ideologico e legato a una temperie storico-politica ormai superata.

Negli ultimi vent’anni risulta evidente la tendenza a studiare l’opera pavesiana per ambiti, privilegiando solo l’aspetto più prettamente letterario e dedicando maggior attenzione a una lettura mitica e simbolica dei testi a scapito della loro componente maggiormente realistica.19 Si tratta di una linea interpretativa che non rispetta

pienamente la poetica dell’autore che invece pone pari interesse all’osservazione della realtà storica, politica e sociale e allo studio del simbolo e del mito. La letteratura di Pavese si configura, infatti, come un disegno unico composto da più momenti che, per quanto opposti, si compenetrano e completano tra loro per giungere alla chiarezza e alla totalità, alla scoperta di una realtà più profonda e segreta – quindi più vera – che giace sotto la realtà apparente. Alle soglie di un nuovo decennio si auspica, quindi, che venga approfondita un’analisi dell’opera di Cesare Pavese che si concentri parimenti sulla componente realistica e su quella simbolica: i due versanti sui quali converge l’opera dell’autore.

Per questo motivo è parso utile ricostruire la prima fase della biografia intellettuale e politica di Pavese, dagli anni della formazione all’affermazione come romanziere.

19 Risultato dell’approccio metodologico degli ultimi anni è inoltre l’inclinazione a considerare l’opera

produzione pavesiana indipendentemente dal contesto storico politico in cui essa è generata e a leggere un romanzo come La luna e i falò, prima considerato realistico, esclusivamente in chiave mitica. Occorre ricordare che un’opera non può essere analizzata nella sua sola componente letteraria, ma essa deve inoltre essere connessa all’epoca storica in cui è stata composta.

(9)

Nella prima parte di questo studio si è tentato di fornire un quadro più ampio possibile del contesto storico, geografico e politico in cui cresce l’adolescente Pavese, sottolineando inoltre l’importanza di alcuni incontri della giovinezza dell’autore. Uno di essi è indubbiamente quello con Mario Sturani, un ragazzo che Pavese conosce sui banchi di scuola del Liceo classico Cavour, e che diventa ben presto l’amico e l’emulo della sua adolescenza. Quando nel 1924 Sturani decide di trasferirsi a Monza per studiare arte, i due ragazzi intraprendono una corrispondenza epistolare in cui si scambiano giudizi e prove liriche: inizia così l’apprendistato poetico di Pavese che, già da ragazzo, sogna un futuro da letterato. In questi anni Cesare sembra preoccupato di non riuscire a imporsi sulla scena letteraria e di questa apprensione è testimone anche la produzione dell’epoca: il Romanzo della gioventù, un’opera mai conclusa e in parte confluita nella raccolta di racconti Lotte dei giovani, basato sul dramma – autobiografico – di un aspirante poeta che lotta per emergere dall’anonimato. Della sensibilità letteraria del giovanissimo Pavese si accorge ben presto il suo professore di lettere del Liceo D’Azeglio, Augusto Monti, un uomo dai saldi principi liberali che aveva collaborato con le riviste di Piero Gobetti e molto attento alle questioni politiche nazionali: quando il fascismo è ormai al potere e sta rivelando sempre di più il suo volto violento e repressivo, Monti impartisce ai suoi scolari delle lezioni ispirate dai valori della libertà. Una volta che i suoi studenti ottengono la maturità, Monti non li abbandona, ma li invita a tenerlo aggiornato sui loro studi e sui loro progetti per il futuro e fa incontrare i suoi allievi più brillanti: nasce così la confraternita degli ex alunni del D’Azeglio, i cui membri si ritrovano un pomeriggio a settimana e si dilettano discutendo di arte e letteratura. Tra i membri che animano questa compagnia ci sono, oltre a Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio, Carlo Giulio Argan, solo per ricordare i più noti.

La seconda parte di questo studio si concentra sull’interesse di Pavese per la letteratura americana e sulla raccolta poetica Lavorare stanca. L’ammirazione di Pavese per gli autori d’oltreoceano nasce con la stesura della tesi di laurea su Walt Whitman discussa con Ferdinando Neri nel 1930, anche se gli interessi letterari di Pavese non si limitano esclusivamente al poeta di Leaves of grass. L’assegnazione del premio Nobel a Sinclair Lewis permette a Pavese di esordire come critico e traduttore di letteratura americana: traduce Our Mrs Wrenn per l’editore Bemporad e scrive un articolo su Lewis su «La Cultura» grazie all’amicizia con Leone Ginzburg, il quale, inoltre, introduce

(10)

Pavese nella casa editrice Frassinelli dove, tra gli altri romanzi, traduce Moby Dick. Degli autori americani Pavese ammira la capacità di aver saputo tematizzare e problematizzare i cambiamenti nella società prodotti dal capitalismo capillarizzato e averne saputo trarre una raffinatissima materia narrativa. Parallelamente all’attività di critico Pavese porta avanti quella di poeta: nel 1930 compone la lirica I mari del Sud, che si configura come il frutto delle sue riflessioni estetiche sulla poesia-racconto, una poesia oggettiva che presenta uno sviluppo di casi e situazioni. I mari del Sud apre Lavorare stanca, una raccolta poetica che contiene al suo interno diversi nuclei tematici, tra cui quello politico. Il componimento che meglio rappresenta questo nucleo è Una generazione che rievoca la Strage di Torino del 1922, durante la quale le squadracce guidate da Piero Brandimarte assassinarono undici militanti e simpatizzanti comunisti, distrussero la Camera del Lavoro e bruciarono la sede de «L’Ordine Novo». La confraternita degli ex allievi del D’Azeglio in pochi anni ha indirizzato i suoi interessi anche nei confronti della politica, fino a rifondare a Torino il gruppo antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, e ha dato vita a importanti iniziative editoriali: nel 1933 ha fondato la casa editrice Einaudi e ha rilevato la rivista «La Cultura». Pavese, in quegli anni, si tiene lontano da qualsiasi forma di politica attiva, accetta però il ruolo di direttore de «La Cultura», sapendo benissimo di esporsi ai sospetti della polizia fascista, e scrive alcune poesie politiche nelle quali si respira chiaramente un’insofferenza nei confronti del regime. Come sostiene Calvino

rispetto all’ambiente torinese dei suoi amici, estremamente politicizzato e impegnato nella lotta antifascista, P. costituisce l’eccezione per il suo spirito

apolitico o antipolitico; […] rispetto all’ambiente generale della letteratura italiana di

quegli anni P. costituisce l’eccezione per l’evidenza che ha in lui l’elemento politico20.

