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Lavorare stanca

intellettuale di Pavese.

2.5 Lavorare stanca

2.5.1 Le poesie politiche

Rifacendosi a Middle West e Piemonte Norberto Bobbio sostiene che «non diversamente da Gobetti o da Burzio, da Cajumi o da Monti, anche Pavese percepisce l’essere piemontese come una condizione-condizionante, quasi un destino, e addirittura un impegno» ma, continua il filosofo,

111 CESARE PAVESE, Maturità americana, in «La rassegna d’Italia», dicembre 1946, poi in ID. La letteratura

americana e altri saggi, cit., p. 161 (da cui si cita). Il rapporto di identificazione con Matthiesen è inoltre confermato dall’epigrafe «Ripeness is all», che, attraverso lo studioso americano, passò da Shakespeare, che l’aveva utilizzata in Re Lear, a Pavese che la usò per La luna e i falò; inoltre è da sottolineare la simile circostanza di morte poiché quattro mesi dopo il suicidio di Matthiesen seguì quello di Pavese.

Il Piemonte di Pavese non è né quello di Gobetti, né quello di Burzio o di Cajumi; e neppure quello di Monti. Anzitutto manca di una qualsiasi dimensione storica, di quella dimensione che è stata sinora un carattere costante del piemontesismo: la formazione del primo Stato moderno italiano, militare e burocratico, la prima monarchia costituzionale, lo statuto e i diritti civili, lo Stato egemone secondo il concetto giobertiano, la culla del Risorgimento e via enumerando. Per la prima volta il Piemonte di Pavese è un Piemonte senza storia. […]. Infine, un Piemonte non politico; a nessuno dei personaggi pavesiani viene in mente di discutere sui meriti o demeriti di Giolitti o di Facta, e neppure di Gramsci o di Gobetti, del movimento operaio e delle sue vittorie o sconfitte. La Torino operaia e industriale il cui fervore aveva esaltato i giovani intellettuali usciti dalla guerra ed era stata per alcuni anni il luogo delle loro battaglie, è come se fosse stata rasa al suolo. Non ne è rimasto più nulla, salvo un breve ricordo dell’eccidio di operai socialisti perpetrato da Brandimarte nel dicembre del 1922, nella poesia Una generazione. […] I personaggi delle poesie sono vecchi, ragazzi, donne, ubriachi, vagabondi, pezzenti, prostitute, che ci fanno immediatamente apparire falso e retorico oleografico il proletario che aveva alimentato in anni non lontani il mito nientemeno dell’«autogoverno dei produttori»112.

Il fatto che manchi quella dimensione storica che è stata una «costante del piemontesismo», cioè quella risorgimentale «della “regal Torino”»113, tipica di Gobetti,

Monti e Cajumi, non significa che la storia non entri nelle opere di Pavese. «La Torino operaia e industriale» è stata veramente «rasa al suolo», del suo spirito rivoluzionario «non ne è rimasto più nulla»; tale è la dimensione storica di Pavese, per questo non rappresenta la realtà dei tempi di Gramsci e dei consigli di fabbrica e di Gobetti ma quella della propria contemporaneità, nella quale il fondatore del Partito comunista d’Italia è stato messo a tacere in carcere e morirà pochi anni dopo, nel 1937, a causa di un’emorragia celebrale e Gobetti è stato ucciso. La classe operaia è ormai senza una guida politica e intellettuale, è stata battuta e umiliata dal fascismo che ha sedato i movimenti di rivolta:

Il fascismo penetrò nei rioni operai sotto le spoglie del manganello, ma anche come persuasore occulto. Una volta distrutte le organizzazioni socialiste, le famiglie si rinchiusero in se stesse: tutte le testimonianze orali parlano del silenzio che discese sui quartieri operai. La resistenza fu limitata ad una serie di gesti simbolici, come l’indossare la cravatta o le bretelle rosse il 1° maggio, o lo scarabocchiare slogan sui muri dei gabinetti in fabbrica. 114

Il movimento operaio torinese non è più quella macchina organizzativa con un preciso programma e degli obiettivi ben delineati che si era contraddistinta durante il

