L’età delle traduzioni e Lavorare stanca
2.3 Gli anni universitari: le poesie prima di Lavorare stanca
In ogni modo è certo che durante gli anni universitari – dal 1926 al 1930 – Pavese è completamente assorbito dallo studio, dai tentativi di comporre poesie e brevi racconti e dalla scoperta della letteratura americana. Cesare scrive poesie dalla prima adolescenza; l’apprendistato poetico, si è visto, prende avvio con lo scambio di liriche con Sturani, cui Pavese affianca riflessioni letterarie che gradualmente lo condurranno alla sistemazione di un insieme organico di poesie. Tali considerazioni prendono forma intorno al 1925, quando inizia a maturare la convinzione che la poesia sia una delle tante illusioni che rendono bella ed irripetibile la giovinezza, e occorre, pertanto,
lasciarsi alle spalle, con decisione e senza ripensamenti, la fase imitativa, crearsi un metro, trasformare la propria insoddisfazione in stimolo a fare sempre meglio,
37Ivi, p. 34.
trovare la forza di vivere e di scrivere in se stessi e negli amici, in primo luogo Sturani38.
Il dieci dicembre dell’anno successivo si suicida l’amico Enrico Baraldi: questo fatto segnerà la vita e l’opera giovanili di Pavese e adombrerà una poesia del gennaio del 1927, un mese dopo il tragico evento, nella quale il giovane poeta racconta un tentativo di suicidio fallito per non aver avuto il coraggio di andare fino in fondo, pur confidando di trovare la forza in futuro:
Sono andato una sera di dicembre per una strada buia di campagna, tutta deserta, col cuore in tumulto. Avevo dietro di me una rivoltella. Quando fui certo d’esser ben lontano d’ogni abitato, l’ho rivolta a terra ed ho premuto.
Ha sussultato al rombo, d’un rapido sussulto che mi è parso scuoterla come viva in quel silenzio. […]
Così, andando tra gli alberi spogliati, immaginavo quando afferrando quella rivoltella, nella notte che l’ultima illusione e i terrori mi avranno abbandonato, io me l’appoggerò contro una tempia, il sussulto tremendo che darà, spaccandomi il cervello.
Il 1926 e il 1927 rappresentano due anni di impasse per Pavese; in questo biennio è «impegnato come non mai a indagare le origini della propria poesia, a metterne in discussione i risultati» e talvolta giunge a «liquidarla in modi sbrigativi e sconsolati»39,
come si evince dalla lettera dell’otto aprile del 1927 dove confessa all’amico Sturani di aver perso le forze dopo «i versi della rivoltella»:
Dunque devi sapere che io non scriverò più. Non scriverò più, ne sono quasi certo. Non ho più la forza, e poi, non ho niente da dire. Dopo arrivati ai versi della rivoltella non c’è più che posare la penna e procedere ai fatti.
Sono tre mesi che ho vissuto in passione continua: tira, molla; lo faccio, non lo faccio. […].
Ora vado avanti passivamente, divertendomi, dimenticandomi, studiando per gli esami; non più per me, ché ogni passione verso l’alto è morta.
Ormai negli avvenimenti degli ultimi tempi, mi sono conosciuto bene, definitivamente: incapace, timido, pigro, malcerto, debole, mezzo matto, mai, mai
38 MARIAROSA MASOERO, Nota ai testi, in CESARE PAVESE, Le poesie, cit., p. XLVII. 39 Ibidem.
potrò fermarmi in una posizione stabile, in ciò che si chiama la riuscita nella vita. Mai, mai.
Lo sforzo necessario a questa conquista non ho più l’energia di sopportarlo, perché tanto so che sarebbe inutile: non ci riuscirei. E anche se ci riuscissi, ne varrebbe poi la pena? […].
Pavese è morto40.