Nell’ultima parte di questo studio si è posta l’attenzione sul periodo che Pavese trascorre in confino a Brancaleone Calabro: nel maggio del 1935 la polizia fascista, grazie all’intervento della spia Pitigrilli, scopre i rapporti tra la redazione de «La Cultura» e il movimento sovversivo Giustizia e Libertà. Pavese, in quanto ex direttore della rivista, viene arrestato e, inoltre, durante un sopralluogo nel suo appartamento viene trovata una corrispondenza tra Tina Pizzardo, simpatizzante comunista con la

20 ITALO CALVINO, Le poesie politiche di Pavese, in AA.VV., Miscellanea per le nozze di Enrico Castelnuovo e Delia

(11)

quale Pavese era stato legato sentimentalmente, e il pittore antifascista Bruno Maffi: le accuse contro Pavese si fanno ancora più gravi. Nell’agosto del 1935 viene tradotto in Calabria; il periodo del confino non ha ricevuto il giusto interesse dalla critica anche se esso costituisce un momento fondamentale della vita e della produzione dell’autore per una serie di motivi: innanzitutto proprio in questa fase della sua esistenza stenderà la prima nota del diario, Il mestiere di vivere; inoltre il paesaggio marino calabrese, assieme alla costante lettura dei classici, permetterà a Pavese di approfondire il suo rapporto con la Magna Grecia; dall’esperienza del confino maturerà alcune riflessioni che lo condurranno al passaggio dalla poesia alla prosa e al passaggio dalla poetica della poesia-racconto a quella dell’immagine-racconto; infine, dopo l’esperienza del confino Pavese approfondirà i suoi interessi per il simbolo, cui seguirà un temporaneo abbandono delle tematiche storiche, politiche e sociali. I prodotti di questa nuova stagione letteraria, con cui Pavese si affaccerà negli anni Quaranta, sono i due romanzi Il carcere e Paesi tuoi.

(12)

C

APITOLO

I

Crescere a Torino tra gli anni Dieci e gli anni Venti:

un’educazione liberale

1.1 Primi passi: la scoperta della letteratura.

Cesare Pavese nasce il nove settembre del 1908 in una famiglia dell’agiata borghesia torinese a Santo Stefano Belbo, dove il padre Eugenio, cancelliere del tribunale del capoluogo piemontese, possiede una casa e dei terreni; il luogo di nascita dell’autore è dunque del tutto casuale anche se Pavese sottolineerà per tutta la vita le proprie origini langarole. Al paese natale Pavese torna ogni estate e, nel 1914, vi frequenta la prima elementare perché la sorella Maria si è ammalata di tifo e la famiglia ha precauzionalmente allontanato il piccolo Cesare. Nello stesso anno muore il padre in seguito ad un cancro al cervello e la madre, Consolina Mesturini, costretta ad assumere il ruolo di capofamiglia e determinata a mantenere un decoro borghese, decide di vendere la casa a Santo Stefano Belbo per acquistare una villa ottocentesca a Reaglie: si perde, così, il legame fisico di Pavese con le Langhe. Gli studi proseguono a Torino dove la famiglia gode di notevole agiatezza e coltiva l’immagine di una borghese rispettabilità, come dimostra la conclusione del ciclo delle elementari di Cesare all’istituto privato Trombetta a cui segue l’iscrizione all’Istituto Sociale dei padri gesuiti. In questi primi anni di scuola Cesare non dimostra particolari doti e studia quanto basta per evitare la bocciatura. Dopo il ginnasio inferiore il ragazzo continua gli studi presso la scuola pubblica, al liceo Cavour, dove sceglie la sezione «Moderna» nella quale non era previsto lo studio della lingua greca; si crea così una lacuna nella formazione culturale che l’autore si sforzerà di colmare a più riprese, come dimostrano le Lettere e molti passi de Il mestiere di vivere1.

1 Si legga, ad esempio, questa lettera dell’agosto 1926, scritta quindi un mese dopo aver conseguito la

maturità e indirizzata al suo professore di lettere del liceo d’Azeglio Augusto Monti: «Studio il greco per potere un giorno ben conoscere la civiltà omerica, il secolo di Pericle, e il mondo ellenista». CESARE

(13)

Gli anni tra il ginnasio inferiore dell’Istituto Sociale dei padri gesuiti e quelli del Cavour modificano gli interessi del Pavese adolescente: se negli anni di studio precedenti «porta a casa ogni anno una pagella discreta, senza eccellere in nessuna materia» e come studente «non è tra quelli meritevoli di elogio»2, adesso è avido di

letture, gli piace studiare e compie persino il tragitto da casa a scuola leggendo3. Nella

prima biografia pavesiana pubblicata nel 1960, Il «vizio assurdo». Storia di Cesare Pavese, l’autore, Davide Lajolo, afferma che la lettura dei testi di D’Annunzio segna la consacrazione del giovane Pavese alla letteratura e che l’interesse per il “vate” stimola la curiosità per lo studio e l’attenzione a scuola:

il ragazzo svogliato, avido di qualunque lettura, opera la sua prima trasformazione proprio su D’Annunzio. Di conseguenza, anche la scuola diventa qualcosa di diverso. Pavese comincia a studiare, a prestare attenzione ai professori, e quando è a casa si sorprende egli stesso a scrivere versi4.

Nella grande città ha molte possibilità di trovare libri e si appassiona a ogni testo; negli anni Dieci vanno molto di moda i romanzi di Guido da Verona che il giovane Pavese non manca di leggere, anche se, afferma Lajolo

poi dal D’Annunzio delle selve quale era Guido da Verona s’impose, in quegli anni, il passaggio al da Verona delle padrone quale fu considerato il D’Annunzio dei romanzi allora più di moda. Il passaggio si fece ancora più naturale in quel dopoguerra perché seguì la seconda ondata della fortuna dannunziana, quando non dominava più il D’Annunzio mondano dei levrieri, delle donne e dei duelli; ma il D’Annunzio guerriero del volo su Vienna e dell’avventura fiumana5.

Senza dubbio Cesare coltiva un interesse molto forte per D’Annunzio – in parte dovuto al successo dell’autore in quegli anni, all’agevole reperibilità delle sue opere e alla temperie culturale dominante nel primissimo dopoguerra – ed è facile immaginare che una personalità pubblica così dirompente, come quella dell’autore abruzzese, eserciti un notevole fascino su un adolescente dall’indole chiusa e riflessiva, che tuttavia

tardi, l’11 settembre 1935, dal confino a Brancaleone Calabro, invia allo stesso destinatario la seguente lettera nella quale dà notizia della propria attività giornaliera: «Il giorno lo passo “dando volta”. Leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio insomma, venir notte, ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italiano non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà: nel mio caso, per tre anni.». Ivi, p. 435. Il corsivo è mio.

2DAVIDE LAJOLO, Il «vizio assurdo». Storia di Cesare Pavese, Milano, il Saggiatore, 1960, p. 29. 3 Cfr. Ivi, p. 40.

