intellettuale di Pavese.
2.6 Lavorare stanca e la censura
Le poesie di Lavorare stanca presentano delle tematiche costanti che si rincorrono e si sovrappongono tra loro, creando così un effetto d’eco che tiene saldamente unito tutto il libro per cui, al di là delle affermazioni contenute ne Il mestiere di poeta, l’impressione generale è quella di un’organica sistematicità:
trascorrendo da un componimento all’altro […] si ha l’impressione di passare attraverso le stazioni di un itinerario paesistico ed esistenziale sostanzialmente uno e denso […]: l’impressione che solo una struttura compatta può dare, compatta come si addice ad un canzoniere ben formato, come quello di Baudelaire.157
Uno degli elementi che garantiscono unità alle poesie di Lavorare stanca è l’osservazione dell’uomo, che diventa infatti il vero protagonista della raccolta, più in generale, l’esigenza di «leggere», capire e interpretare le azioni umane sembra essere il grande fine dell’opera di Pavese, nella quale è fondamentale individuare l’uomo concreto così come muta col mutare della società; se nella poetica di Pavese hanno pari valore la dimensione simbolica e il dato storico e realistico, è perché quest’ultimo si rivela determinante nella sua indagine sull’uomo. Nove anni dopo la pubblicazione del Lavorare stanca solariano, nell’articolo Leggere del giugno 1945 pubblicato su «L’Unità», Pavese riflette sul rapporto tra gli uomini e la lettura:
Leggere è così facile, dicono quelli a cui la lunga consuetudine coi libri ha tolto ogni rispetto per la parola scritta; ma chi invece più che libri tratta uomini o cose e gli tocca uscir fuori l mattino e rientrare la sera indurito, quando per caso si raccolga su una pagina s’accorge d’aver sott’occhio qualcosa d’ostico e bizzarro, di svanito e insieme forte, che l’aggredisce e lo scoraggia. Inutile dire che quest’ultimo è più vicino alla vera lettura che non l’altro. […] I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini è un fatuo o un dannato. […] Leggere non è facile. E succede che chi ha, come si dice, studiato, chi si muove agilmente nel mondo della conoscenza e del gusto, chi ha il tempo e i mezzi per leggere, troppo spesso è senz’anima, è morto dall’amore per l’uomo, è incrostato e indurito nell’egoismo di casta.158
157 MARZIANO GUGLIELMINETTI, Introduzione, in CESARE PAVESE, Le poesie, cit., p. XI.
158 CESARE PAVESE, Leggere, in «L’Unità», 20 giugno 1945, poi in ID, La letteratura americana e altri saggi,
Dopo più di dieci anni, si rinnova l’affermazione contenuta nel saggio su Anderson, «non esiste l’arte per l’arte»: la letteratura non può essere un vezzo di una classe, deve trovare risposta nella società perché il suo fine è quello di arrivare all’uomo. Attraverso i libri non si conosce «l’eterno uomo ideale» ma l’uomo concreto del nostro tempo, da qui nasce quindi la necessità di individuare il legame tra il testo e contesto se è vero che l’uomo è espressione di una ben precisa realtà storica e sociale; ancora una volta viene ribadito il nesso tra cultura, politica e società:
Ma è del resto una sciocca leggenda che poeti, narratori e filosofi si rivolgano all’uomo così in assoluto, all’uomo astratto, all’Uomo. Essi parlano all’individuo di una determinata epoca e situazione, all’individuo che sente determinati problemi e cerca a suo modo di risolverlo, anche e soprattutto quando legge romanzi. Sarà dunque necessario, per capire i romanzi, situarsi nell’epoca e porsi i problemi159.