La svolta si verifica nel 1928, quando, «dopo aver prodotto migliaia di versi sciolti, disordinati e capricciosi, Pavese riesce finalmente ad “organizzare” la sua arte, ad approdare cioè ad un “sistema tecnico” che lo soddisfa»41; di questo «miracolo» dà
notizia a Tullio Pinelli in una lettera del ventisette settembre:
Mi pare, e tu scrivimi se è proprio vero, di essere riuscito a organizzare la mia arte (per uno come me che non spera più che in quello, sarebbe la salvezza, ma chissà, poi!) di aver trovato dalla mia interiorità più istintiva il mio mondo esteriore, le mie immagini, di avere un mio, qualunque esso sia, sistema tecnico, scoperto a poco a poco faticosamente nella mia stessa sensibilità, di essere insomma al punto di far davvero le belle poesie. In altri termini, sarebbe scomparsa la natura frammentaria dei miei versi, il che veniva soltanto da insufficienza di visione, di immagine. Non resterebbe più quindi che mettersi a vivere, appunto per trovare abbondanza e novità (cioè pavesismo) di dette immagini. Ti mando alcune delle poesie che io ritengo nuove, e tu vedi un po’ se c’è quel miracolo42.
Il «miracolo» consiste nella raccolta, Rose gialle in una coppa nera, rimasta solo in forma di ipotesi, «che attesta il superamento della fase di sperimentalismo iniziale e la conquista di una maggiore padronanza del verso e della materia trattata»43. Attraverso
un’attenta recensio delle carte giovanili dell’autore, Mariarosa Masoero ha potuto verificare che all’altezza dell’autunno del 1928 Pavese manifesta, a più riprese, «la volontà di salvare e di organizzare in raccolte una parte della sua produzione giovanile»44. Le poesie vengono infatti sistemate in varie raccolte: Rinascita, cui ne segue
una divisa in tre sezioni comprendente ventiquattro poesie, dapprima intitolata Accanto al mondo e, in seguito Le febbri della decadenza, alla quale, anticipata da un’epigrafe45,
vengono aggiunte dodici poesie. In questa nuova raccolta spicca la figura della ballerina del varietà, dietro le quali si cela probabilmente Milly – nome d’arte di Carolina Mignone – di cui Pavese si era invaghito vedendola a teatro; molto spazio, inoltre,
40 CESARE PAVESE, Lettere (1924-1944), cit., pp. 53-54.
41 MARIAROSA MASOERO, Note ai testi, in CESARE PAVESE, Le poesie, cit., p. XLVIII. 42 CESARE PAVESE, Lettere (1924-1944), cit., pp. 110-111.
43 Cfr. MARIAROSA MASOERO, Note ai testi, in CESARE PAVESE, Le poesie, cit., p. XLVIII. 44 Ivi, p. XLIX.
45 «21 Dicembre 1928|Composte nell’annata dei ventanni.|E disposte così in architettura
rappresentativa,|per vedere di oggettivarmi innanzi la vita passata|e perderla.|C. P. |30 Dic. ‘28| The rest is silence|Pavese, non fare il cretino|25 Genn. ’29». Ivi, p. 211.
occupa la disperazione del poeta e il suo dramma di essere «confuso a tutti i poveri impotenti che marciscono sulla terra»46. Le febbri della decadenza presenta uno sfondo
cittadino, una «città gigantesca» per la quale il poeta si aggira desolato:
Pover’anima pallida, dalle fiacche energie
che nell’istante stesso che ti esaltano ti fan tremare,
anima mia, vivente in mezzo a tanta forza della città d’acciaio e di pietra che ti sovrasta altissima e noncurante
povera mia agonia mi fai tanta pietà47.