4 Ibidem. 5 Ibidem.

(14)

inizia a nutrire delle speranze per il suo futuro da letterato ed ambisce ad una certa notorietà. Occorre, però, riflettere su quanto gli anni dell’adolescenza siano determinanti nella formazione intellettuale individuale perché, proprio in questa fase della crescita, iniziano a delinearsi i primi interessi, prima sopiti e nascosti dalle distrazioni dell’infanzia. In un animo come quello del giovane Pavese, certo chiuso e introverso, inizia a svilupparsi una sensibilità letteraria pronta ad assorbire tutti gli stimoli dall’esterno, sia che essi derivino da D’Annunzio sia che essi derivino dalle lezioni degli insegnanti, anche se in classe sembra continuamente distrarsi «arrotolandosi una ciocca di capelli in modo così intricato che neppure il pettine riuscirà a sciogliere»6. L’affermazione di Lajolo può essere corretta sostenendo che

D’Annunzio rappresenta uno dei tanti stimoli che agiscono sul giovane Pavese, ma non il solo.

Nei pomeriggi, dopo la scuola, Pavese si diletta a comporre poesie; scrive un Carme a Urania, in endecasillabi sciolti, che risente delle letture del ginnasio dalle Georgiche di Virgilio, ai Sepolcri foscoliani, agli scritti cosmici di Leopardi, fino alle opere divulgative dell’astronomo Camille Flammarion – in particolare Le monde avant l’apparition de l’homme7 – conosciute alla biblioteca civica. Compone un poemetto in terzine ricco di

suggestioni salgariane in cui la ragazza di un cowboy si chiama Olga, come la compagna di classe di cui Pavese è segretamente innamorato. A questo periodo appartengono, inoltre, due lasse sulla Rivoluzione sovietica8, probabilmente frutto dei commenti della

6 Ivi, p. 37.

7 L’esperienza di questa lettura sarà ricordata molti anni dopo in una lettera indirizzata a Bianca Garufi

del 21 febbraio 1946: «Adesso c’è anche l’astrologo e Il mondo prima della creazione dell’uomo. Questo libro me lo ricordo bene – andavo a leggerlo 15 anni alla Biblioteca Civica, ed era il primo vero libro che leggessi, e sapevo tutto del periodo siluriano e giurassico e capivo che i romanzi d’avventure che avevo letto da ragazzo erano la stessa cosa, e insomma diventavo quello che sono. Mi ricordo che verso la fine c’è un’incisione della Verità (o la Scienza o l’Umanità) che nuda nuda vola verso la luce dell’avvenire e io penso che bella cosa che le donne nude siano anche la verità e l’avvenire. Di questo libro ho fatto lunghi estratti e lo sapevo quasi a memoria», MARIAROSA MASOERO (a cura di), Una bellissima coppia

discorde. Il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950), Firenze, Leo S. Olschki, 2011, p. 31. Anche

ne Il mestiere di vivere Pavese fa riferimento a questa lettura in una nota del 10 luglio 1943, nella quale sembra ricostruire il formarsi della sua poetica dove accanto al nome di D’Annunzio figurano anche quelli di Omero, di Dante e di Flammarion: «Insomma, il tuo stupore dei 16-19 anni era che la realtà (la cavedagna di Reaglie sotto le stelle, i boschi di forti frassini a far lance ecc.) fosse la stessa cosa che Omero e D’Annunzio sottacevano. Prima c’era stata la commozione ispirata dai segni delle cose (poesie, favole, miti); di qui hai riconosciuto la bellezza e l’interesse del mondo delle cose.

Benché fuori ancora dalla letteratura, ti sei interessato di astronomia ecc. perché commosso da segni (Flammarion, film su Dante, ecc.) che ti hanno portato a battezzare questa realtà e quindi a interessartene.», CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere, a cura di MARZIANO GUGLIELMINETTI e LAURA

NAY, Torino, Einaudi, 2000, pp. 256-257.

8 Cfr.MARZIANO GUGLIELMINETTI, Attraverso il «Mestiere di vivere», in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere,

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madre o delle frequentazioni di casa, che rispecchiano la mentalità chiusa e borghese della famiglia e sono quindi «indizio dell’aria che tirava in molte famiglie benpensanti, una specie di parabola, appena abbozzata, sulle convulsioni politiche che seguirono la prima guerra mondiale e le trattative di pace, ritenute punitive per l’Italia da parte delle correnti nazionalistiche. L’Italia è una “signora malata” che cambia sempre in peggio i suoi medici».9

1.2 Apprendistato poetico: dall’epistolario con Mario Sturani a Lotte di giovani.

Importantissimi in questi anni ginnasiali sono gli incontri e gli scambi di idee con i compagni di classe che Pavese rende partecipi dei suoi interessi per la letteratura e con uno di essi, in particolare, condivide questa passione: Mario Sturani. Sturani, una delle figure centrali dell’adolescenza di Cesare, ama la pittura e le arti figurative, ma apprezza molto anche la poesia e compone delle liriche che al Pavese di quegli anni paiono perfette. Ha un carattere opposto a quello di Cesare: è risoluto in ogni cosa che fa, è sempre ricco di iniziative e diviene sempre più il suo consigliere di fiducia, quasi un fratello maggiore. Mario Sturani, conosciuto tra i banchi del Cavour, di due anni più grande, diventa ben presto l’amico e l’emulo dell’adolescenza di Pavese. Il rapporto tra i due si consolida nella lontananza e negli anni, allorché Sturani, nel 1924, si trasferisce a Monza dove frequenta l’Istituto superiore di arti decorative, per dedicarsi, così, con maggior serietà alla pittura. Durante il soggiorno di Sturani a Monza i due scambiano una fitta corrispondenza – negli anni tra il 1924 e il 1927 Sturani è il destinatario di sedici delle ventisei lettere inviate da Pavese – incentrata su considerazioni di poetica, pittura ed arte in generale alla quale vengono talvolta allegate prove di poesia.

Lo scambio epistolare tra Pavese e Sturani permette di far luce sui primi anni della loro amicizia; Pavese considera il compagno un giudice perfetto a cui somministrare i propri componimenti, ma soprattutto in lui vede «un modello di artista destinato alla gloria, di cui calcare le orme per raggiungere il successo in arte»10. Sturani prova lo

stesso sentimento nei confronti dell’amico: tanto Cesare quanto Mario vedono l’uno nell’altro un ingegno potente e i tratti di una personalità superiore; tale riconoscimento provoca una sensazione di inevitabile sconfitta nei confronti della propria poetica e

9LORENZO MONDO, Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese, Milano, Rizzoli, 2006, p. 14. 10 Ivi, p. 68.

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una dolorosa presa di coscienza della piccolezza della propria vena artistica. Questo sentimento di inferiorità risulta tuttavia più radicato in Pavese che in Sturani, forse perché quest’ultimo ha scelto di consacrarsi alla pittura, un’arte in cui riesce egregiamente, ed è inoltre in grado di comporre lodevoli – agli occhi di Pavese – poesie.

