Sia Pavese che Sturani aderiscono al movimento artistico promosso dalla confraternita, la Strabarriera, che si contrappone ai modelli culturali filo-fascisti allora dominanti di Stracittà e di Strapaese48. Nei loro incontri, gli ex allievi del d’Azeglio
trovano il tempo di discutere, in maniera polemica ed irriverente, anche sulla temperie culturale a loro contemporanea. I ritrovi di questi giovani, se non possono avvenire in casa di qualche membro, hanno luogo nei caffè e nelle trattorie di periferia e, proprio prendendo il nome dai loro ritrovi abituali, in opposizione ai due movimenti di Strapaese e Stracittà, «coniano addirittura la sigla che li dovrà distinguere dall’uno e
47MARIA MIMITA LAMBERTI, Mario Sturani 1906-1978, cit., pp. 211-212.
48 Strapaese e Stracittà aderiscono alle contrastanti pulsioni di un regime che, mentre esalta le radici
autoctone e rurali della civiltà italiana, ambisce anche a confrontarsi con le altre nazioni europee sul piano della modernità e del progresso. I collaboratori di «900». Cahiers d’Italie et d’Europe furono 105, molti dei quali erano autori stranieri come Jean Louis Bouquet, James Joyce, Georg Kaiser, André Malraux, Virginia Woolf e Stefan Zweig, solo per citare i nomi più celebri. I primi quattro quaderni, dall’autunno del 1926 all’estate del 1927, furono redatti in francese e pubblicati dalla casa editrice La Voce; il quaderno dell’autunno del 1928 fu pubblicato in italiano dalla società editrice Sapientia di Roma ma a capo della rivista era rimasto il solo Bontempelli, perché Curzio Malaparte se ne era allontanato per la polemica scoppiata tra Stracittà, i sostenitori della quale erano riuniti intorno a 900, e Strapaese, corrente che militava attraverso le riviste «Il Selvaggio» di Maccari e «L’Italiano» di Longanesi. I sostenitori di Strapaese nella presenza di alcuni autori stranieri coglievano una sprovincializzazione della cultura italiana e una minaccia per lo spirito fascista: «A parte le loro giustificazioni, e i loro appelli alla necessità di uno spirito moderno italiano arieggiante gli spiriti della modernità anglo-francese, è chiaro che gli abitanti di Stracittà sono tutti, chi più chi meno, borghesi in via di snobismo e di dandysmo». CURZIO MALAPARTE, Strapaese e Stracittà, in «La Fiera letteraria», 30 ottobre 1927. Ben altro è l’intento di Strapaese e ben diverso è il pubblico a cui si rivolge: «Strapaese è fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e paesano della gente italica; vale a dire, oltreché l’espressione più genuina e schietta della razza, l’ambiente, il clima e la mentalità ove sono custodite, per istinto e per amore, le più pure tradizioni nostre. Strapaese si è eletto baluardo contro l’invasione delle mode, del pensiero straniero e delle civiltà moderniste, in quanto tali mode, pensiero e civiltà minacciano di reprimere, avvelenare o distruggere le qualità caratteristiche degli italiani, che dal travaglio contemporaneo, tendente a creare lo stato unitario italiano, debbono essere l’indispensabile base e l’elemento essenziale […]. Giovani italiani, quando Strapaese dice “popolo” intende quello che liberato dalle baggiane malattie dell’“evoluto e cosciente” forma lo strato schietto e sano della nazione, e nutrisce di limpida vita le polle della poesia, della saggezza e del gusto; intende quello che frequenta i baracconi, gioca alle bocce, ama il lavoro, se ne frega del progresso, adopra il coltello per affettare il pane, e quando occorra per vendicare l’onore. Il popolo artigiano, il popolo marinaro, il popolo agricoltore: sicura base dell’aristocrazia», ORCO BISORCO, Gazzettino ufficiale di Strapaese, in «Il Selvaggio», 15 marzo 1927.