Nella poesia Negli istanti di gioia più grande Pavese contrappone il progresso della città futurista, contraddistinta dagli «urli dell’acciaio e della forza|tanto che da vertigini|e non fa più pensare,|ma solo afferra l’anima e la scaglia rovente in un’aurora imposta dagli uomini nel cielo», alle «grandi colline» della campagna racchiuse in un «ricordo lontano», un luogo dove il poeta, sfinito e avvilito dalla dimensione urbana, si rifugia con la mente: già in questa poesia è evidente il contrasto tra la città e la campagna, opposizione che costituirà una delle tematiche fondamentali della poetica dell’autore. Nella stessa lirica si può inoltre cogliere un’altra componente importante dell’opera pavesiana, quella della conoscenza mitica durante l’infanzia, qui appena accennata, che troverà teorizzazione ne Il mestiere di vivere e pieno sviluppo e maturazione nei racconti di Feria d’agosto48:
46 Ivi, p. 217.
47 Ivi, p. 228.
48 Con gli anni l’opera pavesiana svilupperà sempre di più l’idea che la vera conoscenza delle cose e del
mondo avviene durante l’infanzia e, per questo, essa si configura come fonte di poesia. Manifesto di questa teoria può essere il racconto Il campo di granturco della raccolta Feria di agosto: «Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granoturco e ascoltai il fruscìo dei lunghi steli secchi mossi nell’aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c’era il cielo vuoto. “Questo è un luogo da ritornarci”, dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta, come se dovessi portare la notizia a qualcuno che stesse lontano. Ero che io che stavo lontano, lontano da tutti i campi di granturco e da tutti i cieli vuoti. Quel giorno fu un campo; avrebbe potuto essere anche una roccia impendente sopra una strada, un albero isolato alla svolta di un colle, una vite sul ciglio di un balzo». CESARE PAVESE, Tutti i racconti, Torino, Einaudi, 2002, pp. 10-11. I luoghi dove avvengono queste riscoperte vengono definiti da Pavese «luoghi unici», come si legge in un appunto de Il mestiere di vivere datato 11 settembre 1943: «Carattere, non diciamo della poesia, ma della fiaba (mito) è la consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Poi vi sorgono i nomi, i santuari, aggettivi geografici. I luoghi dell’infanzia ritornano nella memoria a ciascuno consacrati nello stesso modo; in essi accaddero cose che li han fatti
Tutto ciò che ho sofferto per conoscere in me nell’esistenza l’ho già vissuto un giorno dell’infanzia lontana
nella pianura in fondo alla vallata.
La rappresentazione della campagna, che suscita il ricordo della scoperta del cielo dalle «fantastiche forme delle nubi|possedute di vento», viene interrotta dall’elemento cittadino del «treno fragoroso|sopra un ponte di ferro», che sembra svegliare la campagna dal torpore mitico ed il poeta torna infatti alla descrizione, dai tratti decisamente futuristici, della «città piena di luci,|di una vita febbrile,|e tante forme nuove|vedute in una corsa|vertiginosa, una vita pulsante|fatta d’acciaio, del respiro rosso|dell’acciaio pulsante.»
Oltre alla campagna e alla città, nelle Febbri di decadenza entra la periferia, la barriera – un luogo ibrido perché costituisce la campagna dentro la città – assieme ai personaggi che la abitano; d’altronde gli anni della composizione di queste poesie coincidono con quelli del movimento artistico di Strabarriera, promosso dalla confraternita degli ex allievi del D’Azeglio, i cui prodotti artistici respirano un’ambientazione periferica. La raccolta si chiude con la trilogia Le febbri luminose, nella quale la città assume tratti demoniaci e nella cui descrizione prevalgono, non a caso, termini come «inferno», «sangue», «febbre», «folla», «luci», «buio», «agonia» e tutti i loro derivati; anche in questa trilogia si avverte il disagio e l’incapacità del poeta di muoversi, contrariamente alla folla informe, nella città:
Io darei la mia vita,
le ebbrezze più nauseanti della vita, per saper passare in quelle luci come passa quel giovane che le ha calme nel sangue, com’è passata quella donna accesa che ne ha intorno e negli occhi tutta la limpidezza allucinante.
Su Le febbri di decadenza si esprime anche Mila a cui Pavese aveva sottoposto la lettura dell’intera produzione del 1928; l’amico nota che
unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico (non ancora poetico)». CESARE
la tecnica è ormai sufficientemente affinata e scaltrita e posseduta; inoltre nel loro raggruppamento hanno una coordinazione e organicità tale da permettere la costruzione di un “libro” di poesia e non sono solo una “raccolta” di liriche49.