Il sodalizio con Mario Sturani negli anni della formazione incide notevolmente sugli scritti giovanili di Pavese. Per comprendere al meglio il rapporto tra i due è necessario soffermarsi sul carteggio, che deve essere tuttavia integrato con le primissime produzioni letterarie di Pavese che, proprio sulla persona di Sturani, modella la figura del Pittore, personaggio di primo piano all’interno del primo progetto narrativo di ampio respiro, il Romanzo della gioventù. Quest’opera non venne mai conclusa, ma buona parte di essa è confluita nella raccolta di racconti Lotte di giovani, soprattutto nel racconto omonimo. Attorno a questo progetto narrativo esiste un numero considerevole di carte che, dopo essere state riordinate cronologicamente, sono state edite da Mariarosa Masoero in Appendice al volume pubblicato da Einaudi nel 1993 Lotte di giovani e altri racconti, nella Sezione II intitolata Materiali vari.11 Inoltre è possibile

consultare la tesi di dottorato in Italianistica discussa presso l’Università degli studi di Bologna da Sandra Cavaliere, Gli scritti giovanili di Cesare Pavese,12 incentrata sulla

primissima produzione pavesiana e resa possibile grazie ad un esame comparatistico dei testi e dell’epistolario dell’autore. È dunque necessario condurre un’analisi lavorando su tre piani: l’epistolario, gli appunti per il Romanzo della gioventù e il racconto Lotte di giovani; questa operazione permette di istituire un singolare parallelo tra finzione e realtà e di comprendere il rapporto tra gli adolescenti Sturani e Pavese al fine di tracciare un profilo della preistoria letteraria dell’autore. Nella personalità di Sturani Pavese coglie lo stimolo maggiore nell’esercizio e nella sperimentazione di prove poetiche e narrative; la relazione con l’amico pittore e la poetica «tenzone»13 che ne

deriva costituiscono un momento fondamentale dell’apprendistato poetico del giovane Pavese.

11CESARE PAVESE, Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), a cura di MARIAROSA MASOERO, Torino,

Einaudi, 1993.

12 SANDRA CAVALIERE, Gli scritti giovanili di Cesare Pavese, tesi di dottorato in Italianistica – XIX ciclo,

discussa con il prof. Marco Antonio Bazzocchi presso Alma Mater Studiorum Università di Bologna, http://amsdottorato.unibo.it/id/eprint/33.

13 MARZIANO GUGLIELMINETTI, Una poetica «tenzone»: Mario Sturani e Cesare Pavese, in Mario Sturani,

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Negli appunti preparatori al Romanzo di gioventù Cesare sembra positivo e fiducioso per l’avvenire della sua opera, come si legge in questa nota non datata ma riconducibile al 1924:

Fondo molte speranze per l’originalità del libro che mi si viene formando nella mente. Mi pare che il mio ingegno non sia poi tanto disprezzabile se, a sedici anni, poté concepire ciò, quella che sarà l’idea base della mia opera. Sono entrato in un campo completamente vergine, che se saprò dissodarlo, sarà la gloria. Ma è un’impresa terribile14.

Si approccia dunque in maniera ottimistica al suo progetto, pur essendo conscio che lo aspettano dure fatiche e che dalla buona riuscita del suo romanzo dipenderà la sua consacrazione alla scrittura: «Qui occorre intenderci bene: o decido di scrivere per tutta la mia vita, o cambio rotta»15. Il romanzo tuttavia rimarrà soltanto in forma di appunti,

conservato in nove taccuini contenenti abbozzi di trama da sviluppare, spunti per i caratteri dei personaggi e frammenti di dialoghi – alcuni dei quali saranno riutilizzati in seguito dall’autore per tratteggiare figure e situazioni del racconto Lotte di giovani – nonché annotazioni su accorgimenti in grado di dare forza al racconto. In questi appunti è inoltre possibile leggere osservazioni di carattere meta-letterario che spaziano dai commenti sulla narrazione e sui personaggi alle riflessioni del ragazzo Pavese sulla propria situazione personale. Lo spazio maggiore è occupato dalla definizione dei personaggi; l’autore individua, infatti, dei tipi ed assegna ad essi il ruolo nell’intreccio: il Gigante, il Futuro gigante, l’Utopista, l’Indeciso, il Pittore, il Meccanico o Macchinista, il Modernissimo, la Coccottina, l’Ingenua, la Meretrice o la Lupa, il Mendicante.16 In questa sede non si procederà nello scandaglio della trama del romanzo

incompiuto, ma ci si soffermerà esclusivamente sui due personaggi che adombrano le figure di Pavese e Sturani, rispettivamente l’Indeciso e il Pittore.

L’Indeciso, che negli appunti è chiamato Guido, vorrebbe essere superiore a chiunque altro nell’esercizio artistico ma non ci riesce ed è costretto a soccombere, annientato dalla sua incapacità di stare al mondo e dal confronto con gli altri giovani dotati di maggior ingegno e carattere. Questo personaggio, si legge negli appunti preparatori,

14CESARE PAVESE, Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), cit., p. 191. 15 Ibidem.

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sarà un mito nel […] romanzo della Gioventù. Simboleggierà [sic!] l’anima inesperta, esaltata, che a poco a poco si viene a credere poeta, pensa di emulare i grandi, ogni disciplina da cui sono usciti i genî egli la vorrebbe attendere, ha di quelle false, morbose esaltazioni poetiche, in cui non si fa che ottundere l’intelletto, muta sovente studi per leggerezza e incostanza, si dà ad uno studio e, per la lunga esperienza, sa che non ci durerà, cerca di imitare i caratteri grandi, non ha un pensiero forte, semplice suo17.

Pavese modella la figura del protagonista sull’immagine che egli ha di sé; dalla sua vita riprende, oltre alla competizione con l’amico pittore, la situazione familiare – anche il giovane protagonista ha una mamma e una sorella – e il soggiorno estivo in collina. Ma l’aspetto indubbiamente più autobiografico è il rovello interiore del giovane protagonista:

Nei punti scoperti della strada si sentiva alitare d’intorno i buffi rapidi del vento che passavano agitando le foglie larghe dei castagni in cespuglio, fremendo tra i ginepri, spazzando tutta l’aria; ma quella vivida freschezza, vivificatrice lo interessava appena. Dentro di sé, si rodeva di non saper comprendere quella mattinata d’autunno, e se ne andava spaventato da quella inettitudine alla bellezza, alla poesia, tutto torvo alla convinzione d’essere in ogni cosa una nullità.

Rimuginava le note caratteristiche del proprio carattere, andava trovandosi difetti enormi, senza la forza seria di pensare a emendarsene e su tutto, un tedio una stanchezza infiniti18.