dall’altro: si chiameranno “Strabarriera”. Pavese prende gusto alle discussioni e si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori ambulanti, alla gente qualunque»49. Le periferie cittadine, le barriere, appunto, costituiranno il luogo di
ispirazione privilegiato dei membri della Confraternita degli ex allievi del D’Azeglio; in conformità con la linea culturale del gruppo, Pavese e Sturani scelgono i quartieri operai di Torino come sfondo delle proprie opere. I racconti giovanili di Pavese che compongono Lotte di giovani rappresentano realtà di barriera in cui intervengono personaggi legati al mondo delle fabbriche; egualmente i quadri della prima produzione pittorica di Sturani offrono sovente degli scorci di paesaggi sub-urbani: «suggestioni comuni agiscono su opere che, sebbene diverse nel genere, sembrano essere espresse con lo stesso linguaggio, quello lirico»50.
La scelta di Strabarriera da parte della Confraternita, oltre ad avere un intento polemico e satirico nei confronti delle due tendenze culturali del regime sul calare degli anni Venti, nasce anche dall’osservazione di una città come Torino, che nell’arco di cinquant’anni, ha drasticamente modificato il suo assetto sociale ed urbano. Alla curiosità nei confronti della città moderna volta alla sprovincializzazione della cultura italiana, per adeguarla al modello europeo, e all’opprimente salvaguardia e conservazione delle tradizioni folkloristiche e rurali, Strabarriera sostituisce l’interesse per la periferia cittadina, una realtà urbana nuova, attuale e concretamente esistente dove agiscono soggetti sociali quali l’operaio, l’ubriaco e la prostituta. Gli anni della Strabarriera, dal 1926 al 1930, coincidono con quelli degli studi universitari di Pavese presso la Facoltà di Lettere di Torino e costituiscono anche il periodo della sua formazione culturale: è in questi anni, infatti, che i suoi esperimenti poetici compiono
un salto di qualità spostando il centro di interesse dall’intimismo amoroso alle descrizione della città-inferno (in un misto di influssi che vanno da Baudelaire e Whitman a D’Annunzio e i futuristi), come dimostrano il poemetto intitolato Le
febbri luminose, risalente all’autunno del 1928 […] e i Blues della grande città, composti
tra il 1928 e il 1929 […] che insieme alla novella Ciau Masino (scritta nell’inverno 1931-1932 ma i cui abbozzi più antichi si rimontano al 1929-1930) rappresentano il primo suo tentativo di comporre lavori organici51.
49DAVIDE LAJOLO, Il «vizio assurdo», cit., p. 79.
50SANDRA CAVALIERE, Gli scritti giovanili di Cesare Pavese, cit., p. 88.
La fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del Novecento videro Torino svilupparsi come città industriale: nel 1899 Giovanni Agnelli fonda la FIAT e nel 1906 Vincenzo Lancia fonda la fabbrica automobilistica che porta il suo nome. Questo sviluppo industriale comporta ingenti migrazioni del contado e dei profughi veneti che andranno a costituire la prima forma di proletariato urbano del capoluogo piemontese sistemato nelle periferie: a ridosso della vecchia cinta daziaria sono cresciute le barriere operaie. La Torino in cui cresce Pavese va industrializzandosi a vista d’occhio e toglie sempre più spazio alla campagna per convertirla in barriera; l’autore rappresenta quest’ «epoca di trapasso a modo suo, creando il mito della “città-in-campagna” nel quale coincid[ono] opportunatamente i suoi rovelli interiori e i conflitti storici del mondo contemporaneo da lui più direttamente vissuti»52.