Si tratta di considerazioni sviluppate in un periodo particolare dell’esistenza di Pavese, ossia nel primissimo dopoguerra e subito dopo la pubblicazione dei suoi articoli Il nemico non è morto, Chi siamo!, La giornata del 1° maggio ne «La Voce del Monferrato» con cui sembra abbracciare l’ideologia comunista e porsi come intellettuale vicino al popolo, pertanto è importante ricordare che queste riflessioni devono essere lette anche alla luce della concitazione di un determinato momento storico e politico. Tuttavia l’attenzione rivolta all’uomo e alle sue implicazioni con la storia è già evidente nell’edizione del 1936 di Lavorare stanca e si traduce in una scrupolosa e disincantata descrizione della realtà sociale e di spaccati di cruda quotidianità: i soggetti rappresentati sono contadini sfiancati dal lavoro nei campi, operai alienati dal lavoro in fabbrica, prostitute o ubriachi; accanto alla dimensione rurale e simbolica risiede quella reale del sottoproletariato urbano stipato nelle barriere sorte ai margini della città, abbattuto e umiliato dal regime. Lavorare stanca registra il disorientamento e lo stato di abbandono in cui versa il ceto popolare torinese nella fase ascendente del fascismo e il clima allusivo non investe solo il nucleo propriamente politico, ma aleggia in tutta la raccolta. I personaggi del libro non cercano comprensione negli altri, non trovano ascolto nelle istituzioni e, spesso vittime di ingiustizie sociali, si rinchiudono nel proprio universo di solitudine; paradigmatici di tutta la raccolta diventano, in questo senso, i ritratti dell’eremita e dell’ubriaco. Le figure
159 Ivi, p. 203.
che animano Lavorare stanca si sfogano nel lavoro che svolgono macchinalmente e senza amore; ridotti a macchine della produzione, la loro esistenza si esaurisce completamente nella professione perché non esiste un’alternativa o un passatempo. Difficilmente qualcuno, come Deola, riesce a ricavare nella giornata un piccolo spazio e momento proprio. I lavoratori di Lavorare stanca, stremati dalla fatica, quando tornano a casa riposano e sembrano morti e, richiamando ancora una volta i versi di Esterno, il loro sonno sembra «una breve agonia». Come suggerisce il titolo del libro lavorare stanca per cui, al di là della sua interpretazione fornita da Calvino incentrata sulla «figura dello scappato di casa»160, più che nella «propensione all’ozio spensierato, un
desiderio di libertà che si apre alla scoperta del mondo e alla realizzazione di un ideale contemplativo»161, esso si spiega nella descrizione disincantata della vita faticosa degli
operai e lavoratori in una società che li umilia.
È stata sottolineata in precedenza l’adesione di molti membri della Confraternita degli ex allievi del D’Azeglio al movimento «Giustizia e Libertà» torinese, rifondato da Leone Ginzburg; in questi anni di fermento Pavese si astiene dalla partecipazione a qualsiasi forma di politica attiva, porta avanti la sua attività di traduttore, collabora con la neonata casa editrice Einaudi e, per poter essere ammesso ai concorsi di abilitazione all’insegnamento, prende la tessera del Pnf, decisione, quest’ultima, che lo porterà ad essere scelto come direttore, meramente formale, de «La Cultura». Se all’altezza del quindici maggio 1935 la vita di Pavese viene sconvolta da un arresto, cui segue un confino di otto mesi a Brancaleone Calabro, è dovuto fondamentalmente ai legami che la polizia fascista, attraverso la spia Pitigrilli,162 aveva scoperto tra «La Cultura» e
160 Nella sezione Note generali al volume Calvino dà notizia di un elenco datato 1933 dove le poesie sono
distinte nei seguenti gruppi: Campagna, Campagna-città, Fiume, Calma stoica lavoro, Sansôssì. Riguardo all’ultima suddivisione l’editore scorge il vero significato del titolo della raccolta e precisa che il motivo in essa contenuto «si ricollega alla figura dello scappato di casa, di cui Pavese parla in una delle prime note del diario, in data 10 novembre 1935. I sansôssì […] è il titolo di un romanzo di Monti. […] Monti contrapponeva (sentendo il fascino dell’una e dell’altra) la virtù del piemontese sansôssì (fatta spensieratezza e giovanile incoscienza) alla virtù del piemontese sodo e stoico e laborioso e taciturno. Anche il primo Pavese (o forse tutto Pavese) si muove tra questi due termini; non si dimentichi che uno dei suoi primi autore è Walt Whitman, esaltatore insieme del lavoro e della vita vagabonda. Il titolo
Lavorare stanca sarà appunto la versione pavesiana dell’antitesi di Augusto Monti (e di Walt Whitman),
ma senza gaiezza, con lo struggimento di chi non si integra: ragazzo nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo di chi lavora, senza donna nel mondo dell’amore e delle famiglie, senza armi nel mondo delle lotte politiche cruente e dei doveri civili.» ITALO
CALVINO, Nota ai testi, in CESARE PAVESE, Poesie edite e inedite, cit., p. 218. Anche il titolo conterebbe così quel gioco di opposizioni che domina la raccolta.
