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Brancaleone Calabro: verso un recupero della classicità e una nuova poetica

intellettuale di Pavese.

Il 30 luglio 1934 il libro è pronto per la lettura ultima, anche se resta il problema della censura e di come possa difendersi dalla «sua peculiarità non fascista» 171 Nella

3.2 Brancaleone Calabro: verso un recupero della classicità e una nuova poetica

3.2.1 La lettura dei classici

La critica che si è dunque basata su annotazioni come quella del nove ottobre 1935, in cui Pavese lamenta di non saper produrre poesia sulle «rocce rosse lunari», non ha tenuto appieno conto della natura del diario. Se in effetti Pavese, durante l’esilio, si limita ad aggiungere delle liriche a Lavorare stanca senza cimentarsi nella composizione di una nuova opera, è altresì innegabile che proprio in questo periodo è assorbito da una profonda riflessione sull’esercizio scrittorio cui seguirà un significativo cambiamento di poetica e il passaggio alla prosa. Una volta scontato il confino e rientrato a Torino, Pavese riprenderà l’attività narrativa – abbandonata dopo le novelle di Ciau Masino – con una serie di racconti e un romanzo. Il romanzo, Il carcere, e uno di questi racconti, Terra d’esilio, costituiscono un esplicito richiamo dell’esperienza del confino, di cui si avrà modo di trattare in seguito. Queste opere appartengono al biennio 1938-1939, non sono state scritte quindi a ridosso del rientro in Piemonte: il fatto che egli non abbia utilizzato immediatamente le suggestioni letterarie che gli provenivano dal paesaggio calabrese è dovuto alla sua convinzione dichiarata nel diario il sedici febbraio 1936, dove afferma che l’opera d’arte può nascere con la fine del dolore, per cui risulta chiaro che la produzione letteraria per Pavese richiede distacco e lontananza nel tempo:

Il futuro verrà da un lungo dolore e da un lungo silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza e smarrimento che sia umiltà, la scoperta insomma di nuovi valori, un nuovo mondo. L’unico vantaggio che avrò sui miei primi vent’anni sarà

la mano fatta, l’inconscio istinto. Lo svantaggio, la messe precedente e l’esaurimento del fondo.

Però – che lo sappia – la nuova opera comincerà soltanto alla fine del dolore. Per ora non posso che almanaccare estetica, il problema dell’unità, e studiare domande per finire il dolore25.

È opportuno sottolineare che la stasi creativa risale a prima dell’esilio; di essa si registrano accenni già ne Il mestiere di poeta – la cui stesura risale a un anno prima dell’allontanamento a Brancaleone Calabro – dove l’autore si confessa consapevole della necessità di imprimere alla propria opera una svolta per passare «dal collasso atroce» alla «maturità». L’occasione per questa svolta sembra offrirgliela il confino: Pavese approfitta del soggiorno forzato lontano da Torino per avviare una riflessione critica sulla sua opera, una decisione che emerge chiaramente dalle lettere spedite ai familiari e amici – principalmente alla sorella, a Monti e a Sturani – ai quali chiede costantemente libri. Tra le richieste spiccano in maniera evidente i classici greci26; come

già sottolineato, Pavese non aveva avuto occasione di studiare la lingua greca a scuola e pertanto la sua libreria non è particolarmente provvista di testi classici: le letture dei mesi del confino e il paesaggio marino calabrese si rivelano estremamente fecondi per l’opera di Pavese, perché favoriscono un dialogo intimo e profondo col mondo mitico della Magna Grecia. Queste letture hanno un effetto immediato che si riflette, per esempio, in Mito e Lo steddazzu, due poesie scritte in confino dense di immagini mitiche, e nelle riflessioni sul paesaggio e sui costumi calabresi, contenute nella corrispondenza con gli amici e parenti, come si legge nella «lettera della serenità» del ventisette dicembre 1935 indirizzata alla sorella:

25 CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere, cit., p. 26. Si noti, inoltre, che questa affermazione ricorda la

dichiarazione di arte anticrociana come «lungo travaglio e maceramento dello spirito faticoso» esposta a Monti nella lettera del diciotto maggio 1928.