Pur riconoscendo la natura organica e coerente della raccolta, Mila non sembra tuttavia apprezzare le poesie, esse infatti
sono tutte nutrite di un’esasperata ricerca nel tuo animo, ricerca condotta fino a tanta profondità e con tanta assolutezza, che ti costringe a perder di vista tutto quello che è fuori di te, quello che si usa chiamare natura. Ne viene che questi sentimenti, tanto più preziosi quanto più in fondo sono stati scavati, proprio come le gemme, di rado riescono a oggettivarsi, a superare lo stadio di una pura e semplice enunciazione o definizione50.
Del 1929 è Blues della grande città, di cui non sono stati tuttavia rinvenuti gli indici nelle carte giovanili51. Questa raccolta presenta delle analogie con Le febbri della
decadenza: anche in queste poesie fa da sfondo la città moderna avvolta nell’oscurità e talvolta interrotta da qualche luce artificiale – i «fiori elettrici»52; osservatore inquieto di
questo paesaggio cittadino è, ancora una volta, il poeta che passa «attraverso l’oceano balenante|dell’atmosfera di pietra e d’acciaio|della città notturna» e «ha gesti grandi, come chi combatta», «negli aloni di luce|il poeta s’agguaglia nel delirio|agli uragani cosmici di forza|della città notturna»53. Anche in questa raccolta i soggetti privilegiati
sono gli abitanti delle barriere come le prostitute, nei confronti delle quali il poeta prova empatia e si riconosce nella loro condizione, come nella poesia La nausea da bordello:
Pover’anima stanca e imbellettata, noi che indugiamo per le vie affollate logori della vita non vissuta
e tutti intorno ci urtano, siamo come le povere puttane che passeggiano lente
e il loro aspetto è un mascherone atroce. Stringono tra le labbra la sigaretta rauca come un ultimo appiglio disperato.
La grande città, colta nei suoi aspetti più minacciosi, non si lascia comprendere dal poeta:
49 MASSIMO MILA, La voce degli amici, in CESARE PAVESE, Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), cit.,
p. 220.
50 Ibidem.
51 Cfr. MARIAROSA MASOERO, Note ai testi, in CESARE PAVESE, Le poesie, cit., p. L. 52CESARE PAVESE, Le poesie, cit., p. 262.
Io mai comprenderò
che sia questa torsione d’ogni spirito, questa fatica folle,
che ogni giorno riprende sui miei passi all’apparire delle case enormi
e al ruggito confuso, all’impazzire di uomini e di luci nella notte.
Sembra quasi lanciargli una sfida e vincerla: «Questa città mi ha vinto, come un mare|[…]|E sulla mia sconfitta|contemplo uscire un gran combattimento,|due forze sovrumane»54. Molte sono le suggestioni che agiscono sul giovane Pavese, dalle poesie
di Whitman, su cui scriverà la tesi di laurea, alla più vicina tradizione torinese. A questo proposito, nelle liriche che anticipano Lavorare stanca, si può cogliere l’influenza delle ambientazioni di alcuni componimenti di Guido Gozzano, i cui versi Pavese ha benissimo in mente55; per esempio, la poesia Un’altra risorta56 appartenente alla raccolta
I colloqui, presenta delle situazioni che vengono riprese dal giovane Pavese:
Solo, errando così come chi erra senza meta, un po’ triste, a passi stanchi, udivo un passo frettoloso ai fianchi; poi l’ombra apparve, e la conobbi in terra… Tremante a guisa d’uom ch’aspetta guerra, mi volsi e vidi i suoi capelli: bianchi. Ma fu l’incontro mesto, e non amaro. Proseguimmo tra l’oro delle acace del Valentino, camminando a paro. Ella parlava, tenera, loquace, del passato, di sé, della sua pace, del futuro, di me, del giorno chiaro.