161 LORENZO MONDO, Quell’antico ragazzo, cit., p. 74.
162 Nella finale della relazione sulla redazione de «La Cultura» all’Ovra Davide Segre, in arte Pitigrilli,
«Giustizia e Libertà» e Pavese, in qualità di ormai ex direttore della rivista perché si dimette dall’incarico nel febbraio del 1935, non sfugge all’arresto che coinvolge circa duecento aderenti e simpatizzanti di «Giustizia e Libertà». È noto, inoltre, che la sua posizione si aggrava ulteriormente allorché la polizia rinviene nel suo appartamento una corrispondenza tra Tina Pizzardo, con cui era stato legato sentimentalmente – già nota alla polizia perché era stata arrestata nel 1927 per aver aderito al Partito comunista clandestino – e il pittore antifascista Bruno Maffi163. Il suo arresto non è dunque dovuto
ad una partecipazione attiva ed in prima persona alla politica, ma questo non significa che se ne sentisse estraneo come molta critica, a partire da Lajolo e da Monti, ritiene. Pavese sapeva benissimo che, accettando il ruolo di direttore de «La Cultura», si sarebbe esposto all’oculatezza della polizia fascista a causa dei rapporti che esistevano tra la redazione della rivista e il gruppo clandestino di Giustizia e Libertà; eppure non si tirò indietro, segno evidente che Pavese credeva fortemente nelle iniziative letterarie e politiche de «La Cultura», altrimenti non avrebbe mai potuto compromettersi a tal punto.
In questi anni Pavese ha continuato la sua attività di critico e saggista di letteratura americana; ha tradotto testi di Melville, di Faulkner, di Stein, di Steinbeck e Il 42° parallelo di Dos Passos, un romanzo, quest’ultimo, dove
dell’antifascismo cerebrale torinese». Citata in ANGELO D’ORSI, La cultura a Torino tra le due guerre, cit.; ID., L’«ago calamitato». Pavese, «La Cultura», il fascismo e l’antifascismo, in AA.VV, Cesare Pavese. Atti del
Convegno internazionale di studi. Torino – Santo Stefano Belbo 24-27 settembre 2001, a cura di MARGHERITA
CAMPANELLO, Firenze, Olschki, 2005, p. 143. L’operazione di spionaggio svolta da Pitigrilli, è stato oggetto di interesse da parte degli storici; a tal proposito si legga ID., L’«ago calamitato». Pavese, «La Cultura», il fascismo e l’antifascismo, cit.; ID., La cultura a Torino tra le due guerre, cit. Gran parte delle relazioni
inviate da Pitigrilli all’Ovra sono consultabili in DOMENICO ZUCÀRO, Lettere di una spia, Milano, Sugarco, 1977.