26 Si legga, per esempio, questa lettera indirizzata a Monti datata ventinove ottobre 1935: «Suo genero –

ginöria – mi ha mandato un uragano di libri e di pipe. L’ho già coperto di grazie e, se anche lei volesse acquistar merito, mi mandi qualche greco. Qui ho trovato Iliade III, Anabasi I, Lisia per l’invalido, Sofocle,

Edipo re, e tutto ho tradotto e sto terminando di tradurre. Gradirei molto qualcosa della Palatina o meglio

ancora il Convito platonico, senza pregiudizio di altre cose, nel testo, commentati. Omero pare che me lo mandino i miei». CESARE PAVESE, Lettere (1924-1944), cit., p. 475. Un altro esempio è fornito dalla

seguente lettera in cui Pavese dà notizia all’ex professore del contenuto del pacco da lui spedito: «Caro Monti, ho atteso l’arrivo dei testi annunciati dalla cartolina dell’8 novembre per rispondere. […]. Stamattina ho ricevuto il pacco contenente: Sofocle: Filottete e Elettra, Platone: Fedone e Critone, Eschilo:

Coefore; e Antologia del Cammelli. Giorni fa ho avuto dei romanzi da suo genero e così sono provvisto

per l’anima e per il corpo». Ivi, p. 475. Tra i libri spediti a Pavese non mancano, tuttavia, anche i classici della letteratura moderna, come si evince da questa missiva dell’undici ottobre 1935 spedita al genero «ginöria» (lavativo) di Monti, Mario Sturani: «Caro Sturani, ricevo nove (dico nove) volumi (Defoe, De Quincey, De Maistre, Milton, Hawthorne, Montaigne [4 voll.]) Per sdebitarmi, al mio ritorno, dovrò entrare al tuo servizio senza compenso». Ivi, p. 452.

Cara Maria,

questa è la lettera della serenità. […].

La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono «Este u’ confinatu», lo fanno con una tale cadenza ellenica che mi immagino di essere Ibico e sono bell’e contento. Ibico, se vi interessa, è un lirico corale del VI secolo a. C., nato proprio qui nel Reggino, ammazzato sulla strada maestra […]. Non bisogna dimenticare che costui girava, come un’anima persa, Magna Grecia e isole, per amore della pagnotta che si chiamava allora ospitalità. Ebbene, ancora questa gente è tale e quale e, se non il giardino delle ninfe, l’ospitalità è intatta.

Fa piacere leggere la poesia greca in terre dove, a parte le infiltrazioni medioevali, tutto ricorda il tempo che le ragazze udreuousai si piantavano l’anfora in testa e tornavano a casa a passo di cratère. E dato che il passato greco si presenta attualmente come rovina sterile – una colonna spezzata, un frammento di poesia, un appellativo senza significato – niente è più greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiano e agavi, rosa di leandri e geranî, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva. Persino la cornamusa – il nefando strumento natalizio – ripete la voce tra di organo e di arpa che accompagnava gli ozî di Paride Jeoeidhz, quando sui pascoli dell’Ida mangiava il formaggio delle sue pecore e sognava gli amori di Elenhz leucelenou […]. Ricordo che, in mancanza di meglio, io, valendomi della mia efebica prestanza fisica, quest’estate mi denudavo – quant’è permesso dai regolamenti – il «candido fiore del corpo» sulla riva del mare e componevo, così, ellenici quadri, che i geranî della spiaggia non dimenticheranno tanto presto.

Insomma, credo nella metempsicosi e sono convinto di reincarnare Ibico, quello delle mele cotogne27.

Osservazioni come queste, in cui Pavese si sente reincarnato in Ibico e sembra scorgere ancora un vivo ricordo della classicità negli usi e costumi della gente, bastano a contraddire quella parte della critica sostenitrice della presunta estraneità dell’autore all’ambiente e al paesaggio calabrese. Il soggiorno nel Sud Italia permette a Pavese di recuperare la tradizione classica, che viene affiancata e integrata con gli studi e con gli interessi di letteratura contemporanea; si intuisce, inoltre, che questa frequentazione con la classicità avrà in futuro un ruolo fondamentale nell’elaborazione della teoria del mito che inizierà a svilupparsi – non a caso – dopo il confino e che troverà pieno compimento nella raccolta di racconti Feria d’agosto e soprattutto nei Dialoghi con Leucò, il libro che intrattiene il rapporto più profondo col mondo greco di tutta l’opera pavesiana.