Torino si è affacciata al ventesimo secolo equipaggiata di un bagaglio culturale assai articolato ed eterogeneo; l’immagine maggiormente radicata nell’opinione comune è quella di una città «severa e studiosa, laica ed operosa, animata da una cultura sì illuministica, ma di recente acquisizione, generata cioè dalle passioni civili strettamente connesse con la stagione risorgimentale», anche se, accanto a questa Torino, ne esiste una
nera, notturna, oppure appartata, accidiosamente periferica, isolazionista, sdegnosa, […] ma è indubbio che, dopo la svolta industrialistica degli inizi del secolo, ha pur sempre prevalso, nell’immagine che si è diffusa fuori e dentro la cinta urbana, un solido e ben propagandato razionalismo critico53.
Le strategie culturali dominanti nell’ultimo scorcio di secolo sembrano essere, negli ambienti accademici, la scienza positiva di Lombroso, e, nel sociale, l’attivismo di Don Bosco:
due culture “forti”, esplicitamente rivolte a predisporre l’ordine sociale all’interno di un contesto urbano ancora largamente preindustriale, ma già vistosamente incrinato nei suoi equilibri e nei suoi valori tradizionali: il comportamento delle “classi pericolose”, secondo Lombroso, dimostra che la devianza è soprattutto un sintomo e che il concetto di responsabilità va ricondotto alla prognosi dell’attitudine a delinquere dell’individuo. La scienza delle società deve essere potentemente alimentata dalla medicina legale e dall’antropologia criminale,
52 Ivi, p.11.
53BRUNO BONGIOVANNI, La cultura a Torino tra monarchia e fascismo, in «Belfagor», XLVI, n. 4, luglio
mentre la terapeutica penale diventa essenzialmente un problema di igiene e profilassi54.
La pedagogia salesiana, invece, predicando di mirare alla salvezza delle anime, costruisce una fitta rete di ospizi, di collegi e di scuole attrezzate in modo da saldare un forte legame tra il cattolicesimo e la cultura tecnica e professionale:
anche in questo caso, dunque, igiene e profilassi, ma attraverso la redenzione cristiana del lavoro e l’organizzazione fattiva di un ardente volontariato che vuole farsi supplente là dove la società civile liberista non funziona (anzi espelle ed emargina) e lo Stato politico liberale (e massonico) non interviene. L’oscurantismo clericale, l’illiberalismo, la misoginia, la sessuofobia sono i rudi e ruvidi corollari di una straordinaria impresa di riaggregazione sociale e civile55.
Da un lato, dunque, la cultura scientifica della scuola positivista chiudeva dentro confini rassicuranti l’area della normalità e deresponsabilizzava le motivazioni sociali dei devianti, dall’altro la cultura dell’operosità religiosa irrobustiva il senso morale e la coscienza professionale delle masse, indirizzando le classi popolari alla virtù evangelica della mansuetudine e alla virtù secolare dell’obbedienza.
Il problema principale restava comunque, in entrambi i casi, quello di comprimere, di arginare o quanto meno di identificare-isolare i germi ancora esistenti dell’istintualità primitiva e di trasformarli-sublimarli, quando la cosa fosse possibile in energia produttiva, in macchinismo industrioso (e industriale), in sentimento di appartenenza al nuovo assetto sociale, in attitudine diffusa alla convivenza civile56.
L’entrata in guerra dell’Italia interrompe questo equilibrio segnando profondamente la popolazione e, tra il 1919-1920, durante il cosiddetto Biennio Rosso, si acuiscono i conflitti sociali a causa dell’aumento dei prezzi e delle rivendicazioni sindacali. La tensione, a Torino, culmina con l’occupazione delle fabbriche e con gli scontri tra gli operai e gli attivisti del movimento squadrista dei Fasci di combattimento. In questo fervore politico nascono, inoltre, nuovi gruppi politici e giornali: il più celebre è «L’Ordine Nuovo», fondato da Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini, «il giornale dei consigli di fabbrica» – i cui articoli suscitano dibattiti in tutto il movimento operaio, politico e sindacale – che fornisce un impianto