163 Questo è un punto della biografia di Pavese su cui la critica si è divisa: molti (principalmente D’Orsi
e Lajolo) ritengono che fu a causa di questa corrispondenza che Pavese venne arrestato, altri (Mariani) ritengono che la causa principale fu la carica che aveva ricoperto ne «La Cultura». È molto più semplice ritenere che il motivo dell’arresto fu determinato da entrambi i capi di accusa, senza dover così stigmatizzare la figura di Tina Pizzardo e renderla in parte responsabile della vita tormentata di Pavese. Nell’ autobiografia Tina Pizzardo si è difesa dalle accuse di Pavese che sosteneva di essere stato imprigionato e mandato al confino per non averla voluta coinvolgere; la donna, invece, lo avrebbe solo usato come intermediario per lo scambio di lettere con Bruno Maffi. Tina Pizzardo presenta una teoria ben diversa e sostiene che le lettere di Maffi contenevano solo indicazioni per appuntamenti in montagna e non erano compromettenti: Pavese venne dunque incarcerato perché sospettato di essere un complice del gruppo sovversivo e clandestino «Giustizia e Libertà», altrimenti, continua a spiegare l’autrice, non si capirebbe come mai lei stessa e il futuro marito, noti all’OVRA come simpatizzanti comunisti, fossero stati scarcerati mentre tutti i membri di «Giustizia e Libertà» erano stati imprigionati o mandati al confino e la rivista «La Cultura» soppressa. Cfr. TINA PIZZARDO, Senza pensarci due volte,
la lotta del proletariato contro il capitale industriale viene presentata esplicitamente e giustapposta alla silenziosa approvazione della guerra da parte del capitalismo interessato a guadagnarci sopra; e la lotta dei ceti poveri è presentata senza vie di scampo e senza le possibilità di riscatto implicite nella descrizione che Anderson dà della campagna e del suo modo di vivere incorrotto. La condanna che Dos Passos fa del sistema è totale e la sola speranza che offre sembra essere “oltre-confine”, nel Messico, dove la rivoluzione può forse permettere un nuovo modo di vivere ai ceti meno abbienti.164
Come ha notato Ferme, la traduzione del romanzo di Dos Passos si configura come la più sovversiva perché il testo originale «oppone i ceti poveri ad un’oligarchia potente e inflessibile» e pertanto «contiene in nuce il potenziale di minare la politica del regime e di portare all’agitazione dei ceti poveri».165 Gli interessi di Pavese nell’ambito della
traduzione lasciano trapelare dei segni di insofferenza nei confronti del fascismo e della sua influenza nella cultura italiana; in un articolo del 1947 pubblicato su «L’Unità» già citato, Ieri e oggi, ricorderà con queste parole gli stimoli provenienti dalle novità d’oltreoceano che agirono su di lui e sulla sua generazione negli anni Trenta:
Verso il 1930, quando il fascismo cominciava ad essere «la speranza del mondo», accadde ad alcuni italiani di scoprire nei suoi libri l’America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente. Per qualche anno questi giovani lessero tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare per salvare la faccia. Si scherza? Eravamo il paese della risorta romanità dove perfino i geometri studiavano il latino, il paese dei guerrieri e dei santi, il paese del Genio per grazia di Dio, e questi scalzacani, questi mercanti coloniali, questi villani miliardari osavano darci una lezione di gusto facendosi leggere discutere e ammirare? Il regime tollerò a denti stretti, e stava intanto sulla breccia, sempre pronto ad approfittare di un passo falso, di una pagina più cruda, d’una bestemmia più diretta, per pigliarci sul fatto e menare la botta. Menò qualche botta, ma senza concludere. Il sapore di scandalo e di facile eresia che avvolgeva i nuovi libri e i loro argomenti, il furore di rivolta e di sincerità che anche i più sventati sentivano pulsare in quelle pagine tradotte, riuscirono irresistibili a un pubblico non ancora del tutto intontito dal conformismo e dall’accademia. Si può dir francamente, che almeno nel campo della moda e del gusto la nuova mania giovò non poco a perpetuare e alimentare l’opposizione politica, sia pure generica e futile, del pubblico italiano «che leggeva». Per molta gente l’incontro con Candwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci. […]
A questo punto la cultura americana divenne per noi qualcosa di molto serio e prezioso, divenne una sorta di grande laboratorio dove con altra libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare un gusto uno stile un mondo moderni che, forse con minore immediatezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perseguivano. […] Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il