27 Ivi, pp. 489-490.

3.2.2 L’immagine-racconto

Come già sottolineato, il periodo del confino permette a Pavese di concentrarsi lungamente sulla propria poetica e di individuarne i punti che non lo convincono pienamente. Non è casuale che la prima nota del diario risalga a due mesi dopo l’arrivo di Pavese a Brancaleone Calabro e che, negli appunti che coincidono con la permanenza dell’autore in Calabria, Il mestiere di vivere sia prevalentemente dedicato a riflessioni di poetica. Il diario si apre – nota del sei ottobre 1935 – con una esplicita dichiarazione di crisi creativa:

Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza che le compongo con sempre maggior indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie28.

Pochi giorni dopo, il quindici ottobre, Pavese sente la necessità di un «nuovo punto di partenza», la stessa esigenza di svolta che l’anno prima aveva avvertito ne Il mestiere di poeta:

Eppure ci vuole un nuovo punto di partenza. Essendosi la mente abituata a un certo meccanismo di creazione è necessario uno sforzo altrettanto meccanico per uscirne e sostituire ai monotoni frutti spirituali, che si riproducono, un nuovo frutto che sappia di ignoto, di innesto inaudito.

Non che occorra sostituire al lavorìo mentale un impulso dall’esterno, ma trasformare corporalmente la materia e i mezzi per trovarsi di fronte a problemi nuovi; avuto il punto di partenza, s’intende che lo spirito riprenderà tutto il suo gioco. Senza questo scatto materiale, non posso uscire dalla pigra e anch’essa materiale riduzione abitudinaria di ogni situazione in schema e sensibilità d’immagine-racconto. Occorre un intervento dall’esterno per mutare direzione all’istinto diventato cosa esterna e quindi prepararlo a nuove scoperte29.

Dalle prime pagine del diario emerge chiaramente il desiderio di Pavese di consacrare la fase confinaria allo studio e alla riflessione teorica in vista della sistemazione di una nuova poetica, come si legge dalla nota che conclude il primo anno de Il mestiere di vivere (del ventinove dicembre 1935):

28 CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere, cit., p. 7. 29 Ivi, p. 12.

Dei due, poetare e studiare, trovo maggiore e più costante conforto nel secondo. Non dimentico però che mi piace studiare in vista sempre di poetare. Ma in fondo il poetare è una ferita sempre aperta, donde si sfoga la buona salute del corpo30.

Più che costituire un periodo di stasi artistica, il soggiorno a Brancaleone Calabro si configura semmai come un superamento della stessa attraverso una densa attività intellettuale. La crisi creativa risale a ben più addietro: quando Pavese giunge in confino essa è radicata da almeno un anno, come testimonia il già ricordato scritto del 1934, Il mestiere di poeta, nel quale l’autore afferma di non sentirsi pienamente soddisfatto della poesia oggettiva nata da I mari del Sud, e vagheggia, piuttosto «un complesso di rapporti fantastici nei quali consista la propria percezione poetica»31. Nell’appendice alla prima

edizione di Lavorare stanca, Pavese avverte la necessità di «sostituire al dato oggettivo il racconto fantastico di una più concreta e sapiente realtà», tuttavia si chiede

dove si dovrà fermare questa ricerca di rapporti fantastici? Cioè, quale giustificazione di opportunità avrà la scelta di un rapporto piuttosto che un altro? […]. Quando, insomma, la potenza fantastica diventa arbitrio? La mia definizione dell’immagine non mi diceva nulla in proposito.

Ancora adesso non sono uscito dalla difficoltà. La ritengo perciò il punto critico di ogni poetica.32

Pavese sembra rendersi conto delle difficoltà dell’impresa ma un’occasione per risolvere questo «punto critico» gliela fornisce, durante i mesi del confino, la stesura del diario che assume una duplice funzione: da un lato gli consente di chiarire, appuntandolo nero su bianco, il reale significato delle vicende della sua travagliata esistenza, dall’altro gli suggerisce la soluzione ai problemi tecnico-compositivi. La connessione tra il piano esistenziale e quello creativo de Il mestiere di vivere viene resa esplicita nella nota del ventotto febbraio 1936:

C’è un parallelo tra questo mio anno e la considerazione della poesia. Come la sofferenza atroce non l’ho avuta nei grandi momenti (15 maggio, 15 luglio, 4 agosto, 3 febbr.), ma in certi lassi furtivi dei periodi intermedî; l’unità del poema non consiste nelle scene-madri, ma nella sottile corrispondenza di tutti gli attimi creativi. Vale a dire, l’unità non deve tanto alla costruzione grandiosa, all’ossatura identificabile della trama quanto all’abilità scherzosa dei piccoli contatti, delle riprese minute e quasi illusorie, alla trama dei ritorni insistenti sotto ogni diversità.33

30 Ivi, p. 24.

31 CESARE PAVESE, Il mestiere di poeta, in ID., Le poesie, cit., p. 111. 32 Ivi, p. 112.

Pavese individua un’analogia tra i «lassi furtivi» della sua sofferenza atroce e «gli attimi creativi» che compongono l’unità del poema; nel passo appena citato torna su un punto fondamentale de Il mestiere del poeta, ossia la struttura e l’unità di un’opera – della raccolta poetica – che non deve essere meramente somma di tutti gli stati d’animo. È in questo senso che diventano significative e determinanti le letture dei classici greci e latini: Pavese prende, infatti, i poemi omerici come modello di unità dell’opera in questa nota del diciassette febbraio 1937:

È bene rifarsi a Omero. Qual è l’unità dei suoi poemi? Ogni libro ha una sua unità sentimentale, di posizione, per cui, armonicamente, e fisicamente anche, lo si legge come un insieme. […].

Ma stiamo attenti. Il grande fascino dei due poemi è l’unità materiale dei loro personaggi, che a volta a volta si accende in queste conflagrazioni di poesia. Abbiamo cioè, fin dal primo esempio di grande poesia intenzionale, questo doppio gioco: naturale svolgere dei casi (che potrebbero anche essere il doppio o la metà, senza danno) e successive ed organiche illuminazioni poetiche. Il racconto cioè, e la poesia. L’unione dei due elementi non è più che ABILITÀ.

Ora si apre il problema se, in poesie separate non sia possibile rifare il miracolo; non per altra ragione che tendendo sempre la mente all’unità in tutte le sue manifestazioni. Comporre secondo l’estro, ma con sotterranea abilità far correre i varî pezzi a un poema34.

Per quanto riguarda i poemi di Omero l’unità è, quindi, assicurata dal «naturale svolgere dei casi» e dalle «successive ed organiche illuminazioni», il problema per Pavese consiste nel vedere come essa possa invece ottenersi nell’ambito di «poesie separate» e ritiene che la soluzione risieda nel

rintracciare in un gruppo di poesie le sottili, e quasi sempre segrete, corrispondenze di argomento (materiale unità) e di illuminazione (unità spirituale).

Rintracciare vuol dire mettercele componendo; e i modi sono: abituarsi a considerare la natura (mondo di argomenti) un tutto ben determinato, cedere giudiziosamente agli echi e richiami da poesie precedenti, cercare insomma gli argomenti a testa fredda calcolandone il posto e abbandonarsi intuitivamente a testa calda all’ondata ritmica del passato. Dirsi, componendo una poesia: scopro un altro lembo del mondo che già in parte conosco, aiutarsi a questa scoperta con richiami al già noto, sorvegliare insomma quanto è buono e giusto il proprio passato. Non pretendere mai di fare il salto nell’ignoto, di rinascere di colpo un mattino. […]. Ma soprattutto non fare mai il serpente, non rigettare mai la pelle: perché, che cosa ha l’uomo di proprio, di vissuto, se non ciò ch’è appunto vissuto? Ma tenersi in equilibrio, perché che cosa ha l’uomo da vivere, se non appunto ciò che ancora non vive?35