54 Ibidem.
55 Ibidem. 56 Ibidem.
teorico dell’occupazione delle fabbriche, dei movimenti sindacali e delle ragioni del proletariato ispirandosi alla rivoluzione bolscevica. Gli scontri e le occupazioni proseguono fino alla tragica giornata del 18 dicembre 1922, pochi mesi dopo l’ascesa di Benito Mussolini al governo, allorché l’azione squadrista guidata da Piero Brandimarte causa la morte di undici simpatizzanti del Partito comunista e l’incendio della Camera del Lavoro. Nel 1934, dodici anni dopo l’accaduto, Pavese scriverà una poesia pubblicata su Lavorare stanca, Una generazione, nella quale rievocherà il drammatico episodio57.
Oltre a «L’Ordine Nuovo», a Torino sorgono altre riviste che portano la firma di Piero Gobetti, un giovane intellettuale che si afferma ben presto nella vita politica e culturale del capoluogo piemontese diventando, nel giro di pochi anni, un punto di riferimento imprescindibile per molti intellettuali antifascisti d’Italia. Nel 1918, a soli diciassette anni, Gobetti, studente del liceo, fonda «Energie Nove», una rivista che risente delle influenze dell’idealismo crociano, delle teorie filosofiche e letterarie di Giovanni Gentile e della linea politica di Gaetano Salvemini, come si evince dall’esaltazione per i valori della libertà, dall’attenzione riposta nei problemi del Mezzogiorno e dall’antigiolittismo. La rivista, che attira l’interesse e le simpatie di molti intellettuali della città come Gramsci, offre inoltre ampio spazio alle letterature straniere e non trascura la critica letteraria. Le pubblicazioni di «Energie Nove» continuano fino al 1920.
Molti critici hanno parlato dell’importanza del modello vociano nella cultura italiana del Novecento58 per la struttura organizzativa dell’impegno culturale diviso tra la
rivista, l’attività della Società anonima cooperativa Libreria della «Voce», fondata a Firenze nel 1911, e la Società anonima editrice «La Voce» fondata a Roma da Prezzolini nel 1919 e, soprattutto, per l’affermazione «di un “ceto di intellettuali” sganciato dalla cultura accademica e capace di interagire con la vita politica del paese attraverso la
57CESARE PAVESE, Le poesie, a cura di MARIAROSA MASOERO, Torino, Einaudi, 1998, p. 55. Non è
possibile stabilire quanto Pavese a quattordici anni sia rimasto toccato dall’episodio, ma in età matura rievocherà con doloroso rispetto quelle morti.
58 A tal proposito si legga: UMBERTO CARPI, “La Voce”. Letteratura e primato degli intellettuali, Bari, De
Donato, 1975; ID., Giornali Vociani, Roma, Bonacci, 1979; LUISA MANGONI, L’interventismo della cultura.
Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1974; ANGELO D’ORSI, Il modello vociano. Esperienze culturali nella Torino degli anni Venti, in «Studi storici», n. 4, 1990; ID., La cultura a Torino tra le due guerre,
formazione di un’opinione diffusa nella classe media»59. Luisa Mangoni sostiene che
«La Voce» abbia lasciato la sua eredità nel panorama culturale italiano più per il metodo che per le singole personalità della redazione60 e Angelo D’Orsi definisce la rivista
assieme alla casa editrice e alla libreria una«sorta di sistema integrato di elaborazione- produzione-diffusione […] decisamente innovativo» e, di conseguenza, «un eccezionale serbatoio di redattori e direttori di giornali, di fondatori di riviste, di creatori di istituti culturali, di editors e editori veri e propri»61 che ha in Prezzolini, come
organizzatore di cultura, il suo capostipite. Perfetto continuatore ed interprete geniale di questo modello di azione culturale, D’Orsi ritiene sia Piero Gobetti ed inserisce quest’ultimo in un filone culturale ben delineabile per ribadirne la convergenza del metodo con Prezzolini; tale convergenza tuttavia viene meno per quanto riguarda l’impegno politico ed infatti il rapporto tra i due si incrina proprio su questo nodo, alla vigilia dell’avvento del fascismo. Ersilia Alessandrone Perona individua nel 1922 un anno di svolta fondamentale nella vita di Gobetti62: in questo anno egli, infatti, avverte
come conclusa la sua formazione intellettuale e sente piuttosto l’esigenza di portare a pieno sviluppo il suo progetto politico e culturale; una spinta notevole in questa direzione è fornita dalla maturazione di una concezione secondo la quale l’editore deve essere attore essenziale dell’organizzazione culturale:
la cultura nasce, è vero, come l’erudizione da un bisogno di conoscenza, ma se ne separa subito in quanto lascia l’empiria per giungere all’universale. Cultura è organizzazione. […]. Nel suo farsi la cultura è concretata naturalmente nella attività di un individuo. Ma accanto al farsi, al divenire c’è la divulgazione che fa parte invero del divenire stesso e solo staticamente, astrattamente se ne può distinguere. È qui che entra in gioco l’editore63.