Proprio per queste caratteristiche autobiografiche l’Indeciso sembra essere il personaggio meglio articolato degli appunti, sulle cui vicende in effetti è incentrato l’abbozzo di trama. L’Indeciso è la prima figura pavesiana che morirà suicida; questa scelta fatale viene vissuta come un gesto inevitabile dal personaggio ed è dettata dalla delusione nei confronti della propria scarsità d’ingegno e dalla consapevolezza di aver fallito nell’unica cosa importante della sua esistenza: la poesia.

Il Pittore, artista caparbio e dotato, amante del bello e consacrato al mestiere della pittura, viene fin dall’inizio annoverato tra i protagonisti del romanzo; incarna la figura del giovane nato per l’arte e – come Sturani – è un artista eclettico i cui interessi spaziano dalla pittura, alla musica alla poesia:

[…] egli innamorato della musica, quanto della pittura, quanto di tutto ciò che somiglia ai quadri del Rossetti ed alla Vita Nova, non comprende come, udendo certe melodie, si possa continuare a trarre una vita che sappia, anche lontanamente di basso, di plebeo19.

17 CESARE PAVESE, Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), cit., pp. 184-185. 18 Ivi, p. 194.

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Il Pittore rappresenta il giovane che lotta per affermarsi e farsi largo nella vita moderna e, dopo molte fatiche e ostilità, riesce a vincere la sua battaglia, contrariamente all’Indeciso che in questa lotta – termine, questo, dalla rilevanza semantica talmente elevata da essere inserito nel titolo della raccolta di racconti nata dalle ceneri di questo progetto narrativo – muore sconfitto:

Ed ora vengo al pittore.

Anzitutto sarà un buon giovane. Poi, innamorato cotto della Bellezza, dei quadri del Rossetti, della Sinfonia del tramonto del Previati. Nella Bellezza vede il sentimento e sarà lui a sostenere che quanti più sentimenti risveglia una vista qualunque tanto è più bella. Lotta terribilmente per riuscire. Ma ecco subito la differenza dall’indeciso: questo è pieno di vane esaltazioni, muta sempre, un po’ è Dante, un po’ è fesso, sempre in tema, desideroso di superar tutti tanto che supera nessuno e muore nelle sue misere applicazioni di volontà; il pittore invece si è sempre sentito pittore, non dubita nemmeno di consacrare tutta la vita alla sua arte «Che saprei fare d’altro – dice ingenuamente – con quel desiderio nel cuore?20

In quello che resta del Romanzo di gioventù uno spazio molto ampio è dedicato al confronto tra questi due personaggi. La presenza del Pittore nel romanzo è legata all’opposizione tra l’artista fortunato e realizzato e l’artista fallito: si tratta del tema forse più sviluppato negli appunti preparatori del libro, per cui si può dedurre che il rapporto tra i due doveva costituire un filone importante all’interno della narrazione, la macrotematica dell’opera. La questione è affrontata più ampiamente in un abbozzo di dialogo tra i due personaggi, i quali, peraltro, presentano i cognomi Pavese e Sturani, nei rispettivi ruoli dell’Indeciso e del Pittore.21 L’ispirazione autobiografica che si cela

dietro a questi soggetti e al progetto narrativo è resa evidente in un appunto dell’autunno 1925, nel quale Pavese ammette che il personaggio del Pittore sarà modellato su Mario Sturani e sarà volutamente contrapposto al personaggio dell’Indeciso, sé medesimo, per superiorità d’ingegno:

Nel dramma che sto meditando la figura dell’artista fortunato verrà modellata su Sturani. Intendo contrapporre la spontaneità e i trionfi del suo ingegno agli sforzi dolorosi e mal riusciti agli scoraggiamenti dell’altro, dell’artista che non è nato per l’arte, ma soltanto s’è immaginato d’esserlo, ha fantasticato una gloria sovrumana e fa ogni sforzo per giungervi. E s’accorge sempre più che gli manca l’ingegno. A poco a poco questa disperazione ed altre minori come il cruccio di sentirsi beffato da femmine, la vergogna di lavorare sterilmente, ecc., lo conducono al suicidio22.

20 Ivi, p. 185.

21 Cfr. Ivi, pp. 187-189. 22 Ivi, pp. 195-196.

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Sturani è l’«artista nato per l’arte» mentre Pavese «soltanto s’è immaginato d’esserlo»; dal confronto con l’artista puro scaturirà la presa di coscienza dell’Indeciso della propria sconfitta, che culminerà nel suicidio. Con il fallimento della finzione narrativa coinciderà ben presto anche quello della realtà: domenica 7 marzo 1926 Pavese con profondo rammarico decide di interrompere la stesura del Romanzo della gioventù, progettato e portato avanti con grande fatica dall’agosto 1924:

Viene la primavera e il soffio che vivifica la natura mi riempie di sconforto. Sono già i primi di marzo ed io sono due mesi che me ne sto inerte. Non trovo più la forza di costringermi a scrivere qualcosa di concreto, di serio.

Il mio romanzo non va più avanti e tutti i i giorni trovo una nuova ragione per deprezzarlo sempre di più. In questo romanzo Lotte di giovani intendevo di rappresentare al vivo il mio mondo: creare vari personaggi, giovani di 17, 18, 20, ciascuno con una sua impronta originale di carattere e porli nella vita comune di quest’età, nella scuola, nel lavoro, nei divertimenti e farli agire, sviluppando con forza geniale i loro caratteri. I vari tipi li avevo immaginati spezzettando in varie parti il mio spirito e facendo una persona di ciascuna di queste parti. Così avevo immaginato un debole, tormentato da un’aspirazione alla gloria e impotente a giungervi attraverso l’applicazione minuta e continua ch’è necessaria. A poco a poco questo giovane doveva disperarsi sempre più fino alla morte o qualcos’altro di simile.

[…]

E confesso che finché immaginai solo, costruî nella mia mente, tutto l’edificio mi pareva superbo, meraviglioso.

Ma venne il momento di esprimerlo in forma d’arte. A intervalli lunghetti e travagliosissimi, buttavo giù i miei capitoli, ma non giunsi alla mezza dozzina. Ero dapprima soddisfatto del loro profondo contenuto umano: vi esprimevo sentimenti ch’io provavo fortissimi, vi incastonavo descrizioni che mi esaltavano e che, importantissimo questo, non mi riuscivano pure sfoggi retorici, ma visioni della natura reale con l’influenza sull’anima dei personaggi.

Ma pensando continuamente a come tirare innanzi l’opera cominciai ad accorgermi che sino ad allora il solo personaggio che avessi saputo analizzare, drammatizzare efficacemente era il debole, l’incarnazione della nota predominante del mio spirito.