112 NORBERTO BOBBIO, Trent’anni di storia della cultura a Torino (1920-1950), cit., pp. 92-94. 113 Ivi, p. 97.

Biennio Rosso perché, con le sue azioni squadriste, il fascismo ha svolto un’opera efficace di disgregazione della componente politica e rivendicativa della classe operaia torinese. Tra queste azioni la più celebre ed efferata è quella ricordata nella poesia pavesiana Una generazione citata da Bobbio che merita, a questo punto, maggiore attenzione. La lirica rievoca l’episodio della Strage di Torino originato dal caso Dresda: tre fascisti, Carlo Cameraro, Giuseppe Dresda e Lucio Bazzani feriscono alla gamba Francesco Prato, un tranviere comunista che, per difendersi, uccide due dei suoi aggressori. La rappresaglia squadrista non tarda a farsi sentire e per tutta la giornata del 18 dicembre 1922, su ordine di Piero Brandimarte, comandante di tutte le squadre di azione del capoluogo piemontese, vengono massacrati dodici tra militanti e simpatizzanti comunisti; viene inoltre incendiata la sede della Camera del Lavoro, il circolo anarchico dei ferrovieri, il Circolo Carlo Marx ed infine viene devastata la sede de «l’Ordine Nuovo», i cui redattori ed il fondatore Antonio Gramsci, vengono portati al Parco del Valentino e minacciati di fucilazione. La repressione è violentissima: nella realtà che descrive Pavese non sono più possibili i movimenti operai organizzati dei primi anni Venti, continua ad esistere qualche organizzazione antifascista clandestina, come «Giustizia e Libertà», ma è costretta ad agire nell’ombra e all’Estero senza, inoltre, raccogliere le entusiastiche adesioni delle associazioni politiche e sindacali del Biennio Rosso. Una generazione è del 1934 ma si riferisce ad un episodio accaduto dodici anni prima; non è possibile stabilire se e quanto il dodicenne Pavese fosse rimasto toccato da quella giornata ma, grazie alla testimonianza della copia di Lavorare stanca di Lajolo, si apprende che l’autore si sia in seguito talmente documentato sulla strage di Brandimarte da ricordare persino i nomi delle vittime.115

Nella memoria della gente sembra essere ancora vivo il ricordo di quella terribile giornata, ma nel clima di censura e assoluto consenso al regime, è possibile evocarlo

115 «Sulla mia copia di Lavorare stanca, proprio accanto alla lirica “Una generazione”, ho ritrovato, dopo

tanti anni, alcune annotazioni che Pavese aveva scritto una notte, mentre, nel mio ufficio redazionale, attendeva che io tornassi dalla tipografia appena finita l’impaginazione del giornale. Quando tornai, il volume era già stato rimesso al suo posto e non mi sarei mai accorto di nulla se non fosse stato Raf Vallone, allora redattore della terza pagina dell’“Unità”, a dirmi che Pavese, per ammazzare il tempo, in quelle ore aveva fatto note su uno dei miei libri. Le annotazioni che Pavese aveva scritto quella sera sono metà ingolfate tra i versi centrali della prima parte della poesia, là dove si accenna agli spari, e le altre sono all’inizio della seconda parte, a fianco al verso che dice: “C’è operai silenziosi e qualcuno è già morto.” Le prime due sono queste: “18 dicembre 1922. Ricorda: eccidio di Torino (Brandimarte) Barriere di Nizza.” E quelle più sotto, vergate con grafia sempre più minuta: “I morti: Berruti, Fanti, Chiolero, Massaro, Tarizzo, Andreoli, Becchio, Chiotto (un ragazzo comunista), Mazzola, Quintaglie. Io allora avevo dodici anni”». DAVIDE LAJOLO, Il «vizio assurdo», cit., p. 38.

soltanto attraverso vaghe e sussurrate allusioni e immagini sfocate. La violenza delle squadracce fasciste irrompe all’improvviso nella città colta nel sonno, l’eccidio è visto dalla campagna da dove si vedono sgranati barlumi e si odono spari, a questi segue un «clamore interrotto» ed infine la notte inghiotte luci e suoni:

Un ragazzo veniva a giocare nei prati

dove adesso s’allungano i corsi. Trovava nei prati ragazzotti anche scalzi e saltava di gioia.

Era bello scalzarsi nell’erba con loro. Una sera di luci lontane echeggiavano spari, in città, e sopra il vento giungeva pauroso un clamore interrotto. Tacevano tutti. Le colline sgranavano punti di luce sulle coste, avvivati dal vento. La notte che oscurava, finiva per spegnere tutto

e nel sonno duravano solo freschezze di vento.