Nel periodo degli studi universitari, durante il biennio 1920-1921, Gobetti si avvicina al movimento operaio grazie alla sua collaborazione come critico teatrale su «Ordine Nuovo» ed elabora l’idea di una politica educativa i cui frutti si colgono nei progetti editoriali che, annunciati nel novembre del 1921, richiamano il modello organizzativo ed editoriale del gruppo di intellettuali de «La Voce»: le due riviste – «La
59 ERSILIA ALESSANDRONE PERONA, Gobetti editore. Dal “modello vociano” all’Editore ideale, in AA.VV,
Giulio Einaudi nell’editoria di cultura del novecento italiano,a cura diPAOLO SODDU, Firenze, Leo Olschki editore, 2015, p. 13.
60 Cfr. LUISA MANGONI, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, cit., p. 76. 61 ANGELO D’ORSI, Il modello vociano. Esperienze culturali nella Torino degli anni Venti, cit., p. 67.
62 Cfr. ERSILIA ALESSANDRONE PERONA, Gobetti editore dal “modello vociano” all’Editore ideale, cit., p.15. 63 RASRUSAT [PIERO GOBETTI], La cultura e gli editori, in «Energie Nove», II, n. 1, 5 maggio 1919, p. 14.
Rivoluzione Liberale» e «Il Baretti» – e la casa editrice Energie Nove con quattro collane – Storica, Politica, Letteraria, Polemica. Gobetti doveva risolvere innanzitutto il problema del finanziamento dell’impresa e pertanto si trovò costretto a rinviare i piani editoriali e a ridimensionarli con «Il Baretti» in attesa e con la casa editrice che pubblicò il primo volume, Collaborazionismo di Ubaldo Formentini, solo nel settembre del 1922. Ersilia Alessandrone Perona sottolinea che quell’anno non fu difficile solo per motivi finanziari – che Gobetti riuscì a risolvere con l’aiuto del tipografo Arnaldo Pittavino. Il 1922, infatti, coincise con una crisi soggettiva, culturale e politica di Gobetti che culminò nella consapevolezza della natura eversiva del fascismo – a lungo sottovalutata per la convinzione che Mussolini avrebbe negoziato una partecipazione al governo – e nella constatazione delle responsabilità di Giovanni Gentile ed altri intellettuali vociani di non essersi opposti minimamente al fascismo: a questa presa di coscienza seguì una rottura definitiva con la rivista fiorentina.64 Da queste riflessioni
scaturirono alcuni atteggiamenti che si riflessero negli studi, negli interventi e nell’assetto editoriale di Gobetti: «La Rivoluzione Liberale», da rivista di formazione e di studi, diventò anche uno strumento di battaglia antifascista nel quale studiare criticamente l’avvento e la fortuna del fenomeno fascista. Entrato in contatto con gli ambienti delle lotte operaie e delle rivendicazioni sindacali, anche grazie alla collaborazione con «L’Ordine Nuovo», che nel frattempo era diventato il quotidiano del neonato Partito comunista d’Italia65, Gobetti sviluppò la propria linea politica,
64 ERSILIA ALESSANDRONE PERONA, Gobetti editore dal “modello vociano” all’ Editore ideale, cit., pp. 19-
20.