L’errare senza meta, fuggendo così dalla folla, in uno stato di confusione e stanchezza, è tipico di molti dei componimenti che sono stati ricordati in precedenza; anche la passeggiata in compagnia di una figura femminile non è estranea alle poesie giovanili di Pavese: Frasi all’innamorata, una lirica composta nei primi giorni dell’agosto
54 Ivi, p. 268.
55 Sulle influenze di Gozzano sulla prima produzione di Pavese si rimanda a LORENZO MONDO, Guido
Gozzano alle origini di Pavese, in ID., Natura e storia in Guido Gozzano, Roma, Silvia editore, 1969, pp. 123- 153. Oltre a rintracciare dei riferimenti ai componimenti di Gozzano nelle poesie di Pavese, Mondo cita alcune lettere e interventi di critica rivolti al pubblico della Confraternita degli ex alunni del D’Azeglio che evidenziano «la perdurante consuetudine di Pavese con i testi gozzaniani». Ivi, p. 131.
56 GUIDO GOZZANO, Un’altra risorta, in ID., Tutte le poesie, a cura di ANDREA ROCCA, Milano, Oscar
del 1930, che nella metrica e nei contenuti anticipa, almeno in parte I mari del Sud57 – la
poesia iniziale di Lavorare stanca – propone uno scenario simile a quello di Un’altra risorta. In Frasi all’innamorata, infatti, il poeta cammina lungo i viali torinesi con una ragazza, «con una bambina|abbordata per strada»:
La bambina è difficile nella scelta scabrosa: al caffè non andiamo perché odiamo la folla, al cinema neppure, perché la prima volta siamo stati… perché… non dobbiamo più farlo, se tanto non ci amiamo.
Passeggiamo, così, fino a Po, fino al ponte, guarderemo i palazzi di luce, che i lampioni fan nell’acqua.
I punti di sospensione e le parti dialogate – assenti nell’estratto sopra citato ma ampiamente presente nella poesia – richiamano lo stile de I colloqui di Gozzano e «gozzaniana è, in ogni caso, la situazione»58 di audace mondanità. Nonostante la
compagnia e l’attrazione per ragazza, il poeta di Frasi all’innamorata, come quello di Un’altra risorta, consacra questi versi a cupi pensieri di tristezza e solitudine:
O mia bella bambina, stasera non sono il compagno audace, che ti ha vinta, baciandoti per strada sotto gli occhi di un vecchio signore stupito. Questa sera cammino pensando tristezza, come tu qualche volta pensi che vuoi morire. Non ch’io voglia morire. È passato quel tempo e, poi, «noi non ci amiamo». È la folla che passa che mi preme e mi schiaccia, e anche tu sei la folla, che, come tutti, mi cammini accanto.
Non ch’io t’odî, bambina – potresti pensarlo? – ma sono solo e sempre sarò solo.
57 Cfr. LORENZO MONDO, Guido Gozzano alle origini di Pavese, cit., p. 137-142. L’attacco di entrambe le
poesie presenta un verso di tredici sillabe (che non è tuttavia esclusivo dell’intero componimento) e propone un verbo di moto in posizione iniziale; inoltre, sia Frasi all’innamorata sia I mari del Sud raccontano di una passeggiata: nella prima l’io narrante si trova in compagnia di una ragazza, nella seconda in compagnia di un cugino tornato a casa dopo anni di viaggi per mare.
58 Ivi, p. 139. «questa più spregiudicata signorina Felicita (ma si guadagna la vita in fabbrica, e vive in
città […]) non ha timore che si pensino di lei cose “poco belle” per il fatto che è scesa con l’amico fino al Po. Ma qualche scrupolo le è rimasto, se non vuole attraversare il fiume, se la collina si accontenta di guardarla, nel buio. Ed alle insistenze del ragazzo per indurla al limite estremo di quel confine ch’ella s’è imposta, per farla salire in barca, risponde ostinata con un altro diniego: “Di sotto il caschetto di feltro mi guarda / e poi, quasi compunta ripete – “Restiamo a guardare”. Quel caschetto di feltro si pone quasi come sigla definitiva di questa piccola antologia di modi e di situazioni gozzaniane». Ivi, pp. 139-140.