Lo stile è contraddistinto da una sottile vaghezza e anch’esso sembra contribuire ad un effetto di sottaciuta allusività. La seconda strofa si apre con quattro periodi posti tra parentesi, che riportano il tempo dell’azione al presente, un espediente che permette al poeta di giocare su diversi piani temporali, stabilendo, così, un varco tra passato e presente:

(Domattina i ragazzi ritornano in giro e nessuno ricorda il clamore. In prigione c’è operai silenziosi e qualcuno è già morto. Nelle strade han coperto le macchie di sangue. La città di lontano si sveglia nel sole

e la gente esce fuori. Si guardano in faccia.)

Questi versi presentano uno scorcio di apparente quotidiana tranquillità, dietro la quale, tuttavia, mal si celano i segni dell’orrore precedentemente narrato. Anche se «nessuno ricorda il clamore», «nelle strade han coperto il sangue» e «la città di lontano si sveglia nel sole», in prigione ci sono gli operai – alcuni dei quali vi sono morti – che avevano tentato di opporsi al regime e la gente, per strada, si guarda in faccia come se nello sguardo degli altri cercasse riflessa la propria paura e il ricordo di quel giorno: solo attraverso gli occhi è possibile comunicare e scambiarsi occhiate di timorosa intesa.

Si nota inoltre in questa lirica una componente fondamentale della poetica di Pavese, mutuata in parte dagli autori americani, vale a dire l’opposizione tra la città e

la campagna, due dimensioni nelle quali vigono regole diverse e si verificano contrasti differenti: «la città è il luogo in cui avviene il conflitto sociale, in cui si fa la storia contemporanea, attraverso lo scontro tra le forze della conservazione e le forze del progresso»; questo scontro è osservato dai ragazzi che giocano scalzi in campagna, «il luogo dove si realizza uno scontro addirittura primordiale: lo scontro tra i sessi, visto in termini di predominio dell’uomo sull’uomo (“Era bello far piangere/le bambine nel buio”)»116:

I ragazzi a quel tempo giravano in strada

e guardavano in faccia le donne. Persino le donne non dicevano nulla e lasciavano fare.

I ragazzi pensavano al buio dei prati

dove qualche bambina veniva. Era bello far piangere le bambine nel buio. Eravamo i ragazzi.

La città ci piaceva di giorno: la sera, tacere e guardare le luci in distanza e ascoltare i clamori.

La presenza di tensioni sia in città che in campagna implica un’analogia tra queste, poiché anche lo scontro che si verifica in città ha dei caratteri primordiali, in quanto ripete un rito bestiale e selvaggio che si svolge senza regole prestabilite: è proprio la bestialità il trait d’union fra le due ambientazioni. La terza ed ultima strofa – come la prima parte della seconda posta tra parentesi – ripropone il presente ma, attraverso avverbi e aggettivi («ancora», «la notte è la stessa», «in prigione ci sono gli stessi», «come allora»), suggerisce una circolare ripetizione temporale per cui passato e presente coincidono:

Vanno ancora ragazzi a giocare nei prati dove giungono i corsi. E la notte è la stessa. A passarci si sente l’odore dell’erba.

In prigione ci sono gli stessi. E ci sono le donne come allora, che fanno bambini e non dicono nulla.

La reticenza domina questa poesia («Tacevano tutti», «le donne non dicevano nulla», «la sera, tacere», «non dicono nulla»); da parte delle persone nel testo si avverte la consapevolezza dell’orrore della strage di Brandimarte e il ricordo degli anni di rivolta che hanno preceduto il tragico evento, anche se quest’ultimo non può essere narrato esplicitamente ma può essere solo evocato, per cui si ha l’impressione che Pavese abbia

voluto rendere in poesia il clima dell’opprimente censura e feroce repressione del regime. La dimensione storica, quindi, entra nell’opera di Pavese, anche se i suoi personaggi non discuteranno mai sui «meriti o demeriti di Giolitti o di Facta»; non vengono citati i nomi dei grandi capi di Stato o ministri ma viene rappresentata la realtà contemporanea al poeta, nella quale il fascismo ha messo a tacere ogni forma di opposizione e ha omologato le masse: per questo motivo della strage del 18 dicembre 1922 è possibile parlare solo in termini allusivi o simbolici.