65 Per circa due anni, dalla cessazione di «Energie Nove», nel 1920, all’inizio della pubblicazione di «La
Rivoluzione Liberale», nel 1922, la principale attività pubblica di Gobetti fu quella di collaboratore de «L’Ordine Nuovo». Nonostante gli amichevoli rapporti tra Gramsci e Gobetti sarebbe un errore credere ad una piena adesione degli ideali dell’ultimo con quelli del primo; tra i due infatti c’è una differenza sia rispetto all’orientamento politico che alla rilevanza storica che non può essere sottovalutata: «Gobetti tentando di rinnovare la tradizione liberale, aveva creduto di trovare nei giovani comunisti dei compagni di strada, nella loro battaglia culturale un’interpretazione meno dogmatica del marxismo, una cultura meno provinciale, una analoga differenza verso i luoghi comuni di una dottrina socialista troppo a lungo succube del positivismo, nella loro battaglia politica un forte senso dell’autonomia del movimento operaio, una giusta valutazione dell’importanza decisiva delle spinte dal basso, in particolare nella proposta dei consigli operai una polemica antistatalistica, un rifiuto di quella fiducia nell’intervento dello stato, di quel rimettere tutto allo stato, in cui i socialisti riformisti erano stati complici della politica corruttrice di Giolitti. Ma a differenza di Gramsci […] Gobetti non aveva alcuna esperienza diretta del movimento operaio e non aveva mai compiuto alcun tirocinio di politica attiva. Appena uscito dal liceo, aveva fondato con altri compagni di scuola, e con la collaborazione fiduciosa di alcuni maestri, la sua prima rivista. Intellettuale dalla testa ai piedi, aveva riunito attorno a sé un gruppo di intellettuali simili, o che egli tendeva a fare simili, a lui. Quando fonderà la sua rivista più matura, “La Rivoluzione Liberale”, l’intendimento principale sarà, alla maniera salveminiana, la formazione di una nuova classe dirigente. Il suo programma sarà sempre volto al fine dell’educazione nazionale, e quindi destinato più ai nuovi ceti intellettuali che non agli operai, o per lo meno agli operai soltanto per interposta persona.
adesso decisamente staccata dal modello di Salvemini e improntata, piuttosto, all’operaismo liberale e al formarsi di «una classe politica che a[vesse] chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo allo Stato»66 e che, contemporaneamente, mirasse all’affermarsi di una
essenziale diversità ed autonomia del ciascuno: «autonomia del ciascuno: questo è il primo valore della scelta di Piero Gobetti»67. Ciò che manca all’Italia sono
essenzialmente le «correnti libertarie disciplinate intorno a una morale di autonomia»68
e su questo deserto di energie libertarie e di autonomie istituzionalizzate e consolidate è sempre in agguato il fascismo, non nell’accezione tecnica del termine, bensì come la vocazione secolare dell’Italia al fascismo, quindi come negazione di libertà, di autonomie, di responsabilità personale, di senso dello stato, della legalità e di iniziativa popolare in una articolata vita civile.
Il 6 febbraio 1923, di ritorno dal viaggio di nozze, Gobetti venne arrestato per cinque giorni. L’impresa editoriale subì una battuta d’arresto e rimase senza finanziamenti perché la «Arnaldo Pittavino & C.» si tirò indietro; per quanto in bilico fosse la situazione economica, Gobetti e i suoi collaboratori decisero che la rivista non doveva cessare e l’8 marzo ripresero le pubblicazioni, «un contributo sostanziale pare