Tutti gli altri giovani, erano riusciti meri nomi, senz’anima. Non sapevo spogliarmi di me stesso. E mi convinsi sempre più di questo quando tentai di scrivere una scena in cui mancasse il debole: non mi riuscì. Non mi ci infiammavo, fremevo di tedio e di rabbia lavorandoci.

[…]

Così il mio sogno dilegua sempre più lontano, ed ecco il bel sole tiepido e raggiante, la brezza profumata, il cielo azzurro mi fanno nell’anima più tetro che mai. Sento che se perdo un altro anno, non avrò più la baldanza giovanile, ma m’affloscerò come un superato. Potrò sopportare i vent’anni senza aver già compiuto un’opera mia?23

Sente di aver sprecato l’unica possibilità che aveva di far sentire la sua voce nel mondo dell’arte, l’idea di compiere vent’anni senza aver scritto un’opera degna della firma di un artista lo fa soffrire terribilmente. Il romanzo rappresentavaquella prova

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di ingegno che avrebbe permesso all’autore esordiente di conquistare quella notorietà tanto agognata durante l’adolescenza e, inoltre, avrebbe sancito la sua consacrazione artistica tra molti suoi coetanei che vivevano in una città come Torino, in cui l’ansia intellettuale, civile e politica dei giovani trovava libero sfogo. Il Romanzo della gioventù, sottolinea Sandra Cavaliere, avrebbe dovuto segnare il

passaggio dal periodo travagliato della giovinezza ad una nuova fase di maturità personale e “professionale”, l’opera dell’esordio artistico, quella che gli avrebbe fatto guadagnare la stima della classe intellettuale di cui tanto gli premeva far parte. La stesura del romanzo, però, dopo mesi di lavoro in cui si erano alternati momenti di ispirazione proficua a lunghi periodi di silenzio narrativo, sembrava essere rimasta in una situazione di stallo, e i sogni di gloria diventavano per il giovane Pavese sempre più lontani24.

Dopo lo scoraggiamento del 7 marzo 1926, cinque mesi più tardi, l’11 agosto, Pavese sembra tuttavia voler insistere nel suo progetto e prova ad arricchire il contenuto del romanzo rimasto in forma di abbozzo:

L’idea di quest’opera è inutile, non mi abbandonerà più sinché non sarà attuata. Da quando mi è germinata, (primavera del 1924, durante la I liceale) fino ad ora che la riprendo con speranza centuplicata (agosto del 1926, licenziato dal liceo) posso dire ch’essa è sempre stata sotto tutti i miei pensieri e le mie ispirazioni. Vi ho già scritto intorno, l’ho analizzata, posso dire, prima di compierla, ne ho composte parti, ne ho rimutati i disegni, sempre seguendo il progresso del mio spirito, sempre allargandola e sempre, mentre l’andavo accostando di più alle mie forze, ideandole un contenuto più serio più profondo più nuovo25.

L’idea di un’opera sulla lotta dei giovani artisti per uscire dall’anonimato non

abbandona il giovane scrittore, ma cambia forma: dal momento che la scelta del romanzo, come genere narrativo, non aveva partorito il risultato sperato, Pavese decide di mutare l’idea in un gruppo di novelle sullo stesso tema – gli sforzi dei giovani aspiranti artisti per emergere dall’anonimato – nelle quali rielabora gli appunti presi per la composizione mai realizzata del primo progetto letterario. La nuova forma poteva risultare più adatta all’argomento trattato e allo stile, fondamentalmente episodico, che si coglie già nella bozza di romanzo. Al suo compagno del liceo Tullio Pinelli26 Pavese

dà notizia del suo nuovo progetto in una lettera del 12 ottobre 1926:

24SANDRA CAVALIERE, Gli scritti giovanili di Cesare Pavese, cit., p 42.

25CESARE PAVESE, Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), cit., pp. 201-202.

26 A Tullio Pinelli Pavese rimarrà legato da una profonda amicizia per tutta la vita. Discendente da una

nobile famiglia torinese, Pinelli tra gli anni Venti e gli anni Trenta aderisce, assieme a Pavese, Ginzburg, Bobbio e altri giovani, alla Confraternita degli ex allievi del D’Azeglio e coltiva interessi per il teatro.

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Devi sapere che c’è nell’aria anche un disegno di un gruppo di novelle, o bozzetti che dir si voglia, sotto il titolo di Lotte di giovani.

Non debbono essere altro che semplici riproduzioni di vite e di stati d’animo di persone che si sentono stimolo a compiere qualcosa di grande e non ci riescono. Io, io, io, io, sempre io, non si scappa.

Finora c’è già il titolo. Le novelle, o meglio, gli elementi delle novelle, un caos di sentimenti, li ho nell’anima.

Sono a buon punto no?

Anche quest’altra notizia tienla cara, ché sei tu il primo a parteciparne27.

L’ispirazione autobiografica è evidente in questi racconti ancora in fieri, le novelle infatti presenteranno dei personaggi dall’indole timida, dietro i quali non è difficile scorgere un riflesso del carattere dell’autore, e verranno abbandonati soggetti, quali il Pittore, forti e vincenti. La scelta del racconto a scapito del romanzo è facilmente spiegabile e coincide con l’esigenza di proiettare sulla pagina scritta l’immagine che Pavese ha di sé:

l’incompiutezza e l’inconsistenza del carattere dei giovani protagonisti del romanzo fallito portano lo scrittore a prendere in considerazione l’opportunità di una narrazione in cui alla brevità del racconto si aggiunga una riduzione del numero dei personaggi, consentendogli di concentrare l’attenzione, il più delle volte, su un unico protagonista dai tratti visibilmente autobiografici. Pavese opta per una scrittura in cui l’eroe si identifichi pienamente con l’autore, in cui i sentimenti dei suoi protagonisti siano sovrapponibili al suo stato d’animo di ragazzo che si sente lo stimolo a «compiere qualcosa di grande ma non ci riesce»28.

Il racconto dal titolo omonimo della raccolta è quello che tra tutti gli altri sembra sfruttare in maggior misura il materiale raccolto per l’elaborazione del romanzo, in particolare gli appunti contenuti in APX 16, cc. 21v-23r29 – non datati ma Mariarosa Masoero li colloca nell’agosto del 1925 – e APX19, cc. 4-730 – anch’essi non datati ma collocati dalla stessa nell’agosto del 1924. Il racconto Lotte di giovani è diviso in 3 episodi e, per rendere ancora più evidente la connessione autore-eroe, Pavese, nella prima e seconda scena, utilizza la prima persona anche se chiama il giovane protagonista G. (in APX,16 cc. 21v-23r il protagonista si chiama Guido) e nella terza al protagonista viene

assegnato il nome P., ma in questo caso l’autore ricorre alla terza persona. Il racconto

Durante la Seconda guerra mondiale parteciperà alla Resistenza antifascista e dagli anni Cinquanta si affermerà come commediografo e sceneggiatore, collaborando con registi come Federico Fellini, Alberto Lattuada e Pietro Germi.