L’unico modo per raccontare la storia, per Pavese, è attraverso le quotidiane e travagliate vicende dell’uomo qualunque, anche in questo è evidente l’insegnamento degli autori americani che della realtà in cambiamento traggono «meravigliosi provinciali che sembrano così buffi e sono invece tanto seri, il prodotto più profondo e definitivo di quella civiltà» e «le più dolorose e penose e risolutive rappresentazioni di vita moderna»117. Una generazione non è l’unica poesia dell’edizione solariana di

Lavorare stanca che tratta una tematica politica; le lotte operaie, la repressione fascista dei movimenti sindacali e rivoluzionari, la vita clandestina e carceraria degli antifascisti sono presenti, inoltre, in Legna verde e Fumatori di carta anche se quest’ultima, per volere dell’autore, non viene inclusa nell’edizione del 1936 ma compare solo in quella del 1943.

Dopo essere stato in prigione, il protagonista di Legna verde sta per riprendere l’attività politica cospirativa, senza tuttavia nutrire più le stesse speranze passato, quando «i compagni attendevano e il futuro attendeva»; si avverte, così, in questa poesia un amaro dispiacere per la sconfitta dei movimenti rivoluzionari del primo dopoguerra. La vista delle colline pone all’uomo l’alternativa della vita in campagna lontana dalla politica, ma con la mente torna ai tempi dell’impegno militante precedenti all’arresto ed il passato da recluso continua a presentarsi attraverso situazioni che suscitano ricordi ed emozioni:

Le colline gli sanno di pioggia: è l’odore remoto che talvolta giungeva in prigione nel vento. Qualche volta pioveva in città: spalancarsi del respiro e del sangue alla libera strada. La prigione pigliava la pioggia, in prigione

la vita non finiva, ogni giorno filtrava anche il sole: i compagni attendevano e il futuro attendeva.

I ricordi lontani non si limitano semplicemente ad affiorare attraverso immagini e sensazioni poiché, sostiene Catalfamo,

il presente e il futuro continuano ad essere condizionati dal passato, dal ricordo nefasto della prigione, che ha trasformato la vita dell’uomo, ha sconvolto non solo il suo modo di vivere, ma anche il suo sistema emotivo, persino il suo modo di percepire la realtà, di sentire gli odori e i sapori118.

Anche in questa poesia è presente il confronto dialettico tra la città e la campagna, che viene vinto dalla prima «che si configura come luogo della rivolta, della cospirazione clandestina, mentre la seconda è il luogo dell’eterna rassegnazione e dell’eterno egoismo»119:

Fin che queste colline saranno di terra, i villani dovranno zapparle.

[…]

Non serve pensare che la zappa i villani la picchiano in terra come sopra un nemico e che si odiano a morte come tanti nemici. Hanno pure una gioia i villani: quel pezzo di terra divelto. Come importano gli altri? Domani nel sole le colline saranno distese, ciascuno la sua. I compagni non vivono nelle colline, sono nati in città dove invece dell’erba c’è rotaie. Talvolta lo scorda anche lui. Ma l’odore di terra che giunge in città non sa più di villani. È una lunga carezza che fa chiudere gli occhi e pensare ai compagni in prigione, alla lunga prigione che attende.

La chiusa è emblematica poiché la prigione, la «lunga prigione che attende», simboleggia non solo il presente ma anche il futuro ed il passato diventa, così, condizione immutabile e perenne per cui in questa lirica, accanto al motivo della reclusione e della militanza, si sviluppa quello del destino. La dedica a Massimo Mila permette un richiamo al clima durante il quale la poesia è stata scritta: nel 1934 Mila era già stato in prigione una volta, nel 1929, l’anno dopo sarà nuovamente arrestato

118 ANTONIO CATALFAMO, Cesare Pavese. Mito, ragione e realtà, cit., p. 35 119 Ibidem.

per attività clandestina e antifascista – insieme a Pavese e molti altri – e condannato a sette anni di carcere.120

Sebbene inserita solo nell’edizione Einaudi del 1943 di Lavorare stanca, Fumatori di carta è stata composta tra il trenta agosto e l’undici settembre del 1932 e quindi può essere definita la poesia politica più antica di Pavese; essa inoltre, ritiene Calvino, rappresenta un momento molto importante dell’opera dell’autore perché in essa è contenuto «un primo studio di quel personaggio che ne La luna e i falò avrà nome Nuto».121 Le prime due strofe si svolgono al presente in un locale dove suona la banda

diretta dal clarino del «povero amico» dell’io lirico mentre «fuori, un vento furioso e gli schiaffi, tra i lampi,/ della pioggia fan sì che la luce vien tolta,/ ogni cinque minuti». La scena descritta è ricca di dettagli, dalle «contadine […] mani che stringono i tasti» dei «poveri ottoni […] troppo sovente ammaccati» alle «fronti, caparbie, che guardano appena da terra». La terza strofa è ambientata nel passato e racconta la vita dell’amico a Torino122 e la sua adesione al movimento operaio organizzato:

Li ebbe un tempo i compagni e non ha che trent’anni. Fu di quelli che di dopo la guerra, cresciuti alla fame. Venne anch’egli a Torino, cercando una vita, e trovò le ingiustizie. Imparò a lavorare

nelle fabbriche senza un sorriso. Imparò a misurare sulla propria fatica la fame degli altri,

e trovò dappertutto ingiustizie. Tentò darsi pace camminando, assonnato, le vie interminabili nella notte, ma vide soltanto a migliaia i lampioni lucidissimi, su iniquità: donne rauche, ubriachi, traballanti fantocci sperduti. Era giunto a Torino un inverno, tra lampi di fabbriche e scorie di fumo; e sapeva cos’era lavoro. Accettava il lavoro

come un duro destino dell’uomo. Ma tutti gli uomini lo accettassero e al mondo ci fosse giustizia.

Ma si fece i compagni. Soffriva le lunghe parole e dovette ascoltarne, aspettando la fine.

Se li fece i compagni. Ogni casa ne aveva famiglie. La città ne era tutta accerchiata. E la faccia del mondo ne era tutta coperta. Sentivano in sé

tanta disperazione da vincere il mondo.

120 Cfr. CESARE PAVESE, Poesie edite ed inedite, a cura di ITALO CALVINO, Torino, Einaudi, 1962, p. 240. 121 Ivi, p. 231.

122 Anche in questa poesia è evidente l’opposizione tra città e campagna dove il primo termine

simboleggia la crescita, la maturazione della coscienza di classe, ma anche la delusione nei confronti di speranze nutrite per un futuro con maggior giustizia sociale.

La città e l’impiego come operaio in fabbrica hanno fatto maturare all’amico una coscienza di classe che gli ha permesso di comprendere il valore della giustizia sociale e della dignità del lavoro, per cui decide di avvicinarsi ai movimenti politici e rivoluzionari i quali, tuttavia, non sembrano soddisfare a pieno la sua sete di uguaglianza: «Soffriva le lunghe parole/ e dovette ascoltarne, aspettando la fine», versi nei quali, sostiene Calvino, si coglie «una critica al movimento operaio prefascista, e probabilmente all’astrattezza dottrinaria».123 In questo componimento Pavese assume

due atteggiamenti che, almeno in parte, si oppongono: da un lato ammira la tenace adesione di chi non si rassegna alla sconfitta, dall’altro mostra un «distacco scettico soprattutto per la possibilità di riuscire a cambiare qualcosa con le parole e con le teorie»124; il tono della poesia è dunque di appassionata partecipazione all’esperienza

dell’amico operaio senza, tuttavia, nascondere delle riserve verso l’aspetto propriamente teorico dei movimenti politici che non hanno saputo cogliere occasioni utili.

La morte è il grande tema che unisce le tre strofe di Rivolta, una poesia che tratta un argomento di rilevanza più sociale che politica: le morti bianche. Calvino sostiene che questo componimento si riferisca ad un episodio di violenza fascista125 ma nei suoi

versi non c’è nessun riferimento alle lotte operaie e alla loro repressione, esso è semmai calato in un’ambientazione proletaria che non sembra avere un’immediata implicazione politica. Nella prima strofa è raffigurato un lavoratore morto che giace per terra «stravolto», «non guarda le stelle» ed «ha i capelli incollati al selciato»; il cadavere è esposto alla visione dei «vivi» che «ritornano a casa, tremandoci sopra». Nella seconda strofa sono rappresentati dei morti apparenti, i lavoratori, che, stremati dalla dura fatica in fabbrica, tornano a casa e, abbandonandosi in un greve riposo, nemmeno loro