34 Ivi, pp. 26-27.

Nell’ambito di un’opera composta da «poesie separate» l’unità deve darsi durante la fase compositiva ed è conferita dalle corrispondenze di «argomento» e «illuminazione» che permettono di individuare una costruzione definita e determinata dell’opera, per fare questo è necessario poetare secondo fantasia; l’autore deve, cioè, narrare i legami che ha istituito tra gli elementi della sua produzione rifacendosi al passato, al «già noto». A questo risultato l’autore può approdare attraverso un «ponte tra racconto e poesia»36,

rinvenendo cioè nel primo il carattere della scoperta illuminante della seconda e passando la realtà attraverso il setaccio della propria coscienza affinché quest’ultima possa pervadere le singole immagini e collegarle tra loro grazie a costanti e allusivi rimandi, «l’ondata ritmica del passato». L’equilibrio tra lo sviluppo del racconto e le illuminazioni poetiche si ottiene distribuendo nel racconto immagini e parole chiave che si rincorrono e si presentano costantemente, un gioco d’eco che garantisce una salda unità. Gli ingredienti che assicurano l’unificazione interna sono quindi l’equilibrio tra racconto e poesia e l’utilizzo di un linguaggio formulare; anche in questa tecnica, secondo Pavese, Omero fa da maestro, come sostiene concludendo la nota del diciassette febbraio 1936:

Altro punto interessante in Omero sono gli appellativi e i versi ritornanti: tutto ciò, insomma che costituisce in ciascun caso un nervo lirico di indiscutibile valore, e ogni volta viene trascritto, uguale o press’a poco, senza darsi pena di rivedere la primitiva intuizione. […].

Credo, perciò, si tratti di un modo tecnico del libro molto importante, da cui ottenere parte dell’unità dei singoli libri. Non so se ogni lettore abbia notato come ciascun libro ha la caratteristica di un certo gruppo di appellativi e di versi ritornanti a lui riservati. Parrebbe che la materialità di certi gesti, di certe figure, di certi ritorni si colori, in questo modo, di poesia – sia pure mnemonica e cristallizzata – per nascondere la obbligata povertà inventiva. Che insomma il primo Greco abbia senz’altro sentita l’opposizione tra racconto e poesia e si forzi così – per il nostro gusto, ingenuamente – di colmarla. Va da sé che mutando libro muta pure – ma non sempre, si capisce – il tono dei ritorni, data la singolare colorazione o, se vogliamo, fissazione di ciascun libro.

Concludendo, un modo per ottenere l’unità, è la ricorrenza di certe formule liriche che ricreino il vocabolario, trasformando un appellativo o frase in semplice parola. Di tutti i modi di inventare la lingua (l’opera del poeta) questo è il più convincente e, a pensarci, il solo reale. E spiega come in tutta quella parte dell’opera, dove ricorrano formule uguali, circoli un’aria di unità: è lo stess’uomo – inventore – che parla37.

Con il ritorno costante di parole, versi e appellativi si perde la loro «primitiva intuizione», il sapore della scoperta originale, concetto a cui si ricollega la teoria

36 Ivi, p. 29. 37 Ivi, pp. 27-28.

dell’infanzia come età mitica della scoperta e la memoria come luogo della riscoperta. Per sopperire a questa perdita, e quindi «per nascondere la obbligata povertà inventiva», la ripetizione degli elementi, si colora di poesia, «trasformando un appellativo o una frase in semplice parola», che contiene un significato più complesso rispetto alla sua natura originaria. La ripetizione di un elemento, trasformandosi in parola, fissa un’immagine che viene scomposta dalla coscienza dell’autore la quale crea, così, una fitta rete di rapporti che questa «immagine-racconto» intrattiene con altri elementi. Istituendo collegamenti e rapporti con altri elementi della narrazione, l’immagine tende a farsi simbolo, di cui, come si verificherà, sarà colma la futura produzione dell’autore; inoltre, a fornire un grado maggiore di indeterminatezza simbolica, è la ripetizione di un linguaggio formulare che fa perdere «la materialità di certi gesti, di certe figure, di certi ritorni» ma facendo loro acquistare una notevole ricchezza poetica. La nota precedentemente citata – risalente al diciassette febbraio 1936 – costituisce una fase intermedia della sistemazione della teoria dell’immagine simbolo, che viene, invece, compiutamente definita all’incirca due anni dopo, nell’appunto del quattro dicembre 1938:

Suggerire con un gesto ripetuto, con un appellativo, con un richiamo qualunque, che un personaggio o un oggetto o una situazione ha un legame fantastico con un altro del racconto è togliere materialità a ciascuno dei due soggetti e istaurare il racconto di questo legame, di quest’immagine, invece che quello dei casi materiali entrambi.

«Quest’immagine» non dev’essere una somiglianza e punto. Quest’immag. deve colorare di sé tutto il suo soggetto e mostrarlo veduto in una certa luce, in