27CESARE PAVESE, Lettere (1924-1944), cit., p. 41.

28SANDRA CAVALIERE, Gli scritti giovanili di Cesare Pavese, cit., p. 45.

29CESARE PAVESE, Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), cit., pp. 193-195. 30 Ivi, pp. 187-189.

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ha come protagonista G./P., uno studente liceale che ambisce alla consacrazione poetica, ma è attanagliato dalle insicurezze e dalla paura dell’anonimato:

Rimuginavo le note del mio carattere e andavo trovandomi difetti enormi senza la forza seria di pensare a emendarmene e, su tutto, un tedio una stanchezza infiniti. Fantasticavo una gloria sovrumana e languivo dal timore che m’avrei neppure saputo acquistare una delle piccole fame correnti. Temevo tanto la mediocrità che avrei preferito morire oscuro, vergognandomi persino che la carta accogliesse i miei tentativi falliti.

Se era per riuscire, avanti! Giungere a forza, d’un tratto; ma, per arrestarsi a mezza via, perché pure incominciare? Meglio trarsi in disparte, farsi dimenticare da tutti e da sé stesso31.

L’insicurezza del ragazzo nasce, inoltre, dal confronto con i suoi brillanti compagni di classe: è avvilito dalle loro prove di ingegno e da questi si sente costantemente scavalcato. Tra essi spicca S., personaggio che ancora una volta adombra la persona di Mario Sturani, non più nei panni del Pittore del Romanzo di gioventù, ma in quelli di un ragazzo dall’intelligenza vivace e irriverente; nel dialogo della seconda scena – che presenta modifiche più sostanziali da AP X 19, cc. 4-7 rispetto al passo precedente e

quello in AP X 16 cc. 21v-23r – S. si rivolge a P. ostentando quella sicurezza che manca

al compagno, frutto della sua potente genialità che gli permette autonomia di pensiero e gli garantisce di uscire vincitore da ogni conversazione:

- Oh, non te l’ho ancora detto. Mi hanno promosso, a ottobre. Ho dovuto starmene tutto quest’estate a studiare come una bestia. Ma tu, anche senza esami da dare, avrai studiato egualmente, eh? Chissà quanti libri hai fatto passare! Diventerai un buon professore, se vai avanti così, te lo dico io.

A quella canzonatura curvai il capo, contraendo la gola. Poi, lentamente, quasi a fatica:

- Mi ammazzerei subito se fossi certo di finire professore o impiegato. Una vita simile, sempre rinchiuso, tutto uguale, oh! Vorrei crepare prima.

- E adesso non fai forse questa vita, sempre rinchiuso in una biblioteca? - Ma questo lo faccio per imparare a scrivere e per scuotermi, allargarmi le idee. - No caro. Leggendo non fai altro che riempirti di idee altrui. Senti: io avrò anche soltanto due o tre idee, ma so che sono mie, che lo ho pensate io; tu ne avrai magari cinquanta, cento, raffazzonate di qua e di là, e tutte insieme esse non ti dànno certo il merito che mi dà una sola delle mie.

- Già, allora i libri non servono più a nulla. Perché scriverli?

31 Ivi, p. 4. Il passo è molto simile ad un altro del materiale preparatorio al romanzo contenuto in

APX16, cc. 21v-23r: «Fantasticava una gloria sovrumana e languiva dal timore che s’avrebbe neppure saputo acquistare una delle piccole fame correnti. Temeva tanto la mediocrità, avrebbe preferito morire oscuro, ché si vergognava persino della carta che accogliesse persino i suoi tentativi falliti. Se era per riuscire: avanti, giungere a forza, d’un tratto; ma s’avesse dovuto arrestarsi a metà via perché pure ricominciare? Perché far noto il nome, a coprirlo di ridicolo? No, meglio l’oscurità, starsene torvi in disparte e dimenticare». Ivi, p. 194.

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- Che cosa ne so, io? Mi convinco sempre più che leggere è rubare, involontariamente se vuoi, ma sempre rubare idee già pensate, morte32.

Sturani, S., continua ad incarnare le vesti dell’amico brillante e talentuoso, per il quale una bocciatura non significa sconfitta, perché il suo ingegno fuori dall’ordinario gli permette di poter fare a meno di ottenere conferme attraverso buoni risultati scolastici: ancora una volta presenta tutte le caratteristiche idonee all’artista puro che deve solo a se stesso le capacità eccezionali e che pertanto non necessita di stimoli esterni. In questi anni Sturani rappresenta indubbiamente per Pavese il modello dell’artista da emulare, anche se questa elezione si rivela frustrante e avvilente per la sensazione di non riuscire né ad eguagliare né tanto meno superare le doti dell’amico. Nei suoi confronti Cesare mostra un’ammirazione dietro la quale mal si cela l’invidia per una maggiore vitalità intellettuale, che non ha bisogno di uno studio continuo e di una disperata e assidua lettura dei classici, un’attività, questa, che spesso al Pavese studente pare sterile ed infruttuosa e dalla quale, a volte, crede di sentirsi condizionato al punto di non riuscire a formulare con pienezza pensieri partoriti dalla propria mente. Inoltre S./Sturani ha dalla sua la convinzione di riuscire, quella sicurezza che manca al giovane Pavese e, di rimando, ai personaggi attraverso i quali si autorappresenta:

Egli è sicuro, pensavo rabbiosamente, la sua mente è chiara, non esita mai. Sa quel che fa e dove va. È un ingegno, un genio forse. Ma io che cosa faccio qui? Tento di tenergli testa, rabbrividisco al pensiero che mi sia superiore, ma egli vince sempre. Non sono che un meschino imitatore. Vanto tanto a me stesso l’arte, ma è da lui che ho imparato a farlo.

32 Ivi, p. 7. Nella terza scena del racconto compare anche L., un personaggio modellato sulla figura del

giovane Leone Ginzburg. P., ovviamente, esce sconfitto anche dal confronto con quest’ultimo, un ragazzo con una forte personalità e con piani ben precisi per il suo futuro: «Un nuovo animo ardente gli s’era rivelato e quasi inconscio della sua forza. Un altro giovane (come lui) che perseguiva pieno di entusiasmo un ideale. “E io che m’immagino giunto tanto in alto! Ecco un altro, come St., che ha l’anima gonfia e sicura: più forte di me, certo. Di me? Ma io non combatto teso a una meta, oh non sono da tanto: io mi divincolo, così, perché ho dei nervi.” E nella concitazione del pensiero affrettava il passo, chiuso in sé, a capo chino.

“E chissà quanti altri, – gemé a denti serrati, – forse più giovani, si sforzano e vinceranno nella loro vita.