164 VALERIO FERME, Tradurre è tradire. La traduzione come sovversione culturale al fascismo, cit., p. 139. 165Ibidem.
gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. […]
La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma.166
Dopo più di dieci anni dal suo esordio come traduttore e saggista di letteratura americana, lo stesso Pavese conferirà un connotato politico ai suoi studi in quell’ambito. Nel suo interessante saggio, Tradurre è tradire. La traduzione come sovversione culturale al fascismo, Ferme fornisce una nuova teoria della prigionia e dell’arresto di Pavese, trovandone la vera causa proprio nell’attività di critico e di traduttore di letteratura americana; la tesi pare eccessiva, ma è indubbio che la scelta di tradurre i romanzi di autori come Lewis, Anderson e Dos Passos non fosse esattamente conforme ai gusti della cultura fascista, che considerava la letteratura uno strumento di propaganda e di esaltazione della nazione e delle proprie conquiste. Da un lato l’interesse di Pavese per la letteratura nordamericana, dall’altro le sue poesie che narrano la dura vita di un proletariato battuto e schiacciato dal regime o evocano le stragi perpetuate dalle squadracce nel periodo in cui il fascismo stava prendendo potere, rappresentano il suo modo – da critico e poeta – seppur estremamente tenue e moderato, soprattutto se confrontato con quello dei suoi amici come Ginzburg e Mila, di opporsi al regime: la grande tradizione torinese aperta e liberale, è comunque alla base della formazione di Pavese e anch’egli, pur nella propria dimensione intima e lirica, di essa si pone come erede. Il numero di liriche propriamente politiche di Lavorare stanca è decisamente esiguo, specialmente se rapportato alle restanti poesie della raccolta, e questo fa sì che, all’altezza degli anni Trenta, Pavese non possa essere riconosciuto come un autore militante e che Lavorare stanca non possa essere definito un libro di poesia politica alternativa, ma la presenza di un nucleo tematico di questo
166 CESARE PAVESE, Ieri e oggi, cit., pp. 173-174. L’articolo, come suggerisce il titolo Ieri e oggi, è diviso in
due parti: nella prima Pavese ricorda la sua esperienza e quella degli altri americanisti della sua generazione della letteratura americana prima della Seconda guerra mondiale e durante il fascismo; nella seconda l’autore riflette sullo stato attuale dei rapporti tra i romanzi d’oltreoceano e cultura italiana e afferma: «A essere sinceri […] insomma ci pare che la cultura americana abbia perduto il magistero, quel suo ingenuo e sagace furore che la metteva all’avanguardia del nostro mondo intellettuale. Né si può non notare che ciò coincide con la fine, o sospensione, della sua lotta antifascista.» Ibidem. L’azione benefica della letteratura americana fu dunque misurabile solo nella sua funzione di opposizione al fascismo: «Senza un fascismo a cui opporsi, senza cioè un pensiero storicamente progressivo da incarnare, anche l’America, per quanti grattacieli e automobili e soldati produca, non sarà più all’avanguardia di nessuna cultura. Senza un pensiero e senza lotta progressiva, rischierà anzi di darsi essa stessa a un fascismo, e sia pure nel nome delle sue tradizioni migliori». Ivi, p. 175. Sul cambiamento di atteggiamento di Pavese nei confronti della cultura americana si legga SAVERIO IEVA, La cultura americana nella critica di Pavese. Mito positivo, Mito negativo, in «Italies», 5, 2001, pp. 155-166.
genere sotto il fascismo, rende la raccolta un dato straordinario che non può essere ignorato.
Se determinate questioni sociali e politiche in Lavorare stanca vengono appena accennate ed evocate, in modo da conferire alla raccolta un sapore vagamente allusivo, il motivo è da ricercarsi, da un lato nel gusto poetico dell’autore, dall’altro nel tentativo di aggirare la censura che comunque colpì l’edizione del 1936. Le poesie di Lavorare stanca costituiscono indubbiamente un unicum nel panorama poetico dei primi anni Trenta, sia nello stile che nello sviluppo di alcune tematiche; della loro particolarità se ne accorge ben presto un intellettuale dal fiuto letterario assai raffinato, Leone Ginzburg, che della pubblicazione delle liriche di Pavese si fa promotore fin dal 1932, ossia quando propone a Alberto Carocci di stampare su «Solaria» I mari del Sud, Antenati e Il vino triste. I quattro anni che seguono vedono Ginzburg sostenere le poesie dell’amico; nell’Introduzione a Le poesie di Pavese Guglielminetti riporta una lettera di Ginzburg a Carocci del 10 marzo 1934, in cui il primo cerca di convincere il secondo a pubblicare su «Solaria» le poesie di Pavese, sebbene si discostino nettamente dal gusto poetico dominante, quello «ungarettiano»: «Io sono convinto che il libro, così poco ungarettiano, andrebbe: è proprio obbligatorio piegarsi alle esigenze del cosiddetto fiuto