Mi credo un grande e non è che un’esaltazione forse. No, non posso esserlo, son troppo debole, vacillo troppo. Anche ora, perché mi tormento così?” […]

“Poetino malato, ecco il mio nome. Si dice da tutti: oh, i giovani scrivon tutti dei versi, ma poi mettono testa a partito e tornan nella vita. Anche così ho da finir io? Tutti i miei sogni han da finire nella monotonia di una vita borghese?”» Ivi, pp. 16-17. In queste righe consiste il senso di questo racconto: la lotta che ogni giovane aspirante artista deve portare avanti per affermarsi e ottenere fama e riconoscimenti in una città, come Torino, che accoglie giovani ambiziosi e dalla mente fervida, in “lotta” tra loro per imporsi sulla scena intellettuale e artistica.

(25)

Egli andrà innanzi, riuscirà, sarà grande ed io resterò sempre oscuro a contorcermi. Oh! Perché una vita simile?33

Sturani, il pittore del Romanzo di gioventù, il giovane brillante e spavaldo di Lotte di giovani, pare quindi un modello irraggiungibile.

Alla luce di queste considerazioni sulle prime prove narrative di Pavese, è possibile leggere con maggiore attenzione critica il carteggio di questi anni tra i due amici. Nelle lettere di Cesare si coglie l’eco di un tormento esistenziale, dove alla mania dell’arte si aggiunge la paura ossessiva di non essere dotato di quell’ingegno riconosciuto nell’amico pittore, che Pavese onora con appellativi quali «genio» e «maestro»:

Ti scrivo a denti stretti, perché mi convinco sempre di più che il tuo ingegno è un’unità forte e cosciente e tutta data al suo ideale, mentre io mi trovo ad essere un poetino piccolino, che teme di slargare bene gli occhi in faccia al sole per paura dello spasimo della luce. Proprio così. Tuttavia spero che questo vacillare continuo che è in me, sia in certa parte anche in te e in tutti coloro che vanno a un passo fuori dal comune. […]

Ebbene, questa mia trasformazione dalla malinconia accademica al dolore operoso, puoi vantarti di esserne tu in massima parte la causa. Vantarti, dico, poiché se mai compirò un’opera grande non dimenticherò che la tua forza mi è stata di grande stimolo: “Tanto piacere” tu dirai “salutamela”, ma pensa che quantunque così meschino io sono superbo, e me ne vanto di me stesso; pensa che nulla mi dà maggior brivido che pensare alla magnifica solitudine die genii: ora, dico, con tutto questo amore all’opera solitaria, ti piego il capo innanzi e riconosco che mi sei stato maestro34.

Per quanto carica di amara e frustrante tristezza, al punto di denunciare quasi una sofferenza e una fatica non solo mentali ma anche fisiche («Ti scrivo a denti stretti»), questa lettera rivela comunque riconoscenza e gratitudine nei confronti di Sturani, la fonte di ispirazione del giovane poeta il quale, se mai «compir[à] un’opera grande» lo dovrà esclusivamente al suo quasi coetaneo «maestro». Per quanto servile sia il tono di questa lettera, Pavese si considera, al pari di Sturani, un artista, appartenente alla setta di «coloro che vanno a un passo fuori dal comune»; inoltre, pur dovendone essere debitore all’amico, non nega la possibilità di riuscire a guadagnarsi la tanto agognata fama nel mondo dell’arte. Tutti questi sono indizi che da un lato rivelano la coscienza delle proprie capacità e la fiducia nella propria sensibilità letteraria, e, dall’altro, sottolineano quanto l’insistenza sulla scarsezza della propria vena artistica sia, sotto molti aspetti, teatrale, un po’ “atteggiata” e quindi non completamente. In ogni modo

33 Ivi, p. 9.

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la grandezza dell’amico continua a non essere paragonabile alla propria ed il fatto che Sturani, pur essendosi consacrato alla pittura, agli occhi di Pavese è superiore anche in poesia, è un’ulteriore fonte di avvilimento:

Ti ho detto tutto quello che sentivo, non di più, non per adulazione, credilo. Sarei stato ben felice di trovarti inferiore, ma no: ascolta bene: a me pare che anche in poesia tu mi superi.

Ed ora ti domando se non ho da soffrire terribilmente di questo: poiché la poesia non è propriamente la tua arte, tu la tratti solo da dilettante e vi riesci così! Io, che cosa debbo fare io, che ho posto tutto l’ideale della mia vita nella poesia?35

Al di là di questa rivalità letteraria, lo scambio di pareri sulle opere scritte da entrambi all’interno di questa corrispondenza epistolare indica un rapporto di grande fiducia e stima reciproca da parte dei due ragazzi che confidano a tal punto l’uno nella capacità di critica e di giudizio dell’altro da affidargli la lettura dei primi versi e delle prime prove composte. Sturani dimostra un sincero apprezzamento per le poesie dell’amico e, conscio dell’ammirazione di Cesare per la Vita Nova di Dante36, utilizza

bonariamente questo modello letterario per spronarlo ad una composizione poetica tecnicamente affinata:

Una tecnica timida con contenuto e parole timide fanno un’esagerazione che cade nelle languidezze stupide e le cose reali appaiono irreali […].

Non era forse Dante stesso un timido, che al solo veder Beatrice faceva come un certo Pavese? E non osava palesar il suo amore come un certo Cesare? Ma egli appare forte anche in queste sue timidezze appunto perché usa una tecnica formidabile ad opera di una sintesi di azione per cui un fatto come la morte di Beatrice viene ad essere descritto in 2 paginette mentre avrebbe potuto essere descritta (dal Manzoni) in dieci tomi37.

Inoltre, come Cesare, Mario prova un senso di inferiorità nei confronti dell’amico, come si deduce da questa sua missiva non datata, ma risalente 1924, inviata a Pavese dopo la lettura degli abbozzi del Romanzo di gioventù:

35 Ivi, p. 15.

36 In questi anni Dante è per Pavese quanto di più alto vi sia nella poesia italiana, egli rappresenta un

modello di grandezza cui il giovane poeta guarda con spirito di emulazione ed ammirazione: «conto, un giorno o l’altro, di andare ad ispirarmi, ad accendermi (fuochi di paglia) dinanzi alla Vita Nova. Le darò uno sguardo, cercando di non alterarlo col mio pensiero; sarà così come un tuo sguardo. […]. Un giorno o l’altro saprò scriverti qualcosa che non so se comprenderai, che sarà lo sfogo di tutta la mia giovinezza. Oh! i ricordi delle prime letture della Vita Nova! Certo non comprendi neppure ora, ma non spaventarti, non è per pochezza di ingegno; ciò di cui parlo è il fondo intimo della mia anima.» MARZIANO

GUGLIELMINETTI, Una poetica «tenzone»: Mario Sturani e Cesare Pavese, cit